Fare Voci novembre 2021

 

Si apre all’insegna di Andrea Zanzotto il numero di “Fare Voci” di questo mese.
Nel nuovo volume “Erratici – Disperse e altre poesie 1937-2011” sono raccolte sue poesie edite, ma in larga parte sconosciute al pubblico, anche a quello degli specialisti.
Di questo importante libro ce ne parla il suo curatore, Francesco Carbognin.

E poi ci sono i sette testi inediti di Gianfranco Lauretano, “Lo spirito della neve”, e i nove quadri del pittore spagnolo Pablo Iglesias Prada.

La voce d’autore è di Francesca Matteoni, con la sua nuova raccolta poetica “Ciò che il mondo separa”, vero e proprio immergersi nell’anima del mondo.
Ma c’è anche la spiritualità che si respira nei versi di Matteo Bonvecchi, nelle pagine del suo “In crepa di melograne”; assieme al vissuto quotidiano, difficile e bisognoso di interpretazione, che Giorgia Vecchies esplora negli “Indizi di un dove”.

I margini di poesia ed altro sono quelli di Beatrice Zerbini, con le sue raccolte poetiche “mezze stagioni” e “In comode rate. Poesie d’amore
Laura Mautone ci fa incontrare Ennio Morricone, in una intervista impossibile, “Ogni suono è soltanto la pausa di un silenzio”.
Il ti racconto è quello di Luca Buiat, che ci porta sulle “Strade bianche del Carso”.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini       —————————

Brain donation

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

 

 

 

Da qui        ——————————————-

Andrea Zanzotto, “Erratici – Disperse e altre poesie 1937-2011”

a cura di Francesco Carbognin

di Roberto Lamantea

 

La neve, scrive Andrea Zanzotto in una nota a “Ligonàs” e “Excerptum” (1998), ha sempre avuto per lui una “forza sanatrice”. Tra la fine dell’83 e per tutto l’84-85 “si presentò una forma di inibizione allo scrivere […] Nel giro di poco tempo sentii allentarsi e a tratti spezzarsi dolorosamente anche il mio antichissimo rapporto con il paesaggio. Nel contempo, ebbi un rifiuto totale della lingua italiana prediletta, e insieme del dialetto usato negli anni precedenti”, come in una dantesca “belletta negra” (Inf., VII-124).
L’apparizione delle luci di questi vasti campi nevosi […] mi ridiede lentamente, insieme con altre circostanze, la forza di ricostruire con materiali sentiti come provvisori, ma di assoluta necessità, certi tessuti cicatriziali costituiti da parole di nuovo italiane, e talvolta anche straniere”. La neve, una delle visioni che attraversano tutta l’opera del poeta di Pieve di Soligo, è insieme paesaggio della natura e della scrittura, balsamo, nuovo sguardo. Con la neve le selve, il “conglomerato” di natura e storia del bosco del Montello, l’azzurro e il verde, i colori della lontananza che nella letteratura tedesca e della Mitteleuropa sono molto più di elementi cromatici della natura ma visioni proiettate dagli abissi e delle trasparenze dell’anima.
La lettura di “Erratici. Disperse e altre poesie 1937-2011” di Andrea Zanzotto, il volume pubblicato da Mondadori nello “Specchio”, con la cura esemplare di Francesco Carbognin, uno dei massimi esperti del poeta veneto, ha la bellezza di un viaggio nella scrittura di Zanzotto dai primi versi al suo ultimo libro, “Conglomerati” (2009), di cui “Erratici” era uno dei possibili titoli, mutuato dalla geologia, e scelto da Carbognin per questa raccolta di liriche “pubblicate tra il 1937 e il 2011, circolate nelle più disparate sedi editoriali (riviste e quotidiani, volumi collettanei, opuscoli, libri e cataloghi d’arte, piastrelle e piatti di maiolica impressi a serigrafia) e rimaste disperse, non essendo confluite in alcuna delle raccolte edite in volume né nell’edizione mondadoriana complessiva di “Tutte le poesie” del 2011”, informa Carbognin nell’introduzione.
Nell’occasione del centenario della nascita (1921) e dei dieci anni dalla morte (2011), tra seminari, gite, il restauro e l’apertura al pubblico della casa dell’infanzia in Cal Santa, oltre a “Erratici” sono usciti altri due libri importanti: sempre nello “Specchio” mondadoriano “Traduzioni, trapianti, imitazioni” a cura di Giuseppe Sandrini (pp. XXIV-320, 20 euro), sguardo nel laboratorio della poesia zanzottiana (traduzioni dal francese, tedesco, spagnolo, portoghese – Pessoa – latino, greco antico – le Lettere di San Paolo), e il saggio di Andrea Cortellessa dal bel titolo “Zanzotto. Il canto nella terra” (Laterza, pp. X-430, 24 euro).
Nato a Verona nel 1970, professore di Letteratura italiana contemporanea e Forme del testo poetico al Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna, Francesco Carbognin ha già dedicato al poeta veneto tre libri: “L’altro spazio. Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto” (Nem 2007), Dirti “Zanzotto”. Zanzotto e Bologna (1983-2011), curato con Niva Lorenzini (Nem 2012) e l’edizione di “Sull’altopiano. Racconti e prose (1942-1954)” (Manni 2007).
Ci sono molti modi di leggere questo libro, ma per chi ama Zanzotto il più bello è quello di lasciarsi andare al piacere della lettura, all’ascolto della sua scrittura sinfonica, polisemica: “Erratici” è anche un viaggio negli stili di Zanzotto dalle liriche giovanili dove sono più forti gli echi pascoliani, carducciani e leopardiani, verso la fine degli anni ‘30, ai quinari di “Al vento” (1938), a Parini (la sarcastica ode alla politica in sestine di settenari, 1961), alla svolta della “Beltà” (1968) e “Pasque” (1973), dove la geologia e la mineralogia dei versi si spalanca sulla scrittura dell’Es, l’inconscio che per Lacan è una vera e propria lingua.
Lingua e paesaggio sono i grandi temi della poesia e della riflessione di Zanzotto: già da “Dietro il paesaggio” (1951), nota Carbognin, il paesaggio è “assunto nell’accezione hölderliniana di Heimat, vale a dire come un materno grembo protettivo, un rifugio al riparo del quale “volgere le spalle” agli eventi storici. E nella nota a “Filò” Zanzotto attribuirà al dialetto la forza e il valore di “pulsione e gorgoglio somatico: di un continuum e di pluriformità cangianti, omologhi a quelli della vita, luogo di un logos che resta sempre erchómenos: l’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il messia: logos erchómenos, “parola che viene”, veniente “di là dove non è scrittura né grammatica”, parola che rimane per questo quasi infante nel suo dirsi”.
Zanzotto va alle radici del dire e della scrittura anche attraverso l’etimologia: le radici morfologiche dettano la parola e il verso, le gemmazioni, il paesaggio dei fonemi. Il dialetto non è, per Zanzotto, una lingua accanto alle altre, ma l’esperienza della stessa sorgività della parola, la struttura del linguaggio nel suo nascere (vedi “In nessuna lingua – In nessun luogo – Le poesie in dialetto 1938-2009”, nota introduttiva di Giorgio Agamben, prefazione di Stefano Dal Bianco, Quodlibet 2019).
Proprio sull’endiade lingua/dialetto in Erratici troviamo un capolavoro, il testo in dialetto (composto in verticale sulla pagina tipografica) “Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto” (1969-1971) (pp. 147-163):

[…]
e ades capisse parché
che senpre ghe n’era calcossa desmat
in te quel che scrivee in italian.

No l’era quela la me lengua ‘l me parlar
l’era n’altro “sistema” de són, de sussuro,
n’altro “sistema” quel del me dialeto
ghe n’é poche tronche in italian
poche consonanti in fin – e no so, no cate pi gnent.

Ma quala po’ sarìela stata la me vera lengua
quela che me varìe fat scriver ben?
l’oc, o l’oïl, fursi?
O ‘na lengua che varìe podest nàsser
e no l’é nassesta mai?

Vista là bas, como dó par quel canal
che l’era largo e grant e ‘l tajea ‘l pian de bonifica,
deserto? Canal longo in tel gnent
e pien de móver? Che ‘vee tante òlte
vist in tei insòñii? O vera lengua mea, onde-sé tu?
[…]

[…]
e adesso capisco perché
sempre c’era qualcosa di fasullo
in quello che scrivevo in italiano.

Non era quella la mia lingua il mio parlare
era un altro “sistema” di suoni, di risonanze,
un altro “sistema” quello del mio dialetto
ci sono poche [parole] tronche in italiano
poche [con] consonanti alla fine – e non so, non trovo più niente.

Ma quale sarebbe poi stata la mia vera lingua
quella che mi avrebbe fatto scrivere bene?
l’oc, o l’oïl, forse?
O una lingua che sarebbe potuta nascere
e non è nata mai?

Vista laggiù, come attraverso quel canale
che era largo e grande e tagliava il piano di bonifica,
deserto? Canale lungo nel nulla
e pieno di moti?
Che avevo tante volte
visto nei sogni? o vera lingua mia, dove sei?
[…]

Un’altra sequenza (pp. 60-96) comprende testi scritti negli anni ‘80, un canto d’amore agli azzurri, l’autunno, i silenzi: versi come “Tra vellichii sfrigolii tintinni di colori”, “settembre azzurro-ceneri, ben librate clemenze”, “luce che in te ti celebri”, o come questa sequenza del 1986 (“Orti nel Quartier di Piave”):

Trasparenza tanto rara di cartilagini
più che mai alleviate:
azzurri che dal lontano lontano
convinti rientrano negli orti…
E fanno proprio, e stretto, così
un silenzio
che rende docile dolce crepitio le nostre
uniche voci
o comunissime voci
alla brezza sguinzagliata tra gli alberi
famosa agli uccelli, umile
alle erbe, ai sonni più belli.

O quando le stagioni, – i colori, tepori, nivori – sembrano incunearsi l’una nell’altra anche nei lessemi: “lugliaggio”, “agostobre”, “settembrottobrembre”, parola che da sola è un “conglomerato” sillabico e fonico.
Un altro elemento fondamentale, più volte citato da Zanzotto anche nelle sue conversazioni e interviste, è il petèl, la lingua dell’infanzia, o la lingua infante, nella filigrana del testo già in “La Beltà” (1968).
È la lallazione dei bambini, le prime sillabe, quasi un canto, la conquista verbale del mondo. E il petèl, nell’infanzia del poeta, si nutriva delle rime e della metrica delle filastrocche, delle ninne nanne e dei versi di Ariosto e Tasso che – racconta il poeta in una nota del 2006, “All’asilo, negli anni ‘20” – la nonna paterna “era solita recitarmi, secondo le abitudini di una cultura, tra popolare e classica, tipica dell’ambiente veneziano, intercalandosi e, quasi fondendosi con il dialetto del Piave, comunemente parlato in casa, comportarono in me una percezione fantasiosa delle parole. Ho appreso precocemente il linguaggio, anche in virtù della musicalità del ritmo caratterizzanti le innumerevoli filastrocche”.
È la musica di Zanzotto: morfemi che virano al proprio etimo; colori nivori lucori di un paesaggio reale – quello delle Prealpi venete – eppure fantasmatico, ai confini dell’allucinazione: la natura allo specchio di Michaux – il grande poeta francese amato e tradotto da Zanzotto: la parola si frantuma come si frantuma il reale dopo che la psicanalisi l’ha segmentato individuando i suoi fondamenti in un Es – il pronome neutro tedesco che in Freud nomina l’inconscio – di cui possiamo solo ascoltare i misteriosi geroglifici. Ma anche la realtà della storia irrompe in un teatro di macerie, scomposizioni figurali e linguistiche, conglomerati di ossa, terra, pietra e radici come nel “Galateo in bosco”.
E su tutto la storia della lingua letteraria, la scrittura come memoria, che irrompe nella tessitura del linguaggio con la sua metrica arcaica e la dolcezza del verso antico a dire che la poesia sopravvive anche nel bruit e nel pointillisme della composizione/scomposizione contemporanea ma anche nella nostalgia – hölderliniana – dell’armonia classica. La lettura di “Erratici”, al di là del valore documentario e di riordino del corpus zanzottiano, è un viaggio nella scrittura del più grande poeta italiano del secondo Novecento e di questo scorcio del nuovo millennio.

 

Intervista a Francesco Carbognin:

“Erratici. Disperse e altre poesie 1937-2011” ospita un centinaio di poesie apparse in diverse sedi di pubblicazione, ordinate secondo i criteri da lei illustrati nella Nota al testo. Come si è svolto il lavoro di ricerca e riordino dei materiali?
Avevo raccolto (anche in modo fortuito) almeno una quindicina di poesie “estravaganti” di Zanzotto già a partire dai primi anni Zero, mentre conducevo il lavoro di ricerca di tutte le varianti a stampa delle poesie di IX Ecloghe per la stesura della mia tesi di Dottorato (“Materiali per un commento e un’edizione critica a IX Ecloghe di Andrea Zanzotto”), discussa nel 2005 all’Università di Bologna.
La ricerca vera e propria condotta per Erratici ha richiesto quasi due anni di consultazione dei materiali (anche epistolari) depositati presso fondi archivistici (tra cui il Centro Manoscritti di Pavia) e l’esplorazione sistematica (per il periodo 1937-2011) di intere annate di quotidiani e di periodici (una cinquantina, per la cui consultazione mi sono avvalso della preziosa collaborazione di Simona d’Orazio, autrice della tesi di Dottorato Varianti a stampa e poesie estravaganti nell’opera poetica di Andrea Zanzotto, 2017). Informazioni circa una buona parte dei testi raccolti in “Erratici” sono state ricavate dall’esplorazione dell’Archivio privato di Pieve di Soligo (per cui si è rivelata decisiva l’attività di catalogazione e la collaborazione del primogenito di Zanzotto, Giovanni Zanzotto), data la consuetudine del Poeta, purtroppo non sistematica, di tenere traccia (fotocopie, ritagli dall’ “Eco della Stampa”…) di ogni sua singola pubblicazione.
Altre informazioni ho ricavato dalle bibliografie curate da Velio Abati (strumento a tutt’oggi imprescindibile di ricerca) e dalla Cronologia di Gian Mario Villalta edita nel “Meridiano” zanzottiano Le poesie e prose scelte, da cui ho per esempio appreso dell’esistenza di una poesia “per i morti fucilati in paese” che rappresenta la prima poesia edita di Zanzotto sul tema della Resistenza di cui si sia attualmente a conoscenza.
Al rinvenimento di tutti i testimoni a stampa delle poesie disperse di Zanzotto è seguito il lavoro di collazione dei testi, con la registrazione delle varianti e degli (innumerevoli) refusi. Data la tendenza di Zanzotto, specie a partire dagli anni ’80, a pubblicare nuove e variate redazioni di testi già dati alle stampe (talvolta pubblicando due diverse liriche nate dallo smembramento di un testo edito; o, viceversa, pubblicando un testo formato dall’accorpamento di due liriche precedentemente edite in forma autonoma), mi sono deciso ad accogliere a testo la lezione dell’ultima redazione a stampa di ogni lirica.
Ho poi pensato di riprodurre integralmente, in una sezione apposita di Varianti notevoli, le redazioni originarie di liriche significativamente divergenti da quell’ultima redazione a stampa.
Nella Nota al testo ho poi illustrato ogni mia scelta, dalla struttura del volume alla correzione dei refusi, argomentando le questioni filologiche relative alle poesie inserite tra le Varianti notevoli.

Ci sono testi inediti di Zanzotto?
No, “Erratici” raccoglie esclusivamente poesie edite, ma in larga parte sconosciute al pubblico, anche a quello degli specialisti.
Inedito è il dato, altamente significativo sotto il profilo critico, che le poesie disperse di Zanzotto non siano poesie edite e semplicemente rifiutate, o addirittura dimenticate.
Anzi: Zanzotto continua a lavorare su testi già editi (e non accolti in volume) pubblicandone redazioni divergenti anche a distanza di anni. In un caso, davvero esemplare (e discusso nella Nota al testo), Zanzotto ha continuato a pubblicare redazioni diverse di una lirica per quasi un ventennio!

In questo 2021, doppio anniversario zanzottiano (1921-2011), l’interesse per la poesia e la scrittura del poeta di Pieve di Soligo ha prodotto convegni, seminari, letture, studi. Ma ho la sensazione che rispetto ad altri autori coevi – Sanguineti, per esempio, e tutto il Gruppo 63 – l’interesse per Zanzotto sia più circoscritto. Le analisi complessive sono poche: l’Oscar Mondadori curato da Stefano Agosti nel 1973, il Castoro di Giuliana Nuvoli (1979), l’omaggio di Giulio Ferroni a Giudici e Zanzotto dal titolo “Gli ultimi poeti” (2013)…
Io penso esattamente il contrario: mi ha anzi sorpreso tanta attenzione critica prestata a un poeta del secondo Novecento, nell’anno del centenario dantesco. Relativamente a Zanzotto, nel corso del solo autunno 2021 sono infatti usciti: “A. Zanzotto, Erratici. Disperse e altre poesie 1937-2011”, a cura del sottoscritto (Mondadori, “Lo Specchio”); “A. Zanzotto, Traduzioni trapianti imitazioni” a cura di Giuseppe Sandrini (Mondadori, “Lo Specchio”), “A. Zanzotto, Dietro il paesaggio”, introduzione di Emanuele Zinato, con uno scritto di Francesco Maino (PUP), la monografia di Andrea Cortellessa “Andrea Zanzotto. Il canto nella terra” (Laterza) a cura dello stesso, la raccolta commentata di scritti zanzottiani “Abitare, Zanzotto. Premessa all’abitazione e altre prospezioni” (Aragno), la raccolta di studi “E l’avanguardia ha trovato, ha trovato?” Andrea Zanzotto, apparsa in “il verri”, 77 – ottobre 2021 (numero monografico); il libro di Rosanna Mutton, “Le impronte della poesia nel paesaggio di Andrea Zanzotto” (Cierre), la monografia di Daria Catulini “L’infinito proliferare dell’essere. Poesia e immaginario in Andrea Zanzotto” (Carocci); e diversi altri libri e cataloghi che attualmente non ricordo…
E non dimentichiamo gli innumerevoli convegni, internazionali e nazionali; le maratone di lettura e gli spettacoli; le presentazioni di libri; ecc. (si contano una ventina di iniziative, nel solo trimestre settembre-dicembre 2021).

Molti giovani poeti (tra i 20 e i 30 anni) che ho letto e intervistato dichiarano di richiamarsi – tra gli autori amati o che hanno esercitato un’influenza su di loro – proprio al Gruppo 63. Nessuno, finora, mi ha citato Zanzotto. Secondo lei ci sono, nella letteratura italiana di oggi, autori nei quali è evidente l’influsso del poeta veneto?
È difficile sostenere con certezza se e in quale misura Zanzotto sia il capostipite di una nuova… tradizione lirica: occorre più tempo, dare ai ventenni e ai trentenni il tempo necessario per comprenderne il senso complessivo dell’esperienza poetica, il suo significato storico, la miriade di problemi rimasti per secoli irrisolti cui essa ha cercato di fornire una risposta.
Riguardo ai meno giovani, a certa lezione di Zanzotto (ma declinata in forme decisamente originali) mi sembra per esempio avvicinarsi la produzione in dialetto di Luciano Cecchinel, poeta d’eccezione anche per la poesia in lingua italiana, in cui noto una maggiore autonomia dal modello.
Ma echi di motivi zanzottiani è possibile riscontrare anche in Alberto Bertoni, Mario Santagostini, Franco Buffoni, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta, Maria Grazia Calandrone, Giovanna Frene, Alessandra Pellizzari… e in molte/i altre/i: in esperienze, beninteso, reciprocamente dissimili e irriducibili a un’unica matrice dominante.
Ed è ovvio che sia così, cioè che ci sia dato di trovare motivi zanzottiani (il tema ecologico, poniamo, o quello del sacro, o quello dell’Alzheimer…) in poeti e ambiti non direttamente né pacificamente accostabili a Zanzotto, data l’ampiezza dell’orizzonte di questioni relative al rapporto poesia e realtà affrontate dal poeta di Pieve e la molteplicità delle implicazioni tematiche della sua poesia, tra filosofia, psicoanalisi, scienza e fantascienza. Difficile, per esempio, non pensare a Vocativo di Zanzotto, per quanto riguarda titoli come “Ablativo” di Enrico Testa e “Terza persona cortese” di G. Maria Annovi.
D’altro lato, ritengo assai improbabile, per il momento, che la scrittura tanto intensamente “sperimentale” di Zanzotto (così come quella di Sanguineti e di Rosselli) sia giunta, o sia prossima a giungere, a rivestire la funzione di modello di una nuova tradizione lirica.

Un consiglio a chi affronta per la prima volta la lettura dei versi di Andrea Zanzotto: da dove cominciare?
Beh, direi che per conoscere Andrea Zanzotto sia bene leggerlo… dalla A alla Z, naturalmente. Da “Dietro il paesaggio” del 1951 ai “Conglomerati” del 2009, espandendo poi la conoscenza attraverso la lettura di “Erratici”. L’opera di Zanzotto si caratterizza proprio per i legami intertestuali tra libro e libro: la si dovrebbe leggere come un “Bildungsroman” – o anche come il documento di un’Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora la natura, tanto per riprendere il titolo di una nota intervista rilasciata dal poeta nel 2007…

 

L’autore:
Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo 1921 – Conegliano 2011) è una delle voci più importanti della poesia italiana.
Il suo scrivere trova radice nelle tracce e nelle memorie del suo paese di nascita: “qui non resta che cingersi intorno il paesaggio“, contemplato in “Filò”.
Laureato in lettere a Padova nel 1942, e a lungo insegnante di scuola media, raramente si allontana dal suo altopiano, dalle tracce del “petèl”, mentre la sua cultura, le traduzioni, la saggistica, di ampi orizzonti europei, rendono più vivida la sua “ignarità che brucia pur di estreme sapienze” (“Ligonàs”, 1998).

 

Il curatore:
Francesco Carbognin (Verona, 1970) insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Forme del testo poetico presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, dove anche coordina il Seminario internazionale di Poesia Contemporanea “Officina di poesia”.
Organizzatore di diversi convegni internazionali, è autore di libri (“L’altro spazio. Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto”, NEM, 2007; “Le armoniose dissonanze. Spazio metrico e intertestualità nella poesia di Amelia Rosselli”, Gedit, 2008) e studi sulla Letteratura Italiana del Novecento apparsi in volumi collettanei e in rivista.
Ha preso parte all’edizione dell’Opera poetica di Amelia Rosselli (Mondadori, “I Meridiani”, 2012), di cui ha curato il commento a “Variazioni Belliche” e la Bibliografia generale.

(“Andrea Zanzotto, Erratici – Disperse e altre poesie 1937-2011”, a cura di Francesco Carbognin, Mondadori, “Lo Specchio”, pp. XXX-324, euro 20)

 

 

 

 

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Hate´em all

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

 

 

 

Tempo presente        ——————————

Lo spirito della neve

Sette testi inediti

di Gianfranco Lauretano

lunedì

Un sentore annuncia nell’aria
qualcosa che non è normale.
Per il parco si sente la signora
zampettare, meno elegante
del suo cagnolino. I rumori
come attutiti da lontano
hanno mutato frequenza.
E dove sono i passerotti?

martedì

Di colpo l’aria si raffredda.
Ci leviamo dal letto ignorando
di seguire ancora una promessa
un immane presente ci avvolge
un muro di tempo. Per fortuna
il cielo di piombo non promette
niente di buono, per fortuna
succede qualcosa che non so.

mercoledì

Un silenzio imponente di aria
è il fragore che ci desta
penetra le imposte serrate
della stanza, trapassa le pareti
s’impone all’ombra del risveglio.
C’era un universo dopo
il vetro, che fine ha fatto?
Con circospezione da banditi
spalanchiamo una fessura
e il biancore ci travolge.
Mentre vivevamo nella terra
senza ordine dei sogni
il pianeta invaso dalla neve
si è fatto invisibile
per eccesso di visione.

giovedì

Ballo in discesa d’aria fredda
provvisoria come lo stupore
troppo breve che il candore
ci regala a falde dal cielo.
Così gli dèi antichi dovevano
mutarsi in umani perché
noi potessimo guardarli
senza perdere la vista,
così succede adesso
nella sembianza della neve.

venerdì

Questa strana manna nell’aria
rallenta la corsa consueta
le auto sono immobili bovini
gli alberi sculture concettuali
di ghiaccio. Costretti all’attesa
godiamo della quiete, fremiamo
per la noia. Troppo lentamente
passa per noi. Ma quando
è cominciata? Quando finirà?

sabato

Neve, eterno presente
cristallo di aria, cielo bloccato.
La città azzera la sua storia
lottiamo con la lastra livida
dei selciati, interni ed esterni
si rifiutano a vicenda, dopo due
minuti la bellezza s’è ibernata.
L’oblio è il risultato del gelo.
Tutto questo biancume
questa pagina non scritta
taccuino senza idee… ci manca
la vita di prima, a noi che
non sappiamo più che c’era
un prima. Ma che scalpore
quelle chiazze di verde
che riemergono nel parco!

domenica

Una luce fioca tocca l’aria
mentre dorme il seme
di grano al calduccio, come
mi raccontavano da piccolo.
Le cose nascoste si riavviano
al disgelo, dopo la stasi
disumana d’un’epoca diaccia.
Dietro le nubi persiste un sole
ma ama andarsene e tornare
seminare la storia un’altra volta.

 

 

L’autore:
Gianfranco Lauretano è nato nel 1962 a Sessa Aurunca, provincia di Caserta, vive a Cesena.
Ha frequentato la Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature Straniere Moderne dell’Università di Bologna.
È docente di scuola primaria. È anche relatore e direttore di corsi per docenti sulla Didattica della Poesia.
Dirige la collana “Poesia contemporanea” e il trimestrale letterario “clanDestino”.
È fondatore e direttore letterario della rivista di arte e letteratura “Graphie” e fa parte del comitato di redazione della rivista di critica e letteratura dialettale “Il parlar franco”.
Ha pubblicato i volumi di poesia: “La quarta lettera” (1987), “Preghiera nel corpo” (1997 – ristampa 2011), “Ortus exitiosus” (ora nel’antologia “Bona vox” 2010) “Occorreva che nascessi” (2004), “Sonetti a Cesena” (2007), “Racconto della Riviera” (2012), “Questo spentoevo sta finendo” (2013), “Di una notte morente” (2016), “Rinascere da vecchi” (2017) e “Molitva tela” (antologia della sua opera poetica in lingua russa 2019).
Ha pubblicato il libro di prose liriche “Diario finto” (2001) e i volumi monografici “La traccia di Cesare Pavese” (2008) e “Incontri con Clemente Rebora” (2013).
Sue traduzioni dal portoghese e dal russo sono pubblicate su antologie e riviste, e nel 2003 il volume “Il cavaliere di bronzo” di Aleksandr S.Puškin.
Ha curato, tra l’altro, il commento ai canti XXIX, XXXII e XXXIII del “Purgatorio” di Dante (2001).
Nel 2018 ha tradotto e curato il volume di Osip Mandel’štam “La pietra”, edito da Il Saggiatore.

www.gianfrancolauretano.it

 

 

 

 

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Cerberus

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

 

 

 

Voce d’autore        ————————————

Nel corpo del mondo

Francesca Matteoni, “Ciò che il mondo separa”

di Giovanni Fierro

Ciò che il mondo separa” si domanda se lo stare qui adesso, appartiene ancora ad una promessa o è il passo definitivo di un tradimento. È il cercare di dare a questa nuova sapienza un nome, per poterla chiamare e non esserne mai (più) abbandonati.
E le poesie di Francesca Matteoni, che sono il libro, sono chiamate a costruire una verità, che si articola e si racconta di pagina in pagina.
A partire dal trovare una collocazione ed una sfida: “Vinco il tempo nel mio spazio./ Lo creo solido e verticale./ Un telo di lamiera di traverso/ al cielo”.
Perché è bene che le cose siano chiare fin dal principio, fin dall’inizio di ogni accadimento. Poi sarà più facile vivere ed accettarle, anche quando questa età adulta fa male.
Perché “ogni storia è nel centro una maceria/ la porta verde scavata nella soglia/ la pelle secca alle pareti”, ma queste sono le coordinare del dove esistere.
Tutto ciò Francesca Matteoni lo sa e lo indica riga per riga, in questo suo convincente nuovo libro, dove scopriamo che “un linguaggio è una linea di sangue/ si afferrano gli accenti, la convergenza/ d’onde – lo schizzo del pesce nelle reti”, e dove non si è mai al sicuro, dove si può solo “esporre i polsi al fuoco – al taglio”.
“Ciò che il mondo separa” sono pagine da leggere e rileggere, servono per trovare riparo e per rinunciare alla paura, sono un invito ad andare incontro. Ce n’è sempre più bisogno.
Perché è sempre tutto più complicato, ed è evidente che “la violenza si nutre di sé fino a morire./ Ignora le zampe minute che estraggono/ dal dolore il sale./ Volevo salvarmi dal male”.
Questo è un buon punto da cui ripartire. O partire, magari per la prima volta.
Anche quando ci si sente acerbi (“La lingua fa pulito sul suo vuoto./ La paglia strizzata nelle ossa -/ le piume inadeguate sopra i volti)”, feriti (“Ogni nostro sentire è una crepa/ da cui viene l’acqua. Non raccogliere i pezzi”) o spaesati (“Sono rimasta sola nella foto./ La tua giacca composta nelle mani”).
Ma “Ciò che il mondo separa” è fonte di umanità, sorgente di vicinanza. Con il desiderio di appartenere ad un incantesimo, che può in ogni momento trovare il dire più appropriato e sincero: “Non c’era un letto, una sedia/ si dormiva per terra sotto un ricamo”.

 

dal libro:

È tutta qui l’infanzia, campo chiuso
negli incubi si riempie di alberi
invalicabili. Qualcuno muore.

Ogni foglia è una cartina tornasole
Spalanca le mie cose all’erosione.

Crescete, non più semplici animali
non più del tutto immersi e separati
come chi dorme perfetto, al sicuro
ruba all’altro la lingua mentre sogna.

La lingua che vi chiama ora è la vostra
mostra le genti magiche, le spezza.
Eppure dentro il mondo, era il mio mondo.

Allora lo vedevo come un prato
in parallelo al cielo interminato.

*

La figlia dei briganti

Ho della terra sul viso. Mani
che afferrano, stringono
denti che ridono da far paura.

Rami e rovine invece di mura
i miei animali tra gabbie e catene
non mi interessano il male e il bene.
Sulla mia lama sta ciò che conosco –
è meglio se scappi da questo bosco.

Crescono spine nelle mie trecce
dentro una notte di piume e pellicce
vivo guardiana di un sogno.

Sono la ruvida fede
che rende a se stessa una storia.
Tu guarda e impara:

non sempre chi taglia separa.

*

Scorciatoia

Forse sono i morti.
Una conversazione fra estranei,
la pioggia.

C’è un limite sul retro della casa
come una piccola ombra.
Una bambina e una nonna girano
gli ombrelli per attraversare.
L’erba cresce in soffioni e ortica sulla scorciatoia.

Mentre camminano il mondo le vede
le cuce in un pegno sopra
un uovo di legno da rammendo.
Ricordano storie che non sono la loro –
l’aria si strega –
vengono su dalle pozze le voci.

Spingi una pietra sotto una pianta
dissangua il futuro dai muri.
Varca la striscia di terra, la fronda
ritorna.

*

Gli altri animali non li volevo mangiare
i loro corpi erano le parole per cui volevo vivere

e non infliggere dolore.
Volevo coprire un’ala per sempre senza piume.

La nascosi un una pianta di more
rovo inestirpabile della mia convinzione.

Ci vuole vista lunga verso ogni riparo
per chi sorge stupita e stupita rimane

si disarma fino alla fine, fino alla fine si espone.
Sono nata un giorno senza spine.

 

Intervista a Francesca Matteoni:

Un libro nuovo che contiene anche testi che hanno già trovato la pagina precedentemente. Cosa c’è alla base di questa loro nuova contestualizzazione? E cosa li porta in vicinanza ai testi più recenti, con cui costruiscono il tuo “Ciò che il mondo separa”?
Ogni libro è anche un ripensamento di quanto si è già scritto, un tornare su testi relativamente antichi, magari modificandoli appena, e riaprire con loro un discorso.
Per me nell’idea che regge la storia dietro (o dentro) “Ciò che il mondo separa”, quei testi sono importanti, afferiscono alla dimensione infantile o più felicemente animale, citando la sezione in cui sono inclusi, da cui poi il resto progredisce, separandosi o ricongiungendosi.
Contengono quanto sono stata, sia nella biografia che in modo reinventato nei versi, quanto ho sognato e quanto questo sogno sia ancora aperto.
Se penso al libro come una vicenda personale, qui è dove, come da bambina, sento fortissimo il legame con gli altri animali e meno con gli umani, anche se sono sempre stata piuttosto socievole. Poi ci sono gli anziani, mia nonna, a cui il libro è dedicato.
Mi chiedo un po’: chi sono le mie madrine? Da dove provengo? Provengo da generazioni di sangue, ma anche dalla pazza di un paese di montagna che aveva 57 gatti, provengo dalla necessità di spingersi altrove, a nord, verso l’orso polare, e al tempo stesso di ritrovare la casa, anche se è un uscio verde, scardinato, rovinato da un incendio. Quella sezione è l’infanzia.

C’è molto natura in questo libro. Mi sembra che non sia mai idealizzata, anzi. Il suo apparire ha sempre a che fare con la propria verità, cruda e vera… è così?
Credo che idealizzare non serve a molto, solo a creare l’illusione che là fuori come qui dentro, non sia poi così pericoloso.
Non si “va” nella natura come in un altrove idilliaco e lontano, perché già siamo natura, con tutte le sue contraddizioni. Fuori di noi ci si perde, ci si arrende al fatto di essere piccoli e inclusi, del tutto alla pari con gli altri esseri, vivi e morti, del mondo. Rendendoci questa fragilità il mondo ci libera, non ci opprime. Perché diventiamo più capaci di stupirci, accettare, perfino ringraziare. Non considero, per esempio, una periferia urbana meno natura di un bosco appenninico, perché ovunque c’è il segno di una relazione, nell’erba che lentamente spacca il marciapiede, nel resto arrugginito in una radura, in certi alberi e piante, frutto di una lunga collaborazione fra i vari agenti.
E poi c’è la questione del dolore. Dell’indifferenza leopardiana dentro cui viviamo in cerca di risposte.
La risposta sta appunto nel divenire solidali, oltre l’umano, almeno per me, almeno per queste poesie. Riconosco l’altro quando ne sento il dolore, soffro per l’orso polare quando capisco che l’estinzione mi riguarda e mi toglie qualcosa.

E, comunque, ho l’impressione che tutto “Ciò che il mondo separa” cerchi un ‘incantesimo’ – attraverso diversi archetipi – a cui appartenere. È questa ricerca un bisogno? Un desiderio? O forse la semplice constatazione che è proprio così…
Sì, è così. Forse questa è la traccia più fedele alla mia infanzia: ho sempre cercato un segreto, un incantesimo che in qualche modo si opponesse al tempo o lo ricollocasse in una dimensione della memoria che risplende perfino nel futuro.
Come se andare avanti fosse un avvicinarsi a tutto ciò da cui siamo separati vivendo e che pure non smettiamo di amare. Un diverso comprendere, una tenacia del tutto personale perché le parole siano un coro, anche ingenuo, che testimonia la vita.
E, per me, il potermi dire che non sono poi così cambiata dalla me di quattro o cinque anni che si faceva promesse e che vorrei che quest’infanzia, feroce perfino nella sua grazia, venisse considerata una voce chiara e luminosa, insieme all’altra voce della vecchiaia, fra cui la nostra età adulta si dibatte.

Perché poi si avverte che, in tutto questo tuo scrivere, c’è sempre un rumore di fondo che disturba, che prende l’attenzione. Ed è un qualcosa che ha a che fare con ciò che è il lato negativo del vivere, che ha radici profonde nel concetto di ‘male’.
Penso che questo sia un punto importante. Che cos’è il male? Non parto mai da concetti astratti, ma da cose che si sono sedimentate dentro di me. Ci sono il dolore e il male. L’amore per il gatto, vissuto come un fratello, e poi l’ostinazione di una bambina nel far rivivere un uccellino morto, proprio perché azzannato dal gatto, è il dolore e il suo attraversamento, tentando di salvare sia l’amore che la fiducia.
Il male è l’oblio delle relazioni, l’illusione del potere che schiaccia, l’illusione di elevarsi a giudici della vita altrui.
Il gruppo di bambini che uccide a sassate l’orbettino è il male. Ma anche la bambina che tace e guarda, lo è, suo malgrado e non riesce fino in fondo a giudicare. Il ragazzino deriso per il suo modo di parlare dovuto alla sordità è il male.
Voltarsi come se questo non ci riguardasse è un male ancora peggiore, quello imperdonabile. I miei personaggi fiabeschi e poetici vogliono tutti salvarsi dal male, che non è il morire: è di frequente una legge umana non scritta di sopraffazione.

Anche la fiaba ha un ruolo significativo in questo tuo lavoro. È presente ed è un confronto importante. Cosa significa per te? E quale ruolo ha nel libro?
È senz’altro uno dei cardini, perché con la fiaba dico la verità. Dico cosa significa essere fratello e sorella, oltre il corpo che ci è stato dato, a volte aggrappandosi a questo legame contro il tempo e il mondo; dico cosa si è disposti a fare per la propria libertà, come Pel di Topo, che uccide e si veste di pelli di topo e ratto, strisciando via, zappettando come una morta alla società, pur di non esserne prigioniera; dico, mescolando la fiaba di Andersen e la vita di un paese che amo, come arriva il perdono. Come ci si arrende.
Per me, l’ho scritto molto spesso, la fiaba dice la verità. Ci aiuta a guardarla in faccia.

E poi, pagina dopo pagina, sembra che ciò che vediamo, che ognuno di noi avverte tramite il proprio sguardo, non basta. Come se ci fosse dell’altro da vedere, da riconoscere. “Ciò che il mondo separa” cerca questo altro sguardo sconosciuto? Tutto da definire?
Non basta perché siamo limitati e fragili, appunto. In quel sentimento dell’ignoto entra di frequente la prospettiva religiosa, l’affidarsi a una qualche divinità. Quanto provo a fare io segue invece una prospettiva animista, che per quanto spirituale non si distacca da questo mondo, ma considera il mondo abitato da persone, in forma animale, vegetale, minerale.
L’ignoto allora diventa il linguaggio degli altri, il modo in cui altri non umani si raccontano la vita, qualcosa che possiamo intuire affettivamente, ma mai completamente. Lo sguardo sconosciuto è quello dell’altro, sia fiume, ghiro o fiore di malva.

C’è una geografia temporale che è l’ossatura del libro (i testi già pubblicati in differenti date) e una geografia che ha a che fare con i luoghi (la torre, la Lapponia, le fiabe in sé…). In che modo queste due geografie si incontrano, si intrecciano?
Si incontrano nel darsi significato a vicenda. I luoghi, lo spazio, dai paesi appenninici al nord europeo, alle immagini fiabesche, si animano proprio perché più volte visitati, perché ritornano nel tempo, e ogni volta qualcosa cambia, qualcosa sparisce e altro emerge. Nella geografia dell’anima, forse, c’è il tema del ritorno, come opposto alla separazione.

Poi, alla fine del libro, è il nostro presente che prende il sopravvento. Il nostro tempo difficile e fragile. E anche il dialogo si fa diretto. Al lettore, alla persona che può esserci vicina. È come se alla fine di un percorso (che si doveva fare, che non si poteva rimandare) si trovi la forza per mostrarsi in prima persona, rinunciare al riparo, mettersi in gioco e non avere paura, uscire allo scoperto.
Sì, accade questo, si delinea un “tu” che sono persone del mio presente e della mia vita, ma anche un tu universale di cui si va in cerca, a cui ci si consegna. Allora, quando davvero la vicenda di un altro ci tocca e diventa la nostra la separazione assomiglia a una crepa che dà valore, come nell’arte giapponese, all’oggetto, che riluce.
C’è anche una volontà precisa di nominare persone specifiche, di dire come alcuni ci cambino o ci denudino radicalmente. Ma questa voce non è immediata, deve risalire dal buio, o dalla “terra delle fate” dove tutto è crepuscolare e vago.
Ci sono le storie minime, capaci di parlarci davvero, nel fiume della storia che si dimentica di noi in cifre e generiche popolazioni. Posso parlare di un eccidio, anche se sono nata molti anni dopo, perché in realtà io c’ero, nel tempo degli affetti della vicinanza, del rispetto, che supera ogni questione anagrafica. “E mente chi dice che non c’ero”.

In queste tue pagine ci sono anche i Mogwai, con un pezzo da “Mr. Beast”. Che influenza hanno nel tuo scrivere? E la musica in generale? Perché mi viene in mente anche Emidio Clementi dei Massimo Volume, che nel progetto El Muniria, all’inizio del pezzo “Stanza 218” declama queste parole: “Amico, tutto ciò che separa è Santo”….
Conosco il lavoro di Clementi e ho quel disco, regalo di un amico siciliano, anni fa. Tutto ciò che separa è la via che segna un cammino. In che direzione proseguire sta a noi.
La musica ha moltissima rilevanza, anche perché ne sono una gran consumatrice. Ho una trasmissione su una radio web, Fangoradio, dove oltre alla discussione e alla lettura passo brani a tema o a volte semplicemente di mio gusto, dove si spazia dall’archivio etnografico, al rock, all’elettronica, al noise, al cantautorato, alla classica.
La musica in poche parole mi piace “tutta”, nel senso che ascolto molti generi diversi, sebbene sia molto selettiva con gli artisti. Quella poesia scritta ascoltando un brano strumentale dei Mogwai, nasce nel 2006, mentre camminavo diretta alla British Library a Londra e ascoltavo il disco in cuffia. Non era ancora l’epoca di spotify!

L’autrice:
Francesca Matteoni è autrice di vari libri di poesia fra cui “Artico” (Crocetti 2005), “Tam Lin e altre poesie” (Transeuropa 2010), “Acquabuia” (Aragno 2014) e del romanzo “Tutti gli altri” (Tunué 2014).
Ha all’attivo pubblicazioni accademiche in italiano e inglese, tra cui: “Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna” (Aras 2014).
Insieme ad Azzurra D’Agostino ha curato l’antologia “Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici” (Perda Sonadora Imprentas 2016), nata da un lavoro svolto in Sardegna.
Le sue ultime pubblicazioni sono il saggio “Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi” (effequ 2019); il libro di poesia “Libro di Hor” con immagini di Ginevra Ballati (Vydia 2019) e un saggio sulle piante sacre nel volume “La scommessa psichedelica” (Quodlibet 2020) a cura di Federico Di Vita.
Collabora alle riviste online L’indiscreto, Kobo e Nazione Indiana, di cui è redattrice, dove scrive di letteratura, ecologia, fiabe, tradizioni magiche.

(Francesca Matteoni “Ciò che il mondo separa” pp. 136, 20 euro, Marcos Y Marcos 2021)

 

 

 

 

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Margini. Di poesia ed altro         ——————————–

A partire da ora

Beatrice Zerbini, “mezze stagioni” e “In comode rate. Poesie d’amore”

di Roberto Lamantea

Nata a Bologna nel 1983, Beatrice Zerbini a quattro anni ha fatto parte del Piccolo Coro dell’Antoniano – che insegna a cantare ai bambini dello Zecchino d’oro – diretto per trent’anni da Mariele Ventre (1939-1995): è lì, confida, che ha potuto dedicarsi allo studio del ritmo e della parola.
Nel 2019 ha pubblicato da Interno Poesia “In comode rate. Poesie d’amore”, giunto quest’anno alla quarta edizione. Ora esce da AnimaMundi, nella collana “piccole gigantesche cose” diretta da Antonia Chiara Scardicchio e Giuseppe Conoci, “mezze stagioni” (il titolo è in minuscolo).
“Poesie d’amore” ma non un canzoniere, per “In comode rate” Alba Donati ha scritto nella prefazione: “Quello che più si sente è una felicità di canto, leggera, sottrattiva, filosofica che tanto ci ricorda Wisława Szymborska. […] Zerbini è anche lei una che guarda dal punto di vista del granello di sabbia, gioca col caso, compila liste per cui vale la pena di vivere, rovescia il tempo, le probabilità, smista le occasioni. […]. È qui che si fa antica, universale, europea”.
Oltre alla Szymborska, Alba Donati individua altre voci i cui accenti, lievi anche nella malinconia e nella perdita, risuonano nei versi di Beatrice Zerbini: Prévert, Salinas, Lamarque, Rodari. Salinas più di tutti: il poeta spagnolo amico di Lorca autore di “La voce a te dovuta” e di un meraviglioso libretto di brevi racconti, “Vigilia del piacere”, entrambi pubblicati tanti anni fa da Einaudi. Certo, anche il canto malinconico di Prévert, la dolcezza dei suoi autunni.
Ecco: gli autunni. “mezze stagioni” è un libro di acquarelli delicati, tra versi e prosa la scrittura è fatta di vocali d’aria. “Saper guardare è un’arte. L’arte originaria di chi scrive in versi e sa farlo per tutti”, si legge nella prefazione di Alessandro Dall’Olio, dove “le parole si muovono al ritmo degli scrocchi delle foglie su cui camminare”.
L’infanzia: “Il tempo non c’era, non esistevano i giorni che consumano, esisteva la luce per andare in spiaggia, la penombra per rientrare e il buio per girare sui marciapiedi gremiti”: forse è questa forma leggera e infinita del tempo che da adulti – come ha scritto Leopardi e come oggi canta Umberto Piersanti – ci fa avere nostalgia dell’infanzia e della giovinezza.
Ecco: Beatrice Zerbini sa trovare gli incantesimi dell’infanzia e della giovinezza nei microeventi che viviamo ogni giorno: basta, appunto, saperli guardare, essere capaci di accogliere la musica delle cose. In una poesia sull’autunno, dagli accenti zanzottiani, Beatrice scrive: “sii autunno, senza/ vergogna, tripudio/ di mente, preludio/ al finire; per quanto/ difetti/ di gemme, sii/ perfettamente autunno.// Qualcuno ti amerà pure,/ senza che sbocci,/ senza tu splenda,/ senza tu dia,/ ché tutto prendi”.
Accogliere il mondo è l’invito di Beatrice Zerbini: così il racconto di un cane che raspa al portone una notte di pioggia, che “bruttissimo e magro tremava e aveva un pelo irsuto di nodi e di sporcizia randagia”, è narrato come un canto blues, frasi ripetute a ritmo jazz.
C’è una poesia, tra le più belle di sempre, dove un vecchio che forse non ha mai ricevuto un po’ d’amore, d’estate esce in bicicletta al mattino presto “nell’ultima speranza/ e una ancora e poi un’altra,/ prima che bruci”; va “nel deserto di un parco,/ vuoto degli amori degli altri”: due versi devastanti: il parco non è pieno ma “vuoto degli amori degli altri”, gli altri si amano, felici, ignari del dolore, e il loro esserci spalanca ancora di più il vuoto di chi l’amore lo sogna da tutta la vita ma non l’ha mai avuto. È un verso geniale, disegna un’assenza attraverso una presenza.
Allora rileggiamo “In comode rate”, dove Beatrice scrive: “ti ho amato con/ e ti ho amato senza […] senza l’indice/ ad additarti,/ senza domandare/ senza domandarti” (qui lo stile ricorda un po’ quello di Silvia Salvagnini); leggiamo la felicità che gioca: “Ti voglio bene,/ da qui a là/ e da là fino a qua:/ un bene che,/ girogirotondo,/ ti sposta il mondo”. Oppure: “perché assomigli come sempre/ agli addii che sappiamo dirci noi;/ per questo e queste nostre paci,/ io mi appunto una poesia/ che spegne le ombre/ con le luci/ e dice// a domani”.
Quella di Beatrice Zerbini è una poesia che ci fa amare la musica della vita che, come una partitura, ha registri, toni, accenti acuti o bassi, è il girotondo di un valzer o un pianto, un grido capace di squarciare le nubi prima di un’aurora: “Io, dell’amore, so solo andare”.

 

Dai libri:

Il mio amore è un vecchio

e d’estate
esce in bicicletta al mattino presto,
con il fresco
che c’è
nell’ultima speranza,
e una ancora e poi un’altra,
prima che bruci.

E ha il fazzoletto di stoffa nel polsino,
per quando lo fai piangere;

ha le vene grosse,
la pelle fragile,
trasparente, di lividi neri
che hanno la forma,
la forza
delle tue dita,
quando accarezzano poco,
o accarezzano male.

Osserva dalla panchina dei giorni,
nel deserto di un parco,
vuoto degli amori degli altri,
i nostri giorni,
te che torni,
e i suoi graffi,
sugli avambracci,
per aver toccato le rose.

Ha il passo lento adesso,
dall’avere corso troppo,
il dolore alle anche,
per il peso
di aver scritto mille poesie
e una.

Il mio amore sta morendo,

di malattia
di vecchiaia
di dolore.

Prendilo adesso,
se lo vuoi,
perché questa
potrebbe essere l’ultima estate.

da “mezze stagioni

*

Non ho tempo per essere infelice,
mi chiamano per nome gli orologi
mi invitano alla festa
di salire
i gradini a due a due,
finché ho le gambe;
di bussare alla tua porta,
finché ho la bocca;
di vivere finché
sono viva.

Non ho tempo per essere
un lamento, declinare gli affetti,
tralasciare il miracolo
di amarsi in due
io sto morendo e

ti distillassi l’amore –
un amore normale –,
a partire da ora,
con l’odore del brodo
su per le scale
e gli esami del sangue a digiuno,
le commissioni,
il carrello storto della spesa,
non saprei come
dartelo tutto e come
recapitarti la cura che ti serbo
intera;
amarti mille volte
con una vita sola.

da “In comode rate. Poesie d’amore

 

L’autrice:
Beatrice Zerbini è nata il 17 gennaio 1983 a Bologna, città che le ha permesso già dal 1987 di dedicarsi allo studio del ritmo e della parola grazie al coro di Mariele Ventre, di cui ha fatto parte.
All’età di otto anni ha iniziato ad avvicinarsi alla lettura e alla scrittura di poesie.
Nel 2006 ha aperto la pagina online di racconti tragicomici, prosa poetica e poesie “In comode rate”. A dicembre 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “In comode rate. Poesie d’amore” (Interno Poesia, con prefazione di Alba Donati), alla quarta ristampa.

(Beatrice Zerbini “mezze stagioni” pp. 88 pagine, 10 euro, AnimaMundi Edizioni 2021)
(Beatrice Zerbini “In comode rate. Poesie d’amore” pp. 138 pagine, 13 euro, Interno Poesia 2019)

 

 

 

 

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Omaggio          ———————————

Ogni suono è soltanto la pausa di un silenzio

Conversazione immaginaria con Ennio Morricone

di Laura Mautone

 

In lontananza si sente uno struggente suono di tromba, un accenno, poi si interrompe, riprende un lungo e malinconico accordo…

I.: Maestro, ma è lei? Non sapevo fosse anche un trombettista …
E.M.: Un trombista, prego … (appena si avvicina posa la tromba), ma era tanto tempo fa … non so nemmeno più quando, lasci perdere, forse c´era la guerra, o forse era dopo la guerra… Non ricordo, devo aver cancellato i ricordi … Sì, era il 46, ora mi pare di ricordare.
I.: È passato un po´ di tempo da allora, certo … ma, La prego, continui pure … non volevo disturbarla …
E.M.: No, no, non mi sento all´altezza … e poi suonare la tromba mi ricorda quando suonavo per gli Americani con mio padre … che vergogna!
I.: Perché vergogna?… Non capisco …
E.M.: Suonare a pagamento per far divertire i soldati … una cosa orribile! La musica non deve mai essere al servizio del dio denaro, meno che meno del cibo … Pensi che a fine serata ci pagavano con sigarette e beni alimentari, che poi noi vendevamo … e poi non mi piaceva per niente suonarla. Mi sentivo a disagio … c´erano le donne e l´alcool … io ero un ragazzino … La tromba la suonava mio padre ed era straordinario. Al corso di solfeggio presi tre … mio padre mi punì. Lui sì, che era bravo … cioè abbastanza bravo, diciamo …
I.: Ma anche lei è un musicista affermato … su non si schermisca …
E.M.: Chi glielo ha detto? Forse un compositore, ma non un trombista, di sicuro. Chissà, sarà il tempo a dirlo …
I.: Il tempo lo ha già detto (sussurra) … ma come passa le sue giornate qui?
E.M.: (Si ferma ad ascoltare il silenzio) … Lo sente? … Inseguendo quel suono … e quando non ci riesco (si avvicina ad una scacchiera) … gioco a scacchi, vuole fare una partita? La sfido …
I.: Mi prende alla sprovvista, è da tanto tempo che non gioco più a scacchi, ma se vuole … ci provo. Per lei …
E.M.: (sistemando i pezzi sulla tavola) Che cosa preferisce? I bianchi o i neri?
I.: Faccia lei … Ma quando ha iniziato a giocare a scacchi?
E.M.: Bene, allora le dò i Bianchi. I Neri sono molto più intriganti … e interessanti, a volte. Badi che non è un riferimento politico, mi raccomando, non si sa mai oggi …
I.: No, certo, semmai pensavo ai Guelfi Bianchi e Neri o ai Guelfi e ai Ghibellini
E.M.: … È divertente … è come un combattimento senza cruenza, che insegna la battaglia della vita, la forza della resistenza. Il dramma è tutto contenuto… la avviso, sono stato seconda categoria.
I.: … Ah beh, allora …
E.M.: No, non c´entra nulla la storia dei Comuni italiani, è più una questione legata agli abissi dell´animo umano: alle due facce della stessa medaglia, siamo così noi uomini. Possiamo spaziare dalle altezze della generosità bianca alle malvagie debolezze nere … La matematica, il calcolo sono sempre stati tra le mie più grandi passioni, anche se non ero bravissimo in matematica … insieme alla musica, ovviamente.
I.: … dalla matematica alla musica il passo è breve … Lo sostenevano anche gli antichi tra le arti del quadrivio era compresa anche la musica, no?
E.M.: certo … ma ancor prima … la musica è tutto. E´ la possibilità del silenzio … è questo gioco delle possibilità che mi attira … Se c´è un segreto bisogna cercarlo nel silenzio, perché è musica, almeno quanto i suoni, forse di più. Bisogna cercare tra i vuoti, tra le pause. Ogni suono è soltanto la pausa di un silenzio. Attenzione a quel cavallo…
I.: Ma quali sono i suoi maestri?
E.M.: … i miei maestri? Cosa intende? Se parliamo di maestri veri direi Goffredo Petrassi, senza alcun dubbio. Se parliamo di classici, direi Johann Sebastian Bach e Igor Stravinskij.
I.: Niente male …

E.M.: Lo sa a che ora mi alzavo tutti i giorni? Non si dimentichi di muovere, però …
I.: No, mi dica… Ecco … ho mosso l´alfiere.
E.M.: Mi pare che Lei non abbia una grande strategia … Allora, la mia giornata iniziava alle 4 di mattina. Facevo ginnastica, la doccia, poi uscivo a comprare i giornali, leggevo e alle 8 e mezza facevo colazione con mia moglie. Poi mi chiudevo nello studio a lavorare. In quel momento tutto era silenzioso e la mente poteva inseguire le onde, i suoni. L´unica che poteva entrare era mia moglie.
I.: … e cosa fa se di notte le vengono in mente delle idee?
E.M.: Me le appunto. Se no poi passano e non le ricordo più.
I.: Crede nell´ispirazione, dunque?
E.M.: Sciocchezze. Sulla melodia si lavora. Non è magia, ha delle logiche.
I.: Già … Bach e Stravinskij, diceva … Che cosa hanno in comune?
E.M.: La stessa capacità di creare e poi sfuggire. … Poi anche Giovanni Pierluigi da Palestrina, Claudio Monteverdi e Girolamo Frescobaldi.
I.: Beethoven e Mozart?
E.M.: No. Nemmeno Haydn, Schumann e Mendelssohn…. Ecco, ho mangiato il suo alfiere.
I.: Non si distrae mai, eh …
E.M.: Volevo dare alla musica applicata la dignità della musica assoluta. Gli editori volevano che le colonne sonore di un film vendessero indipendentemente dal film, ovviamente. Io cambiai lo stile di scrittura: non davo spazio alla ritmica, volevo che la musica servisse al film e che il film servisse alla musica.
I.: Lei ha scritto anche canzoni di grande successo … Mi viene in mente Se telefonando cantata da un´insuperabile Mina …
E.M.: Brava, vedo che se ne ricorda … Ha mosso? Tocca a me, allora … attenzione alla torre. E` lì tutta sguarnita … Io creavo temi con meno suoni. Infatti quella canzone si apre con tre suoni, usati in modo del tutto non convenzionale, in un tempo di quattro quarti l´accento tonico non capita mai sullo stesso suono. Eppure, fu un successo …
I.: Come si guadagnava da vivere in quel periodo?
E.M.: Io e Maria eravamo già fidanzati. Lei lavorava come segretaria presso la sede della Democrazia Cristiana e, grazie alle raccomandazioni, mi offrirono un posto alla RAI. Il direttore del centro di produzione RAI di via Teulada mi disse che non avrei mai potuto far eseguire la mia musica in RAI. E io: “Scusi, studio composizione e la RAI non può trasmettermi? E perché?” Mi dimisi subito. Lui replicò: “Ci pensi bene. Perde un pezzo di pane per tutta la vita”. Ammetto che quella frase mi fece pensare …
I.: Pochi anni dopo diresse anche l´orchestra al Festival di Sanremo …
E.M.: Non ne vado fiero. Avevo sempre il pallino della musica assoluta … ma avevo un contratto con la RCA e mi ci costrinsero … Lavorai anche nella rivista … ma non era quella la mia strada.
I.: Se è per questo ha lavorato tanto anche per la TV, ma che cosa intende per “musica assoluta”?
E.M.: E´ la musica che non dipende da niente, nasce da me, non è debitrice di nulla, né al regista né al produttore, a differenza della musica applicata al cinema, che è al servizio del film.
I.: E con Sergio Leone e gli spaghetti western che cosa ha decretato il successo e la grandezza di quelle colonne sonore? E` stata l´introduzione del fischio?
E.M.: Si riferisce a Per un pugno di dollari? Sergio si entusiasmò. Avevo inventato una melodia su un arrangiamento di un pezzo americano … di Woody Guthrie … Quella musica lasciava aperte delle strade, strade che poi ho percorso con Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo. Quando si è accorto che utilizzavo anche i pezzi scartati da altri mi ha detto: “Ennio, fammeli sentire tutti”. E` così che recuperammo quello che diventò Il tema di Deborah per C´era una volta in America. Gli piacque tantissimo. In realtà era un brano scartato da Zeffirelli … niente di meno … per Amore senza fine.

I.: L´armonica, il carillon, il flauto di Pan … in fondo lei ha sempre inserito dei suoni … dalla realtà …
E.M.: Suoni concreti, li chiamavo io. Ci ho messo persino una pressa, eh … ma quello era ne La classe operaia va in paradiso
I.: Lei ha collaborato anche con Pasolini … Com´era?
E.M.: In che senso? Una bella persona. Non sorrideva molto … Per Uccellacci e uccellini mi si presentò con una lista di pezzi tra i quali avrei dovuto scegliere … Io gli dissi che ero un compositore e che avrei dovuto rifiutare. Allora lui mi disse di fare come volevo io. Nessun altro regista mi aveva dato tanta libertà all´inizio. Voleva solo che ci fosse sempre un tema di Mozart, credo per scaramanzia …
I.: L´idea dei titoli di testa di Uccellacci e uccellini
E.M.: Non si dimentichi di muovere … Fu di Pasolini. Mi suggerì di comporre la musica per una canzone che cantava i titoli di testa del film. Fu Domenico Modugno a interpretarla. Era un caleidoscopio di suoni. Doveva cantarla Totò, ma lui si rifiutò. Quando diceva Ennio Morricone musicò ci misi una risata fortissima … era la mia … (ride…)
I.: Un´idea molto originale … credo sia un unicum …Ma come fa a costruire la musica su un film?
E.M.: Sto attento al film. Per me sono importanti la scenografia, la fotografia, i costumi, la recitazione, la storia … Non voglio mai tradire quello che si vede nel film. Alcuni film riescono subito a darmi un´idea musicale. Altre volte devo raccontare la musica al regista… il pianoforte aiuta, ma non riesce a far ascoltare la strumentazione. La musica non si racconta, va ascoltata.
Vuole che le confessi un segreto? Ha mosso?
I.: Molto volentieri … La ascolto … Sì, certo …
E.M.: Non riguarda gli scacchi, però … Nei miei brani io inserisco sempre il nome di Bach e il tema dei tre suoni del ricercare cromatico di Frescobaldi. In questo modo mi pare di dare dignità alla mia musica. Ma non se ne accorge nessuno, eh … anche perché, a volte, confondo le acque …
I.: Ma a che cosa serve la musica?
E.M.: Che domande … A cosa vuole che serva? … A niente e a tutto. A comunicare, innanzitutto…
I.: Ma c`è un regista al quale è particolarmente legato?
E.M.: Peppuccio … Giuseppe Tornatore. Tra i registi è quello che ha imparato di più. Oramai sa descrivere la musica meglio di me. Un grande amico … Abbiamo lavorato a 11 film assieme… In Nuovo Cinema Paradiso ha collaborato anche mio figlio Andrea. Il tema d´amore, quello della scena dei baci tagliati, è stato composto da lui. Io apportai modifiche insignificanti.
I.:Stavo pensando che l´Oscar sembra un pezzo degli scacchi … (si sofferma sulla scacchiera dove sono rimasti pochissimi pezzi bianchi)
E.M.: Ma lo sa che ha ragione, potrebbe essere un alfiere … (pronuncia queste parole mentre con uno sguardo sornione mangia anche l´ultimo alfiere)
I.: Allora, alla fine qui in paradiso si è alleato con Beethoven o con Mozart? (muovo il Re senza pensarci)
E.M.: Secondo Lei? … (muove la Regina e fa scacco matto con il sorriso negli occhi) Glielo avevo promesso … in 12 mosse …

 

Bibliografia:
(liberamente tratta da)
Donatella Caramia “La Musica e oltre. Colloqui con Ennio Morricone” Morcelliana Editrice, 2012
Ennio Morricone “Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita. Conversazioni con Alessandro De Rosa” Mondadori, 2016;
Ennio Morricone, Giuseppe Tornatore “Ennio. Un maestro” Harper & Collins, 2018.

 

Il maestro:
Ennio Morricone (Roma, 10 novembre 1928 – Roma, 6 luglio 2020) è stato un compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore italiano.
Studiò al Conservatorio di Santa Cecilia, a Roma, dove si diplomò prima in tromba e poi in composizione, sotto la guida del compositore Goffredo Petrassi; ha scritto le musiche per più di 500 film e serie TV, oltre che opere di musica contemporanea.
La sua carriera include un’ampia gamma di generi compositivi, che fanno di lui uno dei più importanti, prolifici e influenti compositori cinematografici di tutti i tempi.
Le musiche di Morricone sono state usate in più di 60 film vincitori di premi. Come giovane arrangiatore della RCA, ha contribuito anche a formare il sound degli anni sessanta italiani, confezionando brani come Sapore di sale, Il mondo, Se telefonando, e i successi di Edoardo Vianello, Dino, Gianni Meccia e soprattutto Gianni Morandi. (da Wikipedia)

 

L’autrice:
Laura Mautone in questo periodo è lettrice di italiano all’Università di Stoccarda, ma ha sempre insegnato Italiano e Storia in un liceo a Merano.
Ha curato un volume di interviste ai maggiori poeti italiani del secondo Novecento, “Che cos’è la poesia?” (Corraini 2002) e l’antologia di racconti “Verso dove. Scritture di confine da Merano a Trieste” (Fernandel 2003).
Nel 2005 è uscita la sua prima raccolta di poesie “Dell’amore e di altri aneurismi” (Traven Books), nel 2007 “Acufeni nel cuore” (Raffaelli) e nel 2014 “Come sabbia come neve” (AlphaBeta).

 

 

 

 

Immagini       —————————

Como en casa no se come en ningún lado

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————-

Sulla libertà dipartita

Giorgia Vecchies, “Indizi di un dove”

di Giovanni Fierro

Non fa sconti la poesia di Giorgia Vecchies, non trova facile consolazione né scorciatoie emotive. È attenta e partecipata, cura il filo della lama con cui intarsia la materia di cui ogni sua poesia è fatta, il vivere.
Indizi di un dove” è qui a dimostrarlo, con queste sue pagine che divise in due capitoli vanno incontro a ciò che si è, a quella spinta che siamo stati, a ciò che potremmo essere.
Il libro si apre con una partenza che assume le direzioni della fuga, dell’andare via, del non poter più stare dove si è creduto di rimanere. Basta una stazione o un’autostrada. Anche poi per ritrovarsi a casa, forse un’altra, dove misurare con il proprio stare la lontananza da ciò che è perduto e che non si dimentica.
Ogni passo è immerso in un tempo dove si è sicuri che “uno dei grandi impegni/ della notte è guardare/ le ore che passano”, una verità che assorbe anche la luce del giorno, capace di trasformarla in poche parole che sembrano tenere in piedi il proprio mondo.
Qui ci si accorge che rimane “tra noi una tenacia stanca”, che ha bisogno della sua fine, di un gesto liberatorio e ultimo, estremo e necessario; perché “non c’è una traduzione/ un altro valore alle tue labbra”.
Giorgia Vecchies mette così in scena solitudini che a stento si muovono, fanno i conti con se stesse sembrano giunte al punto in cui non possono più sostenere il costo della propria vita.
E si può rimanere solo dentro queste fotografie che la Vecchies scatta, di parola in parola e frasi dopo frasi.
Il suo scrivere è sempre al servizio del suo dire, delle immagini e dei gesti che sono il libro, delle atmosfere che sanno farsi respirare con intensa realtà.
Di tutto questo raccontare l’autrice poi pone lo sguardo verso l’esterno, verso uomini che riempiono il quotidiano e il cui stare al mondo è una incisione profonda nella carne.
L’uomo in giacca e cravatta/ ha mani colme di nebbia/ e ritagli di vetro, sulla strada/ cammina schivo dall’altro./ L’uomo vestito di cartone/ ha mani piene di scarti/ e negli occhi una rosa”.
Con queste figure che si muovono, a fatica e dimenticate, in un luogo che hanno in comune e in cui ci sono silenzi con cui proteggersi e da cui non riuscire a scappare, ognuno può chiedersi se sia questo il tempo dell’abbandono, il mondo che presenta il conto.
L’uomo in giacca e cravatta/ ha costruito una barca di cartone/ dove poter affondare,/ senza colpa, senza mani per remare”.
La sua è la tensione di sapere bene che ognuno dei protagonisti di “Indizi di un dove” è stato una promessa, la dura responsabilità di essere mantenuta con il fiorire e il fare frutto, in un ‘dove’ che ha a che fare con ogni difficoltà: “Forse siamo germogli/ su cortecce devastate dal tempo”.

 

Dal libro:

Ad un certo punto
si può lasciare tutto:
la casa, un oggetto, un libro
la pazienza delle luci
le costellazioni da interpretare.
A vivere ci penso domani.

*

Fammi un sorriso di circostanza
è meglio non andare a fondo
sul dolore accumulato
si cammina sopra
le situazioni andate a male
da conservare sotto vetro
che non si senta l’odore
del mare che ci porta via
da questa laguna spenta.

*

Unica possibilità di respirare
un’ora d’aria alla finestra
anche il vento batte contro
i balconi malfermi
sulla libertà dipartita
chiudere le imposte
fino a data da destinarsi.

*

L’uomo in giacca e cravatta
sotto la camicia bianca ha
sette vestiti tutti uguali:
nascondono i segreti puntati a est
inchiodati alla scrivania. Immobile
la lancetta del tempo danza
anche per l’uomo nella scatola
di cartone che ha il sole più caldo
ma il freddo è freddo.
Sul pavimento è la stessa cosa.

 

Intervista a Giorgia Vecchies:

La prima parte di “Indizi di un dove” mette in relazione il tema del viaggio, inteso come fuga, con il tema della solitudine. Quale è la loro vicinanza, la loro reciproca appartenenza? Se c’è….
Il viaggio è una invocazione della solitudine.
Nel viaggio c’è la spinta verso un altrove, a volte la necessità del ritorno, il momento prima della partenza, la paura e il desiderio dell’ignoto, la ricerca di una sfida, la possibilità di non trovare accoglienza nel destinatario del viaggio, sia esso fisico che metaforico, la ricerca di una consapevolezza di trasformazione, il viaggio che porta ad un silenzio dove fermarsi a meditare.
A volte si trova un intoppo lungo il cammino, l’incapacità di procedere e il dover tornare col peso del fallimento.
Vedere il fallimento da spettatore è doloroso, ma molto utile; serve per guardare in faccia la tigre, i propri limiti, gli alibi costruiti per non ammettersi come si è.
La solitudine è amica fedele, una compagna di vita che non fa male, a volte è un aiuto crudele. È con me alla stazione, dietro al cancello che attende la persona cara, durante il viaggio e nel ritorno.

Poesia dopo poesia affiora l’importanza, per ogni protagonista del libro, di avere una propria storia, una propria provenienza. Era già alla base di questa tua scrittura, l’idea di far emergere il vissuto di ognuno?
Inizialmente vi era l’intenzione di far emergere qualcosa del vissuto quotidiano, non ben strutturata, ma poi l’edificio poetico ha preso forma, testo su testo.
Far emergere il vissuto intimo, nascosto da maschere sovrapposte, mi incuriosisce; è come puntare l’obiettivo di una macchina fotografica e comporre diversi fotogrammi della vita o di una persona.
Questo mi conduce alla riflessione, e principalmente a due conseguenti considerazioni: la prima è che la mia anima implora una vita piena e non l’accontentarsi, non vuole uno spegnimento nelle abitudini, a costo di ferirsi per uscire allo scoperto; e la seconda a non giudicare, perché vi sono molti strati da esaminare, molto da scavare per capire l’animo umano, prima di darne verdetto.

La parte conclusiva, dedicata a diverse figure maschili, non trova mai un nome, né un cognome. Solo un accenno a chi indossa la cravatta o a chi si veste di cartone…. Come mai questa scelta?
Uomini senza nome, in giacca e cravatta o vestiti di cartone sono stereotipi da superare.
L’idea è nata per caso, mi suonava bene questo “uomo in giacca e cravatta” e da lì è scaturita una serie di personaggi veri, senza nome perché identificabili nel genere umano tutto.
In maggioranza sono figure maschili, certo, il mondo femminile mi è maggiormente noto, c’è un confronto aperto tra le amiche, che non richiede un approfondimento o una vivisezione come il mondo maschile, altro da noi.
L’uomo è lo sconosciuto che richiama la mia attenzione, ma poi diventa l’uomo in senso lato, come umanità, nel quale osservo il disagio del vivere che non ha sesso.
Infatti, c’è un testo, a pagina 45, dove “l’uomo in giacca e cravatta/ è una donna senza fiori…” che insinua la possibilità, un indizio, per indagare, appunto, anche nel mondo femminile e scoprire forme molto simili di disagio, di dolore, di fallimento.
Il motivo per cui punto il dito sul malessere è dovuto al fatto che, nel vederlo con chiarezza, si è spinti a seguire ciò che l’anima grida e suggerisce di non perdersi, incita a ricostruirsi, sempre.
“…segna la fine/ del Calvario, sulla Croce appende/ la camicia bianca,/ …trova …un desiderio ardente,/ come nell’intaglio/ asfaltato semi di clorofilla”.

La tua scrittura mira all’essenziale, al concreto, alla vena della narrazione. Da cosa nasce questa sua identità espressiva?
La mia scrittura rappresenta la mia necessità di delineare con pochi tratti una figura, una situazione.
Incidere nel legno, lasciare un segno ben definito. Trovo che questo mi dia la soddisfazione del creare con gesto breve qualcosa di più grande, una sorta di aforisma.
È questo “un dove” al quale sono arrivata dopo un percorso accidentato, dove regnava la confusione, cercare una parola, la più precisa possibile per indicare un qualcosa, un qualcuno.
Nasce dalla visione di una determinata situazione che mi coinvolge, ad un primo momento scorgo una certa confusione, che colgo, ne seguo il decorso fino all’ultimo stadio, apparentemente irrisolvibile.
Una posizione incancrenita che chiede una scintilla per riprendere vita, per riattivare un’anima spenta. Superare il dolore, la stasi, con lo sguardo che diventa crudelmente cinico, per avere la fermezza chirurgica della visione, senza slabbrature.
Lo scopo è il superamento del disagio, il proseguire ancora e ancora.
Posso ancora tentare la sorte”.

 

L’autrice:
Giorgia Vecchies è nata a San Giorgio della Richinvelda (Pn).
Negli anni ha partecipato a diversi laboratori di lettura e scrittura e a vari incontri letterari.
Tra cui quelli con il Gruppo Majakovskij, Claudio Moras, Alessandro Cadamuro, Dario Marini, Martina Boldarin, e quelli proposti dalla Samuele Editore.
Nell’agosto del 2014 ha partecipato al Festival dell’Arte di Grado vincendo il primo premio.

(Giorgia Vecchies “Indizi di un dove” pp. 70, 12 euro, Samuele editore 2021)

 

 

 

 

Immagini       —————————

Satan-worshiping super high panther

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————-

Ricordate di quando

Matteo Bonvecchi, “In crepa di melograne”

di Salvatore Cutrupi

Nei secoli scorsi, oltre alla musica sacra e alle forme artistiche come la pittura e la scultura, raffiguranti la Vergine, Gesù e i vari Santi, anche la poesia religiosa aveva un ruolo importante nel panorama culturale dell’epoca.
Oggi sembra che si avverta un senso di disagio, di perplessità nel venire affascinati ed ispirati da temi religiosi, anche per il timore di un dissenso da parte di chi ha una visione areligiosa della vita.
Si dà quindi molto più spazio a quel genere di poesia che esprime un pensiero laico, in particolare riguardo al grande mistero della Creazione.
Matteo Bonvecchi, nel suo libro “In crepa di melograne” fa propri molti temi religiosi e li propone con dovizia di informazioni.
Insieme alla bellezza umana l’autore celebra la bellezza divina, di un Dio che soffre e muore per la salvezza dell’uomo.
Nelle sue poesie vi sono molti riferimenti biblici, numerosi episodi avvenuti nell’Asia Minore del primo secolo, fatti e circostanze che il poeta racconta con evidente fervore mistico; ma con semplicità, senza sovrastrutture che possano appesantire i testi e senza la presunzione di voler dare un messaggio morale.
Penso che questa silloge, oltre ad essere letta, debba essere anche “ascoltata” per capire se e quanto ciascuno di noi ha il desiderio, o il bisogno, di avvicinarsi a comprendere i misteri della Creazione e della vita.
Le strofe del libro incarnano e riflettono tutto il patrimonio spirituale dell’autore, il suo essere figlio e testimone di Dio, in ogni momento e in ogni luogo.
La peculiarità della sua ispirazione poetica è certamente molto influenzata dal suo vivere nelle colline marchigiane, vicino a Recanati, all’Infinito del Leopardi e accanto a luoghi che sono mete di pellegrinaggi di pace e di fede.

 

Dal libro:

Presagio

Ricordate il villaggio-dice
la casa col grande cortile
in mezzo, i parenti
i giochi chiassosi dei bambini?
Lui era così fiero e dolce.

Ricordate di quando
tutta la famiglia scese
e mi trascinarono a Cafarnao?
Dicevano fosse impazzito.

Ma solo io ricordo
dopo la fatica del viaggio
l’incavo nella roccia

e di quel buio lo squarcio
bianco delle lucenti fasce.
Quell’indicibile presagio.

*

Talja’

Quella tunica
tessuta di giorno
in giorno dalle sue mani
di madre. Quella tunica – come
vi si stringe l’amato!

imbrattata ora
da lupi feroci

*

Testimoni

Eppure noi vedemmo
una luce venire che rese
tutto così trasparente, così reale
che, senza traccia d’ombra
– per quanto le tenebre
ferocemente provarono
d’inghiottirla e invece
ne furono sconvolte
per sempre – pur sull’orlo
dilavato del divenire,
per sola sua potenza ne vivemmo
a nostra semplice testimonianza.

*

Bema

Un catino, l’acqua
il suo riflesso
sui piedi scalzi, bianco
stretto attorno
alla vita il lino.
La stanza al piano superiore
– è versato intanto
in crepa di melograne
il vino rosso sangue –
quella stanza nuziale ora che
trabocca di smarrita incomprensione
di consapevole stupore e accade
tra noi il miracolo della tua parola
è un bema già pulsante
di piena luce per quante vite
ancora e pensieri, amori
d’esistenza fieramente vissuta

è il tuo corpo lassù in alto
regalmente innalzato.

 

Intervista a Matteo Bonvecchi:

Tu sei un insegnante di religione. Che ruolo gioca il tuo essere poeta nel rapporto con gli studenti?
Come il poeta, l’insegnante, il professore, è uomo della parola (a volte dalla voce rauca, per via di cronici mal di gola!). Certo, in maniera diversa, ma la parola emessa, pronunciata, professata, resta al centro.
Il mio essere poeta – ma poi, posso dire di esserlo? – mi sprona ad evitare l’inutile spreco delle parole, il loro rumoroso abuso, facendo giustizia di tanta lettera morta; e a saper riconoscere la parola che non apre il pensiero ma lo dissimula, la domanda infida, maliziosa, cui non vale rispondere.
L’insegnante, come il poeta, è pure uomo del silenzio! Poesia, capacità d’essere nelle cose per trasgredirle, per scorgervi una ulteriorità mai scontata, e trasvalutare ogni cosa ma solo per esserci di più: una dinamica del tutto simile l’intendo nella professione-vocazione dell’insegnante, e nel mio piccolo la tento come insegnante di religione, nel provare ogni mattina, coi ragazzi del liceo, a intravvedere anche nell’inapparente quotidiano, nel grigiore dei giorni l’increspatura di luce, il frammento, la scoria infinitesimale, la scintilla dell’Infinito, ciò per cui l’uomo è fatto.
Poi, “in principio era il Verbo”, una parola che sveli e ri-veli come daccapo il senso drammatico del vivere, con fatica e sofferenza e passione l’impossibile possibilità di proseguire, di non rassegnarsi alla desolazione dell’assenza.
E, proprio come in poesia, allora avviene l’irruzione dell’inatteso: mai realizzazione d’un programma-progetto, ma processo di genesi dagli esiti imprevedibili, enigmatici. Allora posso dire di sperimentare la parola creatrice, luogo dell’apertura dell’essere. La parola fa essere, nel senso dell’offerta e del dono, questa la sua forza e la sua fragilità.
Chi è chiamato a parlare consegna sé alla parola come uscita da sé, amorevole esodo, ma ciò implica l’esporsi al possibile equivoco e anche al rifiuto. Anche chi ascolta rompe la chiusura dell’io per disporsi ed esporsi alla voce dell’altro.
Ogni mattina io sperimento che c’è comprensione solo quando, nascendo dal silenzio, avviene questa reciproca esposizione come abbandono di sé per poi ritrovarsi nella co-appartenenza: allora si realizza l’essenza dialogale, comunicativa, dell’uomo, che è poi l’essenza stessa di Dio.

“In crepa di melograne”. Da cosa nasce il titolo del libro?
Il titolo, nella forma “melograne”, mai attestata, quasi un errore, è omaggio a un bellissimo verso di Milo De Angelis, “parlavi di lei oscura furia delle melograne”.
Con tutto il simbolismo di fecondità e passione sempre riferito alla melagrana (insieme a quello ecclesiale, dell’unità dei molti nell’unico frutto) e con quella particolare, insistita ricorrenza nel Cantico dei cantici.
È una meraviglia quando, come ora nei colori d’ottobre, le melagrane si crepano e mostrano il loro segreto, i rossi grani: nell’arte (Botticelli, Leonardo, Pinturicchio, Crivelli) il richiamo è alla piaga del costato, quello squarcio da cui scaturiscono, secondo Giovanni, l’acqua e il sangue della vita, un parto. Vita da morte.
Chi ha visto ne da testimonianza”: in quella ferita, in quella crepa del fianco tutti i mistici anelano dimorare.

In molte poesie del tuo libro si avverte la presenza del Creatore nelle cose terrene. Qual è il vero motivo che ti ha fatto scegliere di affrontare e trattare questo tema?
Sono le segrete rispondenze, foriere di presagi, riverberi del Senso. La poesia fa riemergere la creazione dal mutismo, le restituisce la parola originaria, eco del Verbo primigenio. Quando vado magari a camminare in montagna, il percepire che vi si nasconde Lui, rende il bosco così affascinante! Che ci sia la presenza del suo Mistero anche nella dimensione cosmica muta e compie il senso d’ogni aspetto della realtà: “verbum divinum omnis creatura” (Ugo di S.Vittore), ogni creatura si fa parola.
Secondo il dettato agostiniano, ove tutte le creature con la loro bellezza rispondono: “Cerca più in alto” (oppure, se si vuole, Montale: “perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”“) ogni elemento della natura, del paesaggio, ogni animale, ogni oggetto è pienamente se stesso e al contempo è segno, rimanda ad altro.
Anzi è pienamente se stesso proprio nella misura in cui realizza ed è colto nella sua essenza simbolica. Anche le persone, anche moglie e figli. Chiamati a cercare nelle pieghe e nelle piaghe del reale, nell’incontro con le cose, la traccia misteriosa dell’Infinito.
A me pare non esista alcuna possibilità poetica senza questa funzione di rimando. E che il rimando possa essere a Dio – o meglio al Figlio, archetipo e compimento d’ogni cosa – ce lo insegnano Bernardo, Francesco e tutti coloro che erano capaci di scorgere la sua Presenza anche nelle pietre.

Tu vivi a Montecassiano, tra i colli cantati da Giacomo Leopardi. La vicinanza geografica con la città di Recanati come e quanto ha influenzato il tuo poetare?
Qua davvero ogni colle, ogni angolo, ancora risuona dei versi altissimi. A volte me ne vado, solo, e nelle ore più quiete, coi Canti in mano, ai suoi luoghi, per immergermi in quei silenzi.
A Recanati, si dice, sono tutti poeti, ma è vero che dopo Leopardi, perlomeno a Recanati, non è più possibile fare poesia. Il suo mito è eredità così soverchiante da risultare del tutto impraticabile e generare afasìa, se non si vuole scadere in un lirismo banale.
Poi c’è la formula di Carlo Bo (Leopardi come “simbolo interiore”) che vale per tutti i poeti marchigiani: è impossibile non farci i conti. Un tema per tutti: il paesaggio. Questo che mi trovo alla finestra è paesaggio concretissimo (la vita quotidiana d’un piccolo borgo con tutta la ricchezza delle sue voci) e paesaggio dell’anima, il paesaggio degli idilli, lo stesso che i pittori del Quattro-Cinquecento (penso al Lotto) fissavano sulle pale, per fondo ai santi.
Qui il paesaggio non è decorazione residuale, ma da sempre sta a tema, e non poteva essere altrimenti, da farsi persino orizzonte mentale nella sensibilità della gente. Per quanto, va detto, oggi deturpato, e con maggior indolenza da qualche decennio a questa parte. Allora il leggere qui Leopardi gioca quasi come accensione nostalgica, di struggente malinconia.
La Natura è moribonda, assiste al proprio massacro: oggi Leopardi – ebbe a scrivere Remo Pagnanelli –“ne avrebbe pietà”. E Natura intesa in tutte le sue accezioni, più che madre o matrigna, sorella violentata anche a nome d’idee e capricci. Questa è una delle realtà che suscitano nel mio versificare più malinconia, unita a una tensione che chiamerei escatologica, però non estrema, mai avulsa dalla ricerca di una “armonia” superiore.
Mi chiedo se siamo ancora in tempo per tornare a imparare dalla caratteristica forse più peculiare della “marchigianità”: la sapienza di abitare il limite, il confine, la siepe leopardiana come cifra esistenziale e accensione continua del desiderio.

Nella silloge ci sono spunti autobiografici religiosi. Sembra che tu abbia sentito il desiderio o forse il “bisogno” di mettere a nudo il tuo percorso spirituale. È così?
No, non è così. Si capisce, in ogni opera è presente l’autore, la sua storia, la sua personalità. Ma qui la componente autobiografica mi sembra poco rappresentata, almeno nelle mie intenzioni.
Il percorso spirituale, rievocato come a lacerti, ho immaginato essere quello del discepolo amato, nelle immagini, nei ricordi, che vanno da Efeso (dove vive con la “Madre”) alla Palestina.
Poi è vero che l’operazione che intendevo compiere è di far da spola costante tra quella che potrebbe essere l’Asia Minore del primo secolo e il vissuto personale dell’oggi, che però appartiene a ciascuno, e ciò solo a rimarcare la perenne attualità dell’Evento.

 

L’autore:
Matteo Bonvecchi (1977) è docente al Liceo Classico di Macerata e vive a Montecassiano, tra i lieti colli cantati dal Poeta della vicina, sovrastante Recanati.
Con “Le odorose impronte”si classifica primo al concorso Faraexcelsior 2018 e vince il Narrapoetando nel 2020 con “In crepa di melograne” e nel 2021 con “De praecipitata luce”, condensato lirico della sua passione per la storia dell’arte locale.
È giurato in concorsi letterari nazionali.

(Matteo Bonvecchi “In crepa di melograne” pp.70, 10 Euro, FaraEditore 2021)

 

 

 

 

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El infierno de Dante

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

 

 

 

Ti racconto       ——————————-

Strade bianche del Carso

di Luca Buiat

 

Strade bianche del Carso
nella polvere scossa scorrono
arricciate dai capricci della bora
se ne vanno accese sull’altopiano
ti chiedono di accompagnarle lungo il cielo
dove passano sulla terra

sono tratti sottili
sono fantasmi venuti al mondo nei tuoi sogni notturni
attraversano il tetto, scendono dalle scale
ti vengono a cercare
ti portano le scarpe e lo zaino fin sulle spalle
ti dicono di lasciarti andare dentro quei tornanti

ti svegliano prima dell’alba quei sentieri sassosi
e tu li accogli
nella luce chiara che scende dal solaio
cade sulle rocce bianche calcaree
nella mappa geo-mentale carsica Adriatica
che vive in te

richiami volatili e riverberi terreni
invitano i tuoi passi nel paesaggio
lungo percorsi dipinti di terra rossa
appiccicata alle scarpe
nelle polle acquatiche di maggio
dove guardi il cielo che cammina con te

c’è un sambuco aperto che danza
nel mare verde carsico
ha nelle mani, nei rami
materia di stelle bianche
con nuove tracce da svelare
interi mondi, in strade bianche
le strade bianche del Carso.

 

L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons nel 1971.
Il piacere nei libri la scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse.
Dopo questo libro inizia a scrivere qualche rudimentale piccolo racconto o poesia.
Appassionato di paesaggi naturali nei quali preferisce attraversarli a piedi o in bici, Buiat pensa che sia già tutto scritto. Occorre a “noi” osservatori percepirne la lingua che sentiamo in mezzo ai nostri passi.
Da qualche anno ha iniziato a frequentare i corsi di scrittura creativa che si tengono all’Unitre di Cormons (Go).

 

 

 

 

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…but you love me?

Nove quadri

di Pablo Iglesias Prada

 

Intervista a Pablo Iglesias Prada:

di Giovanni Fierro

(Grazie a Maria Dolores Nogueira Docampo per le traduzioni, la disponibilità e la pazienza.)

I soggetti dei suoi quadri sembrano essere degli incubi, che si mostrano con i propri corpi. Può essere così?
Come in tutta l’opera artistica, questa si presta a molteplici interpretazioni, dipendendo dallo sguardo dello spettatore.
È chiaro che quello che io faccio ha molto a che vedere con gli incubi che tormentano tutti. Incubi che ci perseguitano da svegli.
Il dolore, la sofferenza, l’infermità o la solitudine sono argomenti che mi interessano e cerco di rappresentarli nelle mie opere.

Mostrano una tensione che vive sottopelle… pronta ad esplodere. Proprio come il nostro tempo, di ogni giorno. Cosa ne pensa di questa possibile lettura?
Mi è sempre piaciuto il detto “la realtà supera la fantasia”, perché è totalmente vero.
Il nostro giorno per giorno ci trascina verso l’oscurità e ci allontana dalla luce. Gli esseri umani vivono in una continua tensione dovuta all’incertezza di non sapere cosa incontreremo dopo la morte.
Il mio sforzo per mostrare la tensione di cui parli, però, ha sempre un sottofondo di “cinismo” e di humor nero.

I protagonisti di questi lavori sembrano essere figure umane ed animali che non parlano, non emettono versi. Ma il loro silenzio è tagliente, fa male. Ed è un qualcosa che ci parla direttamente. Mette a nudo chi li osserva. Qual è il loro ammonimento, il loro dire?
I miei personaggi tentano di dirci che non siamo speciali, non siamo eterni. Fra cento anni nessuno di noi sarà qui; i nostri problemi sono insignificanti.

Una cosa mi ha colpito particolarmente. Ed è che le figure umane assomigliano a delle bestie, e le figure animali assomigliano all’essere umano. Chi ci perde e chi ci guadagna, in queste diverse somiglianze?
Gli animali sono i veri sconfitti; assomigliare a un essere umano è terribile.

Figure dell’incubo, certo. Ma comunque siamo sempre noi singoli esseri umani a crearli, a farli diventare realtà. La sua pittura, con questi suoi quadri, è anche un avvertimento a quanto siamo responsabili nel crearli?
Un creatore è al 100% responsabile della nascita delle sue opere, però è lo spettatore che le fa evolvere.
È magnifico vedere che, come l’artista fa vedere la sua opera, questa subisce una mutazione al contatto con lo spettatore. È questa la vera grandezza dell’arte.

E sembra proprio che ognuno dei protagonisti dei suoi quadri non abbia ancora trovato pace, un momento dove poter avere un respiro più sereno….
La pace è una bugia. Dalla nascita alla morte la vita di una persona è pura violenza.
Io dipingo quello che vedo e, al momento, ho solo incontrato demoni.

In conclusione, cosa sta nutrendo questa sua recente produzione artistica, che qui presentiamo?
Tento di porre uno specchio davanti allo spettatore. Uno specchio in cui ciascuno possa vedere le sue paure, i suoi errori… mostrare che il male è dentro ciascuno di noi. Senza eccezioni.

 

L’artista:
Pablo Iglesias Prada (Ciañu, 1974) è un artista che sviluppa la sua attività a Gijón, una piccola città nel nord della Spagna.
Ha studiato Design e Illustrazione alla Scuola d’Arte di Oviedo.
Si occupa di disegno e pittura, ma si interessa anche di fumetto, video, fotografia.
Ha esposto i suoi lavori a Gijón, Oviedo, Madrid, Barcellona, Londra, Miami, Bruxelles, Istanbul, Ginevra…
Tra i vari riconoscimenti ha ricevuto il premio Art-Nalón 2004, la borsa studio Cajastur per artisti 2011, il premio “Asturias Joven 2005” per le arti plastiche, l’IVBeca Al-Norte.

I suoi quadri qui proposti:

…but you love me?” (acrilyc on paper)
Brain donation” (acrilyc on paper)
Cerberus” (acrylic on paper found)
Como en casa no se come en ningún lado” (acrilyc on paper)
El infierno de Dante” (acrylic on paper found)
Hate´em all” (acrylic on paper found)
Kolaf” (acrilyc on paper) questo lavoro è stato commissionato dal duo rap francese La Fève + Kosei, per l’artwork del loro album “Kolaf”
Satan-worshiping super high panther” (acrilyc on paper)
Sport Scout” (acrylic on paper found)
We´re a happy family” (acrylic on paper found)

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Livio Caruso.

 

 

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