Fare Voci gennaio 2025

Buon anno nuovo 2025!!

Fare Voci si ripresenta alla vostra attenzione con un rinnovato desiderio di stare nel vivo della scrittura, nell’attimo intenso dell’accadere artistico, culturale ed umano.

E lo fa iniziando con il libro “Ad ogni latitudine At every latitude”, volume scritto da Monica Guerra, illustrato dalle immagini di Virginia Morini, che si occupa dell’alluvione che ha messo in ginocchio la Romagna nel 2023. La poesia che incontra la cronaca, che si fa narrazione e riflessione, mettendo ancora di più radice nella dimensione sociale del nostro presente.

Fare Voci poi accoglie e propone lo scrivere inedito di Antonio Nazzaro, con i suoi “Versi cubani” e “Versi bonaerensi”.

La novità è anche la nuova raccolta poetica di Alessandro Canzian, “In absentia”, e il progetto poetico artistico di Prisco De Vivo, a titolo “KAFKALTO – Del quaderno e delle metamorfosi”, con la presenza del poeta Raffaele Piazza. A cui aggiungere Cristiano Dorigo e il suo “Acque alte”.
Una novità è anche “Patavium quasi post first lockdown. 31 maggio 2020” di Enrico Grandesso, anticipazione della sua raccolta di racconti “Gli altri vedono il clown”, di prossima pubblicazione per l’editore Campanotto

La poesia arriva anche dal Canada, con Bruce Hunter e il suo “Galestro”, e nell’intervista che lo riguarda ci racconta tutta la sua fascinazione per la sua terra madre e l’Italia. E il dialetto è protagonista della poesia di Ezio Solvesi e del suo “Tutintùn”.

Buona lettura!

Giovanni Fierro

(la nostra mail farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini         ————————

A ogni latitudine    At every latitude

Nove fotografie

di Virginia Morini

 

 

 

 

Tempo presente       —————————

Dove l’acqua profana le pareti

Monica Guerra, “A ogni latitudine At every latitude”, con le fotografie di Virginia Morini

di Giovanni Fierro

La cronaca dice che tra il 2 e il 3 e poi tra il 16 e il 17 maggio 2023, la Romagna è stata colpita da una alluvione che l’ha messa in ginocchio. In quei pochi giorni sono stati ben 350 i milioni di metri cubi d’acqua che hanno inondato le aree più colpite, con l’esondazione di ventisei fiumi, terre franate, paesi isolati, ventimila sfollati e sedici persone che hanno perso la vita. Danni stimati per dieci miliardi di euro.
Questo dramma lo abbiamo tutti seguito dalle dirette tv, dai programmi di approfondimento, dall’attenzione mediatica che giustamente è stata alla base dell’informazione a cui abbiamo fatto riferimento.
E a quel dramma si rivolge, con accurata e coinvolta attenzione, Monica Guerra nel suo nuovo libro “A ogni latitudine At every latitude”. Libro che contiene anche fotografie scattate proprio in quei giorni di maggio 2023, da Virginia Morini, a Faenza e nella provincia di Ravenna.
“A ogni latitudine” è così un documentare e un raccontare, un prendere il tempo necessario per la riflessione e un porgere l’urgenza del non dimenticare. Di non lasciare che l’incuria di questo nostro tempo sociale, ormai votato alla dimenticanza, faccia di tutto quel dolore vissuto una insipida assenza di memoria.
Perché queste pagine, con le parole di Monica Guerra e le immagini di Virginia Morini, costruiscono un adesso che si ricompone continuamente sotto gli occhi di chi legge e guarda.
È l’immagine di una Madonna ad aprire le pagine del libro, sola ed abbandonata, dentro una cornice lievemente lavorata e spessa, capace solo di non andare a fondo in tutta quell’acqua per proteggerla. Perché poi “Un‘aria fradicia/ inzuppa le radici” ed è già un capogiro, un presagio di tormento, una tensione carica che da qualche parte avrà da sfogarsi. O che ha già trovato il suo esplodere, il suo allagare.
La solitudine è un’impronta che rimane, quando c’è da mettersi al salvo. “A ogni latitudine” sembra dire da subito questo.
Si sa che i muri proteggono, ma non quando sono muri d’acqua a sommergere, a togliere gli interni famigliari da ogni possibile vita quotidiana, e l’immagine di macerie a formare un piccolo monte è il campo santo di ogni serenità oramai destinata ad estinguersi, in costante galleggiamento su di ogni singola paura.
Perché sì, c’è la paura e lo sgomento, il luogo inaspettato da cui sopravvivere, dove “qui le leggi non misurano/ l’infinito è senza sponde/ al di là della solitudine”.
Monica Guerra e Virginia Morini ci portano in questa acqua che sempre più si fa alta e minacciosa, acqua che non salva e condanna, nell’attimo preciso dove “saliamo ai piani alti/ con i cani in silenzio// tra pompe e stivali/ ci teniamo per mano/vicini/ rimestiamo il fondo”.
Il mettersi in salvo è il miracolo, il respiro di chi ci riesce è un noi che si ricompone, a fatica e con dolore, per trovare una vicinanza recisa di netto dal momento del dramma. L’unica verità che rimane, “è questo inganno d’acqua/ l’universo genuflesso”. Con “i piedi dentro le scarpe/ dopo tutto il fango”.
In conclusione rimangono “i morti/ la voce dei sopravvissuti”, la coscienza si fa più fina e fragile, il pianto non ha bisogno di mostrarsi, è un nodo alla gola che toglie ossigeno ad ogni pensiero, lì, dove “è sempre notte/ la gestazione della luce”.

 

 

Dal libro:

I

un’aria fradicia
inzuppa le radici

la resa degli alberi
senza un lamento
preme all’improvviso
dov’è l’acqua

dove l’acqua
profana le pareti

*

IV

un corpo disabitato
un tetto divelto
per qualcuno è la frana
che portiamo dentro

l’ombra distratta
dai cerchi d’acqua

anche il sole sulle cattedrali
ora è fuori tempo

Cassandra è un punto
esatto a ogni latitudine

*

V

lo schianto d’acqua
si impasta con le eliche

tra i suoni sconosciuti
la paura è una voce
che non arriva

un vicino in fuga
ripete “i bambini sulle
mura con le corde”

*

il gatto si è salvato
dietro le transenne

millecinquecento carcasse
nello specchio

prima della fame
sarà l’acqua contaminata

*

IV

ogni luogo è lago, in cucina, in via Pezzi, a casa di Tra, tutti i suoi strumenti, via Torretta, nella Baghdad di Carboni, via Piani, Garibaldi, via della Valle con la pompa in due metri d’acqua prima che si faccia pietra la devastazione.

 

Intervista a Monica Guerra:

“A ogni latitudine” si occupa, con parole e con immagini, dell’alluvione che nel 2023 ha colpito la Romagna. Cosa significa quindi usare la poesia per raccontare la cronaca?
La poesia nasce dalla complessità della vita e la cronaca ne è parte. Gli accadimenti si accasano nei versi con tutta la loro portata simbolica, figurativa ed evocativa per poi tornare in circolo tramite ogni ascoltatore e/o lettore restituendo alla dimensione della vita qualcosa che il racconto da solo non potrebbe fare.
La poesia aggiunge al lato concreto di ogni cosa uno strato altro, sottile e complesso, difficilmente dicibile in modo esaudiente, qualcosa di intimamente legato alla sfera del suono e del mistero: in poesia si avanza in una danza tra limite e scopo, tentando di cogliere e di custodire ciò che altrimenti non appare immediatamente evidente.
La cronaca, come elemento partecipativo della vita, può farsi poesia quando investe più o meno direttamente chi la scrive. Quando entra nella quotidianità e provoca una qualsiasi forma di autentico condizionamento, mentale o materiale che sia. Personalmente non avrei mai immaginato di scrivere un libro su un disastro ambientale ma una volta affondati i piedi nel fango, all’interno della mia comunità incredula, ferita e piegata, mi sono sentita in dovere di interrompere i progetti in corso per dedicarmi completamente all’accaduto.
Solo attraverso la poesia io riesco a rileggere la realtà e quindi l’atto di scriverla risponde, in primis, a un’esigenza personale, ma in questo caso è anche un atto d’amore per la mia terra e per la sua comunità affinché lo spaesamento, la paura, l’impotenza siano custoditi nella memoria nostra ma anche di chi non c’era. La cronaca, come ogni fatto che riguarda la vita, non è scevra da implicazioni sociali, politiche e antropologiche e queste possono beneficiare da una narrazione in versi: laddove la notizia cruda si ferma a un lampo di sensazionalismo e a una emotività spicciola, la poesia celebra e salva, conferisce forza e specificità entro un afflato universale.

Di conseguenza, in questo tuo nuovo scrivere, quanto c’è di riflessione e quanto di puro impatto emotivo?
L’impatto emotivo è una scintilla, ma il fuoco credo risieda sempre nella riflessione. Ho iniziato ad appuntare i primi versi su un quaderno, dopo circa due settimane trascorse a spalare il fango per le strade e dentro le case. Ho impiegato un anno per portare quella forma embrionale ed emotivamente sovraccarica all’attuale e molte sono state le modifiche legate al processo di decantazione e levigatura dei versi.
Un anno è un arco di tempo insolitamente breve per la lavorazione di una mia silloge ma desideravo che questa testimonianza non tardasse ad arrivare, volevo che il libro fosse un segnale minimo di ripartenza da posizionare sui molti scaffali in parte vuoti dopo la ricostruzione.
Le sezioni seminano diversi interrogativi, risalendo i giorni (e il fiume) a ritroso, partendo dal tema dell’identità. Noi siamo intimamente legati ai nostri luoghi, come possiamo quindi non sentirci disorientati quando il paesaggio perde di colpo i suoi connotati? Come possiamo superare le frane che portiamo dentro? Come possiamo trovare la forza di ricostruire quando tutto sembra oramai fuoritempo? E ancora cosa accade al cuore di un uomo che non evacua per restare con il suo cane? A una ragazza che osserva dal tetto il proprio gatto mentre il ramo su cui ha trovato riparo si spezza sotto il peso della pioggia?
Alcuni temi-cardine sono: l’incuria, l’impotenza che paralizza, la responsabilità collettiva, la necessità di normare un problema che non possiede più una natura meramente emergenziale, l’ineludibilità di una presa d’atto del dissesto idrogeologico del nostro paese, non a livello cittadino o regionale, ma a livello centrale.
La parte emotiva che spero di avere contenuto nella scrittura si riaccende però ad ogni lettura ad alta voce, i versi spesso si piegano alla commozione, soprattutto nella seconda sezione del libro che evoca il momento precedente al disastro ed è dedicata a chi ha trascorso quella lunga notte con me, e come me, non dimenticherà lo strazio della paura.

Le parole sono immagini, e nelle pagine del libro ci sono anche le fotografie di Virginia Morini. Cosa significa il loro stare assieme? Che dialogo si è creato?
Le fotografie sono portanti. Spezzano il fiato durante la lettura delle sezioni, creano uno stato di sospensione che evoca i momenti post disastro, mitigano la commozione muta degli abbracci. Sentivo la necessità di riprodurre tra i versi le pause che avevano caratterizzato quegli attimi, la difficoltà di scattare appoggiando per un po’ la pala o il tira-acqua senza oltraggiare e urtare la sensibilità di chi osservava sconvolto la gru spazzare via un intero salotto. C’è una forza nitida e irriverente nelle fotografie che bilancia il dirupo dei versi.
Virginia Morini apre il libro con uno scatto della Vergine, patrona della nostra città, una foto che testimonia con sobrietà e grazia il livello raggiunto dal fango sulla parete. Alcuni scatti non sono di immediata comprensione, richiedono uno sguardo capace di cogliere il non esplicito, raccontano le ambivalenze inevitabili della vita: uno specchio d’acqua riflette un roseto anche quando nasconde migliaia di carcasse sul suo fondale. Le pietre tombali riverse e spaccate rivelano come nemmeno la terra dei morti sia stata risparmiata, ogni lapide è un nome spezzato.
Non avrei pubblicato la mia raccolta di versi in assenza di queste fotografie, le ho sentite necessarie, come sentivo necessario l’involucro nero e delicato, da maneggiare con cura, perché ogni cosa in questo mondo ha bisogno di cura, come altrettanto necessario ho percepito l’effetto a specchio dei titoli delle sezioni, come fossero sospesi sopra un immoto specchio d’acqua. Sopra e sotto, come micro e macrocosmo, tutto riflesso e in qualche modo interconnesso.

Il libro è anche la testimonianza di un grande silenzio, che tiene tutto dentro sé… Mi sbaglio?
Il silenzio ci è rimasto dentro per un po’ di tempo, esterrefatto, incastrato tra le labbra: la voce come un pugno nella gola. Il silenzio di chi è incapace di tradurre la realtà in parola, nel mezzo di un rumore continuo e assordante di pompe, idrovore, generatori, sirene ed elicotteri.
La mattina del 17 maggio gli anziani affacciati su via Lapi osservavano il torrente marrone lambire le loro terrazze: muti, sospesi, increduli, nessuna voce a dire il giorno sopra i gommoni che li portavano in salvo. E allora sono subentrati gli abbracci di chi, dinanzi alla devastazione, perde la capacità di proferire parola perché non esiste vocabolo tanto capiente per uno sgomento del genere. Sguardi e abbracci, mani e stivali, lavoro e fatica in sostituzione di qualsiasi frase vuota o inefficace.
Le parole, quando sono riaffiorate, sembravano avere attraversato un deserto, per mesi sono state dentro le frane e negli smottamenti, spaccate dal cedimento degli argini, ritirate nelle crepe, bagnate fradice tra tira-acqua e stivali. Ancora oggi molte ferite sono aperte, nei cuori e per le strade. Molte parole hanno un retrogusto amaro e sconsolato. Ma esiste anche una riflessione positiva legata al silenzio come rimedio di una parola vuota, retorica, svilita. Può essere una forma di resistenza della nostra intelligenza che si ricarica in modo riservato dall’esaurimento isterico del mondo contemporaneo e anche da alcuni vividi fallimenti della politica.

“A ogni latitudine” è anche un continuo cercare fuori e dentro di sé. Ma è il cercare cosa? Ciò che rimane, ciò che non si è più? O cos’altro ancora?
“A ogni latitudine” racchiude diversi tentativi, il primo, come recita uno dei testi conclusivi, è che i sopravvissuti ricordino i loro morti, ma anche che gli scampati siano di supporto alla società e non solo nel momento primo dell’emergenza. I disastri accadono a ogni latitudine appunto, allora conta solo fare rete, sentirsi fattivamente vicini, credere nei progetti condivisi e collettivi.
Il libro racchiude anche il tentativo di riconoscere ciò che si è, nonostante. Nonostante la devastazione, la perdita, nel dopo, quando diventa necessario ripensarsi, trasformarsi e ripartire. Non ultimo è il tentativo di ritrovare la bellezza, di partecipare a ogni suo progetto, sia in modo concreto (per costruire contano gli argini) sia in modo contemplativo, riflettendo ad esempio sul fatto che condividiamo lo stesso esatto mondo stellato tanto delle lucciole quanto degli scarafaggi.
Dovremmo apprendere ad allentare il respiro ad ogni passo, a dilatare i tempi e a meravigliarci, a prenderci davvero cura di noi stessi, di chi amiamo e dei nostri bellissimi territori. Sono riflessioni scontate queste, trite e abusate, ma contengono un principio di verità che potrebbe invertire la dilagante tendenza individualista e distruttiva.

I testi sono anche nella versione in inglese. Che cosa aggiunge, o trasforma, alla versione originale da te scritta?
La versione inglese è un mio completamento identitario, nutro la necessità di scrivere in entrambe le lingue le cose che accadono in entrambe le lingue (a questo proposito cito Raffaello Baldini, poeta che usava il dialetto “perché le cose gli accadevano in dialetto”).
Dentro le mura di casa mia l’inglese convive assieme alla lingua italiana e da qui nasce la spinta a dare vita ai versi in entrambi gli idiomi. I testi non sono stati oggetto di una mera traduzione e infatti non si trovano collocati nella pagina a fronte, ma si susseguono preservando l’integrità di ogni sezione. Non ultimo c’è il desiderio esplicitato fin dal titolo: affinché il libro possa sconfinare è necessario tradurlo in altre lingue oltre all’italiano.
Ho avuto il privilegio di parlare di questa catastrofe emiliano-romagnola a New York alla Cuny University lo scorso novembre, grazie al fatto che il libro è anche in lingua inglese. A tal proposito ringrazio di cuore Sandro Pecchiari e Patrick Williamson per la loro collaborazione.

“A ogni latitudine” parla dell’alluvione del 2023, eppure il maltempo è tornato a fare danni e paura, a settembre ed ottobre di quest’anno…
La paura della pioggia nel nostro territorio è divenuta cronica, l’allerta meteo ora è quasi una consuetudine, ciò è molto pericoloso. Questo libro è stato pubblicato il 17 maggio 2024, esattamente un anno dopo la seconda e più devastante alluvione. Molti lavori di contenimento sono stati fatti in questi due anni, ciononostante i disastri causati dai temporali al momento ammontano a quattro. Purtroppo, siamo solo a gennaio.

 

L’autrice:
Monica Guerra è nata a Faenza nel 1972. Alcune sue pubblicazioni monografiche sono: “Entro fuori le mura” (Arcipelago Itaca 2021), “Nella moltitudine” (Il Vicolo 2020), “Sulla Soglia / On the Threshold” (Samuele Editore 2017), “Sotto Vuoto” (Il Vicolo 2016), “Il respiro dei luoghi” (Il Vicolo 2014).
Ha inoltre pubblicato le sillogi “FuoriCampo” nei volumi 29-32 nr. 1-2 de “L’anello che non tiene – Journal of Modern Italian Literature” (Wisconsin University 2022), “Spezzare il pane” nel Quarto Repertorio di Poesia Italiana Contemporanea (Arcipelago Itaca 2020), “Expectations” nel Journal of Italian Studies (Northeast Modern Language Association 2019).
Ha collaborato come traduttrice alle pubblicazioni “Il tuo nome ha l’ascolto del silenzio di Constantin Severin” (Independent Poetry, sezione traduzioni, 2022), “La bilancia del cielo” di Nadia Scappini (Graphie 2021), “Diventa l’albero” di George Mario Angel Quintero (Samuele Editore 2020), “Hundred Great Indian Poems” a cura di Abhay K. (Bloomsbury, India, 2018).
Suoi testi sono tradotti in inglese, spagnolo, russo, ucraino e romeno e sono presenti in diverse antologie e pubblicazioni monografiche.
Cura laboratori di poesia e di traduzione, letture e presentazioni. È presidente dell’Associazione Independent Poetry e membro della redazione.

www.monicaguerra.it

 

L’artista:
Virginia Morini è nata a Faenza nel 2000. Si occupa di arti multimediali.
Ha conseguito il master in Creative Documentary & Photojournalism presso Magnum Photos & Spéos, a Parigi, nel 2023, dopo aver terminato gli studi alla Scuola di Cinema Rosencrantz e Guildenstern di Bologna, nel 2021.
Nel 2023 il suo progetto “1103 – visioni dalla collina”, sviluppato durante il master, è stato esposto a Parigi presso la Magnum Gallery.
Nel 2022 è stata selezionata da Fotografia Europea Speciale Diciottoventicinque per la quale ha realizzato “De amore Dei” vivendo con alcune suore e indagando le tracce dei loro abusi. Il progetto è stato pubblicato nella rivista dedicata all’edizione 2022 dello stesso Festival.
Nel 2021 ha diretto il cortometraggio “Atto di Dolore”, su trauma e abuso infantile e sul rapporto tra vittima e carnefice.
Il suo lavoro “Alto-Basso” è stato esposto presso Il Vicolo Galleria Arte Contemporanea, a Cesena, nel 2021.

(Monica Guerra e Virginia Morini “A ogni latitudine At every latitude” Il Vicolo divisione libri 2024)

 

 

 

 

Immagini          ————————

A ogni latitudine    At every latitude

Nove fotografie

di Virginia Morini

 

 

 

 

Tempo presente       ————————

Perché quel giorno vi sia lieve   Para que ese día les sea leve

Quattro testi inediti

di Antonio Nazzaro

da “Versi cubani

amicizia

cari amici
prima o poi arriverà la fine

un respiro appeso
che non scenderà

ma non preoccupatevi
perché quel giorno vi sia lieve

ho cambiato casa e indirizzo
vivo adesso vicino al cimitero

quindi non dite che non vi ho voluto bene

amistad

queridos amigos
tarde o temprano
llegará el final

un respiro colgado
que no bajará

pero no se preocupen
para que ese día les sea leve

cambie de casa y dirección
vivo ahora cerca del cementerio

entonces no digan que no los quise

*

torna sul lungo mare
a sedersi

gli occhi nel tramonto
come a guardare una croce

la fine effimera del giorno
e le rughe sul volto

un crepuscolo di pelle
a chiudere le palpebre

delle dita che non sono
sue e pesano

una lapide d’acqua
un’onda a saltare la scogliera

la sera impregna
occhi e epidermide

una lacrima

vuelve al malecón
y se sienta

los ojos en el ocaso
como se mira una cruz

el final efímero del día
y las arrugas de la cara

un atardecer de piel
el cerrar de los parpados

unos dedos que no son
suyos y pesan

una lápida de agua
una ola brinca la escollera

el crepúsculo empapa
ojos y tez

una lágrima

*

da “Versi bonaerensi

quando cammina così gli noti la leggerezza
il muoversi sicuro evitando persone ed angoli

il cappotto sembra farsi un paio di ali
sessanta anni danzanti sul marciapiede

i palazzi rispondono alle domande
ritagliando il cielo fradicio di fiume

hanno facciate di faccia al suo silenzio
soltanto guidano verso la felice precarietà

trasformata così in altro mondo
libero dall’idea del possedere

decente in questo pascolo in Pasto n. 1182 bonaerense
a volte un sorriso ad aprire la porta

lascio il cappotto volante sull’attaccapanni
sono a casa, che fortuna e sventura

bevo un bicchiere d’acqua per inondarmi

cuando anda así se le nota la ligereza
el moverse seguro esquivando persona y esquina

el abrigo parece volverse un par de alas
sesenta años danzante en la vereda

los edificios contestan a las preguntas
recortando el cielo empapado de río

tienen fachadas de cara a su silencio
solo guían hacia la linda precariedad

convertida así en otro mundo
libre de la idea de la posesión

decente en este pasto Pasco bonaerense
a veces una sonrisa abre la puerta

pongo el abrigo volante en el perchero
estoy en casa, qué fortuna y desventura

bebo un vaso de agua para inundarme

*

qualcosa come vivere

in questi anni in cauta
la compagna è un verso

la poesia non ha fantasia
mi circonda da tutte le parti

nel caffè con Fabio
nel sorriso dolce di Enrique

manca un solo dettaglio
piccolo e banale

una donna con chi
condividere il sogno

algo como vivir

en estos años en caída
la compañera es un verso

la poesía no tiene fantasía
me rodea por todas partes

en el cafetín con Fabio
en la sonrisa dulce de Enrique

falta solo un detalle
pequeño y banal

una mujer con quién
compartir el sueño

del infinito-finito
algo como vivir

(Traduzioni a cura di Antonio Nazzaro)

 

Dimmi che lingua sei…

di Antonio Nazzaro

Forti i cambiamenti in questi ultimi anni. Il mio modo si accompagnare la vita e starle in prossimità piena è la poesia. Lo scrivere in versi si attorciglia intorno al tema della lingua. Della lingua sento ritmi e onde sotterranee che mi attraversano donandomi sensi di verità e del sentire il mondo.
Da quasi un anno non scrivo più poesia in lingua italiana. Cosa ne è, all’interno del mio ritmo di scrittura, del mio idioma-madre?
Ho perso molte delle risonanze che la lingua italiana può darmi, in poesia. Il mio sentire si discosta dal suo essere: essere di una lingua che ha segnato il mio essere al mondo ed il mio modo di fare mondo. La lingua ha a che fare con la nascita del simbolico di ognuno di noi. Nella lingua si annida ogni tratto della nostra personalità, del nostro desiderio, della nostra tensione alla vitalità del pensiero.
Cosa accade quando, all’interno di radicali mutamenti, si sfilacciano radici rendendosi incomunicabili con quell’idioma pur tanto a lungo utilizzato? E, se la lingua, fosse anch’essa una pelle intrisa di memorie cellulari e volitive in grado di trasmettere mutamenti e contenuti di direzioni?
Muovendomi ed adattandomi ad una nuova terra ed al desiderio di una nuova terra, assisto, in me, a precisi slittamenti che mi pongono nella posizione di cercare un’altra lingua.
Penso all’esperienza radicale di Pier Paolo Pasolini. Il Suo cercare un’altra lingua, il Suo tornare-andare verso l’uso del friulano era segno di molti elementi che in Lui lavoravano. Non ultimo quel cercare un’altra lingua per “fare poesia” era portatore –anche- del rifiuto da lui visceralmente sentito di voler uscire fuori dalle maglie di una lingua che, nell’epoca in cui viveva, era lingua veicolante retoriche utili solo ad ingabbiare pensiero in un momento storico in cui la menzogna era al servizio della rappresentazione di un’idea di “progresso” totalmente fasullo e demagogico.
L’italiano odierno mi obbliga all’accettazione di una possibilità di espressione tutta volta alla superficialità e tutta intrisa di lontananza dalla reale dimensione di vicinanza alle persone.
Da sempre scrivo per i miei compagni delle zone periferiche di Torino per i miei amici dei quartieri, mi sento –dunque- lontano da una lingua madre che non risponde a mie nuove pulsazioni di vita. Mi calo in questo mio spagnolo in cui mi riconosco probabilmente perché non è messicano, né colombiano, né argentino, né cubano… è mio e solo mio ma, proprio per questo riconoscibile da tutti coloro i quali con cui mi interfaccio. Tradisco una lingua per dirne la verità.
Esiste l’itañolo?
Beh io provo a dirla questa lingua e voglio che mi viva addosso, voglio che continui a crescermi dentro come ramificazione di radice inaudita. Voglio una lingua che si porti dentro i miei luoghi, tutti, il mio sentire, tutto. Una lingua che continui ad essere fuori da ogni accademico risucchio, una lingua che sia strada, gente, incontro, orizzonte.

 

L’autore:
Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963) è giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collane di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici.
Ha pubblicato le sillogi “Amore migrante e l’ultima sigaretta” (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), “Corpi Fumanti” (Uniediciones, Bogotá, 2019), “Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico” (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021) e la più recente “La dittatura dell’amore” (Delta 3 edizioni, 2022).
È autore del libro di racconti brevi “Odore a” (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e del libro di cronaca e poesia “Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste” (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017).
Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
È traduttore dall’italiano e dallo spagnolo. Il suo libro di traduzioni più recenti è “Dino Campana Suramericano – Cantos Órficos” (Abisinia Editorial, Argentina 2022).
Ha creato la Scuola di Poesia di Cuba.

 

 

 

 

Immagini          ————————

A ogni latitudine    At every latitude

Nove fotografie

di Virginia Morini

 

 

 

 

Voce d’autore      ———————

L’uomo è lupo all’uomo

Alessandro Canzian, “In absentia”

di Roberto Lamantea

Alessandro Canzian scrive versi con il bisturi, tanta è la precisione dello sguardo e della scrittura. Il poeta ed editore friulano incide la realtà e con le parole rovescia lo sguardo. Come nei quadri di Friedrich – citato da Martin Rueff nella nota magnifica che chiude il libro – noi vediamo chi guarda e ci volge le spalle come se le figure fossero un sipario che si apre.
In absentia” è il titolo della nuova silloge di Canzian, appena stampata da Interlinea in una tiratura limitata di 333 copie. Tre sezioni: “Minimalia”, 15 testi in due parti; “Sul fondo”, 15 più uno; “In absentia”, sezione eponima in tre parti: 6, 6 più 5; perlopiù strofe di 5 versi, testi scritti tra il 2020 e il 2024.
La forma breve”, scrive Rueff, “conferisce una tensione commovente. Le forme di vita sono forme leggere, fragili, minacciate. E così quello che si vede dalla finestra, che non è altro che il paesaggio contemplato per strada, o dalla finestra di casa, o dal finestrino della macchina o dal treno, si tinge di evanescenza e di un alto potenziale metaforico. La convinzione che la storia sia tragica, sia la minaccia, accompagna e si sovrappone al presente fatto di scene quotidiane. […] La poetica di Canzian s’inserisce nella dolorosa tradizione dei figli abbandonati”. Lo sguardo-scrittura di Canzian è più metafisico rispetto per esempio al graffio uncinante di Alessandra Carnaroli, altra poeta della crudeltà, del male quotidiano, dell’allucinazione sociale, controcanto alla cronaca nera come specchio della società.
C’è la guerra, in queste pagine, ma è una guerra senza geografia: sì, l’eco è l’Ucraina, è Gaza – è inevitabile, è il nostro quotidiano sottofondo di parole e immagini dei giornali e della tv – ma la violenza è quella della storia, non di questa storia ma di tutta la storia: “La ragazzina s’alza e se ne va/ come nulla sia avvenuto./ L’estate dei rospi e dei cani./ La storia accade / ma non se ne ha memoria”.
La citazione, esplicita nel libro, è Primo Levi: “Sul fondo” è il titolo della seconda sezione. E, in corsivo: “Si dice fuoco amico quando/ i colpi arrivano da dietro/ come le estati in campagna/ per vivere serve una speranza/ sopravvissuta per sbaglio”. Si potrebbe anche dire che alcuni di questi versi sono prossimi all’aforisma ma senza l’ironia, leggera e feroce, di Kraus, per esempio: “Una bimba passa cantando:/ “Voglio bene alla mamma/ come alla morte”. In casa/ un tappeto persiano”. “In absentia” è una finestra sulla vertigine.

 

Dal libro:

La ragazzina a lato dei binari
con le calze smagliate e le
unghie scolorite domani
risolverà tutti i problemi
bevendo ammoniaca.

*

Lasciata la ragazza un cane
con l’orrore negli occhi e il sangue
si avvicina alla ciocca di capelli
in bocca. Pensa
quanta paura deve avere di noi.

*

Io non credo possa finire
nell’attimo in cui lo uccidi.
Siamo borracce noi stessi
da cui qualcun altro beve.

*

L’uomo è lupo all’uomo
e iena e rana e cavallo
come quel cane che corre
senza zampe nel fossato.

*

Hanno spianato per chilometri
qualunque cosa viva
alberi compresi.
Conta quanti loro morti
valgono uno dei nostri.

*

Ubriaco la maggior parte del tempo
ho interrogato Dio
nello scarafaggio spezzato.
Lui ha confessato d’essere
solo un buio, uno sbaglio.

 

 

Intervista ad Alessandro Canzian:

“In absentia” s’interroga su temi come Dio, la storia, la guerra, ed è inevitabile leggere il libro anche alla luce dei conflitti in corso, Ucraina e Gaza: non cronaca ma simboli. Lo sguardo sulla storia, sull’uomo, su Dio, è desolato: è così?
È sempre un po’ rischioso che chi ha scritto un’operetta in versi ne tenti la spiegazione. Perché in fondo è già tutto scritto lì, quanto di consapevole e di inconsapevole. Lo “strumento” poesia ha questo di affascinante: è aderente e intrecciato al nostro essere persone che, in quanto vive, sono obbligate a osservare il mondo. Ma lo strumento ha dei bordi non proprio così netti, anzi sono un po’ vaporosi un po’ sfilacciati. E in quei bordi ti rendi conto esserci altro. Un’intuizione? Un desiderio? Non lo so.
Motivo per cui cerco di rispondere alla tua domanda avvisando subito di questo limite: l’autore è sempre un pessimo lettore di sé stesso (e quando invece non lo è, allora forse è un pessimo autore).
“In absentia” parla di guerra: sì e no. Al terzo verso del primo testo accade la parola “bombardamenti”, e ti confesso io stesso mai avrei pensato di usarla. Ho litigato molto con quel termine perché noi, intendo noi italiani, non stiamo vivendo la guerra. La ascoltiamo dai media, dalle varie fonti, recepiamo quel che arriva nel suo essere sempre e comunque modulazione verso un effetto, un obiettivo specifico.
Parla di Storia, questo è innegabile e forse con quest’abito mi sento un po’ più a mio agio. Che poi ci siano “pezzi” di conflitti attuali non lo posso negare: “La vita è sopravvalutata”, una chiusa, riprende fedelmente le parole di Vladimir Solovyov, giornalista russo, in televisione, a dicembre 2022. E così via dicendo, alcune sono segnalate in nota o da Martin Rueff, che ha curato la lettura critica, altre no.
Mi piace che usi il termine “simboli” nella tua domanda. Perché è un termine un po’ “romantico” per fissare dei concetti che nascono da ricorrenze, atroci ricorrenze. ”Noi abbiamo fatto lo stesso/ a Tripoli e Leningrado”, le parole di uno dei due soldati in “Sul fondo”, questo credo vogliano ammettere: la Storia continua a contorcersi su sé stessa, gli uomini continuano ad essere sempre terribilmente identici nella propria violenza. Che non è violenza personale perché questa accadrebbe di rado, per sbaglio. È natura, perché ci accompagna e ci denota fin dall’inizio dei (nostri) tempi.
Quindi sì, lo sguardo è desolato, sconfitto, sconfitto anche nella speranza. Che però, a una lettura postuma, mi pare resista ancora.

La storia accade/ ma non se ne ha memoria”: mi vengono in mente versi famosi di Salvatore Quasimodo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda/ uomo del mio tempo”. Il tema della guerra attraversa tutta la letteratura, dai miti antichi, Omero, sino alle voci della Shoah: qual è il posto della poesia in uno scenario che spesso sembra togliere ogni speranza?
Oggi, per noi italiani, nessuno. In altre parti del mondo la letteratura è resistenza civile, è scontro, noi facciamo le raccolte di poesie contro la guerra dove c’è posto per ogni voce, per ogni autocompiacimento. Vogliamo pensare che la poesia smuova gli animi? Che aiuti le “resistenze” e le “umanità”? Non qui da noi. Durante la seconda guerra mondiale sappiamo molti soldati portavano nello zaino “Le occasioni” di Montale, pubblicato nel ’25 (e siamo ormai nel centenario, e in “Laboratori critici” stiamo preparando un “viaggio” dentro questo libro che io e il direttore responsabile Matteo Bianchi speriamo dirà molto). Oggi questo “trattenimento” non può più accadere perché noi, noi italiani, siamo anestetizzati.
La consapevolezza, il saper guardare da più punti di vista, è diventata l’eccezionalità. La poesia è, appunto, uno “strumento” che si piega al suo utilizzatore.
La domanda successiva potrebbe essere: ma se lo “strumento” è diventato inutile, senza collocazione, perché piegato al suo utilizzatore, noi che siamo gli utilizzatori che utilità e collocazione abbiamo?

“In absentia” propone testi brevi di cinque/sei versi l’uno, composti tra il 2020 e il ‘24: qual è il tuo metodo di lavoro? I tuoi versi nascono di getto o lavori molto sulla scrittura, rileggendo fra tagli e riscritture?
Il primo “gesto” credo sia comune a tutti: scrivere di getto. Che poi questo “gesto” sia una fermentazione di altro, e di un tempo più o meno lungo, direi è il minimo indispensabile. Successivamente, almeno per me, accade la lettura, la rilettura, la composizione di quella che può essere un’opera, i tagli, le ricomposizioni, i tentativi e i ripensamenti.
Giusto per dare un dato che sia più veritiero di quel che possono essere le mie parole, nella cartella dedicata nel mio pc al momento esistono 191 versioni di “In absentia”, dal 3 maggio 2022 alla data di consegna all’editore.
Considerando che mancano i due anni precedenti (ho cambiato pc) e che non di rado ho sovrascritto i file, cioè non li ho salvati con una data diversa perché le modifiche non mi parevano così sostanziali (punteggiatura, una diversa versificazione, un testo aggiunto), posso azzardare almeno il doppio di versioni rispetto a quelle che sono rimaste.
Di fondamentale importanza resta però il confronto “per strada” con alcuni amici. Tra questi Matteo Bianchi, che ti ho già citato, e Roberto Cescon. Confronto che serve a oltrepassare il sé e a rendere la poesia un po’ più “collettiva”.

“Samuele Editore” è una delle più importanti sigle dell’editoria di poesia oggi in Italia, per le collane e per la collaborazione con Pordenonelegge. In Italia moltissimi scrivono versi, agli editori arrivano centinaia di proposte di pubblicazione, molti sono i premi, molti i festival, ma sul mercato librario la poesia è una nicchia: come spieghi questa contraddizione?
Intanto ti ringrazio per questo elogio che ancora adesso, dopo 15 anni di attività, sento immeritato. Si fa quel che si può e che si riesce, non di rado nonostante gli autori stessi.
Alcuni giorni fa, riflettendo con la redazione sui prossimi numeri di “Laboratori critici”, abbiamo incrociato una discussione di Loredana Lipperini poi divenuta articolo su Lipperatura (https://www.lipperatura.it/publish-or-perish- lo-stato-delle-cose-delleditoria-da-un-bel-pezzo/).
La questione è che ormai tutto è diventato nicchia e si è disperso in un sacco di rivoli fatui. Perché? Qui si potrebbe dire tutto e niente, partendo dalla trasformazione dell’Editoria in Industria Editoriale e arrivando alla scolarizzazione sempre peggiore che abbiamo vissuto negli ultimi 40 anni.
Però tu dici una cosa importante che purtroppo è una consapevolezza sempre più dilagante: premi, festival, proposte come piovesse. Vendite sempre poche se non pochissime.
La questione è che ormai il libro è diventato inutile. Prima era tutto il focus, la cosa importante. Poi è diventato un biglietto da visita. Adesso il libro (e qui il discorso della competizione che fa Lipperini e che purtroppo vedo spesso, pur nella sua assoluta futilità) non serve nemmeno più se non come una qualche strana forma di feticcio, di spilletta o se vuoi di “tassa da pagare” per il resto. Oggi l’autore basta a sé stesso negli incontri, nei festival, nei premi e via dicendo.
Però è bello che chiami questo effetto “contraddizione” perché denota una qualche resistenza del libro, che è resistenza delle opere. Che, ricordo, devono vivere a prescindere dall’autore.
Non si scrive per diventare protagonisti ma per costruire un poco il mondo, senza mai diventarne il soggetto.

 

L’autore:
Alessandro Canzian è nato nel 1977 a Pordenone. Nel 2008 fonda la Samuele Editore. Nel 2015 apre il ciclo di incontri letterari “Una Scontrosa Grazia” a Trieste e nel 2016 l’osservatorio poetico on line Laboratori Poesia; nello stesso anno esce da Samuele Editore “Il colore dell’acqua”.
Nel 2018 cura, assieme a Simona Wright, il 50° numero del “Nemla Italian Studies” del College of New Jersey dal titolo “Writing in a Different Language: Transnational Italian Poetry” (presentato nel 2019 a Washington), mentre nel 2021 fonda la rivista semestrale “Laboratori critici” (con e per la direzione di Matteo Bianchi).
Dallo stesso anno collabora con Pordenonelegge pubblicando le collane Gialla e Gialla Oro e, con Roberto Cescon, apre e cura il sito pordenoneleggepoesia.it. Come autore ha inoltre pubblicato “Il Condominio S.I.M.” (Stampa 2009, 2020, prefazione di Maurizio Cucchi, premio San Vito al Tagliamento 2020), oltre a “Christabel” (Edizioni del Leone 2001, quarta di copertina di Paolo Ruffilli), “La sera, la serra” (Tipografia Mazzoli 2004, prefazione di Tita Paternostro), “Canzoniere inutile” (Samuele Editore 2010, prefazione di Elio Pecora), “Cronaca d’una solitudine” (Samuele Editore 2011, quaderno bifronte con Federico Rossignoli), “Luceafarul” (Samuele Editore 2012, prefazione di Sonia Gentili), e il saggio su Claudia Ruggeri “Oppure mi sarei fatta altissima” (Terra d’Ulivi 2007); sempre nel 2007 con Terra d’Ulivi ha pubblicato “Distanze“, una collaborazione fonopoetica con Elio Scarciglia.

(Alessandro Canzian “In absentia”, con una nota di Martin Rueff, pp. 96, 14 euro, Interlinea 2024)

 

 

 

 

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A ogni latitudine    At every latitude

Nove fotografie

di Virginia Morini

 

 

 

 

Ti racconto        ————————–

Patavium quasi post first lockdown

31 maggio 2020

di Enrico Grandesso

Sembra una di quelle feste cascate di stronzo sul calendario, quando la mattina il cielo minaccia di sbirreggiare sulle teste quintalate di liquido ed è meglio non farsi chissà che film in testa… allora, nulla: si resta in città. Ma il tempo adesso sembra un po’ meno falso. Batte appena sui muri un sole timido, nel pomeriggio di una brezza strana dai seni sfuggenti, che vorrebbe giocare.
Su un tavolino vicino al mio, in un caffè di Piazza della Frutta, una coppia sui trent’anni. Lei molto bella, con occhiali da sole e capelli lunghi, neri; lui castano biondo, capelli ricci e barba incolta. Al guinzaglio un volpino che cerca, in un’inquieta gioia, nuovi bersagli affettuosi della sua curiosità.
I due fumano davanti a due birre, parlano piano.
Dietro, lungo i portici, passa gente in coppia o in piccoli gruppi. Metà di loro ha già le mascherine abbassate – l’ordinanza del governatore regionale ne rende facoltativo l’uso all’aperto, da domani.
Domani, post oggi. E ieri. Ma gli ultimi sospiri di cui ricordiamo le scene, le voci, i passi sono smaltati a fine inverno, nel Carnevale di brutto interruptus e mai cicatrizzato.
Qualche bambino, un povero dal passo maldestro, una femmina che si lamenta ad alta voce dei suoi guai – per fortuna camminando veloce.
Gruppetti di ragazzi passeggiano in via Roma e nel Prato. Non sono andati al mare. Parlano, talvolta alzano la voce, altre ridono, come nel brio stonato di una scolaresca in uscita a cui le prof infastidite abbiano concesso mezzora in più di libertà. Si mantengono le distanze. Eppure il fantasma dell’allegria degli universitari sembra profilarsi all’improvviso, impalpabile percezione sospesa.
Scorrono i flash di chi è morto, nello sconforto. Di chi ha lottato duramente per salvare vite. Delle bestemmie di quei commercianti che hanno dovuto chiudere “per colpa degli altri”.
Attraversando la periferia, poi le strade a piedi da Piazzetta Petrarca fin qui, nell’assenza dei contenitori umani – ma, dopo il semaforo di San Carlo, le sagome (vere quelle) di tre agenti coi mitra – sono infine arrivato: dove odorano frasi sminuzzate e svolazza discinta e irrequieta, nella scia d’immagini, un’eco.
Una giovane signora nera, con un piccolo tatuaggio sulla spalla sinistra, passeggia davanti a me. In direzione opposta, più lontano, una donna bionda un po’ rotonda, coi capelli mossi e il passo dolcemente cadenzato. Va verso Piazza dei Signori. Vorrei fermarla con una scusa, scambiare una battuta facendole avvertire un fruscio di leggerezza, dietro la maschera ascoltarle la voce. Lei si ravviva i capelli. Sta per sparire verso la piazza, dove l’orologio di Jacopo Dondi segna imperturbabile e protervo il mese, il giorno, l’ora e i minuti. Passato il vuoto, noi, qui.

(Questo racconto è una anticipazione della raccolta di racconti di Enrico Grandesso, “Gli altri vedono il clown”, che uscirà ad inizio 2025 per l’editore Campanotto. Foto di copertina del libro: Giacomo Anderle, “Antoine”, in “Et voilà, le cirque pot-pourri” Compagnia Finisterre Teatri)

 


L’autore:
Enrico Grandesso è scrittore e studioso di letteratura. Ha pubblicato saggi, tra gli altri, su Rebora, Turoldo, Sbarbaro, Sciascia, Carlo Gozzi, Marlowe e T. S. Eliot. Ha diretto per dieci anni una collana di ricerche letterarie per Marsilio. Collabora con diverse testate stampa e internet.
È autore radiofonico, per Radio Rai, e autore teatrale: il suo spettacolo “Vozi dal mar e dala tera”, che comprende testi di scrittori e poeti veneti e friulani dal Duecento ai nostri giorni, messo in scena da Pino Costalunga è stato sulle scene dal 2001 al 2015, con decine di serate.
Ha organizzato – e organizza tuttora – convegni nazionali e internazionali di studi, tra gli altri su Clemente Rebora, David Maria Turoldo, Bino Rebellato; e rassegne letterarie e critiche su numerose tematiche, dalle emigrazioni alla letteratura industriale ieri e oggi, dalle città degli scrittori ai classici novecenteschi della letteratura americana.
Ha esordito nella narrativa con “I dettagli sono importanti” (Biblioteca dei Leoni, 2018). “Gli altri vedono il clown” (Campanotto editore, in uscita a breve) è il suo secondo volume.

 

 

 

 

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Voce d’autore       ————————-

Insonni e sognatori, tutti noi

Bruce Hunter, “Galestro”

di Giovanni Fierro

Si muove con un respiro ampio e profondo la poesia di Bruce Hunter, autore canadese che nel suo libro “Galestro” esplora la natura e l’infanzia, rende omaggio al jazz, trova vicinanza ed appartenenza al suo nativo Canada e anche nella amata Toscana. Ma non solo, il suo scrivere costruisce una spiritualità dove i legami, d’amore e d’amicizia ma non solo, permeano ogni sua parola, ogni sua poesia.
Insonni e sognatori, tutti noi,/ a galla nelle fresche bolle blu del suo jazz caldo/ che illuminava il cielo di seta nera/ dove corteggiavo il mio giovane amore,/ e accennavo a due passi di danza sotto le lampade,/ tutte le possibilità della strada e della fede”, ed è già un suono ad accogliere il lettore, un ascolto che si fa danza, movimento di anima e corpo, possibilità di scoperta e definizione di sé.
E il punto da cui partire è chiaro, è netto: “Qui il cielo incontra la terra/ e l’acqua è dura come questa alta roccia”. È la sua terra nativa ad essere primo luogo di confronto con la verità della natura, rapporto intimo ed assoluto, che poi porterà sempre con sé, riferimento imprescindibile per scegliere gli altri luoghi da amare.
Natura che è dono, ma anche realtà che l’uomo sta rovinando, devastando nei suoi progetti commerciali ed industriali, “Adesso sto dove stavo un tempo,/ sulla terra avvelenata, le piume azzurre/ di un abete puntano verso il cielo”; la consapevolezza di Bruce Hunter è uno stare dalla parte dello sguardo critico, dell’accorgersi di come la nostra società è rapina ed inganno.
Tutto “Galestro” è pero un’immersione in ciò che di umano è più prezioso, valore da vivere e da difendere, possibilità di gioia, dove si può sempre stare “legati a filo tra esistenza e sogno/ a pesca di pesce celeste o di angeli erranti/ persi nella lusinga delle nubi”.
Ed è in quei momenti di assoluta rivelazione emotiva che si riconosce la sensualità necessaria per sopravvivere, “La mia mano ruvida scosta il tuo ciuffo umido/ la mia lingua asciutta ti preme// per avere pioggia, stelle./ Le mie dita guardano la luce.// L’inizio dell’acqua./ Dell’amore”.
Di fascinazione è anche pieno il galestro del titolo, ovvero il terreno arenoso e ricco di minerali che si trova nei vigneti del Chianti in Toscana, capace di conferire ai vini della regione un sapore unico.
“Galestro” è quindi terra di cui fare parte, materia di stelle come nella definizione di Carl Sagan, perché “se tutta la vita terrena deriva dalla sostanza delle stelle cadenti, Galestro è l’essenza, la sostanza, la grana”.
La Toscana dunque, nuova geografia da riconoscere ed amare, “E c’è un’osteria/ in una terra dove il caffè è una piccola comunione/ e il cibo un’offerta sacra. Sei a casa, dice./ In viaggio, in questo luogo./ Le mappe raccontano,/ c’è una valle lontana, dove c’è un fiume”.
Il desiderio di mettere radice è forte, “vorrei essere una vite,/ radicata come queste, che s’incunea/ […]/ a dieci metri dalle correnti artesiane/ che alimentano il fiume accanto al mulino del XII secolo”, in un vitale confronto con la propria provenienza: “All’aria aperta, tra le file di pietre,/ mia cugina indica il nostro nome comune:/ Begg, in gaelico, vuol dire piccolo,/ e rotondo, dice lei. E noi lo siamo, rido”.
Bruce Hunter riconosce tutto questo e lo racconta, trova i riferimenti più intimi e indica se stesso in questa rinnovata esperienza: “Alla fine della strada bianca/ dove mi aspetta la mia anima./ Un luogo dove non sono mai stato, ma che ho sempre conosciuto”.

 

Dal libro:

Riff

Mentre i treni borbottano
e i passeggeri s’affannano,
l’uomo del sax è chino su una sedia pieghevole
nella grande sala marmorea della Metro.
Un hepcat col berretto all’indietro, da ragazzo povero,
una spilla da busker appuntata alla giacca.
La fronte bruna aggrottata,
setole bianche sul mento,
i vispi occhi azzurri sotto le sopracciglia grigie.

La sua custodia aperta mostra alcune monetine,
mentre i rider di passaggio lo ignorano.
Le dita artritiche stringono il suo sax dorato,
non si mette più in piedi per suonare.
C’è sempre umido nella sotterranea.
La testa perlopiù china
ma a volte si alza,
ondeggia e striscia i piedi a un Brubeck,
e attacca un vellutato “Take Five”
che sentii una volta alla George’s Spaghetti House sulla Dundas
dove sperperai la mia prima busta paga
in whisky scadente e buon jazz.
Ed Bickert e Moe Kaufman,
i vecchi musicisti e i locali jazz scomparsi.
Ragazzo di prateria, non mi pareva vera la mia fortuna cittadina.
Quest’uomo è l’ultimo della sua epoca,
e sono ancora troppo timido per chiedergli il nome.

[…]

*

Tra il vecchio e il sapiente

Di una certa eleganza
pur nella scombinata flessuosità
con una nobile apertura
di quasi un metro per un metro.

Non passò inosservata al giardiniere giovane
che non aveva niente di meglio
che annaffiarla bene, togliere l’erba intorno.

Senza dubbio degna di meraviglia,
il fiore vagamente orientale,
baccelli increspati, foglie gualcite,
stelo sicuro.

Finché il vecchio giardiniere
con tutta la presa
che i vecchi hanno sui giovani,
l’afferra, la sbarba,
ne espone la radice fiacca e goffa.
L’età gli ha dato almeno questa certezza.

La getta nel mucchio dei rifiuti
sonoramente e senza altre parole
sentenzia: erbaccia.

*

Gli acchiappanuvole

Dopo cena, il sole si nasconde ancora,
mentre beviamo chianti nel Chianti, stavolta nei bicchieri,
traboccanti di nuvole e stelle.
Una nebbia catturata dagli acchiappanuvole
infilati sulle alte colline aride come reti da pesca
per raccogliere gocce per le viti
dalle nuvole invisibili che passano la notte.
Acqua sacra risparmiata e rilasciata ancora
e ancora, nelle settimane a venire.

E resto sveglio a lungo dopo l’amore,
la dolcezza di mia moglie sulle dita, sulle labbra,
il sapore del mare più antico da cui proveniamo
il mio mento tra i suoi riccioli ingrigiti,
mentre i venti notturni segnano i muri di pietra della Leccia,
come hanno sempre fatto e come le viti, la valle,
a differenza del fiume, noi dormiamo, e nei miei sogni sento
l’impossibile, la pioggia, le goccioline che cadono,
sibilo di nuvole. Battito di cuore.

*

Galestro

Questa primavera in Toscana
sulle strade bianche,
su quella strada bianca che percorriamo
un viottolo di campagna, accanto a un muretto di pietra.

Cordoni di legno d’ulivo impilati
accanto a boschetti d’alberi potati di fresco.
Un lavoro che facevo da giovane.
Combustibile trasportato sabato alle navi
per la Sardegna, ci dicono. Niente va sprecato qui.
Tutto il bellissimo legno vecchio.

C’è un antico fiume polveroso ai nostri piedi
la valle dove il piccolo castello sul colle veglia su
distanti pendii cuciti con le viti.
Le montagne vicine tremano
dietro le colline al tramonto settembrino –
le colline al tramonto. Del colore delle zucche.

Sotto le vecchie querce impollinate della piazza,
da loro il Castello prende il nome, La Leccia.
Francesco ci dice a colazione: “c’è la siccità,
su tutto il Chianti”. Il vignaiolo con gli occhi saggi di un poeta.
Quando la nebbia azzurra si alza all’alba,
sotto di noi viti luminose si estendono
attraverso la traboccante marna arancione.

Per tutta la vita giardiniere, vorrei essere una vite,
radicata come queste, che s’incunea, ci dice,
a dieci metri dalle correnti artesiane
che alimentano il fiume accanto al mulino del XII secolo.

[…]

*

I corvi tra i sicomori alla tomba di Dunn
(per Don Coles)

[…]

So che c’è una volontà negli alberi
e in noi di raggiungere la luce.
Anni fa ero giardiniere in un cimitero,
guardavo gli ippocastani salire sul verde
resi forti dalle ossa come fanno qui.
Di notte lumache fameliche coprono le lapidi,
creature del mare primordiale da cui emergemmo.
Non ho più paura del buio
quando la luce mi finisce negli occhi.

Piantine accidentali della foresta medievale
dissotterrate e ripiantate dai tombaroli,
giardinieri del vicino ultramondo.
Vedo ora l’arto increspato dal sole,
di mia nonna quattro volte oltre.
Ascolta gli ontani, ho sentito male da bambino sordo,
prima di capire che erano invece gli anziani, ma era troppo tardi.

Ascolto sempre gli ontani, i nostri anziani.
Vedo in loro i volti degli hiderman
riflesso nelle foglie coperte di nebbia.
I miei stivali pagani zuppi per l’erba bagnata
e vedo le dita dalle foglie verdi.
Non salutando, non affogando, ma facendo un cenno alla luce
da cui siamo venuti. La grana di una stella cadente lontana,
e quando torniamo sulla terra,
le nostre ossa sono fertilizzante per gli alberi,
e se ho un solo desiderio:
Essere quell’albero,
più forte della pietra nel suo sollevarsi.
E quella, amici, è la sostanza.

 

Intervista a Bruce Hunter:

Il fascino dei jazzisti penso alimenta tutto il libro. Sia per una devozione al loro fare musica, e sia per il respiro che la sua scrittura ha in comune con il fare jazz. È così?
Grazie mille per il tuo commento acuto e generoso. SÌ. Il jazz (e il blues) è poesia per la mente musicale. Come la poesia, il jazz copre la gamma della psiche umana e della musicalità, dal dolore alla rapsodia, dall’eufonia alla cacofonia. Canalizzato attraverso New Orleans, il jazz americano combina armoniche europee e ritmi africani.
Tutte le forme di poesia emergono nel jazz e nel blues: lirica, racconto, dramma, dialogo, sia in forma formale che aperta. Che si tratti della voce lamentosa di un sassofonista solitario all’angolo di una strada che ci chiama o del griot africano che si alza in mezzo alla cacofonia della vita del villaggio intorno a lui. Come la poesia, il jazz invita nel mondo, con una fusione di tutti i suoni della vita.
La mia ultima poesia in “Galestro”, “The Rooks in the Sycamores at the Tomb at Dunn” è una sorta di fusione jazz che utilizza mitologia, letteratura, botanica, antropologia, etimologia, storia familiare e sociale sia come storia, testi, giochi di parole, dialoghi, verso, dialetto scozzese e gaelico. Così come la mia poesia che dà il titolo a Galestro, sulla Toscana, la sua storia e il suo dialetto. Condivido l’ossessione di un musicista per l’abilità e il tono. Sia in inglese che in italiano.

Due argomenti che trovano molto spazio in “Galestro” sono l’infanzia e la natura. Cosa hanno in comune? E cosa di loro è così importante?
Storia, natura e infanzia sono temi che attraversano tutta la mia vita dai primi anni ad oggi. Molto prima che studiassi formalmente la botanica, sono stato introdotto alla piantagione di alberi da un insegnante che ha regalato alla nostra classe di scuola media alberelli di abete verde in contenitori per alimenti per bambini come regalo per l’Arbor Day.
Ho piantato il mio primo albero che avevo otto anni, poi ne ho piantati a decine a mano a mano che i miei fratelli e sorelle me li portavano a casa. Più di sessant’anni dopo, quegli alberi crescono ancora nel vecchio cortile dei miei genitori. I miei genitori e i miei fratelli se ne sono andati adesso, ma quelle robuste piume verdi di abete rosso si ergono alte.
Ho studiato orticoltura e arboricoltura al college prima di ricevere una borsa di studio di poesia all’università. Nel mio apprendistato da giardiniere ho imparato il linguaggio universale delle piante, del suolo e del tempo, che non ho mai dimenticato e che rimane uno dei potenti legami tra passato e presente, terra e cielo, nella mia vita e nella mia scrittura.

Un aspetto significativo è anche la sua attenzione alla storia dei luoghi di cui parla. Quanto è importante questo suo atteggiamento? È l’indicare il modo con cui ci si deve rapportare e avvicinare a loro?
Mi sono innamorato dell’Italia per la prima volta alle elementari, dopo aver studiato un capitolo dedicato alle guerre greche e romane. Poi ho trovato un reportage fotografico del National Geographic sugli scavi di Pompei, dove gli archeologi hanno scoperto il corpo perfettamente conservato di un ragazzino della mia età che stava facendo una commissione per sua madre; in quel momento la storia è diventata un qualcosa di personale. Ero io quel ragazzino intrappolato nel tempo.
In seguito, ho studiato latino al liceo e ancora più tardi, come professore universitario, ho insegnato ai figli degli immigrati dal sud Italia del dopoguerra. Un milione e mezzo di italiani, la maggior parte proprio del sud, vive in Canada.
Come me, molti dei miei studenti sono stati i primi nelle loro famiglie della classe operaia a ottenere un’istruzione superiore. Ma devo ammettere che, come semplice turista in Italia, all’inizio ero nervoso nello scrivere della ricca e leggendaria storia dell’Italia.
In Italia, la storia ci circonda e insegna a tutti noi, se glielo permettiamo. Vengo in Italia sempre con un cuore e una mente aperti perché credo che quando viaggiamo torniamo giovani e vulnerabili.
Siamo tutti turisti, visitatori temporanei, ovunque ci troviamo su questa terra. Diventiamo persone diverse quando rispondiamo a un nuovo luogo che incontriamo, proprio come il mio nipotino appena nato che esplora il nostro giardino.
Dalle nuove esperienze, dalla vulnerabilità, nascono immagini primaverili che spesso collegano il passato con il nuovo e l’ignoto.

Perché poi in queste sue pagine costruisce una vera e propria geografia di luoghi. E chiedo, allora è il viaggio lo strumento per unirli? Per avvicinarli tra di loro? E che significato dà al concetto di viaggio?
La mia breve risposta è che l’avventura e la meraviglia uniscono le poesie ovunque siano ambientate. Ho la fortuna di avere una compagna di avventure, mia moglie Lisa, che è una viaggiatrice di tutta la vita e una fotografa. Per lei il viaggio è tutto incentrato sulle immagini e sulla sorprendente meraviglia della scoperta. Per me sono le immagini, anche la meraviglia, e le storie, gli scherzi, le battute che sottolineano il viaggio. Le mie poesie parlano sempre di persone, di terra e di storia.
Abbiamo avuto la fortuna di visitare gran parte dell’Italia, Torino, Cinque Terre, Alba, Umbria, Salento, Costiera Amalfitana e altro ancora. Quanta bellezza e varietà ci sono nelle regioni italiane, ognuna con il proprio fascino, il proprio dialetto e cibi che sono unici.

Di conseguenza mi sembra importante sottolineare di come, da “Galestro”, emerge il pensiero che la strada è una vera e propria scuola di vita. È corretto?
Assolutamente sì. La strada, o il viaggio della mia vita, è iniziato come per tanti altri, mi sono ispirato al romanzo “On the Road – Sulla strada” dell’americano Jack Kerouac. Con il mio compagno di liceo abbiamo fatto l’autostop per 3000 chilometri da Calgary, Alberta, a San Francisco.
La strada allora come oggi è l’aula non riconosciuta della vita. Sulla strada siamo liberi, viaggiamo leggeri, ma vulnerabili e aperti a qualunque cosa accada. Il che è uno stato di grazia da cui nasce la poesia e l’arte. Io e il mio amico abbiamo dormito nei fossati lungo le strade, nelle foreste e una volta in un cimitero sabbioso del deserto a Winnemucca, nel Nevada. I morti sono buoni vicini! I serpenti a sonagli neanche.
Spesso gli estranei ci portavano nelle loro case, questi due giovani canadesi con giacche di lana scozzese, dall’aspetto magro, giovane e grezzo.
Una notte l’abbiamo trascorsa nel quartiere abbandonato di Tenderloin a San Francisco, come avevano fatto Kerouac e Jack London. Abbiamo incontrato insegnanti, predicatori, camionisti, un venditore ambulante di Bibbia, una guardia costiera: tutte brave persone disposte a darci un pasto, un letto o un passaggio.
Ahimè, purtroppo eravamo in ritardo di due anni per la Summer of Love, ma per via della letteratura siamo andati in cerca di grandi avventure che ci hanno istruito, in così tanti modi. Questa è stata la mia vita.

“Galestro” guarda anche al passato, al tempo che è stato. Ed è vivo il ricordo delle amicizie passate. In che modo ci si può convivere?
I buddisti credono che noi curiamo tutte le nostre emozioni, le paure, il nostro dolore, nello stesso modo i cui ci si prende cura di un giardino. Il dolore, ad esempio, ferma l’anima, ma nella poesia lo onoriamo assieme alla persona amata e gli diamo un posto speciale nel giardino della psiche.
Da giovane ho lavorato come giardiniere in un cimitero e ho visto come non fosse un luogo di morte ma una vivace celebrazione della vita. E spesso è anche un luogo di grande generosità e bellezza, di piante e animali attratti da un lussureggiante Eden verde nel mezzo di una città.
Mi sono profondamente commosso a vedere i visitatori sulle tombe della propria persona amata. Alcuni venivano con bambini che lasciavano lettere, piccoli doni per la persona amata. Tutto intorno a noi c’erano molte creature e sopra di noi uccelli che nidificavano sugli alti alberi che adornavano le tombe. Questa era tutta poesia per me.

In queste sue poesie che Canada emerge, che forma prende? E qual è il Canada che a lei piace?
Sono attratto dalla natura selvaggia, dalla natura selvaggia, dai sentieri battuti, dalle Dolomiti, dai luoghi montuosi come quelli in cui sono cresciuto in Alberta. È dove le praterie si elevano fino alle colline pedemontane e alle Montagne Rocciose canadesi innevate, dove il clima arriva dalla costa occidentale.
Il Canada è un paese vasto, il secondo più grande dopo la Russia, 10 milioni di chilometri quadrati con circa 40 milioni di abitanti, l’inverso dei 300.000 chilometri quadrati dell’Italia con 60 milioni di abitanti.
Il Canada ha molte regioni e culture vivaci, diverse e distinte, ma sono sempre le montagne, qui e in Italia, quelle a cui torno. Per citare la mia poesia “Two O’clock Creek” da “A life in Poetry”:

…tutti gli anni
da quando ho imparato come sono fatti i fiumi,
questo è il posto in cui vengo nei miei sogni
tra il punto più alto della terra e il cielo,
così posso bere dalle nuvole.

La poesia parla del Canada, ma sento la stessa cosa per l’Italia. Questa poesia è stata il “seme” per la mia nuova pubblicazione in Italia, il romanzo “Nella casa dell’orso”, in uscita a dicembre 2024, da iQdB edizioni di Lecce.

C’è anche una fascinazione completa e totale per la Toscana, che diventa un vero e proprio sinonimo di bellezza. Cosa significa per lei?
Ho avuto la fortuna di viaggiare molto in Italia dal nord al sud, in città piccole e grandi: Torino, Alba, Rapallo, Pisa, Firenze, Siena, Cortona, Roma, Napoli, Sorrento, Capri, Matera e Lecce.
Ma il mio primo legame profondo con la gente e i luoghi è stato nel Chianti, dove ho riconosciuto un terreno molto simile a quello in cui sono cresciuto, ai piedi delle colline meridionali dell’Alberta in vista delle Montagne Rocciose canadesi e nelle praterie aride, ma ricche di agricoltura contro ogni previsione… Abbiamo soggiornato in un agriturismo fuori Castellina, nel Chianti. Una mattina sono andato in vigna per assaggiare un po’ di quel terreno unico, lo scisto, che in dialetto toscano ho imparato si chiama galestro, e che aromatizza i migliori vini della regione.
Al college ho imparato a testare il terreno per verificarne le qualità minerali e la vitalità per i raccolti. Il vignaiolo mi vide fare questo, e così il giorno dopo visitammo le sue terre e la sua cantina.
La poesia che dà il titolo a “Galestro” deriva da quell’esperienza. Il terreno e il tour con il viticoltore hanno ispirato il mio libro. Ci fu un riconoscimento immediato.
Più tardi un mio amico toscano mi raccontò che il galestro è la terra che spaventa, e che immergendovi le mani, le santifica. Naturalmente questo è un qualcosa che ogni giardiniere e agricoltore sa.
Il suolo, prodotto di antiche stelle cadute, è ciò che dà la vita a ogni creatura vivente. E lo è dall’inizio dei tempi. Cosa si può non amare? Nuovi luoghi risvegliano ricordi sepolti.
Le mie poesie in “Galestro” mescolano infanzia e storia. In Italia dove la distruzione dell’ultima grande guerra è visibile se guardi. Ho la sensazione di tornare sempre a casa da casa mia, ogni volta che ci ritorno.

(Intervista a cura di Sandro Pecchiari e Giovanni Fierro)

 

L’autore:
Bruce Hunter pratica da anni diversi generi letterari. Nel 2022 il suo libro più recente, “A Life in Poetry” è stato pubblicato in Italia. Nel 2021, il suo saggio memorialistico “This is the Place I Come to in My Dreams”, basato sul suo romanzo semi-autobiografico e sulle sue poesie, è stato inserito nella rosa dei premi Alberta Magazine Publishers’ per i saggi.
Nato a Calgary, Alberta, Canada, Bruce è rimasto sordo da bambino e ha sofferto di ipovisione per gran parte della vita adulta. È cresciuto nel quartiere operaio di Ogden, all’ombra della raffineria Imperial Oil della Esso e degli Ogden Shops della Canadian Pacific Railway (C.P.R.), ormai dismessi.
Nella prima adolescenza, Bruce ha scoperto la poesia come bussola per orientarsi in un mondo caotico come quello dell’udito.
Dopo le superiori, ha lavorato per dieci anni come manovale, operatore di attrezzature, autista di macchina del ghiaccio e ha completato la sua formazione e il suo apprendistato come giardiniere e arboricoltore. Alla soglia dei trent’anni, le poesie pubblicate gli sono valse una borsa di studio alla Banff School of Fine Arts per studiare con il romanziere W.O. Mitchell e il poeta Irving Layton.
Di seguito è passato alla York University per studiare cinema e letteratura, e ha insegnato nel dipartimento di scrittura creativa prima di ottenere una cattedra al Seneca College.
Bruce ha insegnato per venticinque anni a Seneca, dove ha creato i laboratori di poesia e di spoken word basati su un programma di studi pan-culturale. Ha inoltre sviluppato e gestito due centri di apprendimento del campus a sostegno delle esigenze speciali e del linguaggio attraverso il programma scolastico.
Le sue poesie, la sua narrativa e la sua saggistica creativa sono apparsi in oltre 80 blog, riviste e antologie internazionali in Italia, Canada, Cina, India, Romania, Regno Unito e negli Stati Uniti.
Il suo pluripremiato ecoromanzo “Nella casa dell’orso”, sempre per l’editore IQdB, sarà pubblicato a dicembre 2024.

www.brucehunter.ca

(Bruce Hunter “Galestro” pp. 107, 15,60 euro, I Quaderni del Bardo edizioni 2023)

 

 

 

 

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Voce d’autore      ———————-

Davanti alla mia vista

Prisco De Vivo, KAFKALTO – Del quaderno e delle metamorfosi

di Luigi Auriemma

Kafkalto” è un libro molto particolare ed interessante, a metà tra il libro d’artista e una silloge poetica. Il libro è strutturato con opere pittoriche, disegni e poesie di Prisco De Vivo e poesie del poeta Raffaele Piazza con prefazione di Rosaria Ragni Licinio e postfazione di Paolino Cantalupo.
Le tavole presenti nel libro non fungono da illustrazioni alle poesie ma fanno parte di una raccolta di opere, un corpus, che De Vivo (poeta e artista visivo) dedica da molti anni allo scrittore boemo Franz Kafka; opere che nascono contemporaneamente alle poesie, quasi come se il segno pittorico delle opere si condensasse nel segno linguistico-alfabetico delle poesie.
Questo corpus di opere è sfociato in vari progetti espositivi e reading poetici nel corso del 2024, a cento anni esatti dalla morte dello scrittore praghese; segnalo, una fra le tante esposizioni, la personale curata dal critico Alberto Dambruoso, che si è svolta nell’aprile di quest’anno alla galleria AXRT di Avellino.
Le poesie del poeta Raffaele Piazza presenti nel libro collimano in un perfetto continuum sia per tessuto linguistico di carattere evocativo che per forza espressiva, sia alle opere grafiche e pittoriche, sia con i versi di De Vivo.
Illuminanti, a tal proposito, sono le parole scritte nella prefazione dalla Ragni Licinio: “Dalla perfetta fusione dei disegni di De Vivo, dei suoi versi e delle poesie di Piazza un Kafka incarnato ci trascina nei suoi deliri”, e ancora, “L’uomo con la bombetta, impresso sui fogli di un quaderno a quadretti, si staglia tra vuoto e oscurità, ha il volto appena accennato, è un essere ambiguo che ricorda la precarietà della condizione umana.
Kafka è la personificazione dello sdoppiamento tra sogno e realtà, tra inettitudine e contestazione; è uno scrittore che si confonde con i protagonisti delle sue opere, attuando così un processo psicoanalitico in cui sonda i temi della perdita, dell’alienazione e della frustrazione”. L’immagine di Kafka diventa per De Vivo il pretesto per indagare, attraverso il suo segno caustico e profondo, l’inconscio e l’irrequietezza esistenziale proprio dello scrittore praghese, dell’artista, del poeta e forse di tutto il genere umano.
Segni e disegni che scavano, incidono e si fissano su fogli a quadretti di quaderno diventano una vera e propria ossessione: segni ossessivi nel vortice dell’esistenza. Lo psichiatra Paolino Cantalupo, nella postfazione scrive: “Con Prisco De Vivo, la pittura ritorna sulla scena, inserendosi nell’interstizio tra il figurativo e l’informale. Nei suoi lavori, si produce storicamente un diverso approccio all’arte. Una maniera nuova di disegnare evocando. Contemplare i suoi lavori significa accettare di guardare il perturbante che è in noi. Certo, i suoi dipinti evocano con “chiarezza” figure riconoscibili, come quella del grande scrittore Kafka.
Ma quella chiarezza ha come fondamento il buio. La figura, infatti, non nasce dal nero del fondo, come nell’immenso Caravaggio, ma invade la figura, la sfregia o la copre per intero, rivelandosi come necessità esistenziale, destino ineludibile. Il buio è dentro di noi. Invano cerchiamo di analizzare, con categorie sicure, il mistero dell’esistere.
Cerchiamo definizioni rassicuranti che illuminino il nostro cammino. Ma “l’io non è padrone in casa propria”, diceva Freud. E un’ombra incombe sempre dentro di noi. De Vivo evidenzia quell’ombra”.
Il libro è dedicato da De Vivo ad un amico comune, all’artista e poeta Camillo Capolongo, “novello Kafka … vissuto nel deserto del dissenso”.

 

Dal libro:

testi di Prisco De Vivo:

Guardandoti negli occhi

Il tuo occhio
è quello
della lince
e del pavone.
Un cimitero bianco
di pietra
è
davanti alla mia vista.
La chiesa
e le tue sorelle
sono nascoste
sotto la polvere
dove riconosco
cerchi
e uova bianche
un alfabeto infinito
di lettere melmose
non riesco a decifrare
sul quaderno nero
provo a sognare
e a rischiarare.

*

Cerco di incontrarti

Di nascosto
dietro i portoni bui
cerco di incontrarti
tremulo e cadente
bombetta scura
e scarpe di vernice
seguo
il tuo passo
su strade sconquassate
dove gli alberi
muoiono
nella pietra
e le loro radici
ramificano
nell’ignoto.

*

Kafka in metamorfosi

È un uovo,
un calice,
una materia informe.
Fragili alberi
crescono
nell’infinito
rami
sbocciano
da lunghi bastoni
sulla faccia del gracile boemo
incido
una – O –
il suo volto
e il suo corpo
sono
irriconoscibili.

testi di Raffaele Piazza:

L’agrimensore K

Romantica nera natura
nell’accogliermi
una sera (dove sono?
una taverna?).
Io so misurare i campi.
(Chi mi comanderà)
(Tornerò vivo al mio paese?).
(Non riesco a prendere
sonno nel chiaroscuro
lunare e morale e fa freddo
e non ho coperte).
Non bestemmia abbeverandosi
a liquida pietà per l’amico
suicida.

*

Il processo

Mi uccideranno e sto impazzendo
sono venuti a prendermi secondo
legge e non è nazismo o stalinismo.
Mi hanno a morte rossa condannato
e domani non sarò dopo il boia.
Avevo una fidanzata e ridevo spesso
(forse proprio per questo la condanna).
Mi ammazzerei io ma qui non c’è
corda. Fuori dalla mia cella
bevono vino i carcerieri
ed è il mio sangue.
(Potevo portarmi una corda).

 

Intervista a Prisco De Vivo:

Come è nata l’idea di questo libro, che hai pubblicato nel 2024 a cento anni esatti dalla morte dello scrittore praghese, dal titolo “Kafkalto” e perché questo titolo enigmatico?
Alto è solo Kafka” scriveva Gustav Janouch, per aver superato “ogni condizione di misura” ed anche per “per quel mondo che aveva in testa”.
Sicuramente è stato questo il motivo ispiratorio della nascita di questo particolare libro: ibrido.
Il mio “Kafkalto” nasce da questo… come ben descrive il sodale amico e biografo di Kafka. “Quell’Alto” è rivolto all’altezza letteraria di uno scrittore misterioso ed inarrivabile, per il suo inconfondibile stile.
Kafka diceva: “Un libro dev’essere l’ascia per rompere il mare ghiacciato dentro di Noi”.

Più volte nell’ultimo periodo hai creato opere, sia come artista che come poeta, ispirandoti a Kafka, quali sono le caratteristiche dello scrittore boemo che ti hanno maggiormente attratto?
La caratteristica fondante che mi ha portato ad apprezzare profondamente questo scrittore è sicuramente l’inquietudine, l’angoscia che ne permane, ma anche l’irriverente raffigurazione “assurda”, di una mancanza di via d’uscita dell’uomo moderno.
Mi ha anche interessato attraversare e seguire i suoi personaggi relegati solitamente ad un triste destino.
Quel silenzioso sprofondare nel nascosto, nell’allusivo.

 

Da quale opera di Kafka sei stato più ispirato?
Credo che sia stata fra le tante proprio “La metamorfosi”, un libro che mi ha ispirato perfino a realizzare dei cicli di opere in pittura, scultura, poesia e design su questo tema
D’altronde buona parte delle opere visive negli ultimi anni dedicate a Kafka hanno per titolo non a caso “Kafka in metamorfosi”…

Quali affinità ci sono tra il tuo mondo e quello dello scrittore di Praga?
Ci sono diverse affinità tra mondo di Franz Kafka ed il mio, specie nel mio passato; per esempio la sua “gracilità”, la timidezza, l’essere appartato, l’essere criptico, e talvolta segreto.
Ma delle vere e proprie affinità le ho viste nella mia opera sia pittorica che poetica, per esempio: l’assurdità e l’insensatezza che schiaccia l’uomo contemporaneo, la follia del potere, la sofferenza come condizione morale ed infine “la solitudine” che accompagna coloro che scelgono le tenebre alla luce Divina.

 

Gli autori:

Prisco De Vivo (Napoli, 1971), pittore, scultore, designer e poeta, opera presso Lucis – Art Studio Gallery, il suo atelier irpino, luogo di incontro e contaminazioni tra le arti.
Tra le sue pubblicazioni più recenti nel 2020 ha dato alle stampe il saggio illustrato “Rubina Giorgi. Sacrificio per la parola”, con una postfazione di Giorgio Maria Cornelio; e con Sandro Montalto ha curato “Speciale Poesia Campania 1-2019” (La clessidra, Edizioni Joker).
Nel 2022 ha pubblicato la raccolta “Una bocca di Rosamiele” (Ensamble Edizioni), con una prefazione di Vincenzo Frungillo. Nel 2023 per Mimesis Edizioni è uscito “La radice delle cose. Interviste 1995-2020”, a cura di Rosaria Ragni Licinio, con prefazione di Alberto Dambruoso.
Suoi appaiono in diverse antologie e riviste come Poiesis, Risvolti, La clessidra, Pagine, Gradiva, La Mosca di Milano, Secondo Tempo, Capoverso, Nazione Indiana, Poesia
Ha scritto su Pier Paolo Pasolini, Dario Bellezza, Remo Pagnanelli, Camillo Capolongo, Guido Ceronetti, Rubina Giorgi.

www.priscodevivo.it

info@priscodevivo.it

 

Raffaele Piazza (Napoli 1963) ha pubblicato le raccolte “Luoghi visibili” (1993), “La sete della favola” (1996), “Sul bordo della rosa” (1998), “Del sognato” (2009) “Alessia” (2014), “Alessia e Mirta” (2019) e “In limine alla rosa” (2020).
Ha riportato numerosi premi, per l’edito e l’inedito, in concorsi di poesia, tra i quali la finale al Lerici Golfo dei poeti, opera prima, 1993, il terzo posto al Premio Mazza 1996 e la finale al Gozzano 1998, ha vinto nel 2014 il primo premio al Premio Michele Sovente per l’inedito, nel 2016 il Premio Tulliola con la raccolta “Alessia” e nel 2017 il Premio Speciale della Presidenza al Premio Lago Gerundo.
È redattore di Vico Acitillo 124 Poetry Wave. Ha scritto sui blog Poetry Dream, Rossoveneziano, Bibbia d’asfalto e La Recerche.
È collaboratore esterno de Il Mattino di Napoli alla cultura.
Ha pubblicato nel 2020 l’e-book “Linea di poesia delle tue fragole” su LaRecherche. È tradotto in inglese e spagnolo.

(Prisco De Vivo “ Kafkalto – Del quaderno e Delle Metamorfosi” pp. 84, 15 euro, Gutemberg edizioni 2024)

 

 

 

 

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Ti racconto      ———————–

Lei era piccola, leggera come un foglio di carta che si può accartocciare

Cristiano Dorigo, “Acque alte”

di Roberto Lamantea

L’acqua alta a Venezia è qualcosa di stregato. Con lo scirocco si alza un sapore salato e dolciastro insieme, di marcio, nelle rive e nelle calli l’acqua gorgoglia da sotto, sgorga dalla terra, non c’è confine tra il canale e le case, i piani terra, i negozi, le trattorie, vengono sommerse da un’acqua putrida, in bocca un odore aspro e dolciastro di decomposizione. Topi, colombi, gonfi e neri attendono di morire, come in un racconto di Lovecraft.
La salsedine corrode i muri, l’acqua della laguna, sporca e malata, allaga ogni spazio, se la marea sale devi indossare stivali alti fin sopra il ginocchio. “Dal 1966 in poi, l’acqua alta è diventata un’abitudine il cui unico rimedio, per non impazzire, è stata l’accettazione: come si fa con i fenomeni ineluttabili, quelli che feriscono ma non si possono evitare, come si fa con i lutti, col destino che ci tocca”. Venezia, la città dei 436 ponti e 121 isolotti.
Un’alta marea di una settimana si trasforma in una prigione. Non puoi uscire di casa, devi organizzarti: scorta di generi alimentari, un codice giornaliero da rispettare tra lavoro online e riti quotidiani, sonno-veglia, bagno-pranzo-cena, sperando che non salti la corrente elettrica. Unici legami con il mondo il computer, lo smartphone, le notizie online, e l’ascolto: la pioggia che non cessa di battere sulle finestre, il cielo che di giorno è nero come la notte, e il vento contro le persiane, i vetri, incessante, urla, non dà pace. Il meteo c’ha azzeccato: una settimana avevano detto, una settimana è stata: non sembra vero che il settimo giorno, invece dell’Apocalisse e dei sette angeli con le trombe, il cielo rischiari, l’acqua si ritiri, torni nei rii, nei canali, lasciando sui masegni alghe e detriti. L’allarme è cessato, la voglia più grande adesso è uscire, respirare aria libera, a bocca aperta, a narici spalancate, farle correre, le gambe, come usciti di prigione.
È il contesto, la cornice, lo scenario del nuovo libro dello scrittore veneziano Cristiano Dorigo, “Acque alte”, pubblicato da Meligrana nella collana “Priamo”. Ma non è il tema del libro. Da trent’anni Dorigo è educatore in una comunità di ragazze che in famiglia hanno subìto ogni forma di violenza fisica e psicologica. Chiuso per una settimana in un piccolo appartamento di Venezia ereditato dai genitori, Cristiano riflette sulla propria vita, tra ricordi, rimpianti, amarezze, gioie improvvise e inedite, sulla propria storia personale, illusioni delusioni batticuori e addii, e decide di dedicare la settimana di solitudine – simile a quella imposta per la pandemia – a scrivere finalmente il libro che da tempo vagheggiava sulla sua esperienza di operatore sociale. I due filoni narrativi s’intrecciano e l’unità stilistica dei due percorsi è uno dei pregi del libro.
Con le “sue” ragazze Dorigo si pone in ascolto: alcune hanno subìto violenze che non è facile raccontare, e infatti l’autore lascia i traumi sullo sfondo. Dice che su di loro vuole scrivere un libro, e il testo lo “misura” con le protagoniste di vicende che a volte, se dette con crudezza, hanno la luce nera dell’orrore.
Otto storie di donne, ciascuna identificata con il nome di un fiore, per salvarne la privacy, per un senso di tenero ascolto che è la filigrana di tutto il libro (diario? romanzo? il testo sfugge a ogni definizione di genere). Eccole, le ragazze-fiore: Amarillas, Bucaneve (sorella di Amarillas), Dalia, Genziana, Lavanda, Margherita, Primula, Ninfea.
Genziana è quella “che non ce la farà mai perché lei è sfigata”, lei e il suo “piede strambo che non funziona”: “lei era piccola, leggera come un foglio di carta che si può accartocciare e buttare a terra senza guardarlo più, dimenticandosene”. Ce la farà, invece, Genziana: avrà un lavoro, un conto in banca, un ragazzo, un figlio. “Sull’orlo dell’urlo soffocato”, Genziana avrà una vita.

Nelle notti il vento urla, sbatte contro le finestre. Che cos’è una notte di tempesta a Venezia? Acqua su acqua, e pietra, aria che non respira ma grida. S’affollano i ricordi: 11 settembre 2001, New York, le torri gemelle, le immagini alla tv, mentre mamma sta morendo. “Quel giorno iniziò la mia vita adulta. Non sono credente e penso seriamente e serenamente che quando moriamo e smettiamo di vivere nel corpo fisico che ci ha ospitati, ci trasformiamo e diventiamo sentimento e ricordo negli altri, in quelli che rimangono e perpetuano la quotidiana vita biologica, che a sua volta produrrà sentimenti, ricordi, saperi, che via via si accumuleranno formando storie, biografie, e per addizione, la storia del genere umano. Non si vive soltanto per sé, e si diventa una piccola ma necessaria parte del processo che da tanti singoli io, ci trasforma in una collettività di noi”.
Pensieri, ricordi, la trama della propria vita s’intreccia con quella delle ragazze e donne che l’autore ha aiutato a salvarsi. In un cassetto mai aperto da anni un giocattolo dell’infanzia. Fotografie. “C’è una dolcezza, simile a una carezza, nel ritrovare certi oggetti, nel ripescare dalla memoria pezzi di vita di altri tempi. Tempi in cui la vita doveva ancora sbocciare, dove tutto era in divenire, dove la fantasia occupava lo stesso spazio della realtà fattiva, e il mistero occupava pensieri innocenti, prospettive a breve, a media distanza. […] Quando tutto il mondo sembrava a portata di mano, bastava desiderarlo”.
Margherita: una storia di sradicamenti, dove bene e male hanno confini incerti. Alla fine speri che abbia incontrato “adulti quanto meno decenti; e, al contempo, fai attenzione a non affezionarti troppo per fame d’amore, i cui morsi non smettono mai per chi è stato sempre a digiuno”.
Scrive Emanuele Pettener, della Florida Atlantic University, nella postfazione: “Cristiano Dorigo racconta con pudore. Perché il dolore è il suo mestiere. […] In un periodo in cui tutti straparlano di violenza nei confronti delle donne, lui, che questa violenza la vede tutti i giorni, tace. […] Racconta l’orrore, ma non si piega ad esso, non perde di vista la bellezza”.
“Acque alte” è un libro che brucia l’anima ma ha il profumo dei fiori, i fiori che danno il nome alle ragazze. Dorigo non finge nulla, non si maschera, dà voce ai propri ricordi anche quando fanno male, racconta la storia delle sue ragazze-fiori e la loro fragilità, la cattiveria che hanno subìto, in un libro che commuove perché aiuta ad amare.

 

Intervista a Cristiano Dorigo:

Ci racconti l’idea e la genesi del libro?
L’idea girava da tanto, ma per timore di tradire un legame sottile e delicato, avevo sempre esitato. Negli ultimi anni però, assistendo a un deterioramento del linguaggio con cui si affrontano certe storie, a un approccio pruriginoso, insistito sul particolare, sulla spettacolarizzazione mediatica delle storie legate a violenze e abusi, raggiunto un livello quasi pornografico, esibizionistico, pettegolo, mi hanno convinto a provare un modo altro di parlare e confrontarsi con questi fenomeni, mettendo al centro non più lo spettatore, ma il vissuto delle ragazze che li subiscono.

Tu hai un’esperienza trentennale di operatore sociale, nel libro trasfiguri la storia di otto ragazze, ciascuna indicata con il nome di un fiore, e la loro storia diventa letteratura, le violenze terribili che hanno subìto è intuita. Come hai lavorato con loro nel raccontare le loro vicende e come hanno reagito sapendo che sarebbero finite in un libro?
Chiarisco subito un possibile equivoco: questo libro è un romanzo formato da molti racconti, un resoconto letterario di fatti e persone rese in modo verosimile, ma non è un diario o un’autobiografia. Nella domanda è scritto molto bene: la storia diventa letteratura. Decidere di usare nomi di fiori mi è servito per tutelarne l’anonimato, ma anche per provare a mostrare quanto ci si può arricchire stando loro accanto.
Questo mestiere nasconde parecchie insidie, fra cui quella di pretendere di riempire i propri buchi affettivi compensandoli con la relazione di aiuto: in questo caso va quasi sempre a finir male. Se si impara a offrire quello che si ha, si è, si può, avviene una trasformazione in sé: si scopre che la gratuità, il rispetto, la fiducia, tornano centuplicate, producono molti più frutti di quanti se ne è elargiti.
E a scanso di ulteriori equivoci, lo dico laicamente: stare in modo autentico con le ragazze, ha prodotto in me molti più benefici di quanti io ne abbia prodotto in loro.

Il libro intreccia più piani narrativi: la settimana di reclusione in casa è anche l’occasione, oltre che per lavorare al testo, di ripensare alla propria vita, lasciare fluire i ricordi, confrontare il passato e il presente. Che cosa sono per te la memoria, i ricordi?
Il libro intreccia più piani narrativi, temporali, sentimentali. Come dicevo prima del rapporto professionale con le ragazze in termini di autenticità, lo stesso vale, per me, per quello letterario.
Non essendo un’autobiografia ma un libro che affronta storie vere o verosimili, più che la veridicità dei racconti, conta la verosimiglianza dei vissuti di ciascuna singola persona evocata, sia per quanto concerne le ragazze, che per il rapporto del protagonista con il lutto, con la casa, con la città, con i famigliari, in un processo vitale che tenga conto che quel che si è, è la somma di quello che si è vissuto, e di come lo si è vissuto, trasformandolo in esperienza.
Io non godo purtroppo di una buona memoria razionale, cronologica, ma credo di conservare l’eco dell’inconscio, il quale si manifesta frammentato, come fosse un riassunto più che una cronaca: una sorta di cornice romanzesca all’interno della quale, quello che manca, lo si riempie rispettando il processo che ne deriva, il flusso che accade nel momento stesso in cui lo si considera parte vitale del proprio stare nella
comprensione.
Non soffro di nostalgia, sono abbastanza pacificato col presente, anche se sento la mancanza di molte persone che non ci sono più. Ma come dico nel libro, credo che siamo soltanto anelli di una concatenazione di generazioni, e che l’immortalità non sia nell’aldilà, ma nell’aldiquà, nei nostri cuori, nella nostra memoria affettiva che ci consente di tenere vivi chi ci ha preceduto, e noi stessi, in chi verrà dopo.

Ti sei più volte occupato di Venezia, curando anche libri che mettevano a confronto analisi, storie e prospettive sul futuro della città. Pressione turistica, degrado ambientale, case con affitti da vertigine, perdita di residenza: esistono soluzioni realistiche?
Mi sono occupato di progetti editoriali su Porto Marghera, su Venezia, sul Nordest, e sentivo l’esigenza di farlo in modo più intimo, personale. Questo libro l’ho scritto pensando a Carver, al suo monito “niente trucchi da quattro soldi”.
Credo di avere sviluppato un amore, cresciuto nel tempo, per questa città, e con questo intendo anche la zona di terraferma: per me la città è quella che chiude in un abbraccio la laguna. Mi ha insegnato a trasformare le contraddizioni, le dicotomie, in risorse vitali, di accettazione di quello che è, per quello che è. Questo non significa rassegnazione, ma rimanere ancorati alla realtà senza trasformarla in ciò che ci piacerebbe che fosse, senza rinunciare a possibili cambiamenti.
Amo tutto di questa città, riconoscendo in me anche un fastidio enorme per i fenomeni che descrivi, che sono a tratti intollerabili, che condizionano la vita quotidiana, e che cerco, per quanto possibile, di cambiare.
Lavorare nel sociale da decenni e scriverne, è il mio modo di starci dentro, e da dentro modificarne e, se possibile, incepparne i meccanismi. Illudersi di avere ricette subitanee, veramente efficaci e incisive senza un esame di realtà, significherebbe sognare quello che non c’è.
Credo che un cambiamento politico aiuterebbe la città a ricominciare ad autodeterminarsi, piuttosto che subire la logica degli affaristi. Sarebbe bello consultare chi la abita e, rubando l’espressione a uno dei libri che ho curato, chiedere “la Venezia che vorrei – Parole e pratiche per una città felice”, al cui interno ci sono già molte buone idee su come si potrebbe fare.

 


L’autore:
Cristiano Dorigo lavora da trent’anni come operatore sociale. Ha pubblicato diversi libri come autore o curatore e ha scritto in opere collettive edite da Marsilio, Einaudi, Helvetia, Neos, Comma Press, Priamo-Meligrana, Mare di Carta, Erickson-Il Margine e Prospero; suoi racconti e interventi sono stati pubblicati in blog, giornali e riviste italiane e degli Stati Uniti. È coideatore e cosceneggiatore del cortometraggio “El Mostro” (Studio Liz-Mare di Carta 2015).

(Cristiano Dorigo “Acque alte” pp. 170, 15 euro, Meligrana Editore 2024)

 

 

 

 

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Nove fotografie

di Virginia Morini

 

 

 

 

Voce d’autore      ———————-

Ghe basta un atimo

Ezio Solvesi, “Tutintùn”

di Anna Piccioni

Sentire con i versi di Ezio Solvesi riecheggiare quella parlata che ormai a Trieste non si usa più, poiché ormai si parla un dialetto slavato o meglio un italiano lavato in rio Ospo, è un recuperare un po’ della nostra storia. Un linguaggio che ormai si va perdendo e che appartiene alla storia di chi viene dall’altro secolo e rinverdisce i ricordi di voci ormai perdute.
Già il titolo del libro, “Tutintùn”, se lo traduciamo in italiano, “tutto in una volta di colpo”, perde la forza onomatopeica, e anche quell’aspetto canzonatorio e la vitalità che caratterizza il dialetto triestino.
Solvesi cerca nella memoria le parole per esprimere i suoi versi: “E po, tutintùn,/ te se li trovi qua, pronti,/ che par che i se scrivi soli./ E tuto ‘sto subiàr/ te par solo una monàda” (“Poi di colpo/ te li trovi qua, pronti/ che pare si siano scritti da soli/ E tutto questo faticare/ ti sembra poi troppo sciocco”).
I temi che caratterizzano la poesia ricordano Umberto Saba: la quotidianità attraverso scorci caratteristici di Trieste, il mare, il Carso, cittavecchia, che porta a profonde riflessioni sulla vita traslata in quadri come “Xe, a le volte/ solo cussì la vita/ come un fior de sufiòn/ legero e delicato/ […] ma che un colpo de borin dispetoso,/ ghe basta un atimo/ per distrigar […]/ solo un steco/nudo“. (“A volte è solo così la vita, come un fiore di soffione leggero e delicato […] ma che, a un vento dispettoso, basta un attimo per spogliare […]/ solo uno stelo nudo”).
Trieste, come un’amante “la me speta ansiosa, slongàndome i brazi/ per strènzerme forte” (“Mi aspetta ansiosa,allargando le braccia, per stringermi forte”). Ma è una Trieste che ormai non riconosce più, con i suoi abitanti sempre così rabbuiati e scorbutici che parlano solo urlando e con attorno solo sporco e disordine, e allora si chiede “dove xe sparida la Trieste/ forsi scontrosa,/ ma tanto piena de grazia/ che saveva,/ con un sorriso gentile,/ regalare un fiore?” (“dov’è sparita la Trieste/ forse scontrosa/, ma tanto piena di grazia/ che sapeva con un sorriso gentile/ regalare un fiore?”).
I versi di Solvesi descrivono attimi colti nella sua Trieste, la sua amata Trieste; “Ècola de novo”, il mare al tramonto, la bora, oppure ripesca nella memoria antichi profumi: “el brodeto, odor de uà ‘pena ingrumada, (uva appena raccolta) el profumo dei dolci di Pasqua, titole e pinze”. Odori che si sono impregnati nei muri, per ricordarli anche ora da vecchio.
Molto intimi, ricchi di amore, sono i versi dedicati alla moglie, compagna di una vita vissuta insieme: “Gavemo traversa’ insieme/ i boschi più tetri[…]/ insieme ancora,/ voio andar avanti/ la man ne la man[…]/E noi là, in pìe, in riva/ a spetar…” (“Abbiamo attraversato insieme/ i boschi più tetri[…]/ insieme ancora,/ voglio continuare/ la mano nella mano[…]/ E noi là in piedi sulla riva/ ad aspettare…”).
Oppure guardare insieme la foto del matrimonio, dai colori ormai sbiaditi: due giovani sorridenti pieni di gioia e continuare ancora a tenersi per mano…
Anche la morte ha la sua parte in questa raccolta, e viene metaforicamente immaginata da Ezio Solvesi come una porta oltre alla quale non si sa cosa aspettarsi, ma di cui rimanda il momento di aprirla, avendo ancora tanto da fare.

 

Intervista ad Ezio Solvesi:

Ezio Solvesi è uno scrittore a tutto campo: scrive poesie, racconti, saggi storici. Quando è iniziato e come è iniziato il tuo percorso storico e letterario?
Non ricordo bene quando ho scritto la mia prima – ingenua – poesia. Credo a quattordici anni circa. Ho cominciato scrivendo in italiano e ispirandomi, nei primi anni, soprattutto ai sentimenti, alle paure, alle delusioni, alle gioie e ai sogni tipici dell’adolescenza, nonché alle piccole cose di ogni giorno e a qualche avvenimento di ampia risonanza.
Per i testi in prosa ho avuto sempre un’immaginazione estremamente fervida, che però non si è tradotto in niente di scritto prima del 2000. Per la storia, l’altro mio grande interesse, sono stato affascinato da sempre dalla storia antica e dall’archeologia. Da ragazzo ho divorato molti libri sull’argomento.

Visto che scrivi poesia sia in dialetto che in lingua italiana, in quale delle due l’ispirazione poetica ti è più congeniale?
È una domanda difficile. La poesia mi nasce spesso “dentro”, nella lingua in cui poi la scrivo e molte volte, mentre scrivo, il verso viene modificato. Non per niente ho scritto, in una mia poesia, che mi sembra che le mie “cose” si scrivano da sole (io non le chiamo poesie. Le poesie le scrivevano i grandi poeti e io non credo proprio di essere uno di loro).
Comunque spesso riservo il triestino alle cose più intime mentre lascio l’italiano ad argomenti più ampiamente condivisibili. Tutte le volte che ho cercato di forzare la mano e di tradurre quello che mi veniva spontaneo ho ottenuto solo delle “ciofeche”.

Il dialetto triestino, e oserei dire la lingua triestina, ormai sta tramontando: il tuo lavoro ha come scopo recuperare e mantenere viva la parlata dei nostri padri e nonni?
Certamente! Possiedo qualche vocabolario triestino e una grammatica triestina. Sono nel direttivo dell’associazione degli Amici del dialetto triestino e cerco, quando posso, di promuovere l’uso della nostra lingua madre in ogni occasione, cercando anche di leggere e far conoscere i migliori autori che hanno scritto in triestino.

Il paesaggio, la natura fanno da sfondo alle tue riflessioni. Quanto la natura riflette le tue emozioni, o quanto le tue emozioni sono assorbite dalla natura?
Siamo immersi nella natura, siamo parte di essa, anche oggi nel nostro frenetico mondo post-industrial-capitalista. Quando sono a contatto con la natura quella è l’unica occasione in cui mi sento pienamente in pace con me stesso e con il mondo.
Mi sento, in quelle occasioni, finalmente parte di un qualcosa di cui il mio io è come un ingranaggio che permette al tutto di “girare” senza difficoltà, senza bisogno di difendersi da una natura aggressiva e senza la necessità di incanalarla ai nostri scopi.
La serenità che mi dà un bosco in primavera, una spiaggia solitaria e silenziosa o la cima di una montagna è un qualcosa difficilmente esprimibile e meraviglioso. In questo senso le mie emozioni non sono né riflesse né assorbite dalla natura. Sono parte di essa.

Scrivere in modo semplice non è facile, a volte i tuoi versi sembrano detti sottovoce, con garbo e rispetto…
Mi dicono tutti che scrivo in modo semplice (forse qualcuno intende banale…) ma è vero. Rifuggo dal verso complicato e volutamente criptico. Si possono, credo, trasmetter le emozioni in poesia anche senza essere ermetici e involuti.
Amo la semplicità e i sentimenti autentici e non costruiti. Il garbo e il rispetto poi sono principi che mi sono stati inculcati fin da piccolo e che fanno ormai parte di me.

 

L’autore:
Ezio Solvesi è nato Trieste nel 1946. Scrive fin da ragazzo, sia in prosa che in poesia, prima solo in italiano e, successivamente, anche in triestino, rendendo pubbliche le sue opere solo a partire dal 2007.
Ha pubblicato “Trieste cussì cocola” (Italo Svevo Ed. 2008), “Trieste a colori”, con otto fotografie di opere dell’artista triestino Enzo E. Mari (Italo Svevo Ed. 2011), “Attimi di… versi” (Talos Ed. 2014), “Esaedro”, raccolta di sei racconti, (Talos Ed. 2015), “Tutintùn” (Samuele Ed. 2019), “Un profumato mazzetto di viole”, romanzo (Youcanprint ed. 2024) e “Le Torri di Trieste” (Youcanprint ed. 2024), saggio storico.
Alcune sue poesie sono state pubblicate anche in varie antologie e una è inserita nel volume celebrativo dei 150 anni del Circolo Culturale delle Assicurazioni Generali.
Ha pubblicato anche un CD con sue poesie lette dall’attore Alessandro Quasimodo.
È presente nel “Dizionario degli autori di Trieste, Isontino, Istria e Dalmazia” edito nel 2014 da Hammerle Editori-Trieste.

(Ezio Solvesi “Tutintùn” pp. 92, 12 euro, Samuele editore 2019)

 

 

 

 

Immagini          ————————

A ogni latitudine    At every latitude

Nove fotografie

di Virginia Morini

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.