Fare Voci ottobre 2021

Ci addentriamo nell’autunno con un nuovo numero di “Fare Voci”.

Lo facciamo con le pagine necessarie del nuovo libro di Roberto Deidier, “All’altro capo”, occasione importante per respirare la necessità e il desiderio della poesia.

E con Max Ponte si rinnova la complicità della poesia con il possibile e l’impossibile, con l’impegno e l’invenzione. Tutto nel suo nuovo “Ad ogni naufragio sarò con te”.

Ritroviamo anche Manuela Dago e Francesca Genti, con il loro progetto editoriale Sartoria Utopia. E con due autrici da loro pubblicate: Alessandra Bordino con “Via Rivolta” e Silvia Vecchini con “Piccolo canzoniere”.

Con Jessica Vesprini facciamo un omaggio al grande Lawrence Ferlinghetti, a lui sono dedicate tre videopoesie.
I confini e le frontiere sono la spina dorsale dei nove racconti di Matteo Femia, con il suo “Il letargo degli Orsi a Sarajevo”.

I testi inediti sono di Pietro Pancamo e le nove immagini sono le fotografie di Roberto Ferrari.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini        ————————–

Acqua

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Voce d’autore          ————————–

Addestrare il circo inquieto dei giorni

Roberto Deidier, “All’altro capo”

di Giovanni Fierro

 

Si può costruire la trasparenza? Riconoscerla come il luogo dove incontrare il tempo che è stato, dove vivere il presente che in questo momento è, dove si può preparare l’istante che sarà?
Perché Roberto Deidier in questa sua nuova raccolta poetica “All’altro capo” fa esattamente questo.
Il suo fare poesia è rivelare costantemente una trasparenza che si fa tessuto narrativo, contenitore emotivo, profetico accadimento.
E c’è un percorso da compiere, sia per arrivare “All’altro capo”, sia per indovinarlo.
Ben sapendo che il qui ed ora non è dei più facili: “Si sopravvive così, senza argini,/ Dentro un umore piatto, una costanza/ Aspra disciolta in questo azzurro di aprile,/ Resistendo all’ossessione/ Di nulla amare, prendere, fermare”.
Ed è stare su questa soglia che permette il contatto tra mondi differenti, dove anche “Il nulla è questa carezza inattesa/ Che si confonde tra le macchine in fila/ Nei nodi delle strade, finché il disco/ Verde di un semaforo rompe questa ipnosi”; crea la vicinanza che fa della vita e della poesia una unica verità. Necessaria e pericolosa. In dialogo continuo.
Riuscire ad andare “All’altro capo” è anche il raggiungere un equilibrio. Con se stessi e la propria memoria, ben sapendo però che “Mettere insieme tutte le parti,/ Non si può. Com’è vorace l’alfabeto/ Che all’altro capo di questa radura/ Mi trascina”. C’è sempre qualcosa da perdere, mai da dimenticare.
Roberto Deidier nei nove capitoli che formano il suo nuovo libro non rinuncia mai allo sguardo. Ne è devoto, dedica all’immagine e alla pittura ulteriore approfondimento e passione. Sottolinea di come la scrittura ne ha bisogno, per trovare la sua età adulta ed asciugarsi nel proprio significato, con la stessa necessità dei colori affidati dal pittore alla tela: “Se avrai avuto la pazienza di aspettare/ Che una parola facesse infine ombra,/ Allungata sul silenzio della sera”.
Sempre sul luogo della trasparenza il ‘dentro’ si confonde con il ‘fuori’; sono la stessa esperienza e lo stesso riconoscimento, anche di se stessi, quando “Lo specchio trasparente è solo il dubbio/ Di una quieta prospettiva”.
È ricco di spunti e riflessioni questo “All’altro capo”, e nel suo essere pagina dopo pagina una continua possibilità di confronto ed incontro, trova la forza di dare corpo allo scrivere, indicando con esattezza “Come sfocia da ogni uomo il suo destino”.
La sua precisa identità è il suo opporsi all’inerzia del già detto e dello svanire, la sua determinazione nell’andare ‘attraverso’.
E anche questo fa di Roberto Deidier un autore a cui non si può rinunciare.

 

Dal libro:

Del suo stridere insistito la poiana
Non conosce le altezze, né quali risuonano
Nelle frequenze del nostro orecchio interno.
Perché grida, e se il suo canto la orienta
Al sicuro tra le rocce o nel folto delle prede,
A che la vista, e comunque affonda
Con chirurgico dolore nella macchia…
E noi che insistiamo a gettare
Oltre pareti di granito il nostro acuto greve
Quando amore volta le spalle o si nasconde,
Davvero cosa, cosa crediamo di aver visto nel folto?

*

Ho sempre trovato te, all’altro capo.
Ora che te ne sei andato
Vivo un giorno alla volta.

*

A chi occorre quest’altra alba grigia
Nel cuore dell’estate?
Ora scrivo di notte, scrivo ai morti.

*

A lungo ho conservato il tuo numero
Nelle nuove agende, dopo la tua morte.
E temo, qualche volta, di averlo anche composto.
Per un istante lo squillo accendeva
Il più straziante dei fuochi, una realtà
Artefatta, costretta dai giochi della volontà –
Per fortuna nessuno ha mai risposto.

Il fiato lungo degli anni alla fine è un soffio,
Una piccola tempesta omeopatica
Che ci costringe a misurare le abitudini,
Addestrare il circo inquieto dei giorni:
Se esplode la pena in una risata
Niente e nessuno sarà venuto a liberarci
E il ricordo, quando balbetta, è pur sempre un rumore.

 

 

Intervista a Roberto Deidier:

La sensazione è che in “All’altro capo” ci sia una continua costruzione di una possibile ‘trasparenza’. Come un luogo dove stare, dove riconoscere ciò che sta accadendo, ciò che è accaduto. E, ancor di più, dove si prepara il tempo che sarà…. Può essere così?
È così, è una costruzione che è alla base del mio scrivere poesia. La trasparenza non è tanto una questione di dettato o di stile, cose che in poesia possono sussistere fino a un certo punto, quanto di messa a fuoco del vissuto, o meglio della nostra relazione con l’esperienza. Non c’è solo la realtà, in presa più o meno diretta, ma c’è soprattutto la nostra ricezione, il nostro pensarla. Possiamo accoglierla, allontanarla, reinventarla, distorcerla, sublimarla, ma sempre in questi processi è necessaria la trasparenza.
È questo che deve decantarsi in me, nel mio continuo processo di costruzione personale: non c’è distacco, non può esservene, tra l’io che vive e l’io che scrive.
È in questa trasparenza che si prepara il tempo che sarà? Forse sì, nel senso che la poesia (intendo la poesia lirica, quella che esplora l’intimo di ogni soggetto) rileva, espone quei grumi di significato che toccano la continuità del nostro esistere; riflettendo sul passato, ci parla inevitabilmente anche del futuro.
Il tempo dell’azione, in poesia, non è mai circoscritto, ma si amplia vertiginosamente, pericolosamente direi, dove la percezione ordinaria delle cose non può giungere. Lo avevano ben compreso i padri della nostra modernità poetica, Leopardi, Keats, Baudelaire e anche Hölderlin.
Quelli che sono venuti dopo hanno proseguito il discorso. Se ripenso ad alcuni eventi della mia vita, anche a certe mie scelte, posso ritrovarne le tracce in versi scritti molto prima.

E forse questa è proprio una ‘soglia’, dove il proprio vivere incontra la scrittura e dove, attraversandola, si mettono in contatto anche ‘mondi’ diversi, pensieri e percezioni che diventano le poesie del libro…
Certamente. Ci sono autori orientati in altro modo, che sulla scissione tra vita e scrittura hanno eretto le loro poetiche ed estetiche. Dipende da cosa si cerca, nel vastissimo mondo della letteratura; dipende dai nostri progetti, da come ci disponiamo nel tempo; dalla nostra percettività, dalla pericolosità a cui può spingersi o spingerci.
Insomma, da quanto siamo disposti ad affrontare il rischio di imbatterci nel nostro demone, o di alzare il velo al nostro dio nascosto.
Non è facile attraversare quella soglia, perché ciò che può venirci incontro è spesso terribile ma è l’esperienza a cui ogni poeta, in quanto demiurgo di sé, è chiamato.
In questo senso è poeta anche Conrad, che su quell’attraversamento ha eretto un intero, splendido edificio narrativo. Ci vuole un certo eroismo. Occorre la consapevolezza dell’accettare. Questo è davvero eroico, oggi. Non so quanto, passata la soglia, incontriamo la diversità.
La letteratura è uno specchio, un riflesso, e può anche diventare una lente deformante. Eppure, qualsiasi immagine possa restituirci, ancora una volta non sarà che un ingrediente della nostra vita, lì dove interiore ed esteriore convergono.
Ne viene, o ne dovrebbe venire, proprio una maggiore e crescente coscienza di sé negli anni, la spinta incessante a riflettere.

Lo sguardo al passato è importante. In che modo trova la sua appartenenza, il suo essere bisogno di testimonianza e ricordo?
Il nostro esistere è un paradosso. Sappiamo quanto la temporalità sia una sensazione fallace. Vera è solo la storia che può raccontarci il corpo, nel suo crescere, trasformarsi, deperire.
Attingiamo a un passato che di fatto, quando lo trascriviamo, non esiste più, come il futuro che in quel passato si manifesta non esiste ancora. Viviamo quindi nel presente della scrittura, quando rinveniamo misteriosamente il punto di tangenza tra i vari aspetti del tempo.
È nel pensiero che si fa scrittura che questo accade, ma perché possa accendersi il pensiero (ovvero, spesso, la memoria) è necessario uno stimolo, quella reattività in cui si traduce la percezione di un’esperienza.
Ecco perché l’immenso Saba poteva sostenere che si fa poesia solo per un grande amore o un grande dolore.
La memoria è un’estetica, una metafora è anzitutto un ricordo. Il poeta che mi sono trovato a indagare di più, Penna, lo dice all’inizio del suo canzoniere, e scrive, non a caso, che la vita è ricordo, non la scrittura. Allora la lingua, che è la nostra grande casa in movimento, la nostra identità, ci fa comprendere, attraverso la poesia, che sentiamo la vita come un’incessante metafora. È in questa dislocazione che indaghiamo i significati che cerchiamo.

La pittura in “All’altro capo” è molto presente, se penso alla sezione “Atelier Valadon” e al testo dedicato a Caravaggio, ma non solo. Quale la sua influenza, e la fascinazione immagino, che nutre il suo fare poesia?
Moltissima. Tra le arti la mia predilezione va proprio all’architettura e alla pittura, non a caso le più prossime alla poesia. Ce n’erano riferimenti espliciti anche in “Solstizio” e tracce sparse nei libri precedenti. Le pubblicazioni che hanno richiesto immagini di copertina e le edizioni d’arte sono state realizzate in collaborazione con artisti come Piero Guccione, Anna Esposito, Giulia Napoleone, Giancarlo Limoni.
Cerco di seguire come posso gli esiti delle ricerche più recenti, mi piace frequentare mostre e gallerie. È dall’osservazione della pittura che spesso traggo idee per la scrittura in versi.
Molti poeti, tra cui l’amatissimo Frost, hanno insistito sul rapporto tra scrittura e immagine, ed è ciò a cui credo fortemente. Una poesia non deve riscrivere un pensiero, deve tradurlo in un’immagine da cui il lettore possa ricondursi al pensiero che l’ha originata.
Spesso invece mi accade di leggere morale o filosofia in versi. Non c’è esposizione da cui non venga qualche pensiero, qualche suggestione, a volte anche sfogliando semplicemente un catalogo può scattare qualcosa. Nel caso di Suzanne Valadon però è stato diverso. Vuoi per la complessità e la stravaganza del personaggio, vuoi perché mi sono trovato all’improvviso, aprendo per caso una porta, nel suo studio come lo ha lasciato al momento della morte, coi pennelli secchi nel barattolo, la tavolozza, il calendario del 1925… Un salto temporale di quasi novant’anni, una vera e propria macchina del tempo, un’occasione rara di dislocazione da cui non potevo sottrarmi.
Le poesie sono venute naturalmente, tra descrizione di quanto avevo visto, ricostruzione biografica (ah, “la vita in versi”) e invenzione.

In alcuni passaggi, che vanno ad innervare un po’ tutto il libro, c’è il desiderio di vivere la scrittura come un mezzo per non lasciare che le cose, ma anche le persone e il proprio io, svaniscano in uno sparire che è sempre possibile…. È solo una mia impressione?
Ma questa è, come dire, la mitologia a cui tutti miriamo. La funzione eternatrice. Ci culliamo tutti in questa illusione, chi lo nega è disonesto. La vita si consuma, le cose svaniscono o si trasformano, gli eventi regrediscono in un passato sempre più remoto finché muoiono nell’oblio. Ci piace pensare, piuttosto, che la scrittura compia il miracolo del permanere. La vera poesia ci induce a questo: ogni volta che leggiamo di Paolo e Francesca, o di Ugolino, quei personaggi rivivono per noi, rianimano la scena del loro esserci, ha scritto Borges.

Perché è netta la sensazione che ogni cosa sia pronta per fuggire, lasciando al vivere di ogni giorno la tensione del suo non tornare più. “All’altro capo” è anche la narrazione di questa ‘paura’, di questa mancanza?
Tutte le nostre esistenze sono scandite da acquisizioni e perdite, a qualsiasi livello. È il gioco stesso del divenire a imporlo. Ma è davvero così netto il confine? In ogni acquisizione c’è una perdita, ed è vero anche il contrario. Non c’è bisogno di scomodare i presocratici o Eliot. A stabilire quel confine effimero sono piuttosto la felicità o il dolore, che restringono il campo delle nostre reazioni.
La poesia ci aiuta a spostare lo sguardo più in là, ad addomesticare quelle reazioni, a riconoscere una dimensione di convivenza. Non tutto è felicità, non tutto è dolore.
“All’altro capo”, rispetto ai libri precedenti, registra un lungo periodo di perdite, ma al tempo stesso ne fissa i termini dell’esorcismo, del superamento, quindi dell’accettazione.
La scrittura è anche una forma di liberazione, è un esercizio di distacco. In filigrana, anche i versi che registrano la paura alludono già al suo svanire. È come un fotogramma, a cui se ne sovrappone un altro, che ancora nessuno ha scattato. In ‘Solstizio’ l’ho definito “l’istantanea”.

Ci sono alcuni passaggi dove il paesaggio esterno sembra quasi entrare nel corpo dell’io narrante, del suo scrivere in prima persona. È la sensazione che tutto possa appartenere ad un unico respiro, dove il ‘dentro’ e il ‘fuori’ possono essere la stessa esperienza, dove questo loro dialogo è un qualcosa di possibile…
Ha colto bene. Anche qui, dov’è il confine tra esterno e interno? È forse la pelle? Anche questa fisiologia si presta a porosità straordinarie, a osmosi suggestive. Il nostro carattere è la permeabilità. Se cogliamo il reale come un continuo, come un inesauribile serbatoio di immagini, anche noi ne facciamo parte inevitabilmente.
Siamo “dentro”. Possiamo trarci “fuori” solo nel momento del nostro ri-conoscere, ri-creare il luogo del nostro esserci, perché la scrittura è un processo di oggettivazione. Matte Blanco ha parlato di visione simmetrica, di una forma di conoscibilità e dicibilità del reale fondata sulle analogie e non sulle differenze. Credo che intendesse proprio questo.

La presenza delle poiane alza lo sguardo al cielo; lo rende più vicino?
I poeti del secolo scorso hanno spesso sentito la distanza dal cielo. Era qualcosa di inevitabilmente alto, talvolta anche lontano e ostile, sconosciuto. Quella lontananza ha consentito loro di fare dell’azzurro il colore della malinconia, e quindi della poesia: e poi c’erano già stati il «purissimo azzurro» di Leopardi, l’”azur” di Mallarmé.
In ‘Solstizio’, invece, alludo alla fraternità del cielo, alla sua prossimità. Osservo terra e cielo come due dimensioni complementari, che si donano senso l’un l’altra; due realtà che si compenetrano, che si riflettono, che si proiettano vicendevolmente suggestioni, desideri.
Insomma, due schermi già scritti, dove però c’è ancora tanto da scrivere. I volatili, che spesso appaiono nei miei versi, sono creature di confine, abitano lo spazio intermedio, definiscono con le loro traiettorie di volo quel confine e quindi circoscrivono metafore o allegorie.
Al cielo però affidiamo una funzione catartica, gli rivolgiamo i nostri desideri, le nostre preghiere; la dimensione del basso penalizza la terra, che ci è altrettanto fraterna, invece.

 

L’autore:
Roberto Deidier (Roma, 1965), poeta e saggista, ha esordito nel 1989 su “Tempo Presente”, con una presentazione di Elio Pecora.
Nel 1995 pubblica in volume “Il passo del giorno” (Sestante), premio Mondello opera prima. Nel 1999 pubblica la seconda raccolta, “Libro naturale”, e nel 2002 riunisce i primi due libri in “Una stagione continua” (peQuod).
Nello stesso anno pubblica “Il primo orizzonte” (San Marco dei Giustiniani).
Nel 2011, per Empirìa, pubblica il quaderno di traduzioni, “Gabbie per nuvole”.
Nel 2014 appare la raccolta poetica “Solstizio” (Mondadori), premio L’Aquila-Laudomia Bonanni, premio Brancati Zafferana, premio Frascati.
Ordinario di Letterature comparate presso l’università di Enna “Kore”, è molto attivo sul versante della critica. Si ricordano, presso Sellerio, i volumi “Le forme del tempo. Miti, fiabe, immagini di Italo Calvino” (2004), “Le parole nascoste. Le carte ritrovate di Sandro Penna” (2008), “Il lampo e la notte. Per una poetica del moderno” (2012).
Per i “Meridiani” di Mondadori ha curato “Poesie, prose e diari” di Sandro Penna e ha tradotto John Keats.

(Roberto Deidier “All’altro capo” pp. 128, 18 euro, Mondadori 2021)

www.robertodeidier.it

 

 

 

 

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Luce

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Tempo presente        ——————————

Meglio sbaraccare ogni fantasia

Sei testi inediti

di Pietro Pancamo

 

Non è per l’assenza d’aria dall’atmosfera in là, potrei dirti: se non riusciamo a sentire i rumori del cosmo, è solo perché il cielo è insonorizzato dalle nubi (che infatti a molti sembrano batuffoli d’ovatta).
Potrei dirti che i miei racconti son così originali, come testi letterari, che in realtà son quadri da me dipinti, olio su tela, nel 2017. O ancora, potrei dirti, la pandemia è un’epidemia che infetta i panda e quelli unicamente.
Potrei dirti che Ferrari è un maschio alfa, o che lo era; potrei dirti che cala il sicario dalla Russia, per farmi la pelle col suo bel cannone, nuovo fiammante, che è una vera cannonata.
Invece mi terrò profondamente zitto: meglio sbaraccare ogni fantasia e ritirarmi a incazzatura ben privata, per ripetermi che la stanchezza della quale son capace, dopo trent’anni a calci in culo, è formidabile sul serio.

*

Cerchi “fabulimico” ristoro in romanzi numerosi che rendono, stanotte, il sonno insonne – lasciandolo a spiegarti, e anche per bene, che ogni sconfitta è invincibile sul serio.

*

Scarno, cioè preciso, ho sconfitto al millimetro Umberto Sabba, capo-stregone delle fattucchiere malvagie; forse, però, non sfuggirò alla morte, (f)orma della vita.

*

Nelle vene m’installo un liquido allucinogeno, che mi suggerisce proprio ora una notizia-bomba, in esplosiva per voi: i corvi sono pipistrelli diurni, nei film dell’orrore. E considerando che da una vita di partenza un esercito schizofrenico mosse compatto, come un sol uomo, sino alle mura del fato – per poi gridare «Siamo in uno!» –, possiamo giungere senz’altro alla conclusione che il motto della morte è “Siamo in nessuno”.

*

La caque (no scusa: la claque!) che t’acclama, o grande poeta, temo di desiderarla anch’io. Forse per questo mi faccio schifo. Ed anzi la mia nausea si tronca in odio, all’improvviso, a rivelarmi un paio d’anagrammi (reciproci ovviamente): la vita, intendo… la vita e la morte.

*

Signori, di mestiere son “fatografo”: ogni giorno mi spingo avanti di evi interi, immortalando, dai cronocarghi, le vicende ultime del mondo. Ma ho scattato istantanee anche del futuro prossimo: da una parte, guerre religiose (botte da “urbi et orbi”). Dall’altra, proprio come tutti noi, anche i telepati vengono decerebrati (metaforicamente): per forza… in materia di comunicazione rapida, e condivisione a distanza di informazioni, minacciano l’esistenza di Facebook. Di Internet! “No,” – dicono allora i padroni dei grandi network – “meglio che a risuonare sia, in Tv e streaming, il ‘Mike Vespanzo Sho(w)ah’ (così abile a disperdere la mente… e sterminarla)”.

 

L’autore:
Pietro Pancamo è un poeta, novelliere ed editor professionista, nato nel 1972.
È autore delle sillogi poetiche “Manto di vita” (LietoColle) e “Il Silenzio Stonato” (Edizioni Thyrus); con quest’ultima ha vinto il Premio “Città di Torino”.
Suoi testi sono apparsi sui maggiori quotidiani italiani (Il Corriere della Sera, La Stampa, il Fatto Quotidiano….) e su diverse riviste on line.
Ha condotto programmi radiofonici per Per Radio Big World (emittente italofona di Madrid) e Beyond Thirty-Nine (ex piattaforma culturale di Hong Kong).
Ha fondato e diretto il portale culturale “L(‘)abile traccia” ed è stato direttore editoriale della rivista internazionale “Niederngasse”, caporedattore per la poesia dell’e-zine “Progetto babele” e redattore di “Viadellebelledonne”.

 

 

 

Immagini        ————————–

Campanile

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Tempo presente         ———————————

Sartoria Utopia

Francesca Genti e Manuela Dago, fare libri e inventare voci

di Roberto Lamantea

Da piccola credevo di essere magica. Guardavo il cielo e non vedevo l’ora di scoprire quale fosse il mio potere; passare tra i muri delle case, leggere nel pensiero, volare, essere invisibile. Poi ho cominciato a scrivere poesie e ho capito che quella era la mia forza, la mia energia atipica. Non ho però mai smesso di stare a testa in su e di appassionarmi a altri linguaggi simbolici, soprattutto l’astrologia e la pratica dei tarocchi”. (Francesca Genti).
Mi sono avvicinata alla poesia visiva nel 2016 quasi per gioco, da allora non ho più smesso di ritagliare e assemblare immagini e parole. Successivamente la mia ricerca verso una poesia tridimensionale mi ha spinta ad affrontare l’arte del ricamo”. (Manuela Dago).
Nel 2012 Francesca e Manuela fondano insieme a Milano una ‘capanna editrice’ e la chiamano Sartoria Utopia.
Sartoria perché fare libri è un lavoro sartoriale: il nobile artigianato di una volta. “Amore per la poesia e la manualità”, dice Francesca Genti, ed ecco l’’oggetto libro’ di Sartoria Utopia: copertine rigide con serigrafie tirate a mano, cucitura giapponese con fili di lana, ma anche ‘cartoline di poesia’ (Francesca) e ricami su tessuti (Manuela). Tirature basse, ovvio, anche poche decine di copie, perché a comprare libri di poesia in Italia è una nicchia (ma molto forte) di appassionati.
Francesca e Manuela sono ‘sarte utopiche’, Sartoria Utopia “è un antro magico in continua attività, dove noi immaginiamo progetti che prendono forme diverse: laboratori di scrittura creativa, corsi di tarocchi, redazione di temi astrali, workshop di poesage, ricami di tessuti e molte altre cose non ancora sognate”. Sartoria Utopia ha anche un motto: “Non esiste che non esiste”.
Dicono che la poesia, i sogni e i bambini migliorino il mondo, come le fiabe, le favole, le filastrocche. Che la poesia sia un canto misterioso, non si sa da dove viene. E che rendano felici i bambini, come faceva Gianni Rodari: “Ritengo anch’io che creare storie, far volare le parole, costruire mondi nuovi che provano a rendere felice un bambino sia una delle cose migliori che l’uomo può fare”, dice Francesca.
Francesca Genti ha pubblicato nel 2018 da Mondadori un libro dalla lettura deliziosa, “La poesia è un unicorno (quando arriva spacca)”, una ‘passeggiata’ attraverso i linguaggi, i luoghi comuni, i testi della poesia da Saffo e Catullo a oggi. È un libro innamorato.
Il titolo nasce dalla sibillina esclamazione di una donna che a uno dei tanti reading di poesia a un certo punto si alza ed esclama: “La poesia è un unicorno, quando arriva spacca” e se ne va. La poesia è un bianco cavallo alato. “Quando parliamo di poesia”, scrive Francesca Genti, “parliamo di tutto in tutti i modi possibili”.
Una poesia da cui non scaturisce alcuna emozione è una poesia non riuscita”, si legge nel libro. “Ascoltare o leggere dei versi può fare molto male: la poesia tocca qualcosa di profondo e antico, di rimosso, di non ricordato, e lo fa con la musica delle parole che, per quanto raffinata e cesellata, è preverbale, viene prima del senso della parola stessa, è un urlo o un sussurro o una lallazione. La lingua dei poeti è spesso vicina alla lingua dei bambini: è cruda, è onesta, è onomatopeica, va verso una radice e una semplificazione, va verso la trasgressione e il divertimento”: sembra di sentire le onomatopee di Pascoli, le dolcissime giocolerie di Rodari, il petèl, la lingua preverbale dei bambini, che Zanzotto amava: ‘lingua madre’, continua Francesca Genti in un altro paragrafo del libro, “una lingua antica, arcana, che proviene da un territorio preverbale, che non c’entra quasi nulla con il significato delle parole, ma anzi, che di ogni parola fa intravedere un alone misterioso, come la scia di una stella cometa”.
I teorici dell’avanguardia comincerebbero subito a bubbolare e tuonare indignati, oggi come ieri, ma Francesca, lettrice onesta, nel libro pesca anche piccoli gioielli di Sanguineti e del Gruppo 63 parla tutto sommato bene (non, invece, dei tanti intellettualini che affollano le letture di versi): non è vero, per esempio, che un poeta lirico non sia testimone e voce del proprio tempo (viene in mente Umberto Piersanti, che con le avanguardie litiga fin dal suo primo libro): “Il poeta è un diapason, vibra con il proprio tempo e ci aiuta a capirlo meglio, meglio di chiunque altro e in modo più veloce” avverte Francesca.
Leggere “La poesia è un unicorno” è fondamentale per capire lo stile – e sentire il profumo – di Sartoria Utopia.
Il primo libro della ‘capanna editrice’ milanese è stata un’antologia di poete che si intitola “Bastarde senza gloria”: “Ho voluto che si misurassero su un tema tanto antico quanto attuale, quello dell’invettiva”; il libro li affronta tutti, i generi, e gioca anche con i luoghi comuni che circondano la poesia.
La collana “I Samurai” propone volumetti quadrati, fogli avorio tra due scudi di cartone rigido legato da fili di lana, tiratura limitata, copie numerate a mano; altri titoli hanno un formato più grande.
Un’altra autrice che lavora con Sartoria Utopia è Silvia Salvagnini (nel 2018 da Bompiani ha pubblicato un libro stupendo, “Il seme dell’abbraccio. Poesie per una rinascita”): è sua una grande busta chiusa con uno spago con versi e foto di misteriosi abiti che sembrano arrivare dall’aldilà del tempo, “L’orlo del vestito. Storie di bambine contro le chiacchiere cittadine” (2016).

 

Intervista a Francesca Genti e Manuela Dago

Quando e come nasce il progetto di Sartoria Utopia o, come Francesca lo chiama nel libro “La poesia è un unicorno”, “capanna editrice”? E come è nata anche l’idea di una grafica così particolare, con copertine serigrafate da voi e cucite a mano?
Francesca Genti: Sartoria Utopia nasce dall’amicizia tra me e Manuela e anche da un canzoniere amoroso che Paolo Gentiluomo, il mio compagno, mi aveva dedicato e che è diventato il primo libro della nostra capanna editrice e poi, come dice Manu, dalle nostre passioni comuni.
Manuela Dago: Infatti! Sartoria Utopia è nata nel 2012 dalla nostra comune esperienza di poete e dalla necessità di avere sempre con noi le nostre poesie durante i reading. Tutto questo si è unito alla nostra passione per l’arte e da qui il desiderio di realizzare libri non convenzionali, con copertine colorate, serigrafate a mano o decorate con collage e cuciti a mano: tra editoria, arte e artigianato. Molto presto abbiamo coinvolto anche poete e poeti che stimiamo pubblicando i loro versi in antologie a tema o progetti personali. Negli ultimi tempi Sartoria Utopia si è evoluta anche come hub culturale, proponiamo reading, laboratori di scrittura creativa, collage, lettura di Tarocchi, unendo le nostre competenze individuali.

Come è organizzato il vostro team di lavoro? Sappiamo che tantissimi in Italia scrivono versi ma pochi leggono libri di poesia: come valutate la scelta dei testi da pubblicare?
M.D.: Francesca si occupa prevalentemente della curatela dei libri, mentre io della realizzazione grafica del libro. Ma ci sono tante altre cose da fare… curare la comunicazione, seguire l’amministrazione, rispondere alle mail e, non ultimo, spedire i libri che vendiamo attraverso il sito! Per quanto riguarda queste cose siamo intercambiabili e non c’è una divisione netta del lavoro, di volta in volta ci si accorda anche in base ai rispettivi carichi di lavoro.
Per quanto riguarda la scelta dei testi da pubblicare capita che siamo noi a chiedere alle autrici o agli autori che amiamo di prendere parte a un progetto, o di inviarci del materiale. Altre volte l’autore o l’autrice ci invia un manoscritto interessante, oppure riceviamo una segnalazione a cui decidiamo di dare seguito. Ogni libro ha dietro una storia unica.

Francesca, nel 2018 da Mondadori hai pubblicato “La poesia è un unicorno (quando arriva spacca)”, una riflessione sulla lettura di poesia e sui tanti luoghi comuni che circondano la poesia, autori e lettori: tu difendi il valore dell’emozione, irrisa invece da autori “d’avanguardia”: che cos’è la poesia oggi? È vero che il pubblico dei lettori di poesia è in larga maggioranza un pubblico di lettrici? E i giovani leggono poesia?
F.G.:Sono domande difficili a cui non so dare una risposta univoca… io penso che l’ambiente della poesia contemporanea sia molto vitale e variegato, interessante per gli approcci diversi con cui si affronta il “corpo a corpo” con questa arte maggiore, il pubblico non è molto esteso, ma sicuramente pieno di passione e lealtà nel seguire le poete e i poeti che ama, per quanto riguarda la divisione di genere posso affermare che rispetto al nostro piccolo progetto editoriale ci siano più lettrici, ma anche la “quota azzurra” non manca.
I giovani leggono e scrivono poesie, e partecipano a varie situazioni performative, per esempio lo slam poetry.

Quali consigli date a un lettore che voglia avvicinarsi alla poesia: partire dai classici? Affrontare subito la lettura dei contemporanei? Ha un senso leggere antologie invece di raccolte complete?
M.D.: La poesia, come l’arte, attraversa il tempo, è sempre contemporanea, ha il potere di parlarci anche se è stata scritta centinaia di anni fa in una lingua che può apparirci lontana. Se non lo fa probabilmente non è poesia.
Per questo motivo non consiglierei nulla di particolare, se non di essere curiosi e di soffermarsi sulle parole, sui suoni e sulle atmosfere della poesia, soffermarsi anche su sé stessi per capire che impatto ha su di sé quello che si sta leggendo.
F.G.: anch’io sono d’accordo con Manuela, i percorsi per avvicinarsi alla poesia possono essere molteplici, si pensi che io ho scoperto Sandro Penna sui muri di un cesso della stazione Termini!

C’è, nel vostro lavoro editoriale, qualche episodio curioso che vi diverte raccontare?
Tante le esperienze che abbiamo fatto insieme, per lo più esperienze buffe e gioiose, alcune virano verso lo splatter, come quella volta che Francesca senza volere ha rischiato di trapanare una coscia a Manuela!

 

Sartoria Utopia:

Francesca Genti è nata a Torino nel 1975, vive a Milano.
Ha pubblicato i libri di poesia “Bimba urbana” (Mazzoli, 2001), “Il vero amore non ha le nocciole” (Meridiano Zero, 2004), “Poesie d’amore per ragazze kamikaze” (Purple Press, 2009), “L’arancione mi ha salvato dalla malinconia” (Sartoria Utopia, 2012), “Anche la sofferenza ha la sua data di scadenza. Poesie per gatte governate da Saturno” (HarperCollins, 2018), il saggio “La poesia è un unicorno (dove arriva spacca)” (Mondadori 2018) e con l’eteronimo Fernanda Woodman “Più misteriosa della morte è la domenica” (Sartoria Utopia 2019).

Manuela Dago è nata a San Daniele del Friuli (Udine) nel 1978, vive a Bologna.
Ha pubblicato con Sartoria Utopia la plaquette “Altre forme di vita” (2017). Nell’ambito del Festival internazionale di poesia “Acque di Acqua” ha pubblicato nel 2012 la raccolta “Un mare piccolo”. Il suo ultimo libro è “Poesie che non mi stavano da nessuna parte” (Sartoria Utopia, 2017). Da diversi anni ha avviato una ricerca nell’ambito del collage e il ricamo su tessuti.

www.sartoriautopia.it

 

 

 

 

Immagini       ————————–

Roberto Cantarutti

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Voce d’autore          —————————-

Vorrei abbracciare un asteroide

Max Ponte, “Ad ogni naufragio sarò con te”

di Giovanni Fierro

La poesia è anche il luogo dove si può osare, dove si rinuncia alla protezione e si lascia che lo scrivere sia un varco verso il possibile. Ma anche, fortunatamente, verso l’impossibile.
È il territorio dove la testimonianza prende forma, ma solo se riesce a dialogare con quel qualcosa che ancora non è visibile, ma è già riconoscibile nel sentire di chi si affida alla felice pericolosità della parola.
Max Ponte è autore che questa sfida la conosce bene, e che con eleganza e con sempre nuovi spunti di espressione e confronto continua ad alimentare quella percezione e quel dire che noi possiamo chiamare poesia.
Con il suo nuovo libro “Ad ogni naufragio sarò con te” conferma ciò che ha già evidenziato con le sue due pubblicazioni precedenti. E rilancia, alza la posta, pone lo sguardo dove ancora c’è bisogno dell’esplorazione, dell’azzardo del sentimento, del coraggio dell’impegno. Dell’originalità del proprio scrivere.
Un flusso di coscienza libero di creare immagini e di trovare verità, per andare incontro a quelli che “Alla fine del sole/ saranno lì con le vocali/ a far ripartire vulcani”, per innescare nuovi accadimenti, per dare spazio e voce a ciò che arriva dal profondo.
Sì, Max Ponte ha la capacità di trovare sempre il dialogo più interessante; ci racconta che “parlavi ai cigni/ ed eri così/ selvatica”, per dire che l’omologazione è il peggiore dei mali.
E la sua è anche una ‘confessione d’autore’, se è capace di dire “a cosa m’appiglio/ nel consueto naufragio/ se non ho le tue spalle/ che cosa spio se non/ ha le fessure dei tuoi/ occhi dal taglio preciso”. C’è sempre bisogno di una vicinanza.
Ma non si può solamente rimanere con i piedi per terra, c’è bisogno di vincere la forza di gravità, perché “vorrei abbracciare un asteroide/ come un compagno volante/ disoccupato e fiero”, anche solo per cambiare il punto di vista, l’angolo di sguardo sul mondo e su ogni suo giorno.
“Ad ogni naufragio sarò con te” è un’accensione continua, dove le parole si cercano e si trovano, si strofinano e si incastrano, costruisco partiture d’emozione e melodie destinate a rimane. Perché “in più ogni tramonto/ è sempre eccedente/ come la vita come/ un malanno come/ la gioia come/ un danno”.
Ma Max Ponte è anche bravo nel delineare il nostro presente, la nostra società, il nostro tempo politico, dove poter invocare che “in questo tramonto d’Europa/ in frontiere sempre più strette/ varcate da giovani migranti/ disperati in nazioni di falliti/ e di vecchi incontriamoci”. Sì, incontriamoci; troviamo la possibilità del confronto e dell’accoglienza, dell’attesa e della necessità.
Perché il momento è delicato, e lo sappiamo, “Siamo italiani pestiferi/ in giorni fantastici/ d’allarmi epidemici/ con neuroni fantasma”.
Max Ponte con “Ad ogni naufragio sarò con te” e con il suo fare poesia è un continuo invito a non arrendersi, a non alzare la bandiera bianca dell’indifferenza. Ora più che mai c’è bisogno della sua poesia.

 

Dal libro:

E le mie macchine

Mentre sorvolavi
il Mediterraneo
fra le aeree turbolenze
io guardavo il tuo sorriso
proiettato sui miei fondali
e le mie macchine
le mie splendide
macchine teatrali
i cumulonembi
gli effetti speciali
e poi il sangue
vero e falso
nelle mani

*

Di un Natale

Di un Natale
di duecento anni fa
ed un inverno nel bosco
attraverso le alpi con
i regali in auto quando
eravamo fiamminghi
e tutta la vita dipinta
nei particolari minuti
e le carte rosse dei
pacchi le strenne e
la luce dei punti
interrogativi

*

La potenza delle pistole ad acqua

La potenza delle
pistole ad acqua
e l’amore dove si muore
i trasferelli le buste
sorpresa mentre si
scavano buche
l’aleggiar di morsi
di meduse

*

Terapia intensiva

Siamo già in terapia
intensiva per aver
abdicato alla vita
spiriti confinati
zimbelli delle stelle
umidi di paura.

[7 marzo 2020]

 

 

Intervista a Max Ponte:

A parte la sezione finale, dedicata al covid, tutto il libro presenta i tuoi nuovi scritti in modo continuativo, come se fossero parte di un unico flusso di scrittura ed esposizione. Da cosa nasce questa decisione?
Prima di tutto grazie per questo spazio che tu dedichi alla poesia contemporanea. Vado a prendere il mio ultimo libro, “Ad ogni naufragio sarò con te”, e lo metto sulla scrivania. Creiamo libri in realtà per liberarcene, non per trascinarceli dietro come zavorre. Credo, ritornando alla tua domanda, che in un libro di poesia la sequenza delle liriche debba appartenere ad un flusso ordinato dall’autore che diventa così anche un regista. Scene di parole, in questo libro non solo poesie d’amore ma anche poesie “civili”.

Ed importante, penso, è questo tuo cercare sempre e comunque un dialogo. Come a voler sottolineare il bisogno/desiderio di una vicinanza, umana e dialettica. Sempre più preziosa in questi nostri tempi, così frantumati e atomizzati, che stiamo vivendo. Cosa ne pensi di questo?
Parlavo con un amico filosofo, qualche giorno fa, del fatto che le relazioni ci costituiscono. La poesia è dialogo attraverso la carta, attraverso le occasioni di lettura e performance. Non possiamo pensare di scrivere per noi stessi. Nulla ci appaga di più degli occhi sgranati di chi ci ascolta, fossero anche pochi secondi.
In quegli attimi si crea un legame empatico, insondabile e indissolubile con chi sta accanto.
La poesia, in senso lato, deve farsi portatrice della necessità dell’incontro, dell’aggregazione, del superamento delle distanze telematiche per promuovere un nuovo umanesimo da realizzarsi nei quartieri, nelle campagne, nei paesi come Villanova D’Asti dove ci siamo incontrati di recente per poetare.

Questo tuo nuovo lavoro mi sembra che si muova, con ancora maggiore determinazione e disinvoltura, in una intensa volontà di creare nuove immagini, e di dare più possibilità all’interpretare il vivere, per poterlo ‘capire’. È così?
Fu una personalità del mondo del cinema a farmi notare quanto le immagini siano presenti nella mia scrittura. Immagini e sonorità. La mia passione per la poesia di ricerca, visiva e sonora, e per le arti contemporanee, si è tradotta oggi in una scrittura molto più classica ma che non ha dimenticato i principi di partenza.
Dobbiamo vedere per renderci conto, siano esse immagini più realistiche o fantastiche, evocative o surreali, esse sono la materia, la carne viva del nostro essere. Dobbiamo poi ascoltare, percepire i suoni attraverso le parole e il loro succedersi per captare le frequenze dell’esistenza, le superfici dolci o aspre delle cose. Pittura e musica, come abbiamo detto nelle dirette di “Baciàti dalle muse”, sono parenti strette della poesia. E spesso, noi poeti, le sentiamo più vicine della narrativa.

Difatti, queste tue nuove poesie mi sembrano una esortazione, per chi legge, a fare uno scarto in avanti, a lasciarsi alle spalle le comode e codificate interpretazioni/considerazioni del già vissuto, del già visto….
Uno dei compiti principali di chi crea è proprio questo: fornire altre prospettive, anche dolorose, anche scomode, aumentare il grado di coscienza personale e collettiva.
Purtroppo, siamo infestati dalla tendenza di massa alla risata da quattro soldi. Dobbiamo cercare di essere leggeri mantenendo sempre alta l’analisi dell’umano, non avendo paura di essere scomodi quando necessario. Questo differenzia gli intellettuali dagli intrattenitori, gli intellettuali – poeti e non – sono dei militanti che ogni giorno lavorano per una trasformazione, anche nelle difficoltà.
La poesia può e deve avere un ruolo sociale, ma deve uscire allo scoperto e “sporcarsi le mani“.

Ogni tuo testo ha a che fare con un proprio suono e ritmo. In che modo queste due ‘sensazioni’ influenzano, ma penso anche nutrano, il tuo scrivere?
Ho avuto, nella mia giovinezza una formazione musicale, suonando nella banda del mio paese – il flicorno – e anche in un gruppo rock dove suonavo il basso e cantavo malamente. Ma soprattutto sono da sempre un grande ascoltatore di musica d’ogni genere in particolare jazz e classica.
La poesia e la musica nell’antichità appartenevano alla stessa dimensione. Nel 2018 ho portato in scena al teatro Baretti di Torino le mie poesie alternate a brani musicali al sitar di Riccardo Di Gianni, è stata un’esperienza che mi ha segnato profondamente, anche nell’acquisizione di un più armonico stile performativo.
La poesia contiene, come sappiamo, una musicalità propria, imperfetta, ed è una qualità che non deve mai mancare ad uno scritto poetico.
In fondo è quello che il lettore cerca, altrimenti tanto vale sarebbe comprare un libro di aforismi o di pensieri della buona notte.

Cosa significa scrivere, in poesia, questo nostro presente immerso nel tempo del covid?
Guarda, io di Covid cerco di non parlare e scrivere più da mesi. Ma in quel momento, nella prima fase della pandemia, la necessità di riportarlo in poesia, con tutta la fragilità del caso, era impellente, come un’ancora di salvezza.
“Ad ogni naufragio sarò con te” è uscito nel settembre del 2020, e decisi di chiudere la raccolta – commentata da Luigi Cannillo – con una recentissima sezione di nove poesie datate “Poesie dal tempo virale”.
Quel naufragio che vidi iniziare con i migranti morti in mare si allargò alla società afflitta dal Covid e da tutto il delirio e le malefatte ad esso associate.
Oggi dobbiamo combattere per tenerci fuori dalla spazzatura mediatica e proporre un’alternativa attraverso la poesia, dobbiamo fornire, a chi soffre i nostri tempi, strumenti d’espressione ed emancipazione.

 

L’autore:
Max Ponte è nato ad Asti nel 1977.
Poeta, performer, ricercatore ed ‘agitatore culturale’, ha pubblicato le raccolte poetiche “Eyeliner” (Bastogi 2010) e “56 poesie d’amore” (Granchiofarfalla 2016).

www.maxponte.blogspot.com

(Max Ponte “Ad ogni naufragio sarò con te” pp.83, 12 euro, La strada per Babilonia 2020)

 

 

 

 

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Cielo

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Da qui          ——————————-

Omaggio a Lawrence Ferlinghetti – tre videopoesie

“Il mondo è un gran bel posto”, “Manifesto populista”, “Ilnegoziettodicaramelledaunsoldo”

di Jessica Vesprini

 

Un omaggio al grande poeta Lawrence Ferlinghetti, con tre videopoesie nelle quali la poetessa e performer Jessica Vesprini dà voce a tre suoi testi.
Un omaggio per andare ancora incontro a chi ha regalato alla poesia lo slancio del suo significato e l’identità del suo suono, il ritmo che pulsa nel profondo e le immagini che scorrono intense nelle vene.

“Manifesto populista”

(Populist Manifesto)

 

Il video lo si può guardare ed ascoltare qui

 

“Il mondo è un gran bel posto”

(The World is a beautiful place)

 

Il video lo si può guardare ed ascoltare qui

 

“Ilnegoziettodicaramelledaunsoldo”

(Thepennycandystore)

Il video lo si può guardare ed ascoltare qui

 

 

Intervista a Jessica Vesprini:

Quale pensi sia l’importanza di Lawrence Ferlinghetti nel panorama poetico di sempre, e perché hai voluto dedicare questo tuo lavoro a lui?
Ferlinghetti è stato la Poesia che si rende umana e imperfetta. Spogliata della sua natura estetizzante e resa parola significativa e vera. Parlare di Ferlinghetti senza considerare l’attualità della sua opera è impossibile.
Il suo spirito era partecipativo ai moti dell’esistenza umana, il suo messaggio poetico spinge a ritrovare forza e speranza nella partecipazione e nel celebrare la vita e l’arte. Vero simulacro della Beat Generation, ma non nel senso di “battuto-beato” come lo intendeva Kerouac, bensì come “battito” di un ritmo nuovo che la rinnovata oralità poetica deve assumere.
Fu lui che pubblicò, nel 1956, “Urlo” di Allen Ginsberg e ciò gli costò una denuncia e l’arresto per diffusione di oscenità. Fece scalpore il fatto che vinse la causa difendendosi da solo in tribunale.
Vinse a nome di tanti che, da allora in poi, poterono pubblicare senza essere soggetti alla censura.
Quindi perché dedicare attenzione, tempo e lavoro a Lawrence Ferlinghetti? Perché non fu solo un poeta, ma un eroe civile. Pacifista, editore, pittore e soprattutto un uomo che scuote ancora oggi i moralisti, che condanna l’arbitrarietà dei divieti ai costumi, opponendosi a tutte le repressioni.
Grande ispiratore che seppe comunicare alla gente il desiderio di esserci, esprimersi, portare il proprio contributo. Fondatore della City Light, creò la prima collana di libri tascabili ed economici, nel 1953, rendendoli disponibili a tutti e immaginò la sua libreria come luogo d’incontro letterario e umano. Un mito della cultura e controcultura americana.

Cosa c’è alla base della scelta di queste sue tre poesie?
Il racconto. Che è anche quello che è la sua lunga vita. A seguito del suo arruolamento scoprì gli orrori della guerra e divenne “pacifista combattente”.
In età adulta seppe (proprio a seguito dell’arruolamento) il suo vero cognome italiano e quindi intraprese viaggi alla scoperta della sua italianità. Questa si evince dal trasporto, dal sentire l’importanza della relazione autentica, del comunicare con l’altro senza restare in superficie. Quindi ho scelto epoche diverse della sua vita, messaggi significativi e consapevolezza acquisita pur rimanendo un “Little boy”, come si definisce nella sua autobiografia, che ha lo stesso titolo.
Quindi dalla perdita della purezza e dell’innocenza che descrive in “Thepennycandystore” alla presa di coscienza delle nostre vite che scorrono (e finiscono), come se niente fosse, noncuranti, con leggerezza, con occhi solo per sé, con un invito alla pochezza di tutto ciò che invece per noi sembra augurabile, nella sua “The world is a beautiful place to be born”.
Fino ad arrivare al suo “Populist Manifesto” una vera e propria chiamata alle armi a tutti i poeti che si accomodano da intellettuali, accademici o anticonformisti o dadaisti che siano.
Il forte messaggio che arriva, quasi gridato, è quello di una grande necessità di un mezzo potente come la poesia a patto che sia significativo e disturbante di una serenità che sa di morte.

I suoi tre testi provengono da tre diverse sue raccolte, separate le une dalle altre da diversi anni. Cosa le accomuna e cosa le differenzia?
Come ti dicevo prima tutta la sua opera poetica fluisce come un racconto di vita e la sua è stata straordinaria, non solo perché lunghissima. “Pictures of the gone world” del 1955 pur sempre con una leggerezza amara; le sue poesie brillano di luminosità e semplicità con idee strabilianti, così semplici da poterle comprendere anche un bambino, così complesse da farti continuare a leggerle per tutta la vita. Vere e proprie “istantanee poetiche”.
Con “A Coney Island of the mind” del 1958 – tradotta in più di dodici lingue, venduta per oltre un milione di copie – Ferlinghetti si firma per la prima volta con il suo cognome italiano, quindi ci narra i suoi percorsi di scoperta; non dimenticando che la poesia è musica, scrive, infatti, versi pensati per jazz poetry.
E infine “Who are we now?” del 1976, che racchiude veri e propri passaggi di vita e di esperienze importanti che si proiettano come film, massime e leggende della realtà totale.
Echeggia la domanda finale “Ti piace la tua mente?”.
Queste tre sue poesie le accomuna la perdita, che però è anche costruzione e mai scoraggiamento, l’energia vitale di sentirsi sempre pronti, mantenendo la freschezza mentale del bambino pur essendo grandi.
Ferlinghetti sa fornire la chiave per liberarsi dalle frustrazioni, mantenendo vivo il mondo delle possibilità.

Quale la sensazione, quali i pensieri, le emozioni, nel dare a loro voce? E come hai vissuto il leggerli?
Leggerlo è sentirsi liberi, esprimersi, come lui insegnava, con la propria sensibilità ma anche con un senso di immedesimazione ed empatia verso condizioni che non ci riguardano, quindi un ampliare il pensiero. Leggo le sue parole come testimonianza umana ma non individuale, bensì collettiva e questo ritengo abbia un forte valore significativo.

Di questi tre testi, qual è il passaggio che più ti ha coinvolto, e perché?
Sono stata folgorata dalla frase “fu lì che m’innamorai dell’irrealtà”. La ritengo un’essenza poetica descritta da un uomo che nega al tempo la capacità di consumare le cose, rimanendo aggrappato alla decisione d’innamorarsi dell’immaginazione.

 

L’autrice:
Jessica Vesprini, poetessa, autrice e promotrice culturale, ha pubblicato la sua prima raccolta poetica “De-Sidus” a gennaio del 2017.
Alcuni suoi altri componimenti sono stati pubblicati su “UT“, periodico d’arte e fatti culturali, e su “Euterpe“, rivista di poesia e critica letteraria.
È una delle autrici e fondatrice della rubrica letteraria on line “Exuvia“. Ha ottenuto menzioni speciali e alcuni suoi testi sono stati pubblicati in antologie.
Con la collaborazione di musicisti, artisti visivi, altri scrittori e attori, ha ideato e realizzato letture spettacolo, che sono andate in scena in diversi festival e manifestazioni culturali.
La sua ultima silloge poetica “Arsenale“, è nata dal lavoro di ricerca e collaborazione con il fotoreporter Claudio Colotti ed è edita dall’Associazione MarcheBestWay, con il contributo grafico di Riccardo Ruggeri.
Il progetto artistico si arricchisce della collaborazione con l’attore portoghese Luís Marreiros, nelle presentazioni sceniche, in cui la poesia declamata interagisce con il linguaggio corporeo.

 

 

 

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Numeri

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ——————————

Quali sono queste piccole cose

Alessandra Bordino, “Via Rivolta”

di Roberto Lamantea

 

È una rivoluzione gentile ma potente, quella di Alessandra Bordino: “Via Rivolta” è il suo primo libro, nuovo titolo della collana “I Samurai” di Sartoria Utopia fresco di stampa.
Alessandra Bordino, 36 anni, di Novara, è una danzatrice: si è diplomata in TeatroDanza alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi e laureata in Lettere all’Università di Milano con una tesi sull’estetica della danza, ha lavorato con la coreografa tedesca Pina Bausch.
Nella prefazione al libro Rossana Campo scrive che “Alessandra Bordino è una poeta, perché lei, che è anche danzatrice, è una che fa danzare le parole”.
“Serendipità”, il testo che apre la raccolta, è una danza di rime interne e assonanze, ai confini delle cantilene e delle giocolerie alla Rodari, stile che troviamo in tutto il libro.
Le poesie di Alessandra, così leggere nella tessitura anche quando parlano di solitudini, guerre, violenza, sanno governare lo stile tra fiaba, cantilena, filastrocca e hanno modelli illustri: da Pascoli a Gozzano, Palazzeschi, Diego Valeri, forse oggi Vivian Lamarque.
Eccola “Serendipità”: “Quali sono queste piccole cose/ dove si trova la felicità,/ è qualcosa come fare la punta/ alle matite?// È fra le pagine dei buoni libri,/ è nei fotogrammi dei film d’autore,/ nel riposo di otto ore, nel tenere/ stanze pulite?”.
Ed ecco la quartina gozzaniana in chiusa: “Ciò che rifuggi presto inseguirai,/ i doni che respingi tu offrirai,/ tu ora non ami, ma presto amerai/ le cose avite…”.
O il canto dedicato a una betulla, il cui bianco le ricorda una “gemella siamese”, l’albero che era nel giardino della casa dei nonni e che non c’è più.
La rivolta di Alessandra Bordino ha la dolcezza di un clown che sogna la rivoluzione: il mondo cambierà un giorno per merito delle donne, come per Elsa Morante sarà salvato dai ragazzini: “Faremo la rivoluzione,/ perché il potere è uomo,/ ma la rivolta donna”; la sua abilità stilistica dribbla le trappole del linguaggio anche nella poesia manifesto: la gentilezza è invincibile, non la violenza.
E la scena del quotidiano, gli interni di una casa popolare a Novara, un Natale disegnato dal contrappunto tra la filastrocca su Gesù Bambino e un incidente domestico è un canto dolcissimo. Come questo invito alla danza, scritto nei giorni della pandemia:

David Bowie non è tornato
ma l’inverno sì
e il ventinove febbraio,
e la neve a marzo,
e l’ora legale,
la Pasqua è finita
ma non la pandemia globale,
ed è morto Sepùlveda.

Ma quando insorgeremo noi,
che di eroi ed eroine,
partigiani e partigiane
siamo i nipoti
per noi hanno ucciso la paura
non è da scordare mai
perciò mettiamo insieme i cocci,
forza, fioriamo
e facciamo primavera
anche quando non è Maggio.

Avanti su, danziamo
nel giorno della Liberazione,
danziamo dalla nebbia e dalla sabbia
danziamo dalle pire e dalle spine,
più degli zingari danziamo
sotto la pioggia, danziamo nel deserto
danziamo e ridanziamo
(ti va se poi ci fidanziamo?)
danziamo il cerchio,
dalla fine all’inizio
danziamo e poi ricominciamo.

Come papaveri danziamo
come i gelsomini,
come i garofani e come il loto,
danziamo come la mimosa
come il ritornello di quella canzone
come le rose di Atacàma,
osiamo la rivoluzione.

 

L’autrice:
Alessandra Bordino nasce a Novara nel 1985; dopo il liceo classico si trasferisce a Milano dove si diploma in TeatroDanza alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e si laurea alla Facoltà di Lettere dell’Università Statale con una tesi sull’estetica della danza come pensiero corporeo. È recentemente tornata a vivere a Novara dove è nato questo libro, la sua opera prima.

(Alessandra Bordino “Via Rivolta” pp. 88, 22 euro, Sartoria Utopia 2021)

 

 

 

 

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Galleria Ai Molini

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

 

Ti racconto        —————————-

Oltreconfine verso il sentiero

Matteo Femia, “Il letargo degli Orsi a Sarajevo”

di Ilaria Battista

Il letargo degli Orsi a Sarajevo” scritto da Matteo Femia, più che un libro è una mappa, un tentativo di ritrovare vite irrimediabilmente travolte, ma mai davvero perdute.
Perché ci sono luoghi in cui la Storia è un inciampo; te la porti dietro come un bagaglio che non sai dove depositare e, pesante o leggero che sia, ti impedisce comunque di camminare spedito.
Che poi in certi luoghi anche i sentieri su cui cammini sono un inciampo continuo, con i confini che si spostano, avanzano, retrocedono, si interrompono, si innalzano, portandosi dietro persone e cose, in questo peregrinare continuo, spinti un po’ qua e un po’ là dalla Storia, matrigna di storie che nei suoi rivoli si perdono, si ingarbugliano, si cancellano.
Matteo Femia in queste sue pagine, dove protagoniste sono nove storie di persone che hanno vissuto i confini lungo tutto il corso del Novecento tra Friuli Venezia Giulia, Slovenia, Croazia e Bosnia, ci ricorda che nascere e crescere in questi luoghi dell’Austria Felix, palcoscenico con il sipario della Storia sempre aperto, è una maledizione o una benedizione.
A seconda degli anni in cui il caso ti ha fatto vivere, del luogo in cui il tiro di dadi del destino ti ha fatto nascere, delle decisioni che i piccoli demiurghi, burocrati della Storia hanno preso, tirando una linea retta su cartine geografiche immaginarie, e poca importa che poi la vita non sarà più retta per nessuno di quelli che quella linea chiamavano casa.
Ci sono luoghi che sono difficili da capire anche per chi ci è nato, perché un giorno la lingua che hai sempre parlato non è più quella ufficiale e tu devi provare a tradurre i pensieri prima di parlare, e stare attento agli errori, che in certi luoghi sono solo errori di grammatica ma in altri sono un tradimento da pagare con l’esilio, se va bene, altrimenti con il sangue.
“Il letargo degli orsi a Sarajevo”, vincitore della prima edizione del Premio Roberto Visintin, ci dice che ci sono luoghi che proprio per questo miscuglio impazzito di Storia e storie, di prima e dopo, di qua e di là nati in una notte, parlano un linguaggio tutto loro, in cui i sussurri si urlano e le urla si sussurrano in tante lingue diverse, sorelle tra di loro, che a volte si azzuffano a sangue come in tutte le famiglie in cui ci sono tanti figli e ognuno vuole il palcoscenico per sé.
E poi ci sono figli e nipoti di questi luoghi che piano piano queste storie provano a rimetterle assieme, senza giudicarle, senza stravolgerle per farle stare bene nella giusta sceneggiatura, ma solo ascoltandole, con quella scontrosa nostalgia che solo chi nasce in una terra di confini sembra provare.
E Matteo Femia è uno di questi tessitori, che rimette insieme frammenti di vita raccolti come bacche selvatiche sul Collio e la Brda, e poi più in là e più in giù, fino ad arrivare a Sarajevo, dove gli orsi vanno in letargo e quando si svegliano possono essere ignari, almeno loro, che la geografia in primavera è totalmente cambiata.

 

 

Dal libro:

L’ostaggio

(…) Non poteva dunque fare altro che aspettare tempi migliori. Quel venerdì in cui divenne padre, Mitja non aveva però ancora potuto esaudire il suo desiderio di dare la sepoltura che meritava a chi aveva appena reso nonno. E qualcos’altro intanto era intervenuto a rendere impossibile ogni spostamento oltreconfine verso il sentiero tanto amato. Da una dozzina di giorni, infatti, il governo sloveno aveva chiuso le frontiere, sigillandole come non si vedeva da decenni, con l’obiettivo di tenere più lontano possibile un nemico senza volto e passaporto, ma capace di viaggiare attraverso corpi e nazioni. Un provvedimento che catapultava Mitja in uno stato emotivo che aveva dimenticato nel tempo. Si ricordò allora come la sua storia d’amore con Anja fosse nata proprio nei giorni in cui ogni confine con l’Italia era stato abbattuto. Quasi tredici anni culminati proprio in quelle ore con l’arrivo di Simon: l’apertura delle frontiere stava partorendo i suoi frutti proprio mentre esse stavano richiudendosi. La primavera eterna stava regalando la sua ciliegia più dolce nel momento esatto in cui stava ricomparendo un debole inverno. C’era un sole beffardo, un gelo funesto ricopriva ogni cosa, ed impediva l’accesso a sentieri pieni di polvere e ghiaia, ma diventati di colpo impraticabili. Quei blocchi di pietra tra Slovenia e Italia erano un macigno sul diritto di un figlio diventato genitore a vedersi riunito, sotto l’ombra di un testardo ciliegio, all’anima di un padre a cui in vita era stato negato di diventare nonno. Erano ostaggi non più di un amore caldo, ma di una fredda burocrazia.
Chissà se da qualche parte il primo pensiero del vecchio Milan non fosse stato ancora per il socialismo, o per quel Dio che non esaudiva mai i suoi desideri, nemmeno da morto.

 

Intervista a Matteo Femia:

Tutti noi che abbiamo famiglia in questi luoghi di confine e di frontiera, abbiamo aneddoti, gioie e sofferenze tramandati di generazione in generazione e indissolubilmente legati a queste terre contese a pezzetti.
Spesso me lo chiedo, ma chi non è nato ai confini dell’Austria Felix può provare a capire cosa vuol dire essere orfani di un impero che non esiste da più di un secolo?
La nostra storia, da un lato così dolorosa e dall’altro però capace di regalarci un raro mix di culture, ci garantisce la possibilità di attingere ad esperienze e vissuti che altre popolazioni non hanno: è per questo probabilmente che in questi territori il concetto di “frontiera”, osmotico e malleabile, dovrebbe risultare più forte di quello di “confine”, maggiormente netto e dunque tagliente, con tutte le conseguenze che ciò ha significato nel tempo.
Forti di questo passato che ci ha insegnato a comprendere ciò che è giusto (frontiere in cui ci si mescola arricchendosi gli uni con gli altri) da ciò che è sbagliato (confini con cui ci si divide togliendo qualcosa a tutti), dobbiamo essere ora bravi a raccontare anche a chi arriva da altri luoghi meno esplicativi dei nostri quale sia la direzione da intraprendere.
Nova Gorica/Gorizia 2025, Capitale Europea della Cultura, in questo senso, può essere un’occasione enorme ed uno snodo fondamentale.

Penso ci siano davvero pochi posti come Gorizia, in cui ti scontri continuamente con la Storia e i suoi stravolgimenti. Dalle finestre puoi vedere Oslavia e i suoi cinquantamila morti della Prima Guerra Mondiale, Castagnevizza con la tomba dei Borboni morti in esilio, Piazza Transalpina finalmente sgombra dalla sua cortina di ferro.
Riusciremo mai a scrivere qualcosa che non sia figlio di questo compendio di tragedie?
Le esperienze di questi ultimi secoli saranno sempre ed inevitabilmente nel nostro dna, ma ciò non significa che questo possa necessariamente rappresentare qualcosa di negativo: sta a noi cogliere gli insegnamenti delle tragedie vissute e degli eventi storici che hanno contrassegnato queste terre per costruire un futuro in cui il vicino ed il diverso siano occasione di arricchimento e non motivo di divisione.

A volte mi accorgo di aver sconfinato solo perché mi trovo davanti a cartelli scritti in sloveno o in tedesco, e mi ritrovo a pensare che è bello che non ci sia più un confine fisico, un di qua e un di là che troppo spesso alberga nella testa di chi vive da queste parti.
Una delle cose che mi è più piaciuta del tuo libro è che le tue parole non sono mai giudicanti, accompagnano le vite di questa frontiera senza condannare o assolvere, ma cercando di comprendere chi si è trovato a vivere sulla sua pelle le contraddizioni di queste terre.
Saltare i confini è qualcosa che ti è venuto facile o anche tu ti ci sei trovato improvvisamente di là?
Ho provato una sensazione di straniamento enorme quando, durante i primi duri mesi della pandemia, improvvisamente i confini sono tornati a far parte del nostro quotidiano.
Avevamo tutti dimenticato cosa significasse non potersi muovere liberamente tra Italia e Slovenia, tra uno Stato e l’altro, e ancor più banalmente e tremendamente abbiamo scoperto come non si poteva uscire nemmeno di casa senza un reale motivo.
Da anni ormai eravamo abituati a vivere questi territori come un unico, enorme giardino tutto nostro: non c’erano Stati, non c’erano passaporti. Io stesso, in passato, durante le mie sedute di jogging sconfinavo oltre-confine immergendomi nella splendida atmosfera di diversità linguistica che coglievi fin dai primi cartelli stradali.
Improvvisamente, tutto ci era diventato vietato, a causa non di una guerra o della follia umana, ma di un qualcosa di invisibile. Ho riflettuto: la libertà che abbiamo faticosamente conquistato non si vede, ma c’è, eccome se c’è, proprio come il virus.
E dobbiamo continuare a fare in modo che la libertà ci sembri acquisita, che sia normalità non percepirla: perché è quando tocchiamo con mano la sua assenza che tutto cambia, e non in meglio.

 

L’autore:
Matteo Femia è nato nel 1981, è laureato in Scienze della Comunicazione.
È nato da papà calabrese e mamma friulana a Cormons (GO), dove tuttora vive e lavora come giornalista pubblicista per varie testate.
È coautore con Francesco Pira del libro-biografia “Bruno Pizzul, una voce Nazionale” (Lupetti Editore, 2012).
Ha pubblicato il romanzo “Minimo comun sax tenore” (Eve Edizioni, 2015).
Ha ricevuto, come giornalista sportivo, il Premio Simona Cigana.
Ha inoltre vinto il Premio letterario “Dolfo Zorzut” con il racconto “L’ultimo passaggio”.

 

 

 

Immagini        ————————–

Episcopio

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro         ——————————

Negli ascensori bianchi i rumori

Silvia Vecchini, “Piccolo canzoniere”

di Roberto Lamantea

 

È un libro incantato “Piccolo canzoniere” di Silvia Vecchini. Sono canti, o veri e propri inni, d’amore alla Terra, ai propri bimbi, al cielo, la natura, la luce.
Versi delicati come petali e anche qui come per Alessandra Bordino il nume è Rodari, o Valeri (l’ultimo libro, dolcissimo, “Calle del Vento”, 1975, poesie d’amore pubblicate quando il poeta veneziano aveva 88 anni).
O cantilene dalla voce antica:

bianche lenzuola bianchi
cuscini bianche le fronti dei bambini
bianca la luce sempre accesa
bianchi i lampioni fuori dai vetri
bianche tutte le pareti dei bianchi
corridoi bianche le etichette
bianche le provette bianchi i volti
negli ascensori bianchi i rumori
tutti i camici che scendono le scale
bianca la notte dell’ospedale

Versi come acquarelli. Si legga questa sestina:

Amo le piccole chiese lasciate aperte
senza luce, deserte
dove la sola liturgia
da celebrare è starmene zitta
ascoltare i pensieri
che non volevo pensare.

O questa visione:

Fuori dal finestrino
sfila il lago azzurro di mattina
e la campagna pulita
dalla potatura. Brillano gli ulivi
più leggeri, senza frutto –
dentro me
il bacio ghiacciato della brina
ferma tutto.

Fino all’inno:

Nei frutteti rami e rami legati
alberi disciplinati. Terra
come sei bella che non porti rancore
che anche costretta ti apri in un fiore.

 

L’autrice:
Silvia Vecchini è nata a Perugia nel 1975, vive a San Feliciano. Laureata in Lettere moderne con una tesi sull’opera poetica di Primo Levi, ha conseguito il diploma di alta specializzazione in Scienze religiose con una tesi in Pedagogia e didattica, dedicata alle risorse che l’albo illustrato può offrire alla crescita spirituale dei bambini.
La sua tesi è stata pubblicata dalla casa editrice Topi Pittori di Milano.
Nel 1999 ha pubblicato “Diverse fedeltà” (Guerra edizioni) che ha vinto il Premio Diego Valeri come opera prima. Dal 2000 scrive principalmente per bambini e ragazzi.
Tra le sue ultime pubblicazioni si annoverano la raccolta di poesie “Acerbo sarai tu” (Topipittori 2019), il romanzo in versi “Prima che sia notte” (Bompiani 2020) e “Le parole possono tutto” (Il Castoro 2021).

(Silvia Vecchini “Piccolo canzoniere” pp. 84, 22 euro, Sartoria Utopia 2021)

 

 

 

 

Immagini        ————————–

Luce

Nove fotografie

di Roberto Ferrari

 

Intervista a Roberto Ferrari:

Da quando, e come, è nata la tua passione per la fotografia?
Scatto fotografie dalla fine degli anni Settanta. All’epoca ero un ragazzo attento alle trasformazioni repentine che quel periodo riservava, e di cui talvolta ho nostalgia.
La voglia di guardare e tentare di comprendere il mondo da una posizione privilegiata e solitaria, come il mirino di una fotocamera, è la vera motivazione che mi ha spinto a scattare. In fondo mi sentivo protetto con la mia fotocamera biottica con mirino a pozzetto al collo, quasi inattaccabile e riuscivo ad intrufolarmi nel mondo senza essere visto. So che si trattava di una mera illusione, ma questo sentivo.

In che modo si rapporta al tuo scrivere poesia?
Entrambi sono tentativi di trovare una soluzione, che contenga “bellezza” (anche la ruvida “bellezza”), tra il rapporto con la realtà esterna e la realtà interna.
La poesia parla senza vedere e la fotografia vede senza parlare. Insieme, immagino potrebbero rivelare una possibile completezza.

Il tuo fotografare si esprime con il bianco e nero. Cos’ha di così particolare, da averlo scelto come strumento di espressione?
Il bianco e nero è essenziale, non lascia scampo all’occhio di chi vede e trascina le immagini direttamente nelle emozioni più sostanziali. Poi mi concede la nostalgia.

Guardando queste immagini si respira un qualcosa che ha a che fare con il solitario. Ma mai, almeno per me, si respira la solitudine…. Cosa ne dici?
La fotografia, come la poesia, è un fatto solitario, nasce dall’intimo di una sola persona, ma ricerca costantemente l’altro da sé, di cui ha un estremo bisogno per esistere: l’immagine non sussiste se non viene vista.
Rimane l’esperienza di un istante e poi scompare senza lasciare traccia in altre persone.

E sono sempre tutte immagini che si aprono. In un profondo o in una altezza, anche in un fiume, in una luce o in una assenza. Da cosa nasce questa ‘azione’ di ‘scrittura per immagini’ così ben definita?
Da sempre sono attratto dalle pieghe della realtà, ovvero dai minuscoli particolari che confermano un insieme, o che lo stravolgono totalmente, ma che danno naturalezza, e anche piccole dosi di sorpresa, a ciò che percepiamo.
Completare la descrizione della realtà, di frammenti di realtà, corrisponde a lasciare anche aperto un immaginario ed ipotetico dialogo con chi vede l’immagine.

Ogni immagine mi sembra che viva di minuscoli movimenti, a volte sussurrati altri invocati. È uno stare vicino, forse dentro, al silenzio?
Giovanni, cogli davvero nel segno: il mio nickname nel web è radiosilenzio. In effetti il fracasso assordante del mondo contemporaneo, la distribuzione di vuoto a perdere proposta dai mass media, l’ammucchiarsi senza soluzione di continuità di immagini e parole e informazioni, le urla dissonanti con il pensare calmo e profondo e la corsa a perdifiato verso il niente moltiplicato per sé stesso, mi spinge alla continua ricerca di “un silenzio” che mi racconti sottovoce chi sono, che cosa sto facendo, dove sto vivendo e spieghi questo mio desiderio potente di conoscere.
La fotografia è statica, ovviamente, ma le sensazioni umane non lo sono, quindi il movimento che percepisci è il frutto del rapporto tra il visibile e l’invisibile a cui non serve la parola, fa tutto in silenzio.

 

L’autore:
Roberto Ferrari è nato a Gorizia e attualmente vive a Fossalta di Portogruaro (Venezia).
È tra i fondatori dell’Associazione Culturale Porto dei Benandanti di Portogruaro, con cui organizza e coordina la manifestazione poetica e letteraria “Notturni di Versi – Piccolo festival della poesia e delle arti notturne”.
Per la casa editrice Qudu libri di Bologna ha pubblicato nel 2014 la raccolta poetica “Alberi binari” e curato le due antologie poetiche “Non ti curar di me se il cuor ti manca 1” (2015) e “Non ti curar di me se il cuor ti manca 2” (2016).
Nel 2018 ha prodotto la plaquette “Vin, Sikh e Soldai” e nel 2020, assieme a Marco Opla, il volume “Assolo”, entrambi pubblicati da Qudu.

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Livio Caruso.

 

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