Fare Voci settembre 2021

 

Ben ritornati, dopo la pausa estiva.
Ad iniziare la nuova stagione, ecco qui il nuovo numero di “Fare Voci”.

Con Lella De Marchi ed il suo “Ipotesi per una bambina cyborg”, libro che domanda al presente e prepara al tempo che verrà,
Ci sono anche sei poesie in italiano di Lenka Kuhar Daňhelová, figura di riferimento della cultura in Repubblica Ceca, e il nuovo lavoro di Michele Toniolo, che ci presenta il suo percorso d’autore, “Passaggio sul Rodano”.

Ritorniamo a parlare di Umberto Piersanti grazie ad Ezio Settembri, che gli ha dedicato il prezioso volume “Il mito ritrovato. La poesia di Umberto Piersanti”.

E poi tre voci importanti e significative del nostro presente: Stefania Licciardello e il suo “Il libro dei bisogni”; Anna Leone con “Bocconi di vento” e l’esordio di Margherita Trusgnach, “Same misli Solo pensieri”. Con loro la poesia ha ancora più significato ed appartenenza.

Le immagini sono gli otto dipinti di Milena Sgambato.

Buona lettura

Giovanni Fierro

(la nostra mail è: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini           ———————————-

The secret

Otto dipinti

di Milena Sgambato

 

 

 

 

Voce d’autore         —————————–

Inseguo nel niente una ripetizione costante

Lella De Marchi, “Ipotesi per una bambina cyborg”

di Giovanni Fierro

 

Bisogna essere ciò che si è. E quindi, ancora prima, accorgersene, volerlo diventare.
Ed essere pronti ad ogni confronto, ad ogni ‘crescita’. Anche, e soprattutto, a quella che non ci si aspetta.
È un canto quello che esce dalle pagine di “Ipotesi per una bambina cyborg”, l’intenso e acuto libro di Lella De Marchi, di una invocazione che non ha paura di mescolare le origini ed ipotizzare le destinazioni.
La sacralità di questi suoi testi è la sacralità che si deve ad ogni essere umano, nella sua irripetibilità ma anche nella sua grande possibilità di cambiamento. Per un presente che possa essere più ricco e originale, per un tempo a venire dove il vivere sarà più vero.
Parte da considerazioni filosofiche Lella De Marchi, per costruire un percorso di formazione dove il tu combacia anche con l’io, sapendo bene che il luogo di questo accadere è dove “il vuoto è pieno il pieno è vuoto è vero anche il contrario”. E dentro a questa considerazione si può trovare la prima misura di una nuova concezione dell’essere umano.
Di certo questo percorso non è per nulla facile, perché “questo mondo è di nessuno ma qualcuno lo pretende/ uguale a sé”. Il pericolo di questa omologazione imposta è sempre in agguato, ormai capace in modo sofisticato di portarci ad una sorta di nebbia piatta che nutre ogni pensiero.
“Ipotesi per una bambina cyborg” è l’invito ad una metamorfosi necessaria, non più rimandabile, da non lasciare più al caso, da farla diventare desiderio e responsabilità.
Lella De Marchi affida alla poesia la formulazione di questi pensieri e di questi intenti di cambiamento, perché sa che “le parole sono vive” e il modo di utilizzarle è fondamentale, perché “la forma è un antidoto alla paura”. Non solo il ‘cosa’ ma anche il ‘come’. Le radici della poesia, quando vuole trovare nuove parole che diventino corpo.
In questa ricerca di senso ma anche di sensi, nuovi e più recettivi, è bene accorgersi che “la tua luce è un filo d’erba teso tra la terra/ e il cielo un porto in mezzo al mare” e solo attraverso il riconoscimento dell’altro si può iniziare a tratteggiare il proprio autoritratto, aggiornato a ciò che si sarà.
Ritorna quindi la presenza fondamentale di un ‘tu’, che può essere il ritorno di Eva (“creare l’amore con l’amore. creare per creare ancora”, la presenza costante di Narciso (“la sparizione è un’immagine. comporta la presenza./ esatta nel luogo esatto dell’amore”) o l’apparizione di una drag queen (“viviamo di sacro di profano di presenza di assenza/ di luce di buio”).
È una trama fitta e preziosa, dove l’aria è sempre ossigeno e la coscienza di sé ha a che fare con la luce e con la carne, consapevole che “l’istinto di sopravvivenza da solo non basta./ diventa una formula stanca”. Monito mai a sufficienza ricordato nella vita di ogni giorno.
Ciò che anima costantemente questo fare poesia di Lella De Marchi è il sapere che “c’è sempre/ qualcosa che vive nell’ombra e qualcosa alla luce./ ma vive comunque”, volano anche emotivo che innesca la fiducia del suo scrivere e del suo pensare, carica primordiale che mette accensione ad ogni gesto e riflessione.
Sapendo bene che “tu cerchi la tua favola ed io cerco la mia”, perché ognuno di noi ha bisogno di un contesto in cui riconoscersi, in cui rispondere al desiderio dell’altro, per poter dire di essere veramente se stessi.
“Ipotesi per una bambina cyborg” è questo voler arrivare ad una nuova definizione di sé, più ampia e più profonda, capace di uno scarto in avanti, per inventare e creare nuove possibilità di presenza umana.
Vivi d’incanto vivi soltanto di quello che resta”.

 

 

Dal libro:

la bambina è una farfalla con le ali della casa.
nell’inconscio i ragni cadono ad uno ad uno l’acqua
è una goccia stilla da una stella una tubatura si è rotta.
non ci sono mani piene non ci sono mani vuote.
dove vivi tu nessuno è come te.
la metà di una metà la luce il buio un buco la memoria
di qualcosa. una questione di strabismo di postille di pupille
dilatate di assenze rimandate al mittente.
l’aria entra nella stanza soltanto quel tanto che le basta
per uscirne. soltanto a volte si produce l’eco ti sembra
di conoscerne la voce. ma tu non sei persa. il coniglietto
è ancora su quel muro gioca sempre a fare la tua ombra.
tu continua ad esserti infedele. tu continua.

*

c’è come un’ansia nascosta nella mia mano che stringe
la tua. mentre attraversiamo il giardino del parco
ci sentiamo creature sperdute in un bosco.
carne su carne pelle su pelle ecco lo straordinario
umano sistema per addomesticare l’insidia.
insegui con gli occhi la linea dell’orizzonte dici
che bello andiamo laggiù andiamo oltre.
la tua infanzia è l’infanzia del mondo.
nel chiuso di una stanza blindata il mio cuore blindato
è come il rintocco antico di una campana. perso
nel verde tra monti case e declivi che non esistono più.
tu sei molto più forte di me. io sono nata più volte.
inseguo nel niente una ripetizione costante.

*

capita sempre all’improvviso inaspettatamente.
forse una sola volta nella vita.
mentre ci parliamo capiamo che non ci parliamo.
tu parli il tuo linguaggio il tuo sistema di segni ricevuti
e da ritrasmettere. lo percorri ogni volta dall’inizio
alla fine. ed io parlo e percorro il mio.
tu senti le tue cicatrici ed io sento le mie.
tu cerchi la tua favola ed io cerco la mia.
eppure restiamo vicine come affiancate respiriamo
due arie diverse ma uguali non ci importa quali.
siamo la doppia immagine che può vedersi da sola.
l’amore non si cura della forma l’amore sa che la forma
non è un che antidoto alla paura.

*

la bambina cyborg non inciampa nel senso
la bambina cyborg non si aggiusta col tempo
la bambina cyborg non si contrae in un unico segno
la bambina cyborg parla da sola
la bambina cyborg sorride alla luna
la bambina cyborg canta e suona la lira

l’anima vede sente annusa respira nell’aria l’anima vive che non si nega

la bambina cyborg s’innamora dell’uomo-ragno
la bambina cyborg accarezza il serpente
la bambina cyborg è un androgino
la bambina cyborg è innocente
la bambina cyborg adora il tranello
la bambina cyborg è una sfida all’inganno

 

 

Intervista a Lella De Marchi:

Cosa c’è alla base di questa esplorazione di possibilità, che mi sembra sia la radice del tuo libro?
Direi, una visione di tipo filosofico. L’idea che tutto nel mondo sia in continua trasformazione, che quello che chiamiamo “confine” non sia un luogo di separazione tra le cose, ma il punto in cui avviene il passaggio, lo scambio, il contatto, la comunicazione tra le cose e con l’altro da sé.
La necessità di dare vita e voce alle differenze e di farle coesistere. In ogni campo dell’agire umano. La definizione di una identità che non sia stabilita dall’esterno ed a priori, ma continuamente ricercata, vagliata attraverso l’esercizio delle possibilità e delle ipotesi. L’ apertura all’altro e al diverso da sé. L’aderenza ad una natura interiore, non univoca o imposta, ma molteplice ed in continua evoluzione.

C’è uno scarto in avanti da compiere, perché lo stato attuale non basta più… Come se l’essere umano abbia necessità di una sorta di nuova definizione… siamo sempre creta da modellare…
Proprio così. Mi sembra che oggi più che mai, con l’avvento delle nuove tecnologie e dell’era globale, con l’ampliamento dei confini territoriali, le migrazioni, la nascita di nuove identità non binarie, le nano e biotecnologie applicate, si rendano urgenti una rilettura e ridefinizione del sistema mondo.
È evidente che il sistema binario (destra-sinistra, bello-brutto, sopra-sotto, maschio-femmina etc.) fin qui adoperato non basti più a contenere tutte le urgenze e le necessità che si stanno facendo strada e che chiedono di essere ascoltate ed accolte.
Direi, anzi, che queste che chiamiamo nuove realtà in realtà siano sempre esistite, ma siano state sommerse per scopi utilitaristici e particolari. O, forse, anche semplicemente per paura. Ciò che non è conforme, il contaminato, il molteplice, il fluido, l’ibrido spaventano perché fanno scricchiolare il sistema delle nostre credenze.

In questo tuo nuovo progetto poetico, quanto il tono narrativo dei testi era necessario? E la mia impressione è che tutto il libro viva per immagini, che si fanno parola e luogo di confronto.
Anche per quello che riguarda i cosiddetti generi o toni letterari vale il discorso di cui sopra, il contaminato, il fluido, il molteplice, l’ibrido. Gran parte dei testi sono costruiti intorno ad immagini-chiave, metafore oggettive.
Il punto di partenza è poetico, poi attorno ad esso s’intreccia e si compone una specie di narrazione frammentata, fatta di ricordi, ipotesi, pensieri e dubbi filosofici scientifici esistenziali, citazioni. Il tutto mescolato insieme e sorretto da un forte andamento ritmico.
È il ritmo, il ritmo della preghiera ma anche del respiro, direi in alcuni punti una specie di ninna-nanna, ad unire tono narrativo ed esigenza poetica. In fondo, poi, quella che si dipana nel libro è una storia, a metà tra il reale e l’immaginario, tra il passato e il futuro.
La bambina di cui si parla esiste e non esiste, sono io e non sono io, si sta creando. È l’infanzia del mondo quella che sta raccontando.

Quanto il pensare una nuova persona deve trovare un nuovo corpo? E in che modo?
Io credo che in natura esistano già tutte le forme, tutte le possibilità declinate in infinite combinazioni. Il nuovo corpo è una persona abitata da una nuova visione del mondo che non esclude nessuna di queste possibilità, di queste combinazioni.
È un modo di “vedere” e di “sentire”. Di accettare quello che, spesso per paura o pregiudizio, chiamiamo diverso e lo poniamo al di fuori di noi, escludendolo ed escludendo noi stessi alla nostra stessa comprensione. Il cyborg di cui parlo nel titolo è una metafora, non è l’esaltazione del corpo-macchina, le protesi di cui dico sono estensioni all’esterno dell’anima.
E l’anima non fa distinzioni di alcun tipo, è sempre nuda. Proprio come i bambini. Detto questo, aggiungo che non temo i corpi artificiali. Un bye-pass, una protesi per gli arti, non cancelleranno l’umanità, ma possono migliorarne l’esistenza. Un figlio nato con la fecondazione artificiale o che ha due padri o due madri al posto di un padre e una madre non cancellerà l’amore che muove il mondo e l’umanità, semmai può contribuire alla sua espansione.

Il libro è tutto un colloquio e un dialogo ‘dentro/fuori’. Come se ci fosse bisogno di definire questo rapporto, questa dialettica. Un nuovo definire la persona e la sua personalità, ma anche il mondo che la ospita, per creare nuovi contesti e nuovi immaginari…
È esattamente questo il limite per eccellenza da superare. Il confine tra il dentro e il fuori, tra interiorità ed esteriorità, non è una barricata, ma un luogo osmotico, un percorso in entrambe le direzioni. Il luogo della comunicazione e della dialettica, appunto.
Una volta superato questo primo, fondamentale inganno ottico, cadono inevitabilmente tutti gli altri steccati che ci impediscono di comprenderci a pieno, di vederci per quello che siamo.
Anche il mondo, il contesto in cui viviamo e che ci ospita ci apparirà sotto un’altra luce. Sono sempre la stessa persona e lo stesso mondo, ma ci sembreranno nuovi e fecondi. Non è un percorso facile, ma credo sia l’unico modo.
Io ho scelto di cercarlo e di provare a dirlo con la poesia, perché la poesia è esercizio di libertà, agisce, nel migliore dei casi, proprio in questa direzione. Illumina ciò che è nascosto alla vista.

Gli scritti di “Ipotesi per una bambina cyborg” pescano nell’inconscio, ma hanno anche a che fare con ciò che non si vede, che potrà esserci…. Cosa vuol dire trovare le parole per mettere in evidenza ciò che allo sguardo si nasconde?
Vuol dire chiudere gli occhi per vedere, guardarsi dentro, prima ancora di trovare le parole. Andare a rovistare in quel luogo che è l’inconscio, dove si mescolano e proliferano i sentimenti più contrastanti, più difficili da decifrare, le oscurità le oscenità le paure i sogni i desideri le angosce le speranze i tradimenti le confusioni la bontà e la cattiveria.
Cercare di guardarli in faccia, più che si può, per dar loro il giusto peso. Portarli alla luce e trasformarli. Ciò che non si vede, non perché non si vede non esiste, ha già un suo linguaggio per esprimersi, è nato già con le parole. Solo che non riusciamo a vederlo e quindi non lo sentiamo. Proprio come i bambini, che sanno stupirci sempre, che sembrano conoscere già le cose e non sappiamo come.
I bambini pescano nell’inconscio e nell’intuito con molta semplicità e agevolmente, perché non sono ancora abitati da sovrastrutture e schemi esterni. Non sto parlando di magia esclusivamente, ma di illuminazione. A quel primo momento, poi, deve succedere il lavoro su quel materiale informe. E quel lavoro, in poesia, lo si fa sulle e con le parole. Affinandolo sempre di più. Ed è proprio questo che dobbiamo insegnare, se così si può dire, ai bambini. Non bloccare la loro immaginazione, non costringerli a pensare con la nostra testa, ma consegnar loro gli strumenti per sistemare e per potere affrontare la vastità di un simile informe e complesso materiale interiore. Per farli cadere il meno possibile prede del buio.

Il libro punta pure sulla certezza che è il momento di non nascondere più nulla, sennò ciò che può fiorire è destinato a scoppiare… un giocare a carte scoperte… forse per arrivare al quarto stato, quello del popolo. Per tutti e con tutti…..
Il non detto, il sommerso, ciò che è nascosto volutamente allo sguardo e alle parole sono cose pericolose. Nascondere ciò che non ci piace o che ci piace, ciò che non comprendiamo o viviamo con molta difficoltà e paura significa solo escluderlo temporaneamente, non cancellarlo. E tanto meno superarlo.
Significa creare potenti mine vaganti, che prima o poi ci esploderanno tra le mani. Giocare a carte scoperte vuol dire, in questo caso, provare a non avere paura della verità, della complessità della nostra natura. E provare a dirla. Direi di più, provare a donarla al mondo. Contribuire con ciò che si è, con la propria identità. Collaborare. Insieme. Sentirsi parte importante, tra tante parti. Diversi, ma uniti. Un popolo.

Il desiderio è che tutto questo significativo e delicato ‘lavoro’ porti poi, finalmente, a poter tratteggiare il proprio autoritratto. Con maggiore libertà e precisione umana. Può essere così?
È proprio così, per me. La costruzione di un autoritratto che ci assomigli il più possibile, in cui possiamo riconoscerci. In mezzo a tanti altri autoritratti. Altrettanto veri, anche se diversi dal nostro. Ma anche la consapevolezza che la costruzione di una identità, non univoca e individualista, ma molteplice e aperta all’altro e al diverso, è un processo, un procedimento. In fieri ed evolutivo. Ma soprattutto un processo, che richiede dedizione e capacità di adattamento.
Per questo ho intitolato anche la sezione di cui parli, “Ipotesi per un autoritratto”. Anche un autoritratto è un’ipotesi, non un’immagine definitiva. Dobbiamo sentirci sempre pronti al cambiamento.
Perché se tutto cambia e si trasforma, il nostro autoritratto cambia e si trasforma a sua volta. Infine, questa sezione è dedicata alla poetessa statunitense Anne Sexton, che amo molto.
Ho scelto di riprendere alcuni versi di sue poesie così come sono stati scritti, portarli sulla carta nella loro configurazione originaria e mescolarli ai miei versi. Non per eccesso di autostima, ma perché mi piacerebbe trattenere, cercare di tenere legato a me, qualcosa della poesia e del sentire di Anne Sexton nella costruzione ipotetica del mio autoritratto. Come fosse una parte di me.

Rimane comunque un pensiero a fondamento di queste riflessioni e desideri, dove si può trovare l’amore sopra a tutto, dentro a tutto. È l’energia principale a cui appartenere?
È l’energia vitale, il primo motore del mondo, l’amore. Finchè saremo capaci di riconoscerlo e di accettarlo il mondo non scomparirà. Non scomparirà neanche se al posto delle mani o dei piedi abbiamo delle protesi che ci consentono di camminare e fare le cose per cui siamo nati, neanche se siamo capaci di dialogare con un’intelligenza artificiale. Neanche se al posto di un padre e una madre abbiamo due padri o due madri. Neanche se abbiamo dei figli nati con la fecondazione artificiale. Neanche se dovesse toccarci in sorte di avvertire la necessità di cambiare il nostro sesso biologico. O consentirne più di uno in una sola persona. Così mi autocito: “l’amore resta e resterà, l’amore sa che la forma non è che un antidoto alla paura”.
Ed aggiungo che l’amore è quella forza oltre ogni confine che ci fa cambiare e comprendere

Pagina dopo pagina è tutta una trama di figure sacre e figure ‘pagane’… che significato ed importanza ha questo intreccio?
Hanno tutte la stessa missione, queste figure, sia che siano sacre o che siano pagane. Giunone, Narciso, Amazzone, Androgino, Eva, Maria Maddalena, Vergine Maria.
Anche quelle figure che definisco “fuori formato”: Drag Queen, Ibrido, Gregor Samsa, L’uomo bicenteranrio, Transgender. Figure esemplari che raccontano una storia difficile e spesso incompresa o sommersa, millenaria e attuale, sacra e profana, di diversità e di accettazione della diversità. Figure oltre ogni confine.
La Vergine Maria, per esempio, che non ha messo al mondo un essere umano ma “dato al mondo la forma in forma di ipotesi spinta di preghiera inaudita di ricerca inesausta oltre la norma”. Dovremmo sempre tenerlo a mente il dono di cui è stata capace.
Oppure Androgino, metafora della possibilità dell’unione degli opposti, anticamente ritenuto l’immagine stessa di Dio, ma poi scisso in due parti, proprio perché troppo simile a Dio.
E che è per me un’immagine bellissima di esercizio di libertà. Anche il divino ci appartiene. Anche il divino è una parte di noi. Anche questo dovremmo cercare di non dimenticarlo.

 

L’autrice:
Lella De Marchi (Pesaro, 1970) è poeta autrice performer. Laureata in Lettere Moderne a Bologna ha poi seguito corsi di scrittura creativa e sceneggiatura (con Andrea Camilleri, Tonino Guerra, Ugo Pirro, Vincenzo Mollica), laboratori di lettura espressiva ad alta voce e teatro. È diplomata al CET di Mogol come autrice di testi per canzoni.
Ha pubblicato i libri di poesia “La spugna” (Raffaelli, 2010), “Stati d’amnesia” (Lietocolle, 2013), “Paesaggio con ossa” (Arcipelago Itaca, 2017) ed un libro di racconti brevi “Tutte le cose sono uno” (Prospettiva, 2015). Suoi testi sono compresi in blog, antologie e riviste di poesia contemporanea. Unisce alla scrittura un’intensa attività performativa, partecipando a reading, poetry slam, festival in tutto il territorio nazionale e realizzando azioni poetico-musicali in collaborazione con altri artisti.

(Lella De Marchi “Ipotesi per una bambina cyborg” pp. 60, 15 euro, Transeuropa 2021)

 

 

 

 

Immagini        ———————————-

Teia

Otto dipinti

di Milena Sgambato

 

 

 

 

Tempo presente          ———————————

Řád věcí, L’ordine delle cose

Sei poesie in italiano

di Lenka Kuhar Daňhelová

Věrná

Bolest, již jsem si tolikrát
jen představovala,
je tady.
Věrná jak psi,
nedá mi nadechnout,
nedá mi slovo pronést,
pořád je bodavě a těžce tu.
Líže mi bradu, když
probírám se ze sna,
k večeru v nohách se mi
ukládá…
Usínám,
těžknu jí,
vstávám
zcela jí vyplněná,
tou věrnou…

Když nepřijmu ji,
nebude moci
nikdy odejít.

Fedele

Il dolore che spesso
ho solo immaginato,
ora è qui.
Fedele come i cani
mi impedisce di respirare
mi impedisce di pronunciar parola,
c’è sempre, pesante e pungente.
Mi lecca il mento
al risveglio da un sogno
sulle gambe la sera
si acquatta…
Mi addormento
mi pesa addosso
mi sveglio,
completamente piena
di quel fedele…

Se non l’accetto
non avrò più
dove andare.

*

O život

Bylas tak ztuhlá uvnitř svého těla
tak uzamčená sama v sobě,
že už bys neucítila,
kdybych se k tobě přitulila.
A tak jsme předstíraly obě,
že „vzchop se“ a „bojuj“
je vhodnější a účinnější.
Hrály jsme tu hru
vždy do dalšího pádu.
A pak zas znova.
Nepřestat hrát.
O život.
Stále dál od něj.

Sempre più lontano

Eri così ostinata dentro il tuo corpo,
chiusa in te stessa,
che nemmeno se mi fossi stretta a te
m’avresti ormai sentita.
E dunque fingevamo entrambe
che “coraggio” e “lotta”
fossero più adatti ed efficaci.
Giocavamo a questo gioco
fino alla seguente caduta.
E poi di nuovo.
Mai smettere di giocare.
Alla vita.
Sempre più lontano da lei.

*

Řád věcí

Jsou ti tak čtyři pět let
a tvůj otec tě právě posadil
na rozpálená kamna.
Před koupelí, nahou.
Omlouváš jeho roztržitost
a vysvětluješ úlekem jeho
nadávky a rány
za to, že křičíš bolestí.
Nevíš, co bolí víc.
A napořád si asi
budeš myslet,
že ten, koho nejvíc miluješ,
ti nevyhnutelně
vždy
musí ubližovat.
Že takový je
řád věcí tvých.

L’ordine delle cose

Hai quattro, cinque anni
e tuo padre ti ha appena fatta sedere
sulla stufa rovente.
Prima del bagno, nuda.
Perdoni la sua distrazione
e incolpi lo spavento
se ti sgrida e ti picchia
per le tue urla di dolore.
Non sai cosa fa più male.
E in eterno, forse,
penserai,
che colui che più ami
ti debba sempre
inevitabilmente,
ferire.
Che questo è il tuo ordine
delle cose.

*

Obraz

Zůstal po tobě obraz,
kopie přístavu od Izáka Levitana,
kterou jste malovali spolu, první
a vážný důkaz nemožnosti sejít se
v místě a čase;
každý jste začal na své straně,
a přestože jste vše
pečlivě předkreslili,
i tak jste se uprostřed
nesešli.
Zůstal ti obraz,
na tíživou památku.
Vždycky jsi k němu
seděla otočená zády.
A nikdy jsi ho ze zdi
nesundala.

Quadro

È rimasto un tuo quadro,
una copia del porto di Izak Levitan
che avevate dipinto insieme, prima
e seria testimonianza dell’impossibilità di incontrarsi
in un luogo e in un tempo;
lo iniziaste ognuno da un lato
e nonostante aveste tracciato
già tutto con cura
comunque non vi incontraste
al centro.
Ti rimase il quadro
come pesante memoria.
Seduta, gli davi sempre le spalle,
ma mai lo staccasti
dal muro.

*

Vytrácení podoby

Vidím tě ve všech tvých
podobách a pohybech
zároveň, všechna
léta a pocity
zrcadlí se ti ve tváři
naráz.
To těkání zachytí
jen šmouha,
a v té je vše.

Vidím tě, jaká jsi
nikdy nebyla, neboť
obvykle dokážeme
vnímat jen teď a
tady; zbytek je jenom
zkreslování, touha vidět
své.

A přece,
skutečnější než nyní
jsi nikdy nebyla. Vidím
tě poprvé i se svou
láskou k tobě,
poprvé skrze ni
vidím tě jasně.

Forme perdute

Contemporaneamente,
in tutte le tue forme e gesti
ti vedo, tutti
gli anni e i sentimenti
si specchiano di colpo,
sul tuo viso.
Quella svagatezza cattura
solo la macchia
e in quella
è tutto.

Ti vedo come
non sei stata mai, perché
spesso riusciamo
a percepire solo il qui
e ora; il resto è solo
una distorsione, il desiderio di vedere
ciò che vogliamo.

Eppure
più vera di ora
non sei mai stata. Ti vedo
per la prima volta, anche con questo mio
amore per te, per la prima volta
attraverso di esso
ti vedo chiaramente.

*

Rodinný strom

Nesu tvůj strach,
znám ho,
ze všech sil snažím se
přerušit řetěz
ve strašném
úděsu z toho,
že se přetrhne.
Znám tvoji úzkost.
Každý den
hledám způsob,
jak s ní žít.

Albero di famiglia

Porto dentro la tua paura,
la conosco,
con tutta me stessa mi sforzo
di interrompere la catena
nel terrore
che si spezzi.
Conosco la tua angoscia.
Ogni giorno
cerco il modo
di conviverci.

(Le traduzioni dei testi in italiano sono a cura di Laura Angeloni.)

 

L’autrice:
Lenka Kuhar Daňhelová è nata nel 1973 a Krnov in Repubblica Ceca
È poeta, scrittrice, traduttrice e organizza eventi e progetti culturali. Ad oggi ha pubblicato quattro raccolte di poesie e un romanzo.
Dal 2004 collabora con la rivista letteraria Pobocza. Ha anche tradotto in ceco poesie polacche, slovene, francesi, italiane e slovacche. È stata l’editor culturale per la rivista Navýchod.
Ha partecipato a diversi festival letterari internazionali e incontri in vari paesi.
Vive a Beroun, vicino a Praga, dove organizza con suo marito Peter Kuhar il festival letterario internazionale “Stranou/Aside: European Poets Live”.
Nel 2013 l’Ambasciata slovena l’ha premiata per i suoi servizi alla cultura slovena, consegnandole il premio Lirikonov Zlát (2013), assegnato per le migliori traduzioni dallo sloveno ad altre lingue.
Nel 2018 ha ricevuto con il marito Peter Kuhar il premio internazionale “Pretnar” con il titolo onorifico di “ambasciatrice della letteratura e della lingua slovena e delle culture slave“.

La foto di apertura di Lenka Kuhar Daňhelová è di Simona Martínková Racková (particolare)

 

 

 

 

Immagini        ———————————-

Viviamo giorni strani

Otto dipinti

di Milena Sgambato

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————–

Restare nell’impossibilità

Michele Toniolo, “Passaggio sul Rodano”

di Roberto Lamantea

 

Un battello sul Rodano, verso la Camargue, è l’immagine in filigrana di “Passaggio sul Rodano” di Michele Toniolo, fresco di stampa da Galaad che ha pubblicato nella collana “Lilliput” tutti i brevi racconti dello scrittore ed editore di Mestre.
Nel “Passaggio sul Rodano” (in copertina Il ponte di Trinquetaille,1888, di Van Gogh) Toniolo raccoglie otto testi, cinque dei quali ripropongono, senza variazioni, i libretti galaadiani “Alcune parole per Alice” (2011), “La narrazione originaria” (2014), “La solitudine dell’immaginazione” (2016), “La tentazione di Bonhoeffer” (2018), che oltre al testo eponimo comprende “La codardia e il silenzio”, “Ciottoli d’ombra tra i cipressi”, “Tentativo di esorcizzare una storia con un’altra”, scritti nell’arco di una decina d’anni. Chiude una postfazione di Arnaldo Colasanti, “Scatti nel vento che s’acquieta”, un vero e proprio saggio che analizza le novelle una per una, oltre a offrire una lettura generale dello stile di Michele Toniolo.
Va detto subito: la scrittura di Toniolo è difficile. A volte inanella sillogismi, percorsi logici che intrecciano filosofia del linguaggio e teologia in paesaggi, anche figurativi, e ossessioni tematiche e linguistiche che negli anni ‘70 avrebbero fatto impazzire di gioia gli studiosi di letteratura che si richiamavano allo strutturalismo psicanalitico. Ma l’”oscurità” del testo, invece di allontanarlo, cattura il lettore.
La narrativa di Toniolo è un labirinto di spine, “nodi”, per citare R.D. Laing, grovigli intrapsichici e interpersonali. A volte è l’enigma: “La casa che ho abitato ha ancora le radici del salice strappate, sollevate sopra la terra dal mattino del mio naufragio”; “Un bambino, che un tempo era mio figlio, si mostra tra le maglie stese e mi sorride”; “Poco più in là della riva, scompare anche la ruggine del traghetto che mi ha affondato”.
La lettura rivela segnali, i nodi del labirinto – personaggi, storie, temi – si sciolgono qui e là, lasciando intuire possibili passaggi e vie di fuga anche prospettiche. Michele Toniolo indica la soluzione di un enigma ma subito la scarta: oltre c’è sempre qualcos’altro, fino all’agnizione finale.
Il primo possibile riferimento stilistico è il sogno, o l’allucinazione: i testi sono scritti in prima persona, il tempo è il presente, la logica del racconto si frantuma in specchi che si riflettono l’un l’altro. Ma Colasanti avverte: è una falsa pista, e suggerisce una soluzione: la narrazione di Toniolo non è uno spazio onirico ma uno schermo con luci intermittenti: “Con una sottolineatura: l’anteriorità, il senso di lontananza e quello delle linee di fuga nel pozzo, che appartengono alla visione dello schermo, vengono visti e raccontati secondo un principio di ripetizione che consente di congetturare in che misura quelle luci siano l’ossessivo ritorno del rimosso e cioè il peso di un’azione che è tale ma solo se intesa come ripetizione dell’identico”.
“Fuori dalla fresca profondità” è pervaso dalla pioggia (pioggia, autunno, cielo gonfio e nero, la foresta ritornano anche in “Alice”, in “Tentativo”…), il traghetto ha avuto un incidente, le case sono spettrali, la riva del fiume lascia trasparire fantasmi.
La morte del figlio, la morte del padre, un altro figlio, forse un fratello non nato, il suicidio della moglie sono gli scenari delle trame. Alice (unico nome femminile nella narrativa di Toniolo) piange il figlio morto per ictus. Chiama Dio: le gocce di pioggia sono i chiodi della croce. Alice riempie di appunti dei quaderni, parla di “delitto”, a leggerli è l’io che racconta e con lei s’interroga. Alice capisce che lei è il prossimo di suo figlio, che il figlio sulla croce è il più grande dono d’amore: “L’amore, nella morte, è solo di chi muore, di chi lascia che tu lotti con un corpo, anche se non può far altro, chi muore, anche se la sua lotta è finita e la sua azione è passiva, come nel pudore”.
Scrive Colasanti: “Nel leggere “Alcune parole per Alice”, occorre avere i nervi saldi, perché i polsi non smettono di tremare”; “È un racconto di eccezionale potenza. La scrittura risulta incapace di perdere persino il filo di un capello senza trattenere il senso delle cose. Anzi, la rastremata, ossessiva, fiduciosa ricerca del senso è la vera qualità di Michele Toniolo”.

L’immagine migliore per “Alcune parole per Alice” è la Pietà di Michelangelo. O la Madonna ai piedi della Croce nel “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini.
“La narrazione originaria”: un altro addio a un figlio. Anche qui la prospettiva si rovescia: “Mio figlio è diventato mio padre”.
Ero vissuto per tutto il tempo nella zona dolente della sua malattia; le parole di mio figlio mi hanno fatto entrare. Ogni ferita, anche quando la si apre, conserva una noce di buio e in questa noce, che è il cuore della ferita, non c’è dolore. O almeno il dolore non conta. Le parole di mio figlio sono uscite da quel cuore e lo hanno fatto diventare, per me, un luogo nuovo. L’ascolto appartiene alla scrittura, che è espansione del tempo, ma senza scrittura non saprò più ascoltare. Le parole di mio figlio saranno svanite, avranno finito di parlarmi, saranno morte assieme alle mie. È quello che mio figlio ha cercato immergendosi nel fiume. Sentirò in modo nuovo la mia fragilità e la mia forza. È questo il mio ritorno a casa, il luogo d’origine del mio esilio”.
“La narrazione originaria” è tra i racconti anche quello dove Toniolo riflette di più sulla scrittura (nella sezione “Debiti”, in calce al libro, l’autore cita Blanchot, Benjamin, Bonhoeffer).
In “Tentativo di esorcizzare una storia con un’altra” la prosa si fa più fluida e lieve: è (anche) il racconto di un viaggio in Germania: Tubinga, la città di Hölderlin, Francoforte alla Fiera del libro, Darmstadt, Stoccarda. Il disegno delle cose: il colore del cielo, l’odore dell’aria e della terra, le luci, i silenzi, anche la gioia di un tè e una torta. Anche qui una tempesta. Ma anche qui irrompe l’assenza: la morte della moglie dell’io narrante: si è uccisa gettandosi nel fiume e prima di farlo si è inviata una lettera. Un altro racconto, “Da quel momento in poi, avremmo combattuto in piccoli gruppi”: anche qui compare Alice, la sorella di chi scrive: sente la presenza di un fratello mai nato.
Incubi, vuoti, assenze-presenze, faglie: non fantasmi. In ogni storia si ripete la tragedia della fede, ogni storia replica il martirio di Cristo, ogni storia ritrova luce quando chi narra sente l’amore alla base di quel martirio.
Colasanti: “Al lettore non resta che una possibilità: ammettere che l’asse della scrittura non sia lo sguardo, il racconto, né la visione, ma soltanto la pietà”. E altrove: “La grazia di Toniolo è questa: trattenere senza mani l’aria della vita”.
Alla fine il lettore si accorgerà di essere uscito dal labirinto, e di avere una nuova luce.

Intervista a Michele Toniolo:

Nei tuoi racconti, la narrazione procede per schegge, labirinti, spirali logiche, le storie si dipanano a frammenti, affiorano domande angosciose, la tessitura narrativa è vicina all’allucinazione, eppure c’è sempre quella che Arnaldo Colasanti nella postfazione chiama «la grazia»: «la poesia, la favola, lo sguardo mite e paziente». “La narrazione originaria” è anche una riflessione sulla scrittura, sulla letteratura (e i tuoi “debiti” sono dichiarati: Blanchot, Benjamin, Bonhoeffer, il racconto biblico). Dici: “Scrivere è allontanarsi”; “scrivo per smarrimenti”. Che cos’è per te la scrittura?
È il lavoro continuo tra la parola che nasce in te, e vuole imporsi, e la tua sensibilità. E prima di qualunque parola scritta, c’è il silenzio, l’attesa, la spogliazione; solo poi vengono l’accoglienza e la trasformazione. Su questo ho scritto un saggio: “La solitudine dell’immaginazione” (Galaad Edizioni).
Ogni scrittura autentica è una riflessione sul narrare; può farlo più o meno apertamente (vedi ad esempio: “La ripetizione” di Peter Handke o “Musica per camaleonti” di Truman Capote), ma deve farlo; il rischio è essere altro, non scrittura. Non parto da una forma già decisa, né da un genere, ma da un accadimento o da una sensazione (anche se immaginari, in me sono reali), che crescono e diventano parola, e a volte, se io riesco a stare nella visione, approdano a un testo compiuto. In un tale percorso, la parola non scorre mai tranquilla tra i fatti, i sentimenti, le persone; interroga: è per questo che è entrata nel mondo, per chiedere di essere, di compiersi, e l’aiuto lo chiede a te, e tu devi darglielo: devi esserne degno, devi stare in ascolto. Scrivere è un modo di essere nella vita, accoglie ogni piccolo avvenimento non perché diventi racconto, ma perché cresca in te e poi, se lo vorrà, diventi parola e narrazione, ti aiuti a diventare una persona nuova. Lo stesso si può dire per la lettura. Diderot su Richardson: “Alla fine della lettura delle tue pagine, mi sentivo come un uomo al termine di una giornata che abbia tutta spesa a fare del bene”.

In tutti i racconti c’è un tema-spettro, una filigrana: la morte. La morte del figlio, del padre, della sorella, della moglie. C’è quello che Alice, in “Alcune parole per Alice”, chiama delitto. C’è l’impossibilità, la fragilità dell’umano rispetto al divino. Ma c’è sempre la luce, che arriva quando viene rovesciata la prospettiva. Quanto è importante per te la riflessione teologica? Anche la fede cattolica, in te, non è una tranquilla rivelazione, ma un continuo, a volte labirintico, interrogarsi. Sei d’accordo?
A me sembra di raccontare la vita, non la morte; la vita negli accadimenti fondamentali che la rivelano come dono; devi abbracciare questa rivelazione, che non è mai “tranquilla”.
Per riprendere la tua immagine: essa ti impone un labirinto. Uno scrittore ha fede nelle parole, nella capacità di metamorfosi del linguaggio; deve cercare: non una storia da raccontare ad altri, ma una risposta per sé.
Anche se non è credente, non può evitare le domande essenziali. Uno scrittore deve cercare risposte, non può restare solo nelle domande.

Alice è il nome che ricorre nei tuoi racconti: è un caso, una fascinazione fonetica, un simbolo?
È solo il nome di una persona ricorrente nei racconti di “Passaggio sul Rodano”; Alice è raccontata in vari momenti della sua vita, anche lì dove non le sia dato il nome: da madre, sorella, figlia , moglie.

 

L’autore:
Michele Toniolo è nato a Mestre, dove vive, nel 1962.
Editore, nel 1999 ha fondato la casa editrice Amos Edizioni, che pubblica poesia, narrativa italiana e straniera, saggistica letteraria.
Oltre ad “Alcune parole per Alice” (2011), “La narrazione originaria” (2014), “La solitudine dell’immaginazione” (2016), “La tentazione di Bonhoeffer” (2018), editi tutti da Galaad, Toniolo ha pubblicato il racconto “Stralci di una relazione contraddittoria sulla solitudine” nell’antologia “Un cono nello spazio. Dieci racconti dal gusto galattico” (Duende 2016), e la postfazione alla traduzione di Ada Prospero della “Tempesta di neve” di Tolstoj (Galaad 2018), che è un vero e proprio racconto.

(“Michele Toniolo, Passaggio sul Rodano” pp. 128, euro 13, Galaad 2021)

 

 

 

 

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Otto dipinti

di Milena Sgambato

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ——————————

Sogni e ricordi sono la stessa cosa

Il mito ritrovato di Umberto Piersanti

di Roberto Lamantea

 

Chiacchierando con Montale, Maria Luisa Spaziani si stupì che l’autore di un verso come “Alte tremano guglie di sambuchi” non sapesse riconoscere il fiore del sambuco. “La poesia si fa con le parole” le replicò il poeta ligure. Ezio Settembri riporta l’aneddoto nel libro che il critico dedica a Umberto Piersanti, “Il mito ritrovato. La poesia di Umberto Piersanti”, fresco di stampa per una nuova casa editrice di Massa, I&L industria&letteratura.
L’aneddoto è perfetto perché Piersanti, figlio della terra, dei boschi, delle sue Marche, la natura la conosce benissimo e, pascolianamente, la nomina. C’è tutto un vocabolario nella poesia di Piersanti, che affonda le radici nell’infanzia del poeta urbinate, così legata alla storia contadina, perfino all’immaginario delle leggende popolari, che le parole del dialetto marchigiano diventano, nei suoi versi, gemme di luce.
Non possono essere tradotte, la vita non può essere detta in altro modo: non c’è parafrasi, non c’è sinonimo, nel suo multilinguismo, locuzioni dialettali si declinano in contesti eletti e rinascimentali. Il paesaggio, la natura, i fiori, gli alberi, gli animali, sono vivi: sono vivi i ruscelli, le rogge, i greppi; è vivo il verso di una civetta, il volo di un falco.
Attraverso Leopardi e Pascoli – le due voci i cui timbri attraversano tutta l’opera piersantiana – Umberto disegna una visione del mondo. Visione anche politica: nato nel 1941, Piersanti entrò subito in rotta di collisione con le neoavanguardie degli anni ‘60 (leggi Gruppo 63), che condannavano la poesia sulla natura come “vecchia”, rispetto a un mondo dominato dalla tecnica che richiedeva un nuovo linguaggio anche in letteratura. Fu subito scontro: da un lato una letteratura dell’ideologia; dall’altro la tradizione lirica attraversata da tutte le tensioni del Novecento, storia compresa.
Autore di 11 titoli di poesia – l’ultimo, bellissimo, “Campi d’ostinato” amore, pubblicato quest’anno da La nave di Teseo – e di 4 romanzi, di cui “Cupo tempo gentile”, esemplare della poetica piersantiana, è ambientato in un ‘68 di cui Andrea, lo studente protagonista del libro, condivide la contestazione di vecchi valori ammuffiti ma condanna con forza la violenza che avrebbe portato agli anni di piombo. Ezio Settembri attraversa il lavoro di Piersanti poeta rivelandone le tensioni linguistiche, etiche ed esistenziali, dal debutto con “La breve stagione” (1967) ai tre titoli nella “bianca” Einaudi – “I luoghi persi” (1994), “Nel tempo che precede” (2002), “L’albero delle nebbie” (2008) – fino all’ultimo che, alla composizione della ricerca, era ancora in bozze.

Sul piano stilistico Settembri dimostra le matrici e le derivazioni della poesia dell’urbinate da Leopardi e Pascoli alle grandi voci del Novecento della poesia di natura e del canto della civiltà contadina, da Pasolini, Luzi, Bertolucci fino a Zanzotto letto attraverso Virgilio (Bucoliche e Georgiche via Leopardi); l’amore dal D’Annunzio dell’Alcyone a Lorca e Neruda, non l’amore degli stilnovisti ma la sensualità, sempre fedele allo stile classico, all’endecasillabo anche spezzato in più versi. Fino alle liriche struggenti, tra le più belle della lirica italiana dei nostri anni, che Piersanti ha dedicato al figlio Jacopo, affetto da autismo.
Attraversando tutta l’opera del poeta delle Cesane – le colline attorno a Urbino – Ezio Settembri evidenza i nuclei che ne caratterizzano la poesia. “Già nel 1967 troviamo quasi tutti i nuclei tematici che interessano l’intera opera: il mito personale dell’infanzia-adolescenza (“Vibrò d’amore/ l’adolescenza”, “Era la sera tiepida d’estate/ nel tempo perduto d’adolescenza…”) e della famiglia; la mitopoiesi della natura e dell’eros panico […]; la costante nominazione floreale, di derivazione pascoliana; la contemplazione del paesaggio appenninico; il bisogno di un altrove memoriale e mitico”, fino al paesaggio di Urbino e delle Marche, che Settembri, forte di numerosi testi critici, accosta alla grande pittura del Cinquecento: “Possiamo immaginare un Piersanti senza il ‘68, non possiamo invece immaginarlo senza Urbino, le colline, le piazze e le case della sua città”, scrive Carlo Bo nella prefazione a “Nascere nel ‘40”.
Natura e memoria poli della poesia di Umberto Piersanti. “La mia poesia è una poesia della memoria. Dunque io sono “ferocemente” legato all’ultimo mondo contadino. […] Io sono nato in un’epoca in cui ad Urbino arrivavano ancora i carri d’uva, e c’erano tutte le vespe che li seguivano. E questo spettacolo è più vicino al 1200 che al 1995. […] Personalmente non credo che il mondo contadino sia più bello del nostro, ma è irrimediabilmente “altro”. E tutto ciò che scompare ci lascia un vuoto immane. […] Io ho una frase che ripeto ossessivamente nei miei film, in un romanzo e nella poesia: “una volta passati sogni e ricordi sono la stessa cosa”. E allora a furia di ricercare il mondo contadino trovo l’altrove, il mio altrove”.
È un passaggio della conversazione con Piersanti in un libro collettivo del 1999. Il mondo contadino di Piersanti non è, comunque, quello cantato e poi abiurato da Pasolini, è più vicino alla narrazione lirica di Attilio Bertolucci o al film “Novecento” del figlio Bernardo (vedi la sequenza della trebbiatura) e non è l’Arcadia.
Un altro elemento costante nei versi di Piersanti, strettamente legato al mondo contadino della sua infanzia, sono le fiabe e le leggende della tradizione popolare. “Io non avevo mai capito/ da dove l’anima viene tra gli spini/ ma l’anima è piccola, fatta d’aria,/ passa tra gli spini e non si graffia” (da “I luoghi persi”): “Il risvolto dionisiaco del mondo classico, apollineo di Piersanti non proviene da una formazione letteraria fiabesca, ma attinge direttamente ai racconti e alle leggende contadine che lo affascinano fin dall’infanzia”, precisa Settembri. Le Cesane, aggiunge lo studioso, “sono popolate da personaggi fantastici, come la fata-farfalla Morgana, lo sprovinglo (il diavolo contadino delle Cesane), folletti e streghe, e da Madre Natura, selvaggia e tenera”.
Fondamentale nella poesia di Piersanti è l’erbario: a proposito di “Nel tempo che precede” (Einaudi 2002), scrive Settembri: “Le due sezioni omologhe delle due raccolte (Cespi e fiori; Cespi, fiori e animali) offrono al lettore un erbario assolutamente insolito nella poesia contemporanea, un erbario la cui precisa nomenclatura botanica ricorda le Myricae di Pascoli. […] Pascoli e Leopardi rimangono i riferimenti irrinunciabili di Piersanti, soprattutto per la funzione del ricordo, la forza evocativa del passato, senza il quale non c’è poesia. Assolutamente pascoliano è il guardare la natura come fosse la prima volta, inventando storie su fiori e animali, come il fanciullino che dà nome ad ogni cosa”.

Tra i nomi che ricorrono in tutta la poesia del poeta marchigiano gli scotani e i favagelli, e i loro colori giallo-arancio o rosso capaci di attraversare la nebbia. Pascoliano è un altro tema piersantiano, il Natale, non come ricorrenza religiosa, ma come intimità, casa-nido, ed è ancora la luce dell’infanzia (del resto è di Pascoli la poesia più struggente sul Natale, una delle poesie forse più belle della letteratura italiana, “Le ciaramelle”).
Ma, nota l’autore, la natura di Piersanti è spesso colta non nel suo lussureggiare primaverile ed estivo, ma d’autunno e d’inverno. L’esempio perfetto è “L’albero delle nebbie”, il libro einaudiano del 2008: “Se dovessimo individuare la caratteristica che differenzia questo libro dagli altri, diremmo che è nel prevalere dell’elemento pittorico più che quello narrativo/descrittivo. Non si tratta tanto di un disegno sfumato, quanto di un procedere per macchie di colore”.
È il critico che forse più di altri è lettore fedele e appassionato della lirica di Piersanti, Roberto Galaverni, “a far notare i bianchi e gli azzurri degli inverni della prima sezione, i “verdi e bruni autunnali”, e ancora i gialli, gli arancioni e il rosso dell’ultima, così come rosso è lo scotano, l’albero che dà il titolo al libro, metafora del tenace radicamento del poeta al proprio mondo”.
Sui colori dell’autunno nella poesia di Piersanti, nel capitolo dedicato a “Nel folto dei sentieri”, la raccolta edita da Marcos y Marcos nel 2015, l’ultima prima di Campi d’ostinato amore, Ezio Settembri dedica pagine appassionate, citando il bellissimo libro che a quella stagione magica ha dedicato Duccio Demetrio, “Foliage. Vagabondare in autunno” (Raffaello Cortina, 2018): “L’autunno come stagione e metafora del divenire, l’autunnità simbolo del desiderio di non smettere di vagabondare, che in realtà contraddistinguerebbe tutta la nostra esistenza. L’autunno come quinta stagione, emancipata dai cicli stagionali, continuum esistenziale e malinconia che offre autentici stati di grazia”.
Primo tentativo organico di lettura complessiva della poesia di Umberto Piersanti, “Il mito ritrovato” è più di un’analisi critica, è una invitation au voyage che, senza tacere i lati deboli della produzione dell’urbinate – come “L’urlo della mente” (1977) – ne definisce stile, scrittura, storia e sguardo.

 

L’autore:
Ezio Settembri (Macerata 1981) ha studiato Lettere moderne a Macerata, laureandosi nel 2007 con una tesi sul pittore fiorentino Ottone Rosai.
Dal 2009 è docente nella scuola secondaria. Ha pubblicato poesie e studi sulle arti figurative su varie riviste; suoi brevi studi sui poeti contemporanei sono apparsi sulla rivista Menabò.
Dal 2019 fa parte della redazione della rivista online Nuova Ciminiera, sulla quale sono apparse delle brevi ricognizioni sulla poesia di Sereni, Benzoni, Pasolini, Scarabicchi. Vive e insegna in provincia di Mantova.

(“Ezio Settembri, Il mito ritrovato. La poesia di Umberto Piersanti” pp. 164, 18 euro, I&L industria e letteratura 2021)

ww.industriaeletteratura.it

 

 

 

 

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Otto dipinti

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Voce d’autore       ————————

Un fiammifero acceso impazzisce

Stefania Licciardello, “Il libro dei bisogni”

di Giovanni Fierro

 

Fa molto piacere incontrare la poesia di Stefania Licciardello. Perché c’è la possibilità di trovare una scrittura che vive del necessario, senza rinunciare però ad uscire dal ‘controllo’, capace di continue invenzioni. Che sempre più diventano il motore di questo suo “Il libro dei bisogni”.
E in queste pagine c’è proprio il bisogno di uscire dall’ordinario, dal già codificato e da ogni riparo possibile.
Stefania Licciardello affida al suo estro poetico la possibilità di mettere in corto circuito anche le certezze più consolidate, si affida allo smuovere le abitudini che da troppo tempo ci confinano; “Non torno/ non torno donna/ non torno uomo./ Penelope si mise in viaggio”. Bisogna ribaltare tutto.
E in questo caleidoscopio ricco ed intrigante, l’autrice riesce a porre l’attenzione sulla potenza dello scrivere, la poesia come energia immaginifica, atto assoluto che tutto ricompone nel suo tempo più preciso.
Perché “accadono continuamente cose// scelgo quale alleare,/ traduco e sto lì”. Ma è uno stare complice, mai lontano e sempre al centro di ogni accadere, anche in quei paesaggi che sono protagonisti, dove “passa una mano la sera/ betulle di dita a prendere il segno di quello che dico/ a più livelli di lettura fino alla cima dei pioppi delle betulle”.
E sono paesaggi che dicono di come si è, sono racconto del proprio essere, perché c’è la possibilità di diventare un tutt’uno con ciò che si guarda, per imparare così ad essere se stessi, quando “ho gli occhi blu a furia di guardare il mare”.
Sorprende la poesia di Stefania Licciardello, perché è sempre e comunque accensione, strofinio di immagini, attrito di significati, con il talento di una scrittura nitida, che non si attorciglia mai; è capace di trovare il proprio respiro e di condividerlo con ciò di cui si sta scrivendo.
Ho una contentezza che è degli uccelli che volano e di quelli che non volano”, per dire di come una notazione minima può portare nel suo nocciolo anche il perché di una esistenza: “È talmente bello vivere/ che per forza/ è bello morire/ ma ne so così poco”.
E in mezzo a questo testimoniare c’è il tempo essenziale dove trovare l’estro per dare colore e senso al decidere che nel “campo disfatto/ i papaveri sono più belli del grano” e ricordare che “un anno fa mi è capitato di essere cane/ sono stata anche una finestra/ in una storia minore”. La bella poesia sa far girare la testa.
“Il libro dei bisogni” è una poesia che si muove fra l’impulso di andare e il desiderio di rimanere. Con il piacere di tornare. Se si può.
Cercando sempre di trovare il proprio spazio, sempre fuori dal destino, dove “I tempi non sono maturi/ non c’è meta/ non è bello il miraggio?”.

 

 

Dal libro:

Dissipa e splende

Tra me e te un subacqueo chiarore
un fraseggio inesperto un sorriso pecora
sul piano puramente umano
puramente tendini dolgono per la furia d’amare
il tuo occhio brilla l’immaginazione,
una donna seduta a sgabello non cade
non cade la pioggia di ragioni e tu riesci a vedermi
turbata
oltre ogni paradiso si accende il fuoco
amore permettendo.

E non ho idea ma non posso fare a meno di credere e scrivere
e brucio in una provocazione acuminata.
Quando tutto sarà finito non sarà finito.

*

Le parole negli occhi

Lusingare il cielo in applausi
che cada cometa
frammenti per la parola data.

In un crollo scrivere
in un ciglio sta la preghiera
contro ogni sorte.

Sono frutti di mare gli occhi
scrivere sempre.

*

Piantata

Piantata la zolla
la abbracciò per le caviglie
dondolò betulla
decisa commovente.
Capitò un mattino
il mare si trasferì in un soffio
risalì i fiumi
sulla terra dubitò.
Rannicchiò le gambe
abbandonò la testa
rannicchiò la testa
abbandonò le gambe.
Pensieri scampanano
il fieno è alto alle narici
dà alla testa
dà alle gambe.

*

Bestiale

Che bel giorno che sei, le disse
arrangiandosi davanti ai suoi azzurri
un fiammifero acceso impazzisce
la coda apre i capelli dietro
e l’aria nitrisce.

*

In salute e in malattia

Entro al bar e non sono ferita
tutta questa luce
il mare mi cola dagli occhi
brillo di sole e ali di mosche
bacio cogli occhi aperti come in nessun film
naso naso
siamo bambini nel gioco del silenzio
alla prima risata
la luce fulva il cane giallo, sta bene.
È talmente bello vivere
che per forza
è bello morire
ma ne so così poco.

 

Intervista a Stefania Licciardello:

Prima di tutto, il teatro…
Sono Neon, gruppo di teatro fondato da Piero Ristagno e Monica Felloni nel 1989, dal 2003.

“Il libro dei sogni” è stato pubblicato in piena pandemia. Cosa ha significato?
Questa intervista arriva proprio un anno dopo la sua pubblicazione. “Il libro dei bisogni” è concepito infatti in piena censura, in quei giorni in cui il teatro era messo al bando.
La poesia lo bandisce e lo proclama eroe, martire, come Giordano Bruno dello spettacolo CIATU andato in scena pochi giorni fa coi corpi di Neon Teatro, e di quelli che lo hanno guardato.
Sono degli appunti, una fusione di orizzonti, l’essere già in divenire multiplo. Un mare che erode gli scogli li annega e lascia dei segni.
Mentre percorriamo il periplo delle azioni quotidiane, niente è uguale, niente è naturale, è solo che siamo più o meno sensibili a tutto il contesto, anche se non lo registriamo, accadono fatti, la poesia per quello che ne so fa esperienza profonda, è una scienza, la più inclusiva.
Non si può parlare del mare senza dire dei pesci, ma anche delle chiglie delle navi, del rombo del temporale. La Sicilia poi è una terra particolarmente rumorosa, il silenzio fa boati, la terra trema. Può non influenzare?

E a tenere tutto questo assieme, a metterlo in contatto e in relazione, ci pensa la scrittura. Non a caso ho l’impressione che “Il libro dei bisogni” parli anche dello scrivere poesia….
La poesia è qualcosa che avviene in presenza, la parola ha bisogno del corpo come la sabbia, ha bisogno del corpo e poi la trovi dappertutto, ed è corpo anch’esso.
Il flusso ininterrotto della parola incontra il corpo e non è mai innocuo incontro, una frontiera sbriciola un’altra, è innesto, così succede che quella figurazione è epica

Penso che tutto nasca anche dall’attrito, positivo e vitale, tra i testi in cui protagonista è il mare e quelli in cui protagonista è la terra, con anche tutti i suoi rimandi contadini. Ti ritrovi in questo?
Sì, c’è il mare e i campi di grano e soprattutto tanta polvere che ci fa colossi, ciclopi, ci sono cani domestici cui attribuiamo stati mentali incommensurabili a prova di tenerezza che è una divinità.

Mi hanno colpito anche i vari riferimenti al cinema, alla vecchia Hollywood… in che modo quell’arte ha influenzato e nutrito le poesie di questo libro?
Come nel cinema l’impressione è una presa diretta, ma più volte il presente torna indietro per dei dettagli che vanno illuminati, anche lo splendore trema.

 

L’autrice:
Stefania Licciardello vive a Catania.
Ha pubblicato “Libro di campo” (2017) e “Libertinia”, con foto di Eletta Massimino (2019).
Fa parte del gruppo di teatro Neon.

(Stefania Licciardello “Il libro dei bisogni” pp. 42, 10 euro, Nèon edizioni 2020)

 

 

 

 

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On off (serie)

Otto dipinti

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Voce d’autore         —————————

E adesso che serve tenerci per mano?

Anna Leone, “Bocconi di vento”

di Giovanni Fierro

 

Bocconi di vento” è un libro il cui epicentro è la scrittura. Atto da cui partire ma anche pensiero da difendere, gesto a cui appartenere e riflessione con cui confrontarsi.
Anna Leone in queste sue pagine ci racconta del suo continuo vivere ed esplorare, dove lo scrivere poesia le permette di dire che “C’è più morte negli spazi lasciati, che nel tempo perduto”, perché forse qualcosa si può sbagliare ma l’assenza di un vuoto è il non ritorno definitivo.
Un luogo anche emotivo, dove “estinguere tanta notte,/ su così poco bianco”, dovendo sempre e comunque andare a capo.
Il libro è sempre pronto “a smarrire gli occhi,/ nel flusso d’ombre alla deriva/ mentre docile l’alba temporeggia”, perché vive di questa tensione, che innerva ogni pagina e che dà ad ogni singola poesia il suo primo respiro.
Anna Leone si muove in questo presente che tutto contiene, tanto il ricordo quanto la memoria, con il desiderio di un futuro tempo migliore e il dramma che lo può annegare; con la forza di sottolineare che “se ricordare è l’istinto/ vivere è l’usura”.
Questa frase è un ulteriore centro a cui appartenere, una verità con cui fare i conti, ma anche la necessità di sapere da cosa e da chi proveniamo.
E per mettere a fuoco il tutto, è sempre la scrittura a venirci incontro, a darci un aiuto. Ma solo se prima ci si prepara, perché “poi, l’occhio crea dissolvenze/ spogliando atomi di verità”. Le parole scritte sono pronte a testimoniarlo.
“Bocconi di vento” parla anche dell’amore, nella sua essenza più sincera ed intensa. In ogni sua coniugazione, di quando esalta e di quando fa male. Anche qui non c’è scampo, in un crederci “mai capace di prevedere svolte/ di questo andare improvviso”.
Nel suo sguardo verso gli ultimi, gli invisibili e gli scomparsi, l’autrice mette ancora più evidenza alla sua scrittura, che si fa accoglienza ed abbraccio, virtù rare che sanno molto bene che “solo il vento, ha perenne memoria/ di ciò che disperse”. Anche qui non si può più tornare indietro, perché lo spazio che conteneva quelle presenze si smarrisce ogni giorno di più.
Queste pagine non fanno sconti, sono a conoscenza che siamo il proseguire di un ‘adesso’ che è già accaduto, in cui si poteva ben riconoscere “col tempo, una fame/ che non spezzava il pane”.
Ma il voler raccontare, il non sottrarsi alla responsabilità, l’avere fiducia nella poesia, sono i cardini di un impegno che va ben oltre alla scrittura.
E Anna Leone questo lo sa riconoscere, le appartiene, con questa sua poesia che è un resistere in tempi deboli e fragili, a cui regala la vicinanza più prossima: “Io ti sono, esatta nel nome,/ chiamata nella forma concava di te./ Di me”.

 

 

Dal libro:

Apologia dello spazio

Non solo aspettare gatto e luna
per adagiarli su lessemi
che scottano.

Startene riparato
sotto paradigmi temporali
– ah che bel tempo sei stato
anima mia – mentre avverti
il solo spazio che occupi.

Dillo il sottoscala, il letto a castello,
la cucina, la camera di tua madre,
il piccolo bagno, i cassetti perfino.

C’è più morte negli spazi lasciati,
che nel tempo perduto.

Dillo che vivere
è spazio da contendere o partecipare;
non per nulla, la morte ha spazio inconteso,
tumulato.

Mentre tu vai sul marmo
a rimpiangere il tempo,
che ancora scorre sui morti.

*

Sto

Io sto a questi occhi
che non dormono
come alle mani
che più non cercano,
come alla lingua segreta
del tarlo che non sento,
nella risaputa forma,
non vissuta,
per questi piedi
che toccano il nulla.

*

Destino

Il destino è una carta scoperta
quando più nulla combacia.

È una candela votiva,
su altari della supplica.

Poi una mosca sotto il bicchiere
e siamo noi il destino:
vita trattenuta farsi specchio.

Basterebbe un colpevole silenzio,
per saperci preda, anche noi,
di una mano ben più grande…

A non darci più pace.

*

Preghiera

Stipati sotto lo stesso cielo,
non a tutti è dato toccare terra;
troppi risucchiati sul fondo,
così freddo, così buio,
che un pesce, fuor d’acqua,
forse muore per troppo calore,
troppa luce.

Dio di misericordia, se davvero esisti,
concedi loro, senza disparità,
una lingua di terra, scura quanto vuoi,
ma calda, come coperta rimboccata nella notte,
fino alla fronte smarrita
e sola.

 

 

Intervista ad Anna Leone:

Le prime pagine del libro sono molto intense, a volte un ribollire altre una trama fitta, mi sembra quasi che sia la descrizione del nostro tempo…
La prima parte della raccolta è sotto il titolo “Conversari”; mi piace molto questo termine, perché rispecchia il modo di approcciarmi alla scrittura.
Scrivere io lo intendo un po’ come il conversare, avere di fronte un “Tu” a cui confidare miei pensieri, proprio come si è soliti fare, con un amico che sa ascoltare e ricambiare con sguardo benevolo, in qualche modo essere “con noi”.
Io scrivo, proprio per essere ascoltata, immaginando un lettore attento, verso cui nutro enorme rispetto.
“Per Voce sola”, il testo di apertura, riassume la mia poetica, dice chiaramente da cosa viene spinta la parola, in quale momento della giornata e su cosa, maggiormente, si attesta, su quali sonorità scorre, quale il ritmo di fondo: “un tempo binario di vita e di morte“.
Non c’è liricità nei miei versi, e non può esserci, perché quando si “conversa” occorre essere veri, in qualche misura dimessi, quasi a parlare a bassa voce.
Non so se quanto scrivo rispecchi un tempo particolare, se questo che stiamo vivendo o un tempo trascorso, ma so che più del tempo io sento l’orfanità dello spazio, quello stesso che occupavo quando ero bambina. Penso a mio fratello Michele, che non tiene, ormai, nessuno spazio e non mi manca il tempo vissuto con lui, ma proprio lo spazio che lui riempiva, il suo corpo, dunque, il suo esserci.
Di questo ne scrivo in “Apologia dello spazio”.

È proprio questo il nostro presente?
Se c’è un testo che rispecchia il nostro tempo, questo è “Distopia” dove, nei primi cinque versi descrivo un tempo buio e pieno di spaventi, un tempo senza redenzione, da cui ne usciremo vinti, avendo “fra le mani salteri orfani di salmi“.
E andremo spersi e la vita non avrà più sfumature, intese come piccole gioie. Avremo davanti agli occhi paesaggi tutti uguali e grigi e non avremo più memoria per poter dire di essere vissuti.
In questo tempo ci sono dentro fino al collo, del tutto invischiata e, probabilmente, anche se non c’è intenzione di descriverlo, risulta, così, come su un astratto di Picasso, la contemporaneità non viene meno ; fosse vissuto ora, chissà cosa avrebbe dipinto, con quali colori, probabilmente con quelli del buio.

La prima parte di “Bocconi di vento” è anche un osservare e considerare la figura del poeta. Quale la sua importanza, quale il suo ruolo? Come agisce in tutto questo?
Si, diversi testi sono rivolti ai poeti; ne parlo in più modi e a fare da spartiacque sono i titoli, giacché, se scrivo “I poeti” io li intendo Poeti, nel senso più vero che li qualifica, ma se scrivo Poetocrati, allora il discorso cambia, perché mi riferisco a un orda di scriventi che si mettono di puntiglio alla scrivania, per tirare giù versi, con una somma di parole già sentite e soprattutto avulse e ridondanti: “Sarà che a più di uno, /forse a troppi, /luccicano chicchi in rubini, /quando, le bocche delle cose, tutte, /sono più apertura di sgomenti”.
E qui entra in gioco la finzione, per cui, ne dico in “Grafie conserte”: “Sarà, dopo tutto, una fervida primavera;/ la tiene in ostaggio nel fiato,/per assonanze ebbre d’ assedio,/ già a Novembre,/ coi frastuoni di Maggio. Preferisco un re nudo a cantori tristi/ intrappolati, alla controra,/ nel bozzolo di vili catarri”.
Ecco: meglio di così non saprei dirlo, che per me la poesia ha da essere vera.
Forse sbaglio, ma io non riesco a scindere la poesia dal poeta; ho bisogno, prima, di credere nel poeta, nella sua onestà intellettuale, ho bisogno di credere che se parla del dolore, lui, quel dolore lo abbia conosciuto. In questo sono Pavesiana: scrittura e vita coincidono, scrivere è vivere.
Mi interrogo spesso, su cosa sia essere poeti oggi e su dove stia andando la poesia.
Sento un brulicare di voci, concentrate sui social, che se hanno il merito di rendere la poesia più fruibile, hanno il demerito di aver orizzontalizzato la stessa; manca la verticalità, quella verticalità che ha radici nel profondo. Distinguere, fra le tante voci, la Voce altissima della poesia è cosa assai difficile.

Il testo “Sto”, mi sembra sia il cercare di dare corpo (il proprio) allo scrivere. Può essere così?
Vi sono alcuni testi un po’ più confidenziali, del resto ad un amico, certe confidenze si fanno. “Sto” è un testo, alla stessa stregua di “È stato” in cui parlo del mio “essermi abituata ad altra solitudine, dell’arrangiarmi tra notti illuni“, quando “gli occhi non dormono” e scavano il vuoto e “i piedi toccano il nulla“.
Certo se scrivere è vita e vita è il pieno, in quel vuoto cerco di dare forma anche alla mia scrittura, perché attraverso la scrittura do forma al mio esistere.
Davvero, quando sprofondo in quel senso di vuoto, e qui ritorna il concetto di spazio, anche la poesia latita, annaspa, cerca appigli… trovarli è la sfida e dirne, poi, potrebbe essere poesia.

A pagina 27 c’è questo passaggio: “Poi, l’occhio crea dissolvenze/ spogliando atomi di verità”. È quello che si deve fare prima di scrivere?
Certo, è un’operazione che facciamo vivendo e dunque vale anche per la scrittura… Prima di dare inizio a qualcosa guardiamo in dissolvenza tutto ciò che è venuto prima, proprio nel momento preciso in cui l’immagine scompare, la vediamo nella sua verità e questo ci permette, in una continua dialettica di superamento, di ricominciare.
La scrittura, a ben pensarci, è un continuo superamento del proprio io, ma se non sappiamo guardare in dissolvenza ciò che eravamo, anche solo un minuto prima, non potremo riaffermarlo attraverso la parola, né sapremo dire dove stiamo andando o dove desideriamo andare e cosa altro voler essere.

La sezione “Ricordanze” è la necessità di costruire una provenienza? Una sorta di carta d’identità mi viene da pensare…. con il ricordo come materia di esplorazione?
Io direi che il ricordo e la memoria della prima età sono la cartina tornasole della nostra storia umana, della nostra appartenenza; nascere in un luogo, piuttosto che in altro, ci costituisce e ci fonda.
Io nasco negli anni Sessanta in un Paese del Sud che ha radici nei sassi, nella pietra trascorsa, dove la terra è riarsa e va lavorata con sudore. La sentivo quella fatica, la respiravo. Tutto accadeva, perché non veniva lasciato al caso, tutto si tramandava di padre in figlio e nascere donna significava essere destinati a un ruolo di sottomissione, in cui non c’era spazio per le aspirazioni. Mia madre ne ha fatto le spese in termini di botte e noi con lei, perché al sud il vino “fa il sangue cattivo“, non solo il fiato che ancora ricordo, a chi ne abusa.
Come non conservare quella memoria? Significherebbe delegittimare tutto il dolore che ne è derivato, dunque scrivo “Ridatemi quei giorni in cui bambina/aspettavo una carezza che non venne./ Rimanga intatta la memoria della mia prima età,/ con voci e vite che mi appartengono/come pelle alle ossa”.
Il ricordo, invece, è qualcosa che ci permette di non recidere quelle radici, di tenerci accanto i cari che non ci sono più.
Nella raccolta dedico tre poesie a mio fratello gemello, mancato improvvisamente due anni fa. È attraverso il ricordo che lui continua a vivere. Perché se la memoria è prossimità, il ricordo è appartenenza, è sangue e carne.

Poi ci sono i testi di “Di quale amore”. Ecco, cosa significa scrivere dell’amore? Di certo è un tema delicato, su cui è facile ‘scivolare’….
Dico che tutto, qualsiasi cosa venga dopo, l’essere stati gettati al mondo, risulta contaminato da ciò che, man, mano esperiamo, dunque anche l’amore.
Ché, se esiste un concetto puro e altissimo dell’amore, lo stesso si fa piccolo, a nostra misura e somiglianza. E come potrei non dire “di quale amore“? Ché, non mi sono sentita amata mai, e quando sono stata io ad amare, ho amato, l’impossibile, ciò che ad altri era possibile e plausibile.
Dunque ho guardato altri “portare alghe ai falò, per un barbaglio che stupisse il cielo“, tanto si fanno bastare, i più, non un bruciare lento dell’amore nell’amore, non lo scaldarsi anche con la cenere di quel che nel tempo, dello stesso, rimane.
E io “Avrei voluto dire di tutto l’amore,/ di quanto è quale amore,/di un mare improbabile/ come la perfezione,/ del solo amore che posso“.
E, in effetti, lo dico in tutti i miei versi d’amore, perché è l’unico modo in cui so dirlo, senza spalancare la bocca per dire l’indicibile e scivolare nell’ovvio.

Il libro va poi incontro all’invisibilità di alcune persone, e allo scomparire di altre (“Cantico degli annegati”). È quasi un finire in dissolvenza, dove la poesia diventa anche ‘scrittura sociale’, invito a testimoniare. È così?
Credo che un poeta debba parlare del mondo al mondo; la poesia non può esimersi dal dire il manifesto per toccare le coscienze. Se proprio vuole descrivere un tramonto, lo guardi con gli occhi di chi, in un tramonto, vede i colori di un cielo che si è lasciato alle spalle, per un altro cielo, i cui colori non sono gli stessi, che farà appena in tempo a vedere, mentre sta cercando una striscia di terra su cui approdare.
Vera è la distinzione che fai tra invisibili e scomparsi. Gli invisibili sono i dimenticati, coloro che vivono ai margini, coloro che vivono, ma non esistono, per gli altri.
Gli scomparsi sono tutti quelli che, per inseguire un sogno, si sono persi per sempre, scomparsi al mondo e giacciono su un fondale o galleggiano gonfi d’acqua su un mare che li ha traditi, più gli uomini, per la verità.
Di loro neppure il nome, troppo lontano è chi ha sulla bocca il loro nome e li chiamerà invano.
Ecco tutto torna al discorso iniziale su cosa significhi essere poeta: non un avulso, ma uomo del proprio tempo, uomo che ha uno sguardo non sempre e solo oltre, come va tanto di moda dire, ma sul mondo ed è sguardo compassionevole, verso questa umanità alla deriva. Poeta è chi è capace di andare verso l’altro e porgergli la chiave di un riscatto.
Desidero ringraziare per aver reso possibile la pubblicazione, Giulio Milani, persona di cui ho grande stima, che sa scommettere anche su chi, come me, non ha premi da esibire e ha un modesto curriculum; e ringrazio sentitamente il caro amico Mauro Macario, per la sua bellissima postfazione e per avermi sempre incoraggiata.

 

L’autrice:
Anna Leone è nata a Matera nel 1962, vive a Genova.
Alcuni suoi testi compaiono su “La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta, su “Neobar” di Abel Longo, su “Poliscritture” di Ennio Abate.
Il suo primo e-book, “Per certi versi” è stato curato dal poeta genovese Massimo Sannelli, ed è scaricabile dal suo blog personale.
A novembre 2020 ha pubblicato per Puntoacapo editrice la silloge “Polena”, con prefazione del poeta e saggista Mauro Macario.

(Anna Leone “Bocconi di vento” pp. 77, 15 euro, Transeuropa 2021)

 

 

 

 

Immagini         ———————————-

By this river (serie)

Otto dipinti

di Milena Sgambato

 

 

 

 

Voce d’autore       ————————————

An mi smo bli, Eppure c’eravamo

Margherita Trusgnach, “Same misli Solo pensieri”

di Salvatore Cutrupi

 

Il libro “Same misli (Solo pensieri)” di Margherita Trusgnach è una raccolta di poesie scritte nel dialetto sloveno delle Valli del Natisone, corredate dalla traduzione in lingua italiana.
I testi parlano d’amore, un amore per la propria terra di confine e soprattutto per il compagno di vita perso prematuramente.
Il legame profondo con la terra natia è un argomento affrontato anche da altri poeti che vivono nella stessa zona (Benecija), e ciò fa pensare che non sono ancora completamente rimarginate le ferite causate dalle repressioni dure e odiose subite nel ventennio fascista da quella gente di confine, osteggiata ancora per buona parte del secolo scorso.
Le case antiche sono ancora lì, spesso non intonacate e per lo più disabitate, testimoni di un tempo che non c’è più; la natura dà ancora i suoi frutti ma pochi li raccolgono, il fiume Natisone scorre ma quasi nessuno si ferma a guardare il suo tragitto, i suoi umori, i suoi colori.
Nei versi dell’autrice c’è un senso di mestizia che contagia il lettore e lo fa partecipe di quella malinconia che aleggia nelle pagine di tutta la silloge, anche se germogliano semi di speranza per un futuro che possa far conservare l’identità del popolo delle Valli, e sottrarre all’abbandono luoghi e sentieri.
Ma ciò che muove lo scrivere di Margherita Trusgnach è soprattutto l’amore per l’uomo che non c’è più. Dopo tanti anni, lei si nutre di quella mancanza e quell’unione spezzata accompagna i suoi giorni, le sue ore, i suoi gesti e i suoi pensieri.
La delicatezza e la tranquillità con cui la Trusgnach racconta la sua storia fa riflettere, e ci mostra come l’amore vero non ha bisogno di gesti esemplari per essere credibile, non ha bisogno di essere “urlato”.
Il poetare di Margherita Trusgnach ha il pregio dell’autenticità. La rappresentazione del vissuto quotidiano, la veridicità delle parole e dei momenti descritti hanno le caratteristiche della poesia “onesta” di Umberto Saba, dove le apparenze e i manierismi sono banditi e la chiarezza del linguaggio si colloca nella cornice della vita reale.

 

Dal libro:

Čez namišljeno črto

EL CIELO NO TIENE FRONTERA
piše na skali tam
kjer začne Pohod
ki peje od Topoluovega do Livka

El cielo no tenìa frontera
an kar stražniki so uekali: STOJ!
an stazice so ble samuo tiste ki so jih oni
prehodil gor an dol po meji

El cielo no tendrà frontera
tudi kar novi ziduovi se bojo gradili
v praznih glavah ljudi ki bi šele
napri radi uekali: STOJ!

Al di là della linea immaginaria

EL CIELO NO TIENE FRONTERA
sta scritto proprio lì
dove inizia la camminata
che da Topolò conduce a Livek

El cielo no tenìa frontera
neppure quando ti gridavano: STOJ!
e i sentieri rimasti erano solo quelli calpestati
dalle guardie di confine

El cielo no tendrà frontera
nemmeno quando altri muri si innalzeranno
nelle teste vuote di chi ancora oggi
vuole urlare ad altri: STOJ!

*

An mi smo bli

Se bojo pozabil hitro
na nas
pa tuole ma pride rec
de nas nie bluo
de niesmo ankrat
an mi živiel
ljubil
tarpiel
se maltral

tekrat ostane samuo
kar smo nardil
an no ime
pokrito od suhih rož
morebit ostane tud na stara slika
na Facebooku
an tiste stuojke parjatelju
ki se na bojo zaviedel
de nas nie vie.

Pa mi smo bli
an če niesmo vic.

Eppure c’eravamo

Si dimenticheranno presto
di noi
ma ciò non vorrà dire
che non c’eravamo
che anche noi non abbiamo
vissuto
amato
sofferto
che non ci siamo affaticati

allora resterà solo
ciò che abbiamo fatto
e un nome ricoperto
di fiori ormai secchi
forse resterà anche una vecchia foto
su Facebook
e centinaia di amici
che non si accorgeranno
che non ci siamo più.

Ma noi c’eravamo
anche se non ci siamo più.

*

Stuodvajst evru

Stuodvajst evru tu takvine
toja patent
an dobriž s spraznjenih gajuf
tam na okni
ku vsako vičer
ku vsako jutro
sada tud čez dan

vsakdanje navade

stuodvajst evru tu takvine
toja patent
tele prazne ure
an ist ki ku vsako jutro
umaknem tendino an ponovim
jutre
jutre spravim.

Centoventi euro

Centoventi euro nel portafoglio
la tua patente
e spiccioli di tasche svuotate
lì sul davanzale del guardaroba
come ogni mattina
ora anche di giorno

gesti quotidiani

centoventi euro nel portafoglio
la tua patente
queste ore vuote
e io ancora lì come ogni mattina
sposto la tenda e ripeto
domani
domani riordino.

*

Ka pogrešam

Donas
na pogrešam – vic ku tkaj –
sinuove
ki jih niesam imiela
pogrešam sprehode starega para
ki se darži za ruoke
an uživa tisti mier an tisto topluoto
ki se ustvari samuo po lietih
ljubezni

tuole pogrešam donas:
postariet blizu tebe
ki bi poznu vsako mojo štupienjo
an bi ljubu vso mojo
šibkuost

pogrešam tojo roko
ki bi me objemala an skarbno
pejala
po tisti tihi poti
ki vodi v pozabo

tuole progrešam
sada
an ne mladuost ki ti ponuja
no dugo življenje
an ti na vieš še ka te čaka.

Cosa mi manca

Non sono tanto i figli non arrivati
a mancarmi
ora
quanto piuttosto le passeggiate
di una coppia anziana che si tiene per mano
in quella complicità che si crea solo
in molti anni di convivenza
e amore

questo mi manca ora
invecchiare accanto a chi potrebbe capire
ogni mio passo
e amare ogni mio
inciampo

mi manca la tua mano
ad abbracciarmi
il tuo sostegno nell’andare
lungo la strada silenziosa
che porta all’oblio

questo mi manca
ora,
non la giovinezza che ti offre
una lunga vita
e tu che ancora non sai cosa
ti aspetta.

 

 

Intervista a Margherita Trusgnach:

Hai scritto queste poesie nel dialetto sloveno delle Valli del Natisone. Questo ha a che fare con il tuo profondo senso di appartenenza alla minoranza slovena della Benecija, ma è anche una forma di resilienza di fronte al fatto che il tuo dialetto, a causa della riduzione di abitanti nelle zone in cui vivi, è sempre meno parlato?
È per entrambi i motivi che hai citato: forte senso di appartenenza e resilienza verso una assimilazione senza tregua che oggi mostra i frutti dei danni fatti soprattutto in passato da una politica ignobile che sapeva i danni che provocava.
Le Valli si stanno spopolando e il dialetto sloveno è sempre meno usato tra i giovani, seppure molto legati alle proprie radici. La scuola bilingue, che ha ormai oltre trent’anni, fa ciò che può ma non può certo sostituire le famiglie.
Una lingua perché resti viva ha bisogno di essere parlata, serve parlarla quotidianamente a casa, con gli amici, sul lavoro. Diversamente, per quanto ti sia cara, la perdi.
Scrivere in dialetto è anche un modo per salvaguardare qualcosa che è quasi certo si perderà.

Diversi poeti riempiono i loro versi di tematiche sociali e politiche. Tu, in questo libro, sfiori soltanto questi argomenti. Pensi che il compito del poeta sia essenzialmente quello di scrivere versi che toccano l’anima, di emozionare cioè gli altri mentre egli stesso si emoziona?
Penso che si debba scrivere ciò che si sente. Io scrivo quando sono perlopiù triste e la scrittura è spesso una forma di cura: trasferire sulla carta ciò che in quel momento ti dice il cuore.
I sentimenti sono per me molto importanti. Ѐ bello riuscire a trasmettere qualcosa a chi ti legge, anche se l’interpretazione risulta diversa, anche se non segui la metrica o i canoni poetici, anche se sono “solo pensieri” e non Poesie.

C’è qualche poeta della scena slovena che ha influenzato il tuo modo di poetare o che apprezzi particolarmente?
Ho sempre letto molto e le poesie mi hanno sempre attirato e mi hanno dato tanto. Tra i poeti sloveni devo sicuramente citare Kosovel, un genio.
Oggi ci sono tantissimi poeti sloveni e sono anche molto bravi, per gli sloveni la cultura ha sempre avuto un ruolo importante e apprezzato.

I poeti che vivono nella tua zona scrivono soprattutto della storia delle Valli, dei vecchi confini, delle case vuote e abbandonate, della natura lasciata spesso in balia di se stessa.
In questo libro tu parli anche e soprattutto di persone care perdute. C’è un legame, una somiglianza, un parallelo tra le due situazioni?
In una comunità piccola come la nostra, un paese abbandonato o quasi disabitato, case che si chiudono dopo ogni funerale, voci di bimbi che restano un ricordo del passato, confini che ti isolano e persone care che se ne vanno sono dolori che ti lasciano dei segni indelebili.
È il tuo mondo che scompare, il vuoto che avanza. Noi che abbiano deciso di restare, rinunciando alle comodità ed ai servizi che ti offre la pianura, abbiamo fatto un investimento sulla qualità della vita: le nostre case ristrutturate con tanto amore non sono case da rivendere per monetizzare.
Eppure, basterebbe una politica sociale più attenta alle esigenze di oggi e per attirare diverse famiglie a vivere qui dove già avere un collegamento internet è oggi un miracolo! Per comperare latte, pane e un giornale io devo fare otto chilometri.
Lo smart working con linee telefoniche funzionanti, qui, quasi ovunque, è ancora un miraggio …

Leggendo questa tua raccolta “Same misli (Solo pensieri)” ho avuto la sensazione che ci sia un filo comune che lega una poesia all’altra, un filo forse invisibile agli altri ma che tu conosci bene. Ciò corrisponde al vero?
Si, è così. Come diceva il grande Pablo Neruda “Si nada nos salva de la muerte, al menos que el amor nos salve de la vida”!

Le tue poesie contengono momenti di malinconia, di nostalgia, ma nello stesso tempo sembra che per te sia “necessario” riviverli. Sono come una valvola di sfogo, un balsamo, una protezione dove ogni tanto tu vai a rifugiarti…
Certo, per sopravvivere al dolore lo devi affrontare e guardare in faccia. Fa male ma fa anche un gran bene. Gli sloveni usano una parola intraducibile in italiano che dice tutto: “hrepenenje”, una sorta di desiderio nostalgico e struggente che ti lega alle tue radici, alle tue tradizioni, alla tua lingua, alla tua gente, a chi ami. Un desiderio così forte che ti tormenta anche quando hai tutto, perché sai bene che nulla è eterno e forse nemmeno (o solo?) ciò che scrivi.

 

L’autrice:
Margherita Trusgnach è nata nel 1963 e vive nella Rečanska dolina (Benečija).
A quattordici anni ha iniziato a collaborare con il circolo culturale Rečan dove ha rivestito per diversi anni il ruolo di presidente, curando l’evento “Senjam beneške piesmi” (Festival della canzone delle Valli del Natisone) di cui, nell’ultimo periodo, si è occupata della direzione generale.
Per il circolo Rečan, nel mese di settembre, organizza la serata letteraria “V nebu luna plava”, alla quale vengono invitati poeti di diverse lingue e culture.
Da alcuni anni lavora al circolo di cultura Ivan Trinko dove ha la sua sede provinciale anche la ZSKD (Unione dei circoli culturali sloveni).
Ha letto i suoi versi in diverse rassegne e ha partecipato anche ad alcune manifestazioni letterarie in Slovenia, come membro e socio fondatore del circolo letterario transfrontaliero “NTT – PoBeRe (Posočje-Benečija-Rezija)”.
Le sue poesie sono state pubblicate su libri, blog letterari e riviste slovene e italiane.

(Margherita Trusgnach “Same misli” pp.76, Publicad snc, Udine 2020)

Le foto di Margherita Trusgnache sono state scattate da Roberto Marino Masini, alla serata della rassegna “iGIORNIvicini“.

 

 

 

 

Immagini         ———————————-

Calipso

Otto dipinti

di Milena Sgambato

 

Intervista a Milena Sgambato:

Questi lavori sembrano assorbire il guardare di chi li osserva, di chi si mette in vicinanza con loro….
Una delle cose più affascinati di un dipinto è quella di condurti in altri mondi per aprirti la porta delle emozioni. Spesso è come se fosse uno specchio di quello che si è nel momento in cui lo si guarda.
Le emozioni che suscita cambiano a seconda di chi lo guarda o del momento in cui lo si osserva.

Lo sguardo dei protagonisti di questi dipinti è sempre in un altrove. È un difendere la propria intimità? È un essere impreparati al confronto?
Penso che l’essere umano in questa epoca esponga troppo di sé. Questo vivere in simbiosi con la tecnologia ci porta a far sapere tutto quello che proviamo a tutti, e invece secondo me c’è qualcosa che dobbiamo conoscere solo noi, senza necessariamente condividerlo con gli altri.
Questo ci permette di conoscerci meglio e di conseguenza relazionarci meglio con gli altri.

La sensazione è che ognuno di loro viva ciò che rimane di un sognare; di un desiderio che è stato forte e travolgente, ma che non è voluto rimanere….
Sicuramente portano con sé le inevitabili ferite del passato. Penso però che alcuni dei miei personaggi, perché ogni opera è una storia a sé, abbiano voglia di vivere il presente con un grande desiderio di rinascere e credere sempre e comunque nella vita.
Poi, come dicevo, nell’interpretazione di un’opera ci sono molti elementi soggettivi.

E, forse per questo, ogni dipinto sembra nascondere un segreto. È così?
Sì, ogni dipinto ti pone di fronte ad un enigma e ti fa porre delle domande, Guai se così non fosse.

Comunque, ogni soggetto vive il proprio tempo, in modo compiuto. Prova ne è, penso, lo spazio attorno che entra nella figura, che ne viene incluso e condiviso. Un po’ per le tonalità, un po’ per i confini soggetto/ambiente che sono labili, sfumati e condivisi….
Dai miei lavori si può intuire la concezione che ho del tempo e dello spazio; sicuramente lontana da quella occidentale che lo vede in modo rigorosamente lineare, evolutivo e storicizzato.
Credo sia più vicina agli antichi filosofi che pensavano che ogni arte e scienza si fosse sviluppata molte volte, e che i loro stessi pensieri fossero la riscoperta di pensieri già noti ai filosofi di tempi precedenti; concezione vicina anche alla cultura orientale che parla di una filosofia perenne, di una sapienza eterna rivelata e ri-rivelata, ripristinata, perduta e nuovamente ripristinata lungo i cicli delle epoche.

E sono tutti momenti dove le parole non servono….
La pittura è un linguaggio visivo e anche fisico se vogliamo, le parole c’entrano poco se non nel momento in cui sono impegnata nella ricerca progettuale.
Oppure servono agli osservatori per razionalizzare il tutto, per cercare di tradurre la propria esperienza in linguaggio verbale.

Cosa c’è alla base di tutte queste tue scelte? E quale il rapporto della tua arte con le altre forme espressive? La letteratura, il cinema, la fotografia, la poesia….
Ci sono le mie passioni, i libri di psicologia, la musica che amo profondamente, il cinema, c’è tutto quello che osservo e vivo.

La vicinanza più forte, evidente e mostrata, è un abbraccio. È un gesto emblematico che raccoglie il nostro presente?
Sì, rappresenta il presente che ci sta ancora privando della spontaneità di un abbraccio, alimentandone il desiderio, ma c’è anche una visione più ampia di un gesto così semplice e intimo ma allo stesso tempo potente e rivoluzionario.

Perché poi l’impressione è che in questi quadri qui proposti i soggetti sono tutte figure vulnerabili ma non deboli. Persone che con il proprio vivere creano ‘luoghi’ di incontro umano….
Amo esplorare la molteplicità dei sentimenti umani. La vulnerabilità mi sta molto a cuore, credo sia fondamentale essere consapevoli delle proprie fragilità ed è proprio questa consapevolezza che ci rende ancora più forti.

 

L’artista:
Milena Sgambato vive e lavora a Milano. Nel 2008 consegue il Diploma Accademico in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano.
Dal 2011 al 2021 le sue opere sono state esposte in molti Musei e Gallerie d’Arte Contemporanea: E23 Gallery (Napoli), Art’s events, Torrecuso (Benevento), Costantini art Gallery (Milano), Ufofabrik, Moena (Trento), Circoloquadro (Milano), Spazio Oberdan (Milano), Gare 82 Gallery (Brescia), Torre di Markellos, (Aegina) Grecia. Isorropia Homegallery (Milano), Galleria Bianchi Zardin (Milano), Museo Luigi Varoli, Cotignola (Ravenna), Centomentriquadri Arte Contemporanea, Santa Maria Capua Vetere (Caserta).
Nel 2021 le sue opere sono state esposte al Museo di Arte Contemporanea di Caserta.
Nel 2019 realizza un’opera pubblica per il comune di Milano.
Dal 2018 una sua opera è esposta in permanenza presso il Museo di Arte Contemporanea dell’Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.
Nel 2013 le sue opere sono state esposte al Museo di Arte Contemporanea “Arcos” di Benevento.
Nel 2011 è stata una delle artiste della 54° Biennale di Venezia (Regione Campania) per il Padiglione Italia.

 

I quadri qui proposti:

The secret
acrilico su lino 65×60 cm 2016

Teia
acrilico su tela 85×110 cm 2018

Viviamo giorni strani
acrilico 58×53 cm 2020

By this river (serie)
acrilico su tela 55×53 cm 2021

By this river (serie)
acrilico su tela 80×70 cm 2020

On off (serie)
acrilico su tela 75×110 cm 2016

By this river (serie)
acrilico su tela 65×60 cm 2020

Calipso
acrilico su tela 65×60 cm 2018

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Livio Caruso.

 

 

 

 

 

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