Fare Voci marzo 2024

Andiamo incontro alla primavera con una nuova raccolta di proposte, autrici ed autori che con il proprio fare arte e cultura ci aiutano nel capire e vivere questo nostro tempo così delicato.
Ad iniziare da Luca Pizzolitto, con il suo “Getsemani”, raccolta poetica di rara intensità e visione, e poi Viola Di Grado con il romanzo “Marabbecca”, capace di una narrazione che si fa sempre più originale.
Andiamo a conoscere anche la poesia slovena, grazie a Michele Obit che ha tradotto tre poesie inedite in italiano di Glorjana Veber, e con Antonio Nazzaro che ci fa conoscere il poeta venezuelano Freddy Ñáñez, con dieci suoi haiku, in prima traduzione italiana.
Le immagini sottolineano il gradito ritorno su queste pagine, dopo alcuni anni, di Ba Abat, artista al di fuori di ogni canone espressivo.
E la bellezza è tutta nel fare poesia in dialetto di Marilisa Trevisan, il suo “Priàda” è lavoro di spessore, preziosa annotazione nel cuore della nostra società.
La poesia è ben valorizzata anche da Valentina Murrocu e il suo nuovo “L’altro mondo”, da Alberto Mori con “Forismi” e da Giorgio Fusco e il suo “Piume di desideri”.
E a chiudere questo ricco numero di marzo c’è l’esordio in romanzo di Luciano Tricarico, che con “Tarot” sorprende per autorevolezza narrativa ed intrigo di atmosfere e personaggi.

Buona lettura

Giovanni Fierro

(la nostra mail: farevoci@gmail.com)

 

 

 

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Visualdiary#24

di Ba Abat

 

 

 

 

Voce d’autore         ————————

Nessuno torna innocente

Luca Pizzolitto, “Getsemani”

di Giovanni Fierro

Getsemani” è questo adesso che si mostra nel tradimento, nel tempo conosciuto e condiviso che non mantiene le promesse, nelle verità che poi cessano di manifestarsi, nel sé che si indebolisce anche nel provare l’assenza.
Luca Pizzolitto porta ancora più avanti la ricerca umana già sperimentata con la sua precedente raccolta, “Crocevia dei cammini”, fino a trovare che “Ciò che amato muore,// non resta”.
Questo suo nuovo lavoro è un libro che si nutre di crisi, anche nel momento in cui tutto è più lucido, più chiaro allo sguardo. In un fuori tempo massimo che però vuole rimanere nel centro del vivere, con attorno a sé un perimetro esistenziale che è una vera e propria corona di spine.
Perché questo tempo contemporaneo è la polvere e le ombre che sono state accumulate, il qui dove la luce è più fragile.
La soluzione è anche quella di rimanere nell’impronta del Padre, costruire e riconoscere una appartenenza, per disegnare una identità a cui fare riferimento. Ben sapendo che a volte la vita la si può misurare da un Padre all’altro, da quello di sangue a quello dell’anima.
Se in “Crocevia dei cammini” era la fame a chiedere nutrimento, qui è la sete a chiedere di dissetarsi, in questi testi sempre più votati alla necessità, alla rinuncia di ciò che è superfluo, alla loro forza che è atto che toglie ed elimina, che tiene solo ciò che può bastare, che non si dimentica più.
In queste pagine, Pizzolitto ci mostra anche di come il morire a volte è solo un trasformarsi, un non perdere alcuna presenza di sé, ma anzi, la sua esplorazione più completa ed ampia.
“Getsemani” prepara l’attenzione al sacro, alla virtù del saperlo riconoscere, costruisce un silenzio più grande, dove onorarlo con maggiore precisione, “Ama il silenzio che precede/ la cura – ama l’umano stupore/ che accompagna questa bianca,/ non voluta promessa”.
E il sacro – cercato in tutto il libro – è forse proprio quel rimanere che si fa corpo, il sopravvivere che si fa nervo e vene, il rinunciare all’offesa e alla vendetta che si fa pupilla del pensiero, lo scrivere fiducia e testimonianza.
Pizzolitto riconosce alla poesia il suo essere l’intensità di un istante che è pura percezione, assoluta aderenza all’attimo che si fa universale, l’eterno nel momento in cui accade. Come quando “Agosto è fermo sopra i tuoi occhi/ approdi dal mondo uccisi, dimenticati/ il senso smarrito delle cose,/ indistinto pudore nella luce”.
“Getsemani” è anche scoprire Dio in ogni essere che si rompe, che non trattiene il vivere, polline che si cosparge sui giorni che trascorrono verso l’avanti; la carta carbone che assorbe il segno, la certezza che trattiene il gesto, “Per questo niente che il niente/ riapre, nel punto dove la vita/ geme”.
Senza diventare preghiera, tutto “Getsemani” è raccolta di canti, salmi per un mondo in cui è ancora realizzabile la riflessione e la rinuncia alla condanna, dove è possibile l’entrare in un perdono.

 

 

Dal libro:

lo sfiorito tuo volto, padre,
l’angolo della bocca,
il bianco sudario sui nostri corpi

vuota memoria dell’acqua
dimenticanza di piccole,
trascurabili cose.

*

Miseria di sassi e rovine
si posa il deserto di spine
sui volti, la misura
è colma, la via segreta

oggi anche i rami
tengono a stento
l’inverno, l’accorta
casualità del vuoto.

Io da qui vi guardo:
io non sono terra, riparo.

*

Questo tempo che
ci respira addosso
è affanno, abbandono

una poverissima luce.

*

Luglio qui si attende
nelle crepe.

Scrivere è il mio
secondo esilio.

*

Ecco il precipizio del sole, ecco i sigilli
disancorati e persi dell’aurora

l’ostro caldo, il fare lento
di tutte le cose.

Essere una goccia di nardo
sul capo di Cristo.

La creta infranta, il materiale fragile.

*

Dio di misericordia e dei ruvidi
affanni, Dio delle reti divelte
e della pesca mancata,
Dio dei crolli improvvisi, delle rovine

tu che abiti il vuoto di cieli divisi
tu che ti fai permanenza, stasi, dimora

– io attendo, e di me ancora non so.

 

 

Intervista a Luca Pizzolitto:

Mi sembra che il “Getsemani” che tu esplori, sia l’adesso di questa società. È questa nostra contemporaneità il luogo del tradimento? E di quale tradimento?
L’episodio evangelico del Getsemani ha sempre risuonato, in me, tantissimo. Sia a livello testuale, che simbolico. Trovo sia un concentrato di ciò che è l’esistere umano. In ogni epoca, non solamente nella nostra. Il trovarsi di fronte all’abbandono, declinato al passivo (gli apostoli, gli amici più intimi che, ripetutamente, si addormentano al posto di vegliare, restare vicini a chi, a breve, non ci sarà più) che come scelta consapevole (l’abbandonarsi a Dio, alla necessità che le cose accadano, anche al di là della nostra volontà); è, Getsemani, il luogo in cui l’umano ed il divino si incontrano, si avvicinano fino a diventare tutt’uno nella figura di Gesù.
È anche, come dici tu, il luogo del tradimento: un tradimento necessario, in una certa misura, per far sì che la vita dell’uomo dei Vangeli non sia una vita comune ma che, nel passaggio attraverso il dolore e la morte, consenta poi la rinascita in una speranza (che si fa, poi, certezza) che la morte non sia l’ultima parola di ciò che, prima, è stato chiamato vita.
Getsemani è quindi il luogo di tutte le colpe, di tutti gli abbandoni, di tutti i tradimenti ma, anche, di tutti i perdoni: non tanto, secondo me, riferibile a qualcosa di circoscritto ad un’epoca o a singoli episodi, quanto semmai ad uno sguardo che accoglie e racconta l’umanità, nelle sue molteplici, fragili cadute.
Nessuno torna innocente/ da questo Getsemani,/ nessuno è mai stato /fedele davvero”.

In “Gestemani” centrale è la figura del Padre. Anzi, di padre ce n’è più di uno… quali sono, e che dialogo (se dialogo può essere) c’è tra di loro?
Sì, ci sono molti padri, in questo libro. E, di conseguenza, diversi figli. Tutti cercano (riuscendoci o meno), un dialogo, tra di loro. Uno sguardo d’amore, di approvazione, quasi, nella diversa strada che si trovano a percorrere. Quasi cercassero di autorizzarsi a vicenda, a non essere la stessa persona, ad abitare la distanza, pur condividendo uno spazio privato di reciproco affetto.
Si alternano momenti in cui chiara è la parola tra le due parti, ad altre in cui prevale il silenzio, ad altre in cui regna la disperazione di un’incomunicabilità difficile da superare, ad altre ancora in cui questo silenzio si trasforma in canto (mio padre/ è cieco/ traccia la via/ solo col canto).

In “Crocevia dei cammini”, il tuo libro precedente, protagonista era la fame, come necessità e desiderio. Nelle pagine di questo tuo nuovo libro invece è la sete ad essere figura importante e che si ritrova, in più punti e momenti. Che identità ha questa sete?
Penso (anzi, ne sono certo) che sete sia la parola che maggiormente ricorre in questa raccolta. In “Crocevia dei cammini”, in cui il tema principale era quello dell’incontro (con se stessi, con l’altro, con il desiderio di un trascendente, di un altrove), l’uso della parola fame portava con sé una connotazione di necessità e desiderio, come dici giustamente tu nella domanda, ma anche un bisogno assoluto di un qualcosa di concreto, materiale: toccare, stringere, conoscere (e riconoscersi) sì attraverso una tensione che trascenda ma anche, e soprattutto, attraverso il corpo.
In Getsemani, avviene un po’ il paradosso descritto da Mujica in una sua brevissima poesia: bisogna tornare/ a inebriarci alla fontana:/ bisogna tornare alla sete.
Sete che diventa ora un qualcosa di complementare alla necessità di corpo, materia: una tensione spirituale, verso il sacro e la bellezza, da cui, ormai, dopo l’incontro con l’altro e con se stessi, è avvenuto, nella mia vita e nella mia scrittura, quasi come un qualcosa di ineluttabile.

Tutto il libro sembra chiedere continuamente la necessità del sacro. Mi sbaglio?
No, non sbagli. “Getsemani” è stato scritto nell’arco temporale di quasi tre anni; tanti sono stati i cambiamenti nella mia vita e nel personale percorso di lettura e studio poetico. In questo arco di tempo, la sete non solo si è fatta sentire ma, come accennato prima, è diventata una necessità il tornare a inebriarsi alla fontana.
La poesia, il mio scrivere, che sempre ha racchiuso in sé un forte senso di distanza, di malinconia, di assenza ed esilio, ha continuato a conservare questi aspetti, senza ombra di dubbio, ma ha cambiato il punto di partenza: è nata, almeno in questo libro, da una forte attrazione per il sacro, per ciò che dall’uomo parte, sempre e necessariamente, ma dall’uomo anche si espande, verso un qualcosa di sconosciuto, di intuito. La poesia non è più nata, come spesso avveniva in precedenza, da una forma di dolore; le parole ora sgorgano dal silenzio, da una forma di mancanza ed incompletezza, dalla nostalgia (parafrasando una bellissima riflessione di Tarkovskij) eterna e insaziabile di spiritualità, di un ideale che raccoglie gli uomini intorno ad esso.

“Getsemani” è anche la dimostrazione di una tua scrittura che si è fatta ancora più essenziale, concentrata solo su ciò di cui ha bisogno. E allo stesso tempo, nel tuo sguardo nella nostra contemporaneità, c’è più riflessione, meno condanna e più accoglienza, come ad entrare in un possibile perdono… Ti ci ritrovi in questo, o è solo una mia impressione?
Sì, come accennato nella prima domanda, Getsemani è anche, simbolicamente e nella narrazione evangelica, il luogo del perdono. Lo sguardo sulla contemporaneità, la riflessione, l’accoglienza che tu citi penso sia la conseguenza di quell’incontro (poetico ed umano) avvenuto, in primis, con me stesso: nel periodo di vita e nella parola da cui era nato “Crocevia dei cammini”. Scendere nelle proprie profondità, accettare il personale dolore e fragilità (e non più condannarli come una maledizione) ti porta (almeno, a me ha portato) a vedere ed accogliere il dolore, la fragilità di chi mi circonda, di chi nel dolore non intravede la luce e di chi, invece, al dolore sopravvive, in silenzio, in disparte, senza fare rumore.
In quest’ottica, all’interno, di questo percorso di sempre maggiore essenzialità e rinuncia a ciò che sta intorno e distoglie, anche la mia scrittura si è ulteriormente asciugata, procedendo sempre più per sottrazione.
Le mie poesie, in realtà, nascono decisamente più lunghe. Alla scrittura, segue un lavoro che dura mesi (per “Getsemani”, più di un anno), di rilettura quasi ossessiva e di, altrettanto ossessiva, rifinitura, cancellazione, riscrittura. Tendendo sempre al “meno”, a poche parole, che però, portino con sé una maggiore forza descrittiva ed immaginativa.

Il tuo scrivere, in ognuna di queste tue nuove poesie, è anche l’intensità di un istante che è pura percezione, assoluta aderenza all’attimo che si fa universale, l’eterno nel momento in cui accade. Scrivere poesia è cogliere tutto questo?
Penso sia esattamente questo, lo scrivere poetico. Il farsi carico di un qualcosa di universale, che trascende l’esperienza individuale, ma poi rileggerlo nell’istante, nel qui ed ora. E restituirlo, a chi legge, quasi su misura, sfrondato di quel qualcosa di più grande (che, però, nel poeta e nella parola, sempre rimane). I poeti (almeno, quelli che, per me, possono definirsi tali) hanno fatto risuonare me stesso nella mia interiorità, attraverso loro parole.
Come si fa a non sentire, nelle viscere, quando Ungaretti scrive Tra un fiore colto e l’altro donato/ l’inesprimibile nulla. Questa poesia declina in maniera netta, precisa, ineludibile ciò che, in maniera un poco contorta, ho cercato di dire poco sopra.

Con molto piacere ho trovato nei riferimenti del libro la presenza di Emidio Clementi. Sia per una citazione dal suo progetto El Muniria, sia per la presenza di Emanuel Carnevali, e quel “Il primo dio” che è anche uno dei pezzi più belli in assoluto del suo gruppo, i Massimo Volume. Emidio Clementi è anche un notevole narratore, di romanzi e racconti. Ecco, allora come entra lo scrivere (storie e musica) di Emidio Clementi nel fare poesia di Luca Pizzolitto?
Era il 1998. Avevo 18 anni. Estate. In compagnia di un amico, abbiamo attraversato mesi di concerti, un po’ in ogni parte della città (ed oltre). Tornando da uno di questi concerti, una sera, Lucio (questo è il suo nome) ha infilato nell’autoradio una musicassetta. A pennarello nero c’era scritto: Lungo i bordi. Ha detto: senti qua che roba. Sono partite chitarre sparate a mille. E poi la voce di un qualcuno che parlava, invece di cantare. Per tutto l’inverno dell’85, ho passato i miei pomeriggi davanti allo stereo/ in camera di mio fratello
Arrivato sotto casa, sono sceso dalla macchina con, in tasca, quella musicassetta che, la notte stessa, ho duplicato.
Da lì, il mio amore per i Massimo Volume ha attraversato anni ed anni. Emidio Clementi è stato (ed è ancora, anche se, adesso, li ascolto occasionalmente) un punto di riferimento assoluto, nella musica di quegli anni.
Amavo la sua scrittura; amavo, soprattutto, come interpretava ciò che scriveva. Come la sua voce si ergeva potente o appena sussurrata sulle chitarre potenti o a bassa voce, come una carezza, di Egle Sommacal.

 

L’autore:
Luca Pizzolitto è nato nel 1980 a Torino, città in cui vive e lavora come educatore professionale.
Tra i suoi libri più recenti “Crocevia dei cammini” (peQuod, 2022), “La ragione della polvere” (peQuod, 2020) e “Tornando a casa” (Puntoacapo, 2020).
Nel 2023 è stato incluso nell’antologia “Nord i poeti”, secondo volume, edita da Macabor.
Da fine 2021 dirige la collana di poesia “portosepolto”, per conto della casa editrice peQuod.
Nel 2022 ha ideato il blog poetico “bottega portosepolto”.
Cura la rubrica “Discreto sguardo”, per la rivista online “Poesia del nostro tempo” e “Polaroid – Istantanee di poesia” per FaraPoesia.

(Luca Pizzolitto “Getsemani” pp. 88, 14 euro, peQuod 2023)

 

 

 

 

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Visualdiary#24

di Ba Abat

 

 

 

Tempo presente        ———————-

Včasih je potrebno veliko tišine A volte c’è bisogno di tanto silenzio

Tre poesie inedite in italiano

di Glorjana Veber

Vedno se lahko vrnem nazaj v kamen,
vstanem in padem h kamnu z vsemi kamni,
ki jih premorem in pozabim na kamen
in poberem samo še en kamen,

kamni me še vabijo, ne vem več kateri kamni,
skušala sem jim pripadati, najti pravo obliko kamna
v pravem kamnu na mnogo načinov kamna,
votlo klesanje, rsk in prah dvignjen

v tih kamen v ljudeh, hoja skozi njegov molk,
obrnjen pesek in stopinja, obrabljena,
v njej spi voda kot motiv morja,
prelisičil bo obzorje, ne bo padlo,
prepad se je ustavil, elita okamenela
in gora sladko zabita v rob.

Nel sasso sempre è il mio ritorno,
mi alzo e cado verso il sasso con tutti i sassi
che possiedo e dimentico il sasso
e raccolgo ancora solo un sasso,

i sassi ancora mi chiamano, non so più quali,
ho cercato di appartenere loro, trovare la giusta forma del sasso
nel giusto sasso nei tanti modi del sasso,
un vuoto scolpire, zac e la polvere sollevata

nel muto sasso nelle persone, un incedere attraverso il suo silenzio,
la sabbia rivoltata e l’orma, consunta,
in essa dorme l’acqua come ragione del mare,
ingannerà l’orizzonte, non cadrà,
il baratro si è fermato, l’élite si è impietrita
e il monte dolcemente avvolto nell’orlo.

*

Najboljši dnevi so tisti, ko se nič ne zgodi,
poselim tišino, naj sonce vzide iz dne.
Zalijem rože, kaplje morajo pasti,
da poženejo cvetni sok
in glas rastí se drži življenja.

V dneh, ko se nič zares ne zgodi,
je letalo v notranjosti okenskega okvirja,
nad strehami hiš riše belo črto
in velika ptica drži nevidno smer,
tako vem, kam moram.

Ob takšnih dnevih je vsak trenutek
nedokončana milja, iz nje pijem
in dnevna svetloba tehta moje dihanje,
pljusknem ob svoj glas
in se prelomim na dva vala.

Na sleherni dan kot je ta
želi vse iti domov,
nekaj izgine iz obzorja
in postane vidno drugje,
a nebo se nadaljuje.

I giorni migliori sono quelli in cui niente accade,
ripopolo il silenzio, che il sole sorga dal giorno.
Innaffio i fiori, le gocce devono cadere
così da smuovere la linfa dei fiori
e perché il suono della crescita si tenga alla vita.

Nei giorni in cui davvero nulla accade
all’interno del telaio della finestra c’è un aereo,
sopra i tetti disegna una linea bianca
e il grande uccello tiene una rotta invisibile,
così so cosa devo fare.

In questi giorni ogni istante
è un miglio incompiuto, mi ci disseto,
e la luce del giorno soppesa il mio respiro,
mi agito lievemente al sentire la mia voce
e mi spezzo in due onde.

In ogni giorno come questo
tutto cerca la strada di casa,
alcune cose scompaiono all’orizzonte
e diventano visibili altrove,
ma il cielo permane.

*

Včasih je potrebno veliko tišine,
da se prebudim med senco in dušo.
Tudi v tem stoletju brli svetilka
in končno mirujem, luna in reka
spremljata najin sprehod,
vse je prepuščeno sebi.

Tudi to stoletje hodi,
in ponovno se vračamo tja,
kjer smo ali nismo,
dovolj mi je, da sem blizu,
podobno je prostoru dveh duš.

V bližini je morje, ki ni stena
in noč kaže obzorje dlje od pogleda,
galebi nam mahajo in predam se v glas.

Divje obzorje in prostranost,
nerazumljiva in neposeljena luč,
strašljiva ljubezen in hribi
ohranjajo višino, vse tu
je obrnjeno navznoter.

Ljudje vsak dan zapustijo hiše
in se vrnejo, to stoletje
in tišina v nas.

A volte c’è bisogno di tanto silenzio
per potermi destare tra l’ombra e l’anima.
Anche in questo secolo arde il lume
e finalmente riposo, la luna e il fiume
accompagnano il nostro camminare,
ogni cosa è lasciata a sé stessa.

Anche questo secolo cammina,
e di nuovo torniamo là
dove siamo o non siamo,
mi basta la vicinanza,
così come allo spazio tra due anime.

Non lontano c’è il mare, che non è parete
e la notte fa vedere l’orizzonte più distante dello sguardo,
i gabbiani ci battono le ali e mi abbandono al suono.

L’orizzonte furioso e la vastità,
una luce incomprensibile e disabitata,
un amore che fa paura e i monti
preservano l’altezza, tutto qui
è rivoltato all’interno.

Le persone ogni giorno lasciano le case
e vi fanno ritorno, questo secolo
e il silenzio in noi.

 

(Le traduzioni in italiano sono a cura di Michele Obit)

 

L’autrice:
Glorjana Veber (1981) vive a Celje (Slovenia). È poetessa, curatrice di pubblicazioni e performer. Si è laureata in scienze politiche presso la Facoltà di scienze sociali dell’Università di Lubiana, dove ha proseguito gli studi magistrali in sociologia della vita quotidiana, sostenendo ulteriori esami presso la Facoltà di economia dell’Università di Lubiana, ha infine ha conseguito il dottorato presso la Facoltà di Lettere sul tema La poesia – elemento di cambiamento sociale.
Per la sua poesia, tradotta in circa 35 lingue del mondo, ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali. È autrice di numerose raccolte di poesie pubblicate in Slovenia e all’estero, tra cui “Prosti pad” (Caduta libera), “Razkošje” (Sfarzo), “Nekdo prej” (Qualcuno prima) e “Šepet od nikoder” (Un sussurro dal nulla); e del libro bilingue “Near Silence”, il primo libro sloveno pubblicato in Bangladesh.
In Italia è uscita nel 2015 la sua plaquette “Qualcuno prima”, Edizioni culturaglobale.

 

Il traduttore:
Michele Obit (1966) vive a Cividale (Udine).
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Notte delle radici” (1988), “Per certi versi/ Po drugi strani” (1995), “Epifania del profondo / Epiphanje der Tiefe” (Austria, 2001), “Leta na oknu” (2001), “Mardeisargassi” (2004), “Quiebra-Canto” (Colombia, 2004), “Le parole nascono già sporche” (2010), “Marginalia/Marginalije” (Lubiana, 2010) e “La balena e le foglie” (2019).
Ha curato e tradotto il volume “Quel Carso felice”, antologia di poesie dell’autore sloveno Srečko Kosovel, edita da Transalpina nel 2018.
È direttore del Novi Matajur, il settimanale sloveno della provincia di Udine.
Ha tradotto in italiano i più importanti poeti sloveni della nuova generazione e le opere degli scrittori Miha Mazzini, Aleš Šteger e Boris Pahor.

 

 

 

 

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di Ba Abat

 

 

 

 

Ti racconto       ———————-

Il mare grigio, immobile come un pugno, come una negazione

Viola Di Grado, “Marabbecca”

di Roberto Lamantea

“Fuoco al cielo” (2019) è ambientato a Musljumovo, piccolo villaggio ai confini della Siberia; negli anni ‘50 e ‘60 quella zona della Russia è stata teatro di tre catastrofi nucleari. Tamara e Vladimir si amano di un amore violento, sporco, crudele, nasce ma subito muore un bambino, Alëšen’ka, ma forse non è un bambino: è un essere scuro, la pelle bavosa, non ha sesso, le mani hanno lunghe dita con artigli. E tutto nel villaggio è corroso e lurido: i muri, le finestre, i mobili, la luce è livida.
“Fame blu” (2022) racconta l’amore tra la protagonista e Xu, enigmatica e bellissima ragazza, un amore fatto di dilaniamenti, morsi, sangue; Shanghai è una metropoli di vetro, acciaio, labirinti, dove tutto è ruggine, fosforescenza, colori acidi, tra quartieri a luci rosse dove dagli anni ‘20 ai ‘30 i bambini venivano affogati nei canali, un macello dove ogni giorno venivano ammazzati 1.200 agnelli e migliaia di maiali; mostre con cani e gatti nelle gabbie, alligatori bloccati e disperati in teche di vetro.
Anche l’ultimo romanzo di Viola Di Grado, “Marabbecca”, fresco di stampa per La nave di Teseo, editrice anche degli altri libri della scrittrice catanese, è una storia di dilaniamenti e lo scenario, che negli altri romanzi sono la foresta radioattiva o una metropoli allucinata alla Blade Runner, qui è Catania – città natale dell’autrice che dopo aver girato mezzo mondo oggi vive a Londra – ma non è la città dell’infanzia, “domestica”, la città-casa che protegge, il nido-amnio, o questo c’è ma è una traccia: è la lava dell’Etna a dipingere la città, è la cenere nera che si posa su tutto, oggetti, corpi e anime.
Nessuna voce della narrativa contemporanea italiana è capace, come Viola Di Grado, di trasformare uno scenario in metafora e intrecciarlo con la trama e i personaggi in modo così inestricabile che gli uni sono gli altri.
Clotilde Mori, insegnante di flauto traverso, ama Igor da tre anni: lo ama di un amore cattivo, ama “la sua mimica facciale da obitorio, da bambola di cera lugubre”: “Ogni tanto mi diceva che mi amava, ma poi aprivo la finestra e guardavo il mare grigio, immobile come un pugno, come una negazione, e capivo che il suo amore era una bugia”, un uomo la cui “cosa affascinante era la sua cattiveria. Il modo in cui convogliava tutta la sua intelligenza nella malvagità”.

Perché, confessa Clotilde, “volevo amore ma cercavo il suo contrario”. Igor la picchia e lei accetta “questa deriva della nostra relazione come fosse normale”.
Hanno un incidente, si scontrano con una ragazza bellissima, Angelica: lui finisce in coma, lei con il braccio ingessato. Clotilde fa amicizia con un’infermiera, e tutto cambia quando a farle visita nella stanza della clinica arriva Angelica. Qui scatta un’altra tela di ragno: le due ragazze si attraggono, quando Clotilde viene dimessa si amano, si cercano, si fuggono, proprio come con Xu in “Fame blu”.
Vivono – scrive Viola – “un piccolo incubo d’amore”. Angelica studia ornitologia e ha la casa piena di uccelli: alcuni volano in giro per la stanza, altri sono chiusi nelle gabbie. La casa di Angelica diventa la casa di Clotilde.
La svolta quando Igor esce dal coma: ma è una specie di zombie dal sorriso tra l’ebete e il demoniaco. Finirà che Clotilde lo chiude in una gabbia nella casa di Angelica, fino a quando…
Anche Igor è una specie di mostro. Ma la scrittrice catanese ha un’abilità eccezionale: lei l’horror lo sfiora, lo allude, ne fa sentire le ombre sinistre, ma i suoi non sono romanzi horror: i libri di Viola Di Grado sono romanzi sulla pietà. C’è un amore infinito nelle sue pagine, una “fame d’amore” nel senso letterale: vorace, feroce, e insieme tenerissimo. In Viola ogni personaggio è un caleidoscopio, a volte una luce che acceca, ha la lucentezza del quarzo e la morbidezza erotica e rosa della chair.
In una dimensione di sogno intreccia storia, personaggi, ambienti e metafore in un equilibrio stilistico e narrativo raffinatissimo, con un gusto particolare per la corrosione, l’oggetto rotto o abbandonato, ma il suo teatro è tessuto sempre su storie all’apparenza realistiche.
Di Grado gioca con le sue protagoniste come una fabbricante di bambole, ha il tocco dionisiaco della burattinaia nel farle deragliare l’una verso l’altra: i suoi personaggi infestano chi legge come ombre cinesi” scrive Claudia Bruno su il manifesto (9 febbraio 2024).
Viene in mente un bellissimo saggio di Francesco Orlando (1934-2010), già docente nelle Università di Pisa, Napoli e Venezia e siciliano come Viola (fu allievo di Tomasi di Lampedusa): “Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti”, pubblicato da Einaudi nel 1993, nuova edizione a cura di Luciano Pellegrini Einaudi 2015: un’indagine – e anche un catalogo – sull’oggetto abbandonato nella letteratura universale.
Marabbecca è una leggenda popolare: “una donna fatta di buio, che dal buio emerge per trasformare in buio anche te. […] La inventarono le madri contadine per impedire ai figli di cadere nei pozzi: era lì che viveva, nera nel nero, in silenzio, in attesa di vita, di un corpo da annientare”.
Il nero di Catania, “lontano e sordido come un miraggio: la geometria spigolosa dei chilometri di lava, con i lidi balneari affastellati e il chiasso dei karaoke. […] Quella città strana e tutti i suoi abitanti che facevano gli stessi pensieri avviliti e gli stessi sogni, sogni neri e taglienti come lava fredda”.
Il paesaggio nella narrativa di Viola Di Grado è il correlativo oggettivo dei suoi personaggi: è l’oscurità, una sorta di dannazione da cui i personaggi, come in un dramma di Beckett, cercano di fuggire. I finali dell’autrice siciliana sono aperti, non ci dicono mai se quella fuga è riuscita o almeno iniziata. In questa sospensione è l’incanto di una delle autrici veramente europee della narrativa italiana.

 

Intervista a Viola Di Grado:

In “Fuoco al cielo” una donna ama un esserino mostruoso trovato nella foresta – o frutto forse del suo immaginario – identificandolo come il suo bambino; in “Fame blu” l’amore è fatto di morsi, luci psichedeliche e acide, allontanamenti, torri di vetro e vertigini; in “Marabbecca” Clotilde ama Igor che la picchia, ama Angelica coinvolta nell’incidente che manda Igor in coma, Igor si risveglia trasformato in una specie di zombie: nei tuoi romanzi l’amore attraversa crudeltà, fughe, desiderio, ritorni, lontananze, dilaniamenti. È impossibile amarsi senza farsi male o l’amore fa parte di un irreale immaginario romantico?
È impossibile, esatto, perché l’amore – quello limpido e assoluto, ma in parte anche quello piú immaturo – esige il crollo di una barriera protettiva del sé. Senza di essa, tutto può ferire.

In un’intervista hai citato Jung: “L’inconscio ha la conoscenza assoluta”. Hai anche detto che la scrittura è flusso, possessione. Che cos’è l’inconscio per uno scrittore?
Il luogo sacro dei simboli e delle storie che ci appartengono e che allo stesso tempo non ci appartengono, perché sono di tutti.

Scrittura e solitudine sono necessarie l’una all’altra?
Sì. Lo diceva Susan Sontag: lo scambio con le persone è nemico dell’eloquenza.

La copertina di “Marabbecca” è realizzata con il generatore di immagini AI Midjourney e fa parte del progetto “The Dream and the Underworld”, di cui pubblichi immagini su Instagram. Ci parli del progetto?
Il progetto ha lo scopo di sondare il punto d’incontro tra inconscio individuale (i miei sogni) e inconscio collettivo (le immagini con cui è stata nutrita Midjourney)

Abiti a Londra, dopo aver vissuto in mezzo mondo: Nuova Zelanda, Torino, Leeds, Cina, Giappone. Con “Marabbecca” torni in Sicilia e nella tua città, Catania. Clotilde ama e odia Catania, sente di far parte di una città che nel romanzo è lava, cenere nera, decomposizione, corrosione. Ma leggendo il libro si sente odio ma anche amore – più resa, inevitabile appartenenza, che amore – per la tua terra. Con gli occhi di chi ha tanto viaggiato, come vedi oggi la tua regione?
Vedo tanta bellezza e nessun rispetto per essa.

 

L’autrice:
Viola Di Grado (1987) è l’autrice di “Settanta acrilico trenta lana” (2011), vincitore del premio Campiello Opera Prima e del premio Rapallo Carige Opera Prima, e “Cuore cavo” (2013, finalista al PEN Literary Award e all’International Dublin Literary Award).
Con La nave di Teseo ha pubblicato “Bambini di ferro” (2016), “Fuoco al cielo” (2019, vincitore del premio Viareggio Selezione della giuria) e “Fame blu” (2022). Vive a Londra, dove si è laureata in Filosofie dell’Asia Orientale. I suoi libri sono tradotti in diversi Paesi.

(Viola Di Grado “Marabbecca” pp. 208, 19 euro, La nave di Teseo 2024)

 

 

 

 

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Visualdiary#24

di Ba Abat

 

 

 

 

Latinoamericana          ———————–

En pleno vilo  In pieno volo

Dieci haiku inediti in italiano

di Freddy Ñáñez

Piedras y garúas,
niebla, ríos, árboles
Mi alfabeto.

Pietre e pioggerelle
nebbia, fiumi, alberi
Mio alfabeto

*

Noche desnuda
y las primeras gotas
tejiendo la luz.

Notte svestita
e le prime gocce
a tessere la luce.

*

En los bajíos
el rastro permanente
de la tormenta.

Sulle piane
la traccia permanente
del temporale.

*

Al llegar mayo
la aldea es otra
Borra su nombre.

All’arrivare del maggio
il villaggio è un altro
Cassa il suo nome.

*

Van a rezar los
sembradores de agua
Ruana de niebla.

Vanno alla preghiera
i seminatori d’acqua
Poncho di nebbia.

*

Hojas que caen
tapando el camino
con pasos nuevos.

Foglie che cadono
a coprire il cammino
con nuovi passi.

*

El viento frío
deteniéndolo todo
con su presencia.

Il vento freddo
a trattenere il tutto
al suo cospetto.

*

Todo el fervor
por el pasto que brota
inadvertido!

Tutto il fervore
del pascolo a germogliare
inavvertito!

*

El apamate,
con el primer rocío,
se ruboriza.

La tabebuia rosea
alla prima brina
arrossisce.

*

En pleno vilo
la hoja se desploma
con cierta gracia.

In pieno volo
la foglia precipita
con una certa grazia.

 

Tutti gli haiku di Freddy Ñáñez sono stati selezionati e tradotti in italiano da Antonio Nazzaro.

 

A proposito dello scrivere di Freddy Ñáñez

Non è facile spiegare la poetica di chi scrive haiku in quanto, come nel caso del poeta venezuelano Freddy Ñáñez, la relazione con questa tecnica di scrittura s’intreccia con il mondo in cui vive il poeta.
Le poesie qui presentate sono tratte dalla silloge “Album della pioggia” pubblicato dalla casa editrice Argentina Abisinia Editorial nel 2023.
L’autore alla fine del libro non solo racconta la storia del haiku e il suo legame con la stessa, che passa attraverso Rilke, cosi spiega l’autore: “Rilke, il mio ideale cristiano, è un poeta che ha camminato per i luoghi del buddismo e dell’islam. La sua esperienza spirituale e le sue riflessioni mi aiutano e mi chiedono e mi spingono e mi afferrano, in questa esplorazione del haiku”.
Di seguito racconta e cita il massimo esponente dell’haiku giapponese: Yosa Buson (Osaka, 1716-1783) il suo diario “Oku no hosomichi” tradotto da Octavio Paz come “Sendas de Oku”.
Sono molte le citazioni e le proprie riflessioni che pone l’autore di haiku venezuelano, e rispetto alla scelta dei testi qui raccolta una in particolare sembra riassumere la poetica di “Album della pioggia”: La natura annichila l’io e la stessa natura lo fa fiorire.

Nota del traduttore Antonio Nazzaro:
La scelta di trasformare gli haiku in poesie brevi e non cercare di riprodurre questa tecnica nella traduzione in italiano si basa fondamentalmente nel voler rispettare le parole e quindi il senso dei testi qui presentati che, a mio giudizio, mantengono il loro valore poetico anche fuori della teoria-tecnica dell’haiku. Immagino che molti dei colleghi traduttori e degli haijin non saranno d’accordo con questa scelta. A tutti chiedo scusa per il mio limite.

 

L’autore:
Freddy Ñáñez è nato a Caracas, Repubblica Bolivariana del Venezuela, il 15 aprile del 1976. Poeta, cantante e politico. Laureato in Filosofia e Comunicazione Sociale. Attualmente è il ministro del Potere popolare per la Comunicazione e l’Informazione e vicepresidente per la Cultura e il Turismo del Venezuela.
È anche presidente di VTV, canale della televisione pubblica venezolana.
Ha pubblicato: “Todos los instantes” 2000, “Un millón de pájaros muertos” 2003, “Los hombres que vienen de morir” 2004, “Fuego donde dice paraíso” 2004, “Postal de sequía” 2009, “Sombra bajo tierra” 2010, “Del diario hastío” 2015, “Viraje” 2017, “Pequeña Tierra” 2019, “En otra tierra” 2022 e “Álbum de lluvia” 2023.

 

 

 

 

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[in Cì] _ a [project] about #sisterhood

Visualdiary#24

di Ba Abat

 

 

 

Voce d’autore       ———————

Me sarìa tignuda granpada  Mi sarei tenuta aggrappata

Marilisa Trevisan, “Priàda”

di Massimiliano Bottazzo

La “Priàda”, titolo scelto da Marilisa Trevisan, per la sua ultima raccolta, è il primo colpo che le navi si danno con la propulsione prima di salpare, l’abbrivio.
È più frequente che, in età matura, si ricerchi un porto sicuro dove riparare, al contrario l’autrice fin da subito, dal titolo, esplicita la sua scelta di campo.
Con lo sguardo rivolto al mare, proteso ad indagare l’orizzonte e i piedi ben piantati sul terreno dell’entroterra, Marilisa Trevisan vive e, quel che più ci interessa, racconta la vita con uguale attitudine e necessità.
La scelta del titolo dunque è la conferma di sé, di ciò che si è, il mantenimento di una promessa.
Passione per la vita, per la storia delle persone, per la memoria, amore per il logos che si incarna nella scrittura e nell’interpretazione teatrale, attività che l’autrice coltiva in parallelo alla scrittura poetica.
Le vicende personali, ma tutto diventa personale quando lo si narra, diventano impegno civile e memoria famigliare, diventano tutt’uno con il territorio che si abita, una casa espansa che si fa comunità.
Si colgono in queste narrazioni accenti tra loro anche molto diversi, che rimandano a Biagio Marin, Ungaretti, alla poesia civile di Fabio Franzin.

 

Dal libro:

No te go dit

E po no te go dit
che par la filizità
ghe vol loghi grandi
e calchidun che
li insonie con corazo.

Te varìa amà
como che se ama
un parapet sul slondro

me sarìa tignuda granpada
a la to vita slissighèntula
savendo che desligada de ti
iero zirament.

E inveze, varda,
son crissuda como le piante grasse
senza disturbar,
una dioza de aqua e un poc de luse.

Pensando al mar
preparo l’arsun.

Non ti ho detto
E poi non ti ho detto/ che per la felicità/ servono spazi grandi/ e qualcuno che/ li sogni con coraggio.// Ti avrei amato/ come si ama/ un parapetto sul burrone// mi sarei tenuta aggrappata/ alla tua vita/ sdrucciolevole/ sapendo che sciolta da te/ ero vertigine.// E invece, vedi/ sono cresciuta come le piante grasse/ senza disturbare/ un goccio d’acqua e un po’ di luce.// Pensando al mare/ preparo la siccità.

*

Lassa che la sera

Lassa che la sera tamise
sto zito de stele
par scalumar i parchè
de ’na vita insieme sfadigosa.

La largura de i ani xe duta qua
ta la tera brusadiza de zal
e de óse senza soni de ridade

tenp sbriso de sèsti sesuladi
olàdeghe de cuntenteze nibide.

Amor mio senza anemela
cossa xe sta de i nostri ani più bei
des che un son de armeri seradi
me vien de rimando senza óse de aqua

des che le stele le splende ta la lontaneza
e volaria alzar la man par rasparle in fas
como fiori de cazar ta’l zardin desmentegà
de sta nostra casa senza più canti.

Amor mio tant amà
iera senpre ’na svolta a scanzelarne

Lascia che la sera
Lascia che la sera interroghi/ questo silenzio di stelle/ per scandagliare i perché/ di una vita insieme affaticata.// La distesa degli anni è tutta qui/ nella landa bruciacchiata di giallo/ e di voci senza suono di risate// tempo logoro di gesta recise/ aloni di contentezze negate.// Amore mio senza luccicori/ che abbiamo fatto dei nostri anni più belli/ ora che un suono di armadi chiusi/ mi ritorna indietro senza voce d’acqua// ora che le stelle ardono nella loro lontananza/ e vorrei levare la mano per raccoglierle in fascio/ come fiori da piantare nel giardino dimenticato/ di questa nostra casa senza più canti.// Amore mio tanto amato/ c’era sempre una curva a cancellarci

*

Priàda

Te pol butarme contro
dute le corantìe
farme desmentegar
’l pat e le parole

parchè se casca de tant in tant
ta la tristerìa
de essar lassadi in bando

e te vede sacagnade le to óre
e te le scalume
de la parte che no more

par sintirghe ’l peso e ’l color
la festa e la patidura

te pol espónarme a
dute le corantìe
ma no farme desmentegar
che semo eroi

drento al nostro sangue

e xe par duti i altri
che dovemo cundurar

par rivigurir la sponda de le óse.

Abbrivio
Puoi espormi a/ tutte le correnti/ farmi dimenticare/ il patto e le parole//perchè si cade a volte/ nella crudeltà/ degli abbandoni// e vedi acciarpate le tue ore/ e le osservi/ dal lato che non muore// per sentirne il peso e il colore/ la festa e il patimento// puoi espormi a/ tutte le correnti/ ma non farmi dimenticare/ che siamo eroi// dentro il nostro sangue// ed è per tutti gli altri/ che dobbiamo resistere// per rinvigorire la sponda delle voci.

*

Le samenze como naufraghi

Le samenze fa viazi longhi
go inparà de la tera e de ’l so grin

no ga cunfini le samenze
le sta drento i cùrtui
o soto ’l ziel
como anca la furmiga e ’l gril

la zente de salvar xe como le samenze
ma manca un viz
ai nostri “no cunfini”

al nostro strànio timor
che ne inibisse de piegarse ta le cove
par vardar drento a le menadisse.

Vitime morte de aiuti
che desbarca nissun lunari

fradei de’l nostro tenp a la diriva
de le solità che ne nasse drento
quan che se mola de sognar

quan che anca la óse del zito

pesa

ta la bara-onda
che li sprafonda.

I semi come naufraghi
I semi fanno viaggi lunghi/ ho imparato dalla terra e dal suo ventre// non hanno confini i semi/ stanno dentro i solchi/ o sotto il cielo/ come anche la formica e il grillo// la gente da salvare è come i semi/ ma manca un senso/ ai nostri “non confini”// al nostro strano timore/ che ci impedisce di piegarci nelle tane/ per guardare dentro alla radice.// Vittime morte di aiuti/ che sbarcano nessun lunario// fratelli del nostro tempo alla deriva/ delle solitudini che ci nascono dentro/ quando smettiamo di sognare/ quando anche la voce del silenzio// pesa// nella bara-onda/ che li affonda.

*

Putei mii

Putei mii
ve varìa regalà
duti i zardini de ’l me regno
se sarìa stada una rigina

ve lasso ’nveze spini e polvarun
ma no ste crédar
che sie dut scuriot

noi semo sol che sturnidi
ma ’ncora semo boni de amar

xe spiandor ta ogni roba

xe spiandor
no ste gaver paura

amè.

Senza fin.

Bambini miei
Bambini miei/ vi avrei regalato/ tutti i giardini del mio regno/ se fossi stata una regina// vi lascio invece spine e polverume/ ma non credete/ che sia tutto buio// siamo solo confusi/ ma ancora siamo in grado di amare// c’è splendore in ogni cosa// c’è splendore/ non abbiate paura// amate.// Senza fine.

 

Marilisa Trevisan, “Priàda” e i remandi de luse

di Giovanni Fierro

Il fare poesia di Marilisa Trevisan è un atto tenace, è una appartenenza alla parola, alla fiducia con cui il suo scrivere trova il significato e lo porta all’attenzione di chi legge.
E il suo gesto poetico trova compimento in “Priàda”, la sua nuova raccolta che in questo numero di “Fare Voci” raccontiamo, grazie anche all’intervista in cui ci parla del suo uso del dialetto.
Perché pronunciare (e scrivere) “Me sarìa tignuda granpada” è molto di più di “Mi sarei tenuta aggrappata”. Di sicuro c’è più animosità, con un sapore che annuncia il momento in cui le mani, o le braccia, non ce l’hanno più fatta. Oppure, ancora, è l’intensità di un sogno, il tenere stretto un qualcosa che alla vita deve molto.
Questo è un mondo in cui la Trevisan si muove con sicurezza e caparbietà.
Tutto questo suo recente lavoro è il mostrare che si può pensare al mare, ma bisogna preparare la siccità (”Pensando al mar/ preparo l’arsun”). Perché un qualcosa di grande sta sempre dentro ad un qualcosa che si sta asciugando, magari proprio di fronte ai nostri occhi.
Marilisa Trevisan non fa sconti, non li ha mai fatti. In primis a stessa come autrice, e poi al mondo in cui è immersa, alla società che ritroviamo nei suoi libri.
“Priàda” è questa sua nuova sfida alla poesia. A cui intima di voler dire, di non arrendersi, perché persone e autrici come lei hanno il bisogno, ma anche il desiderio, che sia la parola stessa ad indicare la strada, a segnare il gesto e il sentimento, la riflessione e la visceralità.
Il suo è un continuo sentire, dove il vivere la percezione porta nutrimento e chiarezza alla sua espressione poetica, sia quando parla di ciò che è stato (“Parvia che la gaiandra del passà/ no se posa ta’l gnente” – “Perché il peso del passato/ non si appoggia a nulla”), sia quando riconosce le radici di una appartenenza universale (“Xe più stagna, qua, la tera/ grin de mare ingalada/ a inpinir le mancanze” – “È più robusta, qui, la terra/ grembo di madre fertile/ a colmare le lacune”).
Perché in queste sue nuove pagine la tradizione, della poesia e del dialetto, trova continuamente la novità di una intensità mai provata prima; è uno stare dentro la combustione della vita, in ogni sua più piccola e minima accensione, ma sempre nel momento giusto, quando l’accadere diventa senso da cogliere e portare nelle righe di una poesia.
Dal primo testo fino all’ultimo, “Priàda” ha respiro in una tensione che tutto accende, dove “Te reste senza frégule/ cu’la fota del parché” – “Rimani senza briciole/ con la rabbia del perché”, e in cui puoi riconoscere che “Amor mio tant amà/ iera senpre ’na svolta a scanzelarne” – “Amore mio tanto amato/ c’era sempre una curva a cancellarci”.
E allora basta fermarsi un attimo, costruire un silenzio nuovo, pensare a questo nostro tempo così delicato e confuso, accorgersi che “i giaroni brusadizi/ de l’Isonz, inzeadi del sol,/ ciama a pèrdarse ‘l vardar” – “i ghiaioni arsicci/ dell’Isonzo, abbagliati dal sole,/ invitano lo sguardo a perdersi”.

 

Intervista a Marilisa Trevisan:

di Massimiliano Bottazzo

In ambito enogastronomico si utilizza il termine terroir per designare lo stretto rapporto tra uomo e ambiente, parlare di un vino e del suo terroir oggi è imprescindibile.
Il termine francese terroir significa prevalentemente terra o territorio, indica il rapporto tra un prodotto e le caratteristiche del suolo in cui è coltivato.
Analogamente, il concetto di terroir si può estendere alla tua poesia…
Credo non ci sia parola migliore di terroir per indicare il senso di appartenenza che provo nei confronti del territorio che accoglie e si prende cura delle mie radici.
Mi identifico nelle qualità della terra di confine sferzata dalla bora, aspra e forte, talvolta dimenticata come succede alle periferie di città o sottoposta a mutamenti forzati ma sempre in grado di rinnovarsi con eleganza e dignità.
Sono le caratteristiche che, per certi versi, ritrovo anche nel mio essere Donna e Madre.
C’è una sacralità, trasmessa dalla Terra stessa, che mi anima e lega al tessuto sociale fatto di intrecci di relazioni.
Già da bambina, grazie alla maestra che nutriva amore per le liriche scritte nel dialetto locale, ho avuto modo di approcciarmi alle poesie del maestro Silvio Domini, storico e poeta locale, considerate oggi come uno dei più interessanti ed originali poeti dialettali del secondo Novecento italiano.
Da adolescente, poi, per cause fortuite lo conobbi e lui scelse di seguirmi e formarmi fin dai primi anni della mia produzione poetica, il cui inizio risale agli anni Ottanta.
In seguito ho frequentato un corso di dizione per la lettura del dialetto e sono entrata a far parte del gruppo di lettura “Le Ose”, capitanato dal poeta stesso.
Poi è seguita la conoscenza artistica con altri scrittori del territorio che ancora ci lega, in particolare ricordo Amerigo Visintini ed Ivan Crico per la Bisiacaria e lo scrittore Triestino Claudio Grisancich, ha contribuito a mantenere la mia produzione poetica dialettale strettamente legata all’utilizzo di termini arcaici, e talvolta desueti, che mi cantano dentro già dalle relazioni intrecciate nella prima infanzia a livello parentale.
Sono numerosi i poeti con i quali ho condiviso e tuttora condivido esperienze significative in campo letterario e, sovente, non sono poeti strettamente legati al mondo della Bisiacaria.

La tua scelta di narrare in lingua impone di considerare quale lingua utilizzi.
Raccontaci in che lingua scrivi…
Scrivo in una lingua tanto aspra quanto musicale nell’intermezzo di pausa dal rumore di sottofondo del carico mentale.
La mia è la lingua del tempo sospeso, lo spazio di incanto e concentrazione, di smarrimento e ritrovo.
La mia produzione poetica trova forma prevalentemente nel dialetto “bisiaco”, dialetto parlato nel piccolo fazzoletto di terra che va dal Carso alla Marina e ricompreso fra i fiumi Isonzo e Timavo e che prende il nome di “Bisiacaria”, anche se non disdegno lo scrivere in italiano.
Amo ricercare il termine desueto, ho dei rimandi di parole che girano nella testa, richiami del mio mondo di bambina legato agli intrecci relazionali di paese, di una vita semplice fatta di condivisione di quotidianità che ora non viviamo più, nostro malgrado.
Vero è che nei miei scritti ci sono diversi termini arcaici che vengono ancora usati dalle persone anziane che, in parte, sono state le fonti orali per il recupero di certe espressioni ormai dimenticate,
Il flusso poetico che scorre nelle mie liriche lo sento rappresentativo del parlato della mia area di appartenenza, soprattutto dei paesi limitrofi al territorio monfalconese che ancora custodiscono al loro interno, anche se in piccola parte, una parlata schietta e genuina, fedele e immutata nel tempo.

È un immaginario molto particolare, molto personale….
L’immaginario nella mia opera in dialetto deriva dal bisogno personale di mantenere salde le radici in un vissuto attuale in cui il territorio, per vari motivi, sta perdendo la capacità di trasmettere identità e senso di appartenenza.
Lo scrivere non ambisce a seguire precise teorie.
Tuttavia ricerco sempre la sfida perché penso che in questo percorso tracciato che ci è stato dato da percorrere e che, ci ostiniamo a chiamare con il termine forse ottimistico di esistenza, è necessario osare, disegnare nuovi traguardi, inseguire sogni, volontà, desideri e provare ad impegnarsi per realizzarli.
Le parole dialettali sono meno consumate. Sono rimaste ricche di suoni, di sapori, di odori legati alla terra.
Ci sono vocaboli che solo in dialetto sanno rendere l’immagine visiva della parola. Le parole non rimangono solo suoni ma acquistano una loro forma ben precisa.
Si pensi a “sdramarar”, parola ricca di consonanti che significa “lo sferragliare del treno” che già nella pronuncia rende l’idea di un suono metallico, stridente…

Qual è dunque l’identità del poeta dialettale?
Quando il poeta compone in dialetto sa di avere a disposizione un elemento linguistico che è sottoposto ad una serie di mutazioni che continuano a renderlo diverso da quello che era ed è nel parlato.
Certe forme linguistiche sono state create in un contesto popolare e in tale tessitura si sono conservate creando una memoria genetica.
Il poeta dialettale ripesca gli echi e le forme del vissuto, le rielabora e le inserisce nel nuovo e più ampio contesto del vissuto attuale. Il dialetto è duttile, si modifica nel tempo, del resto è il concetto linguistico del Novecento.
Io credo che ciò che conta è il valore delle opere nelle loro lingue “personali”, sono i risultati poetici, indipendentemente da una minore o maggiore coartazione del dialetto, dalle sperimentazioni più o meno ardite.
Sperimentare non vuol dire disgregare l’ordine linguistico e la sintassi, ma avere un riscontro con i contenuti.

Ho trovato nel tuo libro una sorta di movimento musicale, dove le parti corrispondono con il tutto in una forma delicata.
Che l’oggetto della tua riflessione sia la natura piuttosto che le memorie o gli affetti famigliari o che vengano introdotti accenti di poesia civile, penso ai migranti o all’amianto.
L’idea, la sensazione è che in te tutto sia risolto o risolvibile proprio attraverso la poesia, stiamo guardando dentro il ventre di una grande madre terra che contiene tutto.
È questo a determinare la necessità della tua poesia?
Sono fermamente convinta che in questa nostra esistenza dobbiamo provare a tracciare la propria strada e bisogna farlo con un’ostinazione che è solo umana perché bisogna continuare a vivere nella speranza, disperatamente.
Ho sempre pensato che la poesia sia il mezzo perfetto per comprendere, dare forma e significato agli accadimenti della vita. La poesia mi ha accompagnato durante la crescita, dall’infanzia all’età adulta infilandosi nella trama della vita, sincronizzandosi con la mia esperienza.
Spesso mi ritrovo parole in testa senza motive apparente, poi realizzo che stanno lì per descrivere le mie emozioni.
C’è stata una malattia importante che ha ribaltato il mio modo di vedere la vita.
Credo di aver trovato la forza di stare nel momento senza il nido del ricordo: la vita che mi canta dentro è semplicemente qui, ora, null’altro di più.
Talvolta ho affrontato sconfitte e fallimenti che mi hanno fortificato e hanno fatto nascere in me il desiderio di scrivere della donna nei suoi molteplici ruoli di amica, amante, lavoratrice, madre, casalinga, badante, la fatica delle donne protagoniste di una rivoluzione mai stata.
Poi la tragedia dell’amianto che ha segnato più volte la mia famiglia, l’importanza di coltivare il bene dopo aver conosciuto il male, la trasformazione, l’equilibrio dinamico, la forza interiore, in un certo qual modo i frutti maturi “dello scorrere”, della “non immobilità” di questa donna che sono.
Ho imparato a vedere la vita come un’orchestra che esegue uno spartito musicale con i giusti cambi melodici e le armonie. E che tutto è presente null’altro che qui ed ora.

 

L’autrice:
Marilisa Trevisan è nata a Begliano (Go), località del Comune di San Canzian d’Isonzo.
Suoi scritti sono apparsi sulla rivista “Bisiacaria” e il quadrimestrale “l’Isonz”.
Ha partecipato a diversi premi letterari ottenendo apprezzati riconoscimenti in ambito nazionale.
Nel 2001 ha pubblicato la raccolta “Remandi de luse”, della collana “Farina Fina” edita dal Consorzio Culturale del Monfalconese; nel 2012, edita da Campanotto editore, è uscita la mia prima raccolta di poesie in italiano dal titolo “Resistere può bastare”. A cui è seguita la raccolta “Dell’erotismo e il paradosso”, pubblicata da MediaCom Officina Creativa.
Marilisa Trevisan è anche attrice di teatro, ha frequentato la scuola di teatro popolare a Udine e ha collaborato con l’Associazione Teatrale “Il Cantiere dei desideri” che accomuna, nella recitazione, soggetti abili e diversamente abili.
Ha lavorato con i registi Luca Ferri, Mauro Fontanini, Massimo Somaglino, Giorgio Amodeo, Mauro Serio, Francesco Faciolli, Alessandro Mistichelli e Massimo Navone.
Tuttora collabora con l’Associazione Collettivo Terzo Teatro di Gorizia e “Stropula Cantieri Teatrali” di Monfalcone.

(Marilisa Trevisan “Priàda” pp. 129, 10 euro, Consorzio Culturale del Monfalconese)

 

 

 

 

Immagini       ———————–

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di Ba Abat

 

 

 

 

Voce d’autore       ————————-

La rimozione come scarto o accrescimento

Valentina Murrocu, “L’altro mondo”

di Antonello Bifulco

Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti”. David Hume nel suo “Trattato sulla natura umana” ci regalava questa prospettiva, dove l’unità e l’identità dell’Io sono semplicemente una nostra credenza, frutto di una certa abitudine associativa.
Dentro “L’altro mondoValentina Murrocu tratteggia un viaggio poetico attraverso la sua personale visione dell’Io, ci racconta di lacerazioni interne, dove distruggere o comprendere sono atti del medesimo impulso, di un Io da dividere per trovare il centro del discorso, ci si esamina attraverso lo sguardo dell’altro che apre uno spazio interno uno spazio possibile, ci fa conoscere altri attori sulla scena dell’Io, situa il proprio corpo tra le fotocopie e l’ascensore tra oggetti che descrivono un dolore, ci ricorda che non si può raggiungere la conoscenza senza conoscere ciò che introduce il dubbio, ci esorta infine a ricercare sempre una spiegazione razionale poiché ogni testo scritto è una puttana disponibile a soddisfare ora questo ora quel desiderio. C’è insomma un mondo la fuori che vive oltre e dentro di noi, un mondo che ci attraversa, un altro mondo, anche se l’unico mondo che esiste alla fine è questo.
La raccolta, vincitrice del Premio Internazionale Rainer Maria Rilke a Duino Aurisina nel 2022 e pubblicato da Vita Activa Nuova, si sviluppa su tre sezioni, ogni sezione ha al suo interno due capitoli. Ogni sezione è aperta da una citazione a cominciare da Elias Canelli, passando per la Amelia Rosselli fino a Carlo Bordini con la sua “e in fondo, per un poeta esprimere e distruggersi non è la stessa cosa?”. Non so quanto per l’autrice esprimersi equivalga a distruggersi, sono certo però che la ricerca sulla pluralità dell’Io portata avanti da Valentina sia un costruire su ciò che siamo e su ciò che viviamo.
Già nel suo primo libro “La vita così com’è” per la Marco Saya Edizioni, il suo studio poetico sociologico sull’Io era già ben presente: “costruisco un’immagine/ che mi schermi dagli altri un filtro/ o una membrana che regoli gli scambi/ con l’esterno mi faccia sentire vivente/ tra viventi insomma percepita”.
Sei capitoli in questo libro che cercano di esaminare gli sguardi, lo sguardo di se e ogni gesto umano attraverso la poesia che forse non è poesia e non è neanche prosa, forse neanche versi siano essi orizzontali o verticali. Sono parole che rubano lo spazio alle pagine per parlare di noi, di un io che osserva attraverso una lente, dall’altra parte di un vetro, un io lacerato nel noi teatralmente rappresentato nelle virgole di ogni giorno, nelle pieghe dei pensieri, nel solco di ciò che ci turba, poiché guardare equivale ad esprimere un giudizio di valore “vivere è essere visti per come si è già stati”.
Il suo scrivere è un luogo aperto dove la verità è sempre dietro l’angolo, dentro la cronaca della propria vita “fare foto per quei momenti che non avranno più senso”, una scrittura che è un luogo d’incontro con se stessi, con le nostre ed altrui paure, con la violenza che non è catarsi o con il sesso che è un atto mentale prima che fisico, è un mondo capovolto che ti fa pensare che ti fa usare gli occhi gettandoli dall’altra parte della barricata che ti annuncia la masturbazione come una sorta di aggressione mascherata da parte di lei e che, in fin dei conti, il nostro destino collettivo è tenuto insieme da concetti rudimentali.
L’incontro con le parole dell’autrice si introducono nella nostra mente come un felice turbamento, come un richiamo a riscrivere con lei le pagine che prima erano bianche, che ci chiedono di allontanarsi da ciò che siamo rimanendo proprio quello che siamo.

 

Dal libro:

L’altro mondo appare negli schermi, le grandi
masse sono aperte sui sedili,
le qualità ricomposte in alto e basso,

vedi, questa convergenza è la stessa qualità che si sdoppia
nei discorsi, le porte si richiudono, i corpi respirano
da un sonno opaco:

«non era il guardare, ma l’essere visti, lo specchio concavo
interno alla mente, il presupposto su cui si regge il soggetto
come un mondo regolato dalla logica.»

Se un mondo esiste è questo.

*

c’è una bambola con la testa fracassata nel mezzo
del sogno: in sogno la testa rotta di una bambo-
la parla con il vestito rispettoso della mente che
l’ha pensato. se sa cucire, se parla non nomina
il cibo o l’ago, soltanto li distrugge, li rende esi-
stenti, ma per poco. c’è una ballerina che parla
tante lingue, non so se sa cucire, ma il ballo che
la tiene in vita è già un cucire, un tenere come
una distanza.
ciò che traduciamo è il senso della morte

*

la scena si apre con una casa di campagna, il ma-
iale avverte che sta per essere ucciso, un colpo
alla testa, il rewind, il replay al rallentatore, il
ragazzo è contento, la violenza non è catarsi, lo
diverte: quando pensiamo a cosa sia intratteni-
mento edulcoriamo una idea che precede le no-
stre azioni, è qualcosa di regressivo. il ragazzo
si fa rasare i capelli, non prova rimorso nell’atto
dello sparo, il sangue dai capelli lo cosparge sul
petto. Mentre osserva la scena pensa alle stragi
in Sri Lanka, alle chiese distrutte.

*

scheggia 1

i piatti nel lavello in Via Kramer sono indice di
una mediocrità piana come i residui di sangue
mestruale sulla tazza: il soggetto che agisce una
tragedia minima, lo sperma sulla tuta, il velo
che si squarcia in metropolitana a Gessate, op-
pure lo spazio tra l’arredamento
e il mondo interno, nominare il corpo svuotando-
lo di senso: «se vivere è percepire,
la somma dei soggetti è una proprietà, come uno
spasmo nel sonno, l’angoscia del risveglio»,
la rimozione come scarto o accrescimento.

*

appendice 1

il fine di questo scritto è indagare dal punto di
vista della fisiologia della percezione se l’attività
letteraria sia lecita o proibita o obbligatoria sia
perché necessaria sia perché mutevole allora
coloro che vogliono raggiungere la conoscenza
scientifica su determinati argomenti senza co-
noscere ciò che introduce il dubbio in una tale
conoscenza sono simili a individui privati della
vista

 

 

Intervista a Valentina Murrocu:

“L’altro mondo” è un percorso fatto di attraversamenti dentro e fuori di sé, abbiamo sempre conosciuto un mondo, ce ne presenti e fai conoscere un altro, che mondo è?
Come scrivo nella chiusa del poemetto che dà il titolo al libro, “Se un mondo esiste è questo”: si tratta dell’unica realtà o mondo di cui ci è possibile fare esperienza.
Perché intitolare allora “L’altro mondo”? Ho voluto rifarmi al Nietzsche del Crepuscolo degli idoli: in “Come il mondo vero finì per diventare favola”, il filologo e filosofo tedesco supera la dicotomia mondo vero-mondo apparente di matrice platonica; eliminando il mondo ideale, ci dice Nietzsche, si elimina anche quello apparente. Di qui la scelta del titolo.

Tre sezioni in questo tuo libro, sei sono i sottocapitoli, con citazioni di tre autori che ci permettono di entrare nell’umore di questo tuo vedere, Elias Canetti, Amelia Rosselli e Carlo Bordini. Tre autori che sembrano avere un filo rosso che li unisce, ci vuoi raccontare questa scelta?
Le citazioni poste in esergo alle tre sezioni appartengono a un’autrice e due autori che ho letto più volte e hanno influenzato la mia scrittura dal primo avvicinamento alla poesia contemporanea ad oggi. Il verso di Amelia Rosselli viene da “Palermo ’63”, i versi di Bordini sono contenuti nel poemetto “Polvere”, il Canetti che cito è quello degli “Aforismi per Marie-Louise”.
Procedo in disordine rispetto all’apparizione nel mio testo per una ragione cronologica: la lettura della Rosselli è stata determinante fin dal 2012, ho cominciato a leggere i testi di Bordini credo nel 2014 o 2015, mi sono avvicinata a Canetti di recente, cioè negli ultimi quattro anni. Le citazioni possono fungere da dispositivi per agevolare il lettore nella comprensione e contemporaneamente rovesciare le prospettive cui apre la scrittura, è compito del lettore rintracciare eventuali connessioni tra autori di questa grandezza, aderendo il più possibile al testo e alla visione del mondo cui il testo rimanda.

Non è il guardare ma l’essere visti”, “essere visti per come si è già stati”, “lo sguardo dell’altro apre uno spazio interno, uno spazio possibile”, “nominare per farti esistere, non conoscere”, “l’Io rappresentato da un’immagine”, si evince in ogni pagina di questo libro che il tuo scrivere vuole conoscere, guardare e sezionare l’Io che pensa, ma quanto l’Io vuole davvero essere visto?
Non farei una distinzione netta tra io che pensa e io che viene percepito, esistono individui: ciascun individuo viene visto dagli altri individui, percepisce a sua volta quelli che chiama altri e percepisce sé stesso modificandosi di continuo; può identificarsi, schermarsi, trovare un punto di incontro, ma è sempre percepito, visto, esposto.
Parlerei invece di pluralità di io e di soggetto dell’inconscio cui la mia scrittura dà voce: all’interno di uno stesso testo l’io è molteplice, ci sono poesie e prose scritte in terza persona, altre in prima, oltre alle riscritture; il soggetto dell’inconscio emerge, ad esempio, in alcune chiuse della sezione “Da questa parte del vetro” (“ora li sogno prelevare contanti, dileguarsi in questa trama sottile”; “ciò che traduciamo è il senso della morte”; “nel pomeriggio il paziente dorme,/il pesce nell’acquario è morto”; “essere visti per come si è già stati”) e nel testo estremamente frammentato “Lo sguardo rosso” (“io anello io benedetto io mondo,/ non io”; “è quindi morta appena pronunciata”; “altrettanti attori sulla scena del/ io”).

C’è in questi testi un continuo passare da una situazione di disordine a quella di perfetto controllo, testi che passano attraverso una maglia poetica, ma che non disdegna la prosa, un frammentare ed un costruire che si fonda su fraintendimenti ed errori, quali sono state le difficoltà a costruire un testo così articolato?
Sicuramente c’è stato un impegno nella lettura, scrittura, riscrittura e correzione e una “difficoltà” ulteriore nella revisione e organizzazione dei testi in libro; non credo tuttavia che l’impegno o difficoltà siano legate alla scelta del mezzo “prosa”, “poesia” o “frammento”, ammesso che abbia ancora senso fare una simile distinzione. È un lavoro cui ho dedicato almeno cinque anni: ho rivisto alcuni materiali composti intorno al 2013-2014 che sono poi confluiti in “Lo sguardo rosso”, modificato (quasi) ossessivamente le sequenze di prose e versi, elaborato e continuato a correggere il poemetto “L’altro mondo” a partire dal 2020, dato forma alla sezione intitolata “Appendice” nel maggio 2021, per fare degli esempi.
A proposito del disordine e successivo controllo, cito il Wallace Stevens del Connoisseur of Chaos: “A. A violent order is disorder; and/B. a great disorder is an order. These/Two things are one”.

All’apparenza sembra che la tua scrittura sia fredda e distaccata da ciò che appare alla vista, ma allo stesso tempo tutto ciò che è d’uso quotidiano o il vivere l’esperienza femminile assumono rilievo e significato, sembra che tu abbia deciso di interagire col lettore lanciando raggi di senso che ai più sfuggono, confermi?
Non sono d’accordo. La mia scrittura nasce e muove da una esposizione o sovraesposizione alla realtà: oggetti, corpi, emozioni, sensazioni, pensieri, proiezioni mentali, e cioè tutto ciò di cui facciamo esperienza, vanno collocati sullo stesso piano, fanno parte dello stesso orizzonte di senso, non ci sono momenti privilegiati di accensione. Lasciar intravedere al lettore le contraddizioni della realtà per come si manifesta è un voler restituire la complessità del mondo nella scrittura.

Ogni testo scritto è una puttana disponibile a soddisfare ora questo ora quel desiderio” quali testi scritti hanno soddisfatto di più Valentina fino ad ora nel suo viaggiare dentro i libri?
È forse la domanda che più mi ha messa in difficoltà: direi i dialoghi platonici (su tutti il “Fedro”), Aristotele, Nietzsche, Paul Celan, Anne Sexton, la già menzionata Amelia Rosselli, Kafka, Valéry, Houellebecq.

“La vita così com’è” libro d’esordio segnalato al Premio Montano, “L’altro mondo” seconda raccolta vincitrice del Premio Rainer Maria Rilke 2022, si dice che la poesia sia un luogo dove si sta per guardarsi dentro, quanto ancora devi guardare dentro di te e a quando un nuovo sguardo su ciò che si è?
Credo passeranno cinque o sei anni, facciamo sette.

 

L’autrice:
Valentina Murrocu (1992) si è laureata in Storia e Filosofia presso l’Università di Siena; vive a Nuoro e tiene un laboratorio di poesia contemporanea in un centro diurno.
La sua raccolta poetica d’esordio, “La vita così com’è” (Marco Saya Edizioni 2018) è stata segnalata al 33° Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, edizione 2019.
Ha vinto la seconda edizione (2020) del Premio Letterario Nazionale Gianmario Lucini, per l’inedito; ha partecipato alla dodicesima edizione (2021) di RicercaBo.
La raccolta inedita “L’altro mondo” è risultata vincitrice del Premio Internazionale Rainer Maria Rilke, edizione 2022 ed è stata pubblicata da Vita Activa Nuova nel 2023.
Un suo testo in prosa compare nel volume collettivo “L’ordine sostituito”, edito déclic a febbraio 2024. Collabora con “Poesia del Nostro Tempo” e con il blog “Recensire il mondo”.

(Valentina Murrocu “L’altro mondo”, pp. 80, 10 euro, Vita Activa Nuova Editrice 2023)

 

 

 

 

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di Ba Abat

 

 

 

Voce d’autore       ————————

Chi desta clamore non punta la sveglia al sonno

Alberto Mori, “Forismi”

di Giovanni Fierro

Continua l’esplorazione di Alberto Mori dentro lo scrivere poesia e, ancor di più, dentro l’uso nuovo e rinnovato della parola. Il suo sguardo si fa ancora più particolare, libero di dare inaspettate letture e avverabili linguaggi, anche dove tutto è apparentemente codificato e destinato all’immutabilità.
Così “Forismi”, il suo libro più recente, è un continuo laboratorio di possibilità, di abbandono di certezze lessicali e desiderio di immagini non ancora inventate: “Ballaustra Danzasponda Tangaringhiera”.
Alberto Mori è capace così di andare oltre il senso più stretto di ogni parola, e il suo lavoro a volte le riduce in puro suono, in pura forma, a cui affidare nuove percezioni del reale.
La parola, le parole, diventano così il luogo dell’esperimento, della ricerca continua di un motivo sensoriale per rinnovare l’alfabeto di ogni giorno, l’utensileria per aggiustare ogni errore e rottura di significato (“Chiarore Temolo/ Tinca risuona/ Luccio del giorno”).
Tutto “Forismi” è un riformulare sicurezze ed espressioni, portandone in evidenza il contenuto nascosto, la sua radice che troppo spesso rimane nel buio della comunicazione, eppure sotto gli occhi di tutti, al riparo nel modo più evidente.
Alberto Mori usa gioco e scherzo per rimodulare ed arieggiare il vocabolario, per portarlo dove non era mai stato prima. E da lì gli concede la chance di rigenerarsi, di aspirare ad una nuova vita.
Solo così facendo, nel ribaltare tutto il possibile, l’assurdo che ogni parola porta con sé non esiste più. Tutto diventa verità, tutto ha una opportunità di poter esistere.
In questo vorticoso stare, ci si ritrova di fronte a conoscenze insospettabili, “Arare è umano/ Perseverare diserbante”, e a constatazioni di come la salute non è solo dimensione umana o animale, “Vicolo già miope/ Ora cieco/ Troppo ovvia confidenza/ con muro ottico”.
“Forismi” è questo tuffo nel mare grande della sperimentazione, dove l’apnea non ha bisogno di ossigeno ma di curiosità, quando “Costa & Promontorio/ soci dello Yacht Club/ lanciano Bond Nautici/ Una partita a golfo/ finanzierà/ Moli Digitali Eco Sostenibili”.
E ogni pagina del libro è uno stare preciso nel centro della nostra società: “La TV è l’ovvio dei popoli”.

 

 

dal libro:

Parigi sbarra fiume ma tranSenna invano

*

Profumata dal credito brilla plus valenza
Reinvestita talvolta si spegne addolorata

*

“Meister Goethe pare che la Mercedes
sponsorizzi il suo Viaggio in Italia…”
“Non è affatto disdicevole, caro Helmut:
La strada dell’immortalità è sempre stata
Impervia e debbo superare da subito
Ogni romanticismo.”

*

Oh cavallina, cavallina storna
e riporta a partita doppia
colui che dopo acconto non ritorna

*

Foglie fotovoltaiche arrossano
fra il crepuscolo del solarium
Outunno
Stagione extra abbronzata in decadance

*

I taxi di interesse
rialzati durante i viaggi
trasportano bagagli
solo sul tetto del veicolo

*

Nel crepuscolo della bocca
alle ore a lui più carie del giorno
sul pre molare della sera
il canino abbaia sempre più incisivo
al tartaro buio in agguato

*

Rombo sciatalgia
Gamba assorda
Rotula fino in fondo
al suono della tibia
il perone silente
configura in gran frutto

*

“Agenzia, entrate” disse.
Il finanziere rimase solo nella stanza
per lunghe ore senza evasione

*

Il raziocigno nuota ordinato
sulla superficie del lago

 

 

Intervista ad Alberto Mori:

Tutto lo scrivere in “Forismi” trova la forza di andare oltre il senso comune delle parole. C’è una ricerca di ‘altro’, che penso contraddistingua da molto tempo ormai il tuo fare poesia. È così?
È certamente “altro” insito nella sperimentazione dei linguaggi intermediali della poesia, e nel caso specifico di “Forismi” è un vero e proprio inscenarsi di motti detti e contraddetti: Il “foro” palindromo, che ho praticato nel “buco” dei significati e significanti della parola, permette una prospettiva straniata al lettore impegnato in piccoli balzi cognitivi per (ri)afferrare il senso.

Perché a volte, in questa tua ricerca, c’è quasi un azzeramento del significato, e la parola e il testo si fanno puro suono. Mi sbaglio?
L’elemento dell’oralità è molto importante nella mia poesia ed i significanti di suono e senso, resi autonomi e coordinati verso una astrazione “calda” ed ironica, contribuiscono a creare anche soggetti immaginari: si consideri in tal senso gli animali che si manifestano nella parte finale del libro, dove, con una procedura allitterata all’interno del suono/senso del loro nome, compiono azioni ed interazioni paradossali con i nostri stessi sensi che li reinventano.

Come autore rimarchi nuovamente il fatto che c’è bisogno di un altro sguardo, di un’altra lettura, a proposito di tutto ciò che abbiamo sotto gli occhi. Come se i codici interpretativi, da tempo collaudati e condivisi, non bastino più per una percezione esatta delle cose e degli accadimenti. È questa la spina dorsale delle pagine di “Forismi”?
Direi che qui siamo oltre: “Il raziocigno nuota ordinato sulla superficie del lago”, così mi eccito citandomi.
Credo esista una realtà che “diverte” ed è “divertente”, se amiamo le parole nei loro quieti deliri, perché sono il nostro numero verde alfabetico da chiamare, e sono magnifica ginnastica cognitiva per l’outfit della mente.

La dimensione del gioco, e a volte anche dello scherzo, mi sembra sia un buon grimaldello per far saltare in aria ogni sicurezza interpretativa della realtà. Come ti raffronti con questa possibilità di espressione e ricerca?
Per allenarmi a questa simultaneità cerco di testare l’alterazione della parola del verso e della frase, sia con esercizio mentale e sensoriale, e poi naturalmente da performer di poesia vi è anche l’acting out della performance vera e propria, dove è il pubblico che pubblica e diviene lui stesso autore dell’eventuale sorriso.

Ogni testo di “Forismi” è un attimo, un momento minimo che si manifesta nel suo accadere. Cosa trattengono del loro succedere, cosa mantengono nelle parole che sono stampate sulla pagina?
Per quanto riguarda la prima parte sono piccole accensioni d’intuizione, che sono state organizzate nel loro essere dense e minime, perché a scorrimento in basso dell’occhio accadano in sequenza di piccoli sussulti di comprensione.
Nella seconda parte i singoli micro temi sono più sviluppati, ed è presente più conduzione: si è portati ad attraversare i motti, i detti e contraddetti, i neo proverbi, le parodie, e dunque magari ci si può trovare a sorridere non a fior di labbra ma nella mente.

Se non fosse un libro, “Forismi” cosa sarebbe?
Quello che era in origine: bordo di carta forata per antica stampante che ho utilizzato per l’immagine della cover “Paper Holes”.
In altro modo, coerentemente al suo divertissement, una concessionaria aperta 24 h e gratuita per l’Auto Ironia, poiché di questi tempi le Stellantis splendono nel cielo notturno.

 

 

 

 

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Visualdiary#24

di Ba Abat

 

 

 

 

Voce d’autore       ————————-

Nel pieno della Fioritura

Giorgio Fusco, “Piume di desideri”

di Anna Piccioni

In questa raccolta “Piume di desideri”, Giorgio Fusco alterna la poesia al disegno; nascendo architetto la geometria delle forme è nella sua natura.
I disegni rappresentano un mondo onirico, astratto, surreale, ricco di elementi naturali e artificiali, a volte carpiscono l’immaginazione, ed ogni angolo del disegno si presta a una sua lettura.
Anche se i suoi disegni sono rappresentazioni oniriche, o di una realtà irreale, i colori pastello attenuano “l’aggressività” di alcuni elementi.
Premettendo che i disegni non accompagnano i versi, anche nelle poesie si ritrova lo stesso mondo fantastico e surreale. Termini oggettivi, semplici, comuni, sono rafforzati nella loro essenza dall’uso delle maiuscole …Sulla Pelle Lucente scivola/il Fruscio di aghi di pino… (Morena).
Direi che Fusco usa il “correlativo oggettivo”, che richiama a Montale quando attraverso gli oggetti concreti vuol rappresentare un’emozione: La vela di un Mulino a Vento/ macina i tempi dell’attesa” (Macina) oppure …nelle piazze affollate/ dai Sogni Ingrassati… (Voli Infiniti). Oggetti reali che rimandano a visioni, fantastiche immagini, ma ricche di sensazioni tattili, concrete …ho vestito di Rosa /le mie Sconfitte (Esperienza).
Non c’è un Io lirico, ma il Poeta sta al di fuori a cogliere la nudità del reale, mettendone in evidenza l’illusione del vivere, le contraddizioni, la vita è un’illusione soppressa da qualcosa di più grande: le Corolle stupidamente aperte/ in estatica contemplazione/ della loro Fugace Bellezzaaspettano il Pungiglione/ che trapasserà il loro cuore (Impollinazione). E ancora: Spensierati giorni… Frutti Malati usciti/dal Grembo della Terra (Purezza); grandinano note soavi ma gli Stami incoronati da Aculei/ accompagnano dolci sospiri (Saltimbanchi).
Le immagini laceranti sono sottolineate da aggettivazioni crude, violente: Spilli di Tempo scaduti (Illuminazione), oppure il tormento reso ancora più acuto da un Sonno Inquieto accoglie suoni smorzatidal cuscino imbottito di Aguzzi Sassolini (Tormenti).
La vittoria e la sconfitta sono legate da un unico filo… una vittoria senza divisa, armi sconfitte e il sacrificio pagano del vincitore (Conquiste).
Nei versi di “Piume di desideri” si sente l’eco della formazione classica del Poeta, soprattutto nella costruzione del verso senza sbavature, pulito e ritmato.
L’uso dell’enjambement rende incisiva la denuncia della vanità del vivere; gli ossimori arricchiscono le contraddizioni: rilassati tormenti.
Spesso Giorgio Fusco fa uso di verbi o aggettivi come inanellati, allacciate, impigliati, attorcigliate, ma anche arcobaleni sfilacciati.
Una trama logorata e contorta, la vita dà l’idea di qualcosa di ingarbugliato, ma potrebbe anche significare l’unione confusa, una forza per non soccombere alla banalità della vita: frutti infestati da insetti/ ingrassano Alchimie contagiate/ dalla Malattia del Sopravvivere (Nascondigli); una vita vissuta con ingorda frenesia. Le consolazione morali sono intime e materialmente vissute.

 

Dal libro:

Attese

Frontiere esperte restringono
fredde Sensazioni di Misura

Complici Mani marcano
Sorrisi di Primavere sospese

nel pieno della Fioritura
al tuo Richiamo

urlato nel silenzio alle Stelle
teneramente mosse

da Orbite Incomprensibili.

*

Nebbie

Mordi con la Bocca Ferrata
di un Cavallo Alato

il sapore di muffa
di Nebbie cresciute nel fango

di Strade poco illuminate
da esili Fuochi Fatui

generati dal Buio
più profondo del cuore

*

 

*

Tenerezza

Ombra chiara sulle nuvole

Quando mi sazierà
la timida tenerezza delle tue mani

Posate sulla brace Calda
della sete che mi tormenta

*

Abbracci
Ritorno a Penelope

Un Mantello di Luce
mi sovrasta

Piccoli Atomi percorrono
Autostrade Fluide

di sciolte Pulsazioni
di Bellezza

nel Mare Infinito

dove raccolte
esanimi di Sazietà

sostano
Granelle di Femminilità

 

 

Intervista a Giorgio Fusco:

Quando è iniziata la sua attività artistica?
Ho cominciato a scrivere poesie a cinquant’anni, dopo una delusione d’amore.

Giorgio Fusco si ritiene più poeta o pittore?
La poesia si esprime e si sostanzia di Immagini Poetiche; spesso, nella brevità e concisione di queste immagini, la Poesia esprime concetti e messaggi che la prosa e il ragionamento possono trasmettere, ma con lunghe dissertazioni

L’uso delle maiuscole anche per oggetti comuni serve per elevarli al di sopra dell’individuo, oppure per dimostrare che hanno vita propria?
Le maiuscole sottolineano questa potenza delle immagini poetiche.

Cos’è la Poesia, cos’è la Pittura per Giorgio Fusco?
La Poesia è Una, la Prima, la più importante invenzione degli antichi Greci
È l’inizio dell’Umanità, l’uscita dalla preistoria; da lì e uscita la filosofia, l’arte, la scienza.
La mia poesia è nata certamente nella scia della grande tradizione umanistica di Trieste.
Grandi poeti innovatori sono stati dopo Omero (poesia epica), Saffo (poesia moderna) Dante, Baudelaire, Emily Dickinson, miei maestri ispiratori.
Il disegno ha grande importanza specialmente per un architetto come me.
Recentemente ho visitato una bellissima mostra a Lissone organizzata dall’ architetto Ronzoni, dove mostrava disegni e quadri del grande Le Corbusier, che precedono il futuro grande exploit della Architettura Moderna.

 

L’autore:
Giorgio Fusco è nato a Trieste nel 1946. È poeta e disegnatore.
La sua prima raccolta “Poesie” (2017) ha vinto il Premio speciale della Giuria al concorso nazionale “Franz Kafka” 2017 e nel 2021 ha vinto il Primo Premio Intercontinentale “Le Nove Muse”.
Ha poi pubblicato le raccolte “Siamo tutto di niente” (2018) e “Occhi cosmici” (2019).
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti di pubblico e di critica.

(Giorgio Fusco “Piume di desideri” pp. 84, 15 euro, Edizioni Elicon 2022)

 

 

 

 

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di Ba Abat

 

 

 

 

Ti racconto       ————————–

Non è possibile rimanere sempre all’erta

Luciano Tricarico, “Tarot”

di Giovanni Fierro

L’ispettore Santos, Petit, Marsiglia, alcuni cadaveri, i tarocchi e un mistero che si fa via via sempre più fitto ed intrigante. Sono questi gli ingredienti del convincente esordio narrativo di Luciano Tricarico, a titolo “Tarot”.
Un thriller che si muove con sapienza nella sua narrazione, disinvolto nel prendere forma tra atmosfere ed accadimenti, nella capacità di definire e ridefinire continuamente l’identità dei suoi personaggi.
Ad iniziare dall’ispettore Santos, anticonvenzionale fino al midollo, creatura il cui vissuto è ricco di sfregi e storture, ma capace di aprirsi al mondo, in ogni sua manifestazione. Insofferente alle regole, ha un proprio codice etico, e trova nel suo lavoro la disciplina che in qualche modo lo preserva, evitandogli la dissipazione totale. Ben conscio di muoversi in una realtà dove “la vita è una serie infinita di alfabeti di domande a cui solamente in minima parte si ha la possibilità di rispondere. E spesso le risposte sono talmente confuse da rendere vano lo sforzo”.
Luciano Tricarico calibra la sua scrittura e la mette al servizio del meccanismo narrativo, che cattura il lettore, lo porta in prima persona dentro le investigazioni e di fronte ai protagonisti: “Il commissario bussò pesantemente alla sua porta, sembrava invecchiato di vent’anni in pochi giorni. A Santos non serviva nessun sussulto, nessuno stress, dimostrare vent’anni di più era nella norma”.
A parlare è anche la città di Marsiglia, nel fascino dei paesaggi che le appartengono, anche quando “dalla base del colle Notre-Dame de la Garde sembrava un immenso biscotto inzuppato in una tazza di latte. Solamente la punta del campanile, con alla sommità la statua dorata di Nostra Signora che teneva in braccio il bambino, fuoriusciva dalla patina biancastra. Gli alberi spogli del parco, che dal basso si inerpicava fino allo spiazzo della cattedrale, erano avvolti da un velo di delicata e fredda organza”.
Ma gli omicidi non smettono, l’ispettore Santos e la sua collaboratrice Petit sono assorbiti in un gorgo di violenza e vuoto, nel quale i tarocchi, fondamentali in tutto il romanzo, sono strumento di sapienza e dannazione. E l’atmosfera che respira si fa sempre più plumbea, affatica il respiro, confonde le idee, genera dubbi e smarrimenti. Sì, nel loro indagare “il panico era un rapace che scendeva in picchiata lanciando il suo grido di battaglia”.
Luciano Tricarico in “Tarot” ha uno sguardo d’autore che tutto assorbe e poi rielabora, tesse i fili di ciò che vuole raccontare, crea situazioni che sono le pagine stesse del libro, accoglie la curiosità del lettore e le permette di esprimersi, di trovare continua sorpresa fino all’ultima pagina.
“Tarot” è questo immergersi nei meandri più turpi dell’animo umano, dove le vittime però sembra possano avere avuto un ultimo scorcio di salvezza, “Presumo che uccidendole l’assassino abbia inteso di purificare le vittime dandogli la possibilità di trasmutarsi in puro spirito”. Ma è tutto da ipotizzare, da verificare.
Sono pagine che comunque costruiscono umanità, per niente accomodanti con religione e famiglia, società odierna e responsabilità politiche; con poche certezze, e a volte per nulla consolanti: “I demoni non si debellano, non si vincono, non spariscono, approfittano di ogni attimo di debolezza per prendere nuovamente la sudditanza e schiavizzare la volontà. Non è possibile rimanere sempre all’erta purtroppo”.
“Tarot” è lettura che coinvolge, atto letterario a cui lasciarsi completamente andare.

Intervista a Luciano Tricarico:

Qual è stato l’input che ha dato vita alla storia e ai personaggi di “Tarot”?
All’inizio “Tarot” era solamente un titolo. Alcuni anni addietro, prima di trasferirmi nel Salento, avevo iniziato a studiare le famose carte (i tarocchi, ndr) e i metodi per interpretarne il significato. Uno studio affascinante che ti porta a esplorare universi ben poco frequentati dalle persone comuni.
Egualmente allo studio e all’uso dei Tarot coltivavo l’altra mia passione che è la scrittura. Dapprima confrontandomi con la poesia e qualche breve racconto per poi man mano, dopo che mi fui trasferito, passare alla narrativa. Ero impegnato nella stesura di più storie, di cui una di queste credevo fosse quella del mio esordio nel campo narrativo. Ovviamente ero in errore.
Mentre mi dedicavo a un romanzo, completamente diverso per genere, nella mia mente si faceva strada l’idea di scriverne uno dove le carte dei Tarot fossero protagoniste. All’inizio avevo pensato a una storia ambientata nel passato quando questo tipo di pratica era tenuto ben in considerazione, al contrario dei giorni nostri. Ma l’idea non solo non si sviluppava, peggio. Era completamente bloccata. Tanto che quasi l’avevo abbandonata. Poi, come spesso accade, arriva il momento giusto.
Non fu la classica illuminazione, niente di ciò. Sedetti davanti al computer, senza sapere nemmeno che cosa avrei scritto e buttai giù le prime righe che nell’arco del tempo ho modificato e rimodificato decine di volte. Sono state però l’input necessario per iniziare. Da lì in avanti posso solamente dire che sono stato coinvolto in un inarrestabile e sorprendente fluire ispirativo. Tanto che sono uso dire che io ero il braccio che compiva l’azione sotto dettatura.

Con questo tuo nuovo scrivere, quale è la vicinanza e quale è la distanza che lo contraddistingue dal tuo precedente scrivere poesia?
Ho sentito dire che spesso il poeta scrive senza dare un vero senso o significato alla propria opera e critici e lettori cercano di capire che cosa egli volesse intendere con quei versi. Il mio stile poetico è stato definito da molti narrativo. Cioè, nel mio caso scrivere in versi equivale a raccontare una storia dall’inizio alla fine. Non è una cosa che ho definito in base alle regole metriche che contraddistinguono la poesia e nemmeno mi sono imposto che all’ultimo verso dovesse essere ben chiaro il significato. Certo, ricercare le parole che dessero senso alla poesia nella sua forma classica era un mio punto fermo ma che la poesia da me scritta diventasse ermetica o criptica era al di fuori della mia concezione.
Credo che ognuno abbia un suo personale stile che va coltivato nella sua forma originale, alterarlo equivarrebbe a mozzare la parte migliore della propria arte. Perciò, il passaggio dalla poesia, senza però mai abbandonarla, alla narrativa vera e propria, per me è stato un fatto naturale che non ha provocato scossoni.
Narrare in pochi versi o narrare nell’arco di trecento pagine fa ben poca differenza; il lavoro è sempre lo stesso. L’unica diversità che ho riscontrato e quella di impegnarsi a dover riempire gli spazi vuoti fra un verso e l’altro. Perciò non credo di essermi distanziato dalla poesia, l’ho solamente integrata in uno spazio più ampio.

Parte importante della riuscita di “Tarot” è nel tuo creare le atmosfere della narrazione. In che modo le hai vissute? Erano un qualcosa alla base della nascita del libro o sono state una scoperta che si è manifestata via via che il libro prendeva corpo?
Ritengo che le atmosfere che si creano nella stesura di un romanzo siano di fondamentale importanza per il proseguo della narrazione. Rimanessero alienate dal contesto in cui i personaggi recitano il loro ruolo non è quantomai possibile per rendere palese il quadro che si vorrebbe dipingere. Io stesso mentre, parola dopo parola, descrivevo taluna o tal altra atmosfera, mi immergevo in essa, l’assorbivo e mi ci trasportavo tanto da sentirne a volte il peso e a volte il sollievo. Le vivevo talmente intensamente da divenirne fisicamente sensibile.
Il luogo che ho scelto come scenario del romanzo già da sé fa sovvenire alla mente particolari atmosfere. Marsiglia è un porto di mare, una variegata umanità ha attraccato ai suoi moli nell’arco dei secoli, e, come è noto, le città di mare sono particolarmente affascinanti per le loro eterogenee peculiarità. Ebbene, era qualcosa di naturale ricreare attraverso le parole il clima sia meteorologico che psicologico che si veniva a instaurare, le situazioni, le caratteristiche ecc..
Non avendo ben definito ogni aspetto della trama del libro come chiunque altro le scoprivo man mano che mi si presentavano in mente e allora iniziavo un lavoro di cesello descrittivo, su di una realtà comunque esistente, perché rendessero appieno l’idea che avevo nella mente.

Perché poi, anche gli interni nei quali i protagonisti si muovono, assieme agli spazi di Marsiglia che tu descrivi, sono importanti nel caratterizzare storia e personaggi…
Scrivere senza descrivere renderebbe sterile il mondo che si viene a creare attraverso il romanzo. I personaggi, i loro pregi, i loro difetti, l’ambiente privato e quello pubblico in cui vivono e si muovono li denotano univocamente differenziandoli l’uno dall’altro. Nel caso dell’ispettore Santos, ad esempio, non sarebbe stato possibile collocarlo in una dimensione effettiva tralasciando o trattando marginalmente i suoi aspetti di vita. Così come per gli altri personaggi, ognuno con le proprie caratteristiche, col proprio vissuto e con le peculiarità che gli appartengono. L’ambiente poi in cui ognuno si muove può essere paragonato alla stregua di una fotografia che lo colloca in quel particolare contesto sociale e di socialità.
Molto spesso si crea fra un personaggio e il lettore una sorta di connessione proprio per il fatto che quest’ultimo riscontra in quell’elemento delle similitudini o delle diversità che glielo fanno amare od odiare.
In “Tarot” vi è una certa ricchezza di particolari sia dei personaggi e sia degli ambienti. Descrivere un luogo includendovi le varie sfaccettature e allo stesso tempo integrare il personaggio in quel preciso tempo non fa altro che trasportare il lettore all’interno delle pagine del libro come se egli stesso stesse vivendo quella particolare scena o situazione.
Importante, come mi ha fatto notare qualcuno, è di non eccedere, rendendo sia l’uno che l’altro poco credibili.

Tramite Santos tutto il romanzo ti permette una critica molto viva sulla nostra società: famiglia, religione, ruoli…Cosa ti ha permesso di raccontare, quali considerazioni hai potuto esporre?
Premetto che sono sempre stato molto caustico nel giudicare la società in cui attualmente viviamo. Dal mio punto di vista abbiamo toccato livelli altissimi di ipocrisia. Negli ultimi anni, nonostante sia lampante che il modello adottato si stia rivelando fallimentare e che verosimilmente ci trasporterà verso il baratro non si fa nulla per invertire una tale tendenza.
La famiglia non ha più il ruolo educativo che l’aveva contraddistinta nel passato, la religione, per quanto predichi bontà e compassione, non segue essa stessa i dettami su cui basa le proprie fondamenta ma è più interessata al mantenimento del potere temporale piuttosto che spirituale. Della politica non ne parliamo. La corruzione viaggia con il vento in poppa e i casi sono sotto gli occhi di tutti. Coloro che dovrebbero tutelare il popolo non hanno nessun interesse a che questo viva serenamente, gli interessi economici hanno la precedenza su tutto. E si va avanti sempre con maggiore difficoltà, con più rabbia, senza che si faccia nulla, e se qualcuno alza la voce viene messo immediatamente a tacere.
Dal mio punto di vista si è persa la capacità di valutare e dissentire. Gli individui stanno gradatamente perdendo la facoltà del raziocinio, l’ignoranza corre a tempi di record. Fra qualche anno per esprimere un semplice pensiero dovremmo affidarci a Google.
Ma il peggio è che coloro che subiscono sono i primi a puntare il dito scatenando una guerra fra i poveri mentre chi sta al potere guarda dal balcone.
“Tarot” lascia spazio alle considerazioni, opinabili o no che siano; ognuno la può pensare a modo suo. Non sono interessato ai bacchettoni, ai bigotti, ai moralisti. Che dicano e pensino quello che vogliono. Ho scelto di essere provocatore e non assoggettato!

Significativa è la dimensione della scrittura che hai usato: calibrata, ben dosata, precisa. Quale idea avevi a riguardo, prima e durante la scrittura del libro?
Una delle mie capacità è quella di cambiare, di modificare degli aspetti che mi caratterizzano. E a volte, non sempre, mi rendo conto che una critica non per forza di cose deve essere interpretata negativamente.
In un romanzo precedente a “Tarot”, quello con cui pensavo di esordire nel campo della narrativa, la mia scrittura era molto più complessa: termini particolari, periodi lunghi e difficoltà interpretativa del senso delle frasi.
Una persona, accanita lettrice, mi disse che leggendo il manoscritto sembrava che volessi mettere in mostra la mia cultura, un’altra della stessa opinione, leggendo il manoscritto di “Tarot”, dopo aver letto il precedente, mi disse che sembrava che lo avesse scritto un’altra mano, un’altra ancora, sempre leggendo “Tarot”, mi fece notare come fosse giusto essere descrittivi ma che non si doveva esagerare.
Fortuna vuole che avendo dei buoni amici, preparati, questi non si fermino ai futili complimenti per la tua opera ma non si facciano scrupolo di criticarla mettendo in evidenza quelle che ne sono le pecche. Infatti, una era il modo in cui scrivevo. Cercavo di colpire invece di chiarire.
Così mi sono impegnato cambiando, alleggerendo, modificando completamente il mio modo di scrivere rendendolo scorrevole e facilmente fruibile a chiunque, senza fargli perdere nulla della sua dimensione esplicativa però. Questo si è rivelato un fattore vincente che permetteva, a chi avesse letto il libro, di seguire con facilità l’intero svolgersi della trama godendone appieno senza doversi lambiccare il cervello per decriptare questo o quel senso di un periodo.

Perché dedicare un libro ai Tarot?
Andando secoli addietro le più grandi e prosperose civiltà conosciute, molto più della attuale, affidavano molte delle loro decisioni a vari modelli interpretativi. L’osservazione degli astri, ad esempio, e di come essi incidevano sulle esistenze, le rune divinatorie per i popoli nordici, le ossa disseccate di un animale gettate sul terreno che, a seconda della posizione che assumevano, davano attraverso uno stregone un significato al quesito posto, i segni zodiacali, tutt’ora in auge, ma relegati a una forma di futile passatempo.
Le carte dei Tarot sono uno di questi modelli, forse il più completo. In altri libri sono stati presenti, come in produzioni cinematografiche, ma sempre con un ruolo marginale; l’assassino lascia una carta del mazzo sul cadavere oppure c’è la classica chiromante che leggendo il responso dei Tarot dà il via a degli eventi. Io volevo che nel mio romanzo i Tarot avessero un ruolo da comprimario e non relegarli al semplice ruolo di comparse.
La lettura dei Tarot, come delle altre arti divinatorie, non è la predizione del futuro; al mondo non esiste nulla che lo possa fare. I Tarot sono una via “Iniziatica” che a seconda del quesito proposto indicano la via migliore da seguire. Una volta risolto il problema che assilla si farà un passo in avanti verso quella che è la realizzazione dell’uomo. Sta al richiedente della lettura decidere se seguirla o no questa via.
Ho ritenuto che far conoscere i Tarot attraverso una storia romanzata fosse un’ottima idea per far capire alle persone che non vi è nulla da temere nella loro lettura ma che anzi sono un aiuto per uscire al di fuori dagli stati di prostrazione, depressione e quant’altro ai quali si sono verosimilmente adagiati.

Sei d’accordo che tutto l’accadere di “Tarot” crea umanità? I protagonisti, in qualche modo, nascono di nuovo. È così? E Petit forse per la prima volta…
Quasi ogni personaggio migliora la sua condizione di essere umano. Non credo che scrivendo fosse una delle mie priorità, non avevo messo in preventivo che sentimenti ed emozioni potessero influire così apertamente. Sono stati una conseguenza inaspettata. Un’ evoluzione umana sia mia che degli interpreti principali.
L’amicizia, l’amore disinteressato, la compassione, il sacrificio, la sofferenza, hanno dato un’impronta non considerata. È soprattutto nelle difficoltà che i sentimenti diventano puri che si elevano al di sopra del gretto vivere. Soprattutto per Santos è una priorità assoluta. Rinascita credo sia la parola più attinente. Certamente portando addosso il peso del passato ma che pian piano con l’evoluzione si sgrava dalla schiena. Inconsapevolmente i personaggi si migliorano, si ricreano. La strada è lunga e gli ostacoli sono molti ma una volta partiti diventa una marcia inarrestabile.
Per l’eroina di questo romanzo si ha un occhio di riguardo. Petit è giovane, dotata di innegabili talenti quali la memoria eidetica, l’intuito, l’intelligenza pronta e arguta, oltre che una naturale bellezza esteriore. Un frutto acerbo da coltivare con passione e amore. Manca di una sola cosa che purtroppo non si può acquisire per diritto di nascita, ed è l’esperienza. Con la vicinanza a Santos, di primo acchito il meno indicato per il compito del mentore, inizia a maturare, a lasciarsi andare, ad aprirsi a nuove esperienze, smussando qualche suo spigolo acuminato, divenendo sempre più cosciente di se stessa.
Ci vorrà del tempo perché impari a convogliare la sua potente energia da naturale esuberanza a saggia riflessione, ma con la vicinanza di Santos credo che non avrà problemi.

 

L’autore:
Luciano Tricarico è nato a Gallipoli nel 1962. Dopo cinquant’anni di residenza in Friuli Venezia Giulia ha deciso che fosse l’ora di tornare alle origini salentine. Da un anno circa si è trasferito nella cittadina di Racale in provincia di lecce.
Ha pubblicato le raccolte di poesie “Alterni momenti” edita da Sovera edizioni (2011) e “Approdi nel quinto mondo” edito da PAV edizioni (2020); alcuni suoi testi sono apparsi nelle antologie “Voci dai murazzi” (2015), “Collection creativity” (2013) “Al tempo del corona virus” (2020) I° volume.
Fa parte del gruppo letterario Rosantina campagna del Sud di Lecce.

(Luciano Tricarico “Tarot” pp. 326, 17,99 euro, Rossini editore 2023)

 

 

 

 

Immagini      ———————–

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Visualdiary#24

di Ba Abat

 

Intervista a Ba Abat:

di Giovanni Fierro

I tuoi lavori sono stati ospiti di Fare Voci nel numero di novembre 2020. Da allora come si è sviluppato il tuo lavoro?
Credo sia diventato più intimo e solitario.
Non frequento artisti o curatori, non mi propongo per esporre in nessun luogo.
Forse anche più timido e scanzonato, privato cioè della necessità di mostrarsi.
Sto sperimentando modalità nuove per me: piccole operazioni di arte postale, ad esempio.
Di questa pratica mi piace l’aspetto del dono, della condivisione mirata.
E mi piace l’idea che un mio lavoro affronti un viaggio per raggiungere qualcuno che non sempre conosco personalmente ma che di certo lo terrà tra le mani e ci avrà a che fare da vicino.
Ciò che cerco è un dialogo che si fa per immagini, una confidenza piccola e nutriente, come quelle che succedono con i cari amici la sera, nell’intimità di una cucina.

I lavori qui proposti hanno tutti una ‘impaginazione’ che trova altre forme rispetto al classico rettangolo/quadrato. Cosa c’è alla base di questa scelta, che costruisce altre dinamiche visive, modifica la geometria che contiene la tua opera?
La geometria ricopre un ruolo importante nella mia percezione del mondo.
Queste storture e irregolarità cui ti riferisci sono traduzione formale del mio sguardo.
Sono l’esigenza di legittimare l’esistenza di una finestra che non rispetti le regole che mi hanno insegnato.
Ho una mente ramificata, capace di costruire reti talvolta insopportabilmente complesse di connessioni e riferimenti/riflessioni/visioni e l’utilizzo di queste forme-cornice è forse un espediente per non farmi ferire dalle cose.

E di sicuro, rispetto al passato, in questo tuo più recente fare arte, c’è da notare la presenza della figura umana. Cosa ha portato in più, rispetto ai lavori di prima? E come ha trovato il proprio starne all’interno?
Si tratta di un timido tentativo di darmi, paradossalmente, meno importanza.
E di accettare la mia persona anche nella mia esistenza fisica.
Ho sempre preferito tenermi nascosta. Non rivelare nemmeno il mio nome.
Ora comincio da qui: inserendo gradualmente anche la mia figura, se pur elaborandola digitalmente il più delle volte.
Piano piano ci si libera dagli auto-condizionamenti.
Piano piano si procede, anche se non si conosce la strada.

Diverse immagini poi, esplorano anche lo spazio cittadino, come “Borders_” e “FeelTheLine_”.
Cosa significa per te anche questa nuova direzione di ricerca?
Si, questo ha a che fare con l’amore e la fascinazione che provo per la linea e la geometria.
La geometria ha un potere su di me che definirei estatico. È rassicurante e maestosamente perfetta.
Mi aiuta a contattare l’ordine del cosmo in cui tutto è allineato e giusto così com’è.
Certa architettura mi innamora: la pulizia di alcuni edifici, la nitidezza dei cementi e dei metalli mi parlano di spiritualità, provocano in me una sorta di intimissimo piacere, silenzioso e godereccio.
L’architettura è forma da abitare, è delizia cangiante che asseconda i nostri passi.

Una nuova pratica artistica, che tu chiami “politica”, è quella di stampare i tuoi lavori su tessuto, per poi applicarli sugli abiti. Esci così dallo schema galleria d’arte, i tuoi lavori trovano supporti più “popolari”, come felpe e abiti di cotone. Ce la puoi spiegare?
Mi sono sentita avvilita e stanca rispetto a certe dinamiche delle mostre a cui ho partecipato.
È di questo che ho esperienza: operazioni espositive in cui è scontata la gratuità del lavoro artistico, un gioco a cui mi sono prestata perché il mio lavoro potesse ricevere attenzione.
Forse sono troppo critica rispetto alla realtà in cui opero, ma mi sto permettendo di legittimare la delusione che ho provato di fronte a quella che ai miei occhi è stata spesso una mancanza di vera cura per la ricerca che svolgo. E per quella di molti miei colleghi.
Credo anche però che questo mi stia aiutando a riflettere sull’aspetto egoico del fare arte e che in certo modo mi abbia fatto bene.
Non so se sono una buona artista, capita quotidianamente che io me lo chieda.
Ma ho ahimè un’attitudine alla ricerca.
E allora mi sono detta che un’esploratrice può comunicare le proprie scoperte anche in altre forme e altri contesti.
Penso alla pittura industriale di Pinot Gallizio: una lunga opera dipinta su rotoli di tela destinati ad essere venduti al metro.
È questo il modo in cui ora voglio raccontare: stampe digitali di nessun particolare valore tecnico che diventano inserti che poi applico, sempre attraverso la cucitura, su abiti e felpe.
Questo progetto si chiama [in Cì] ed è dedicato ad una persona speciale al mio cuore.
Voglio continuare a fare ciò che faccio ma in una prospettiva – forse – più giocosa, meno presuntuosa e a mio parere più vitale.
L’arte da abitare-indossare, e a basso costo.
Oggi così.
Domani: non so 😉

Il significato della cucitura, presenza fondamentale nella tua arte, in questi anni ha modificato il proprio significato?
Temo di no.
La cucitura – maleducata e improvvisata come quella che frequento io – è un luogo a cui ritorno regolarmente dopo periodi di dimenticanza. Rimane traduzione grafica dei pensieri di una “testa di cerva”, espressione del percorso non-lineare che mi descrive.
Quando guardo le mie cuciture-racconti sento la gioia di chi si riconosce.
Racconta l’altra faccia di me. È la mancanza di linearità e logica, è l’irrompere della contraddizione dove mi sento davvero a mio agio, il che non significa – però – in pace;).

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www.instagram.com/ba_abat

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso.