Fare Voci settembre 2022

 

Finita l’estate ci ritroviamo con una nuova mappa di “Fare Voci” da esplorare.

Ad iniziare da Mariangela Gualtieri, nome di riferimento del panorama culturale italiano, che ci accompagna nei perché della poesia con il suo nuovo libro “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia”.

La voce d’autore è quella di Luca Pizzolitto con le pagine preziose del suo “Crocevia dei cammini” e di Alberto Mori e l’ingegno creativo di “In Fra”.

Il tempo presente respira nei nove haiku del poeta sloveno Dimitrij Škrk, si interroga con Maddalena Fingerle nel suo sorprendente romanzo “Lingua madre”, e viaggia con i sei testi a titolo “A Sauron” firmati da Alessandra Flores d’Arcais.

L’invito è anche quello di avventurarsi nei margini. di poesia ed altro, ad iniziare dal poeta svedese Daniel Gahnertz e il suo laboratorio sociale di “Golden oldies”, con Pier Franco Uliana e “Corrispondenze dal roseto boreale”, e con Sabrina Giarratana, nelle pagine del suo “Poesie nell’erba”.

Per libroelibro Laura Mautone ci porta “tra i sogni di tante notti”, ovvero tra le pagine del nuovo libro di Dacia Maraini, “Caro Pier Paolo”, ovviamente Pasolini.

Il Ti racconto è “La prima montagna è il Korada”, storia inedita firmata da Luca Buiat.

Le immagini sono le dodici opere di Antonio Colmari.

Buona lettura!

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini         ———————————

Frammenti 3

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Voce d’autore        —————–

È il silenzio la voce della poesia

Mariangela Gualtieri, “L’incanto fonico”

di Roberto Lamantea

Tutte le opere del passato, almeno fino alla rivoluzione industriale, sono state pensate e realizzate nel silenzio: dalla lirica greca e latina alla “Divina Commedia”, i poemi, i romanzi, ma anche le tele dei maestri della pittura, le planimetrie e prospettive dell’architettura, la musica a lume di candela.
Gli unici suoni erano le voci della natura, o quelle degli uomini, i canti delle spigolatrici o delle mondine: il vento e lo stormire delle fronde – voce dell’infinito leopardiano –; o il battere ritmico di un fabbro, altra immagine del poeta di Recanati. Non c’era il rumore che oggi in città bombarda ogni minuto della nostra vita. Da sempre, la poesia è nata nel silenzio; la musica – hanno scritto grandi interpreti come Claudio Abbado e Mario Brunello – non è altro che una pausa del silenzio.
La poesia è un “incanto fonico”. È il titolo dell’ultimo libro di Mariangela Gualtieri, “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia”, dedicato al critico cesenate Renato Serra ed edito da Einaudi nella nuova serie degli Struzzi diretta da Ernesto Franco, direttore editoriale della casa editrice torinese, su progetto grafico di Ugo Nespolo.
Mariangela è anche attrice: con Cesare Ronconi ha fondato il Teatro Valdoca, una delle esperienze più belle della scena contemporanea. E proprio perché è anche attrice sa che cosa è dire la poesia.
Non è recitare, non è leggere, meno ancora è comunicare a chi ascolta un pensiero, un concetto: “La poesia chiede libertà dai vincoli semantici, chiede di farsi viva voce, vuole essere suonata, o cantata, proprio come ogni spartito musicale, fino a quello che Amelia Rosselli chiamava ‘l’incanto fonico’”.
Il “mondo orale aurale” è tessuto di voce, orecchio, parola, respiro: “Ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi”. Ecco: il silenzio. “Poesia è anche il silenzio che precede e che segue il verso, silenzio che precede e che segue ogni parola dentro il verso. Silenzio dentro ogni parola”. È il bianco della pagina di “M’illumino d’immenso” di Ungaretti.
Negli ultimi anni al silenzio – forse proprio come reazione alla dittatura del rumore – sono stati dedicati diversi libri. Mimesis Edizioni di Milano-Udine ha fondato una collana – diretta da Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot – che si chiama proprio Accademia del Silenzio, dove Demetrio ha pubblicato nel 2012 il saggio “I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora“, anticipando temi e suggestioni del suo bellissimo “Foliage. Vagabondare in autunno” (Raffaello Cortina Editore 2018). Sempre dieci anni fa è stato uno dei più grandi poeti dei nostri anni, Franco Loi, a pubblicare nella stessa collana “Il silenzio“, con alcuni versi nel “suo” dialetto milanese.
Si può continuare con “Silenzio” del violoncellista Mario Brunello (il Mulino 2014); “La forza del silenzio. Piccole note sul fruscio del mondo” di Cristina Noacco, pubblicato nel 2017 nella meravigliosa collana di Ediciclo “Piccola filosofia di viaggio”. “Il silenzio” è il libro di Erling Kagge pubblicato da Einaudi nel 2017: Erling Kagge (Oslo 1963) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a raggiungere i “tre poli”: “Nord, Sud e una cima dell’Everest. Storia e pratica del silenzio” è il saggio di Remo Bassetti per Bollati Boringhieri (2019); “Silenzi d’autore” di Bice Mortara Garavelli (Laterza 2015) attraversa proprio il silenzio nella letteratura. Chandra Livia Candiani ha scritto “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” (Einaudi 2018). Infine “Ascoltare il silenzio” è l’omaggio a Claudio Abbado edito da il Saggiatore nel 2015, con diversi testi del grande direttore d’orchestra.

Mariangela autrice e attrice. Deve leggere queste sue pagine da “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia” chi declama i versi con enfasi, con gesti e posture da oratore: nulla di più lontano dalla poesia ad alta voce. Per la poeta romagnola il testo deve diventare corpo, non va neanche letto ma recitato a memoria, perché gli occhi non vanno ancorati al foglio ma al pubblico. E le parole, le sillabe, vocali, consonanti, il ritmo – che non è solo endecasillabi, ottonari e settenari ma danza anche dove sembra che non ci sia – diventano corpo: “Penetrare nei nascondigli della voce” perché “Fiore del respiro è la voce”, “Noi siamo nel respiro”.
“L’incanto fonico” è un libro sulla poesia che è un libro di poesia. A tratti ricorda l’incanto della scrittura di Roland Barthes nel “Piacere del testo”.
E in quanto parola del corpo, la poesia è corpo politico, come sono corpo politico Chiara Bersani, l’attrice di “Enigma. Requiem per Pinocchio” (2021/22), l’ultimo lavoro della Valdoca, o Silvia Calderoni, nome di punta della compagnia cesenate.
La Valdoca è una di quelle meravigliose esperienze nate nella Romagna felix che ha dato anche i Fanny & Alexander di Ravenna, i Motus di Rimini, a Bologna i Teatri di Vita di Andrea Adriatico e Stefano Casi, la Socìetas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi sempre a Cesena. La Valdoca di Ronconi e Gualtieri ha come numi Kantor, Grotowski, Carmelo Bene – ed ecco la lezione sulla voce, la parola-corpo, il silenzio, fin dal capolavoro “Paesaggio con fratello rotto” (2004/05, il testo è edito da Luca Sossella, il video è anche in rete qui).
Un teatro che va alla radice del corpo e della parola, come nella poesia di Mariangela la parola è corpo della voce e del silenzio.

 

Intervista a Mariangela Gualtieri:

Nel libro scrive che la parola, come la musica, affiora dal silenzio, la poesia è corpo – voce, respiro, diaframma, sguardo. Lei sottolinea l’importanza della tecnica (microfono, amplificatore…). In un’intervista ha detto: ben venga la tecnologia, ma stiamo attenti a non perdere il selvatico della terra, il selvatico in noi: “La lingua è viva come un animale, come un vegetale…”.
È viva e ci fa vivi. La lingua è viva e per farci più vivi richiede cura, attenzione, dedizione, ascolto, studio, concentrazione, anche leggerezza, anche gioco.
Ognuna di queste entità è ora assai disturbata da una tecnologia affascinante e invadente che continuamente da un lato permette e dall’altro interrompe il nostro agire e il nostro pensare, la nostra estasi e la nostra espressione, l’abbandono, l’avventura, la solitudine, l’intimità ecc. La nostra specie non potrebbe vivere senza tecnologia, siamo troppo nudi, troppo fragili.
Dalla lancia con cui difenderci nella savana all’alfabeto, con la scoperta delle vocali scritte, tutto questo è tecnologia. Tutto questo ci è necessario ed è entusiasmante. Ma c’è una misura che va difesa.
Così come sul pianeta va protetto il poco selvatico rimasto, perché lì c’è ciò che non sappiamo. Se perderemo il selvatico pare che la vita sulla terra sarà così impoverita da faticare a replicarsi.
È la difesa di un non sapere, è un’ammissione di fragilità nostra e limitatezza, è rispetto per la prodigiosa tessitura della terra, per ciò che neanche immaginiamo di lei. Non è tutto alla nostra misera portata. Riconoscere anche in noi questo mistero, questo essere terra feconda e fecondata continuamente, credo sia vitale. Riconoscere che siamo animali in ascesa e che in noi c’è qualcosa più vecchio di noi, più evoluto di noi, e proteggere il mistero che siamo, il mistero verso cui andiamo, anche attraverso un uso intelligente e non oppressivo della tecnologia.

L’incanto fonico nasce nel silenzio e chiede silenzio. In un mondo sempre più rumoroso, dove il rumore è una sorta di nuovo bisogno, è un bombardamento continuo che ci assale ovunque (penso anche alla musica ad alto volume in bar e pizzerie): come e cosa fare per ritrovare e ascoltare il silenzio?
Il silenzio è un pezzo di natura. Se penso agli elementi parmenidei, aria acqua terra fuoco, aggiungerei come quinto elemento il silenzio, che è il suono di tutti gli altri insieme.
La sua domanda è grande e richiederebbe una articolata risposta. Qui mi preme ricordare che c’è un silenzio esterno ed uno interno: se c’è il primo senza il secondo si verrà assillati dal lavorio mentale o disturbati dai propri mostri che prendono meglio corpo nel silenzio – e forse anche per difendersi da questo c’è l’alto volume della musica incessante, quello che lei chiama il nuovo bisogno di rumore.
Ci vuole una testa che sappia tacitarsi e allora si troveranno le strade per un silenzio anche intorno, perché se ne sentirà il bisogno e ci si starà molto bene.
Su come tacitare la mente, io credo che una volta precisata questa meta, ognuno possa trovare la propria strada per raggiungerla. E l’altro prodigio è l’infanzia, il tempo dell’infanzia. Educare i bambini al silenzio, farli innamorare del loro dialogo interiore, dialogo fondamentale per ogni crescita e senza il quale si è allo sbando. E questo dialogo avviene in genere in solitudine e silenzio.
Jean Genet dice che la verità e quando si è da soli. Ma chi è più da solo? Chi può permetterselo? È un tale sforzo difendere questo essere soli… Ci sono solitudini frastornate, forse un po’ sterili – ma chi può saperlo? In fondo per millenni e millenni siamo vissuti in tribù, dentro il selvatico. Ora le tribù senza selvatico intorno e senza idea di comunità pare siano insopportabili.

In “Antenata” l’uomo è “frantumato in uno specchio rotto”, come scrive Milo De Angelis; in “Quando non morivo” è un mondo di “baracche e spine”, “ira/ nelle periferie della specie. E al centro/ ira”. In “Paesaggio con fratello rotto”, dopo tanto dolore, il fango diventa luce e sono voci di donne a dire “Siamo ancora capaci di amare, ancora proviamo pietà”. Mariangela, in un mondo che appare sempre più devastato, siamo ancora capaci di amare?
Ad amare si impara. Adesso che ho vissuto tanti anni, mi pare che sia stata tutta una lezione d’amore, una lezione che spero continui fino all’ultima mia ora.
Questo mondo devastato sta insegnando a noi tutti quanto malamente lo abbiamo amato, come va amato, come è altro da noi e non è fatto solo per noi. Come siamo tenuti in vita da forze ignote che chiamiamo con saccenza ossigeno, vitamine, proteine, e che sono forse nomi della trascendenza.
Ma che cosa è l’amore? Lo saprai quando diventerai me”. Sono versi del poeta persiano Rumi, vissuto nel 1200. È la risposta più sconvolgente che io abbia mai sentito. Diventare l’altro da sé, e l’altro comprende vegetali, animali, elementi, paesaggi.

Lei ha detto di amare la lezione del dialetto, lingua della terra, e insieme la magia della fiaba. Viene in mente Zanzotto, quando diceva che il suo petèl nasce dalla lallazione, i primi fonemi, le prime sillabe balbettate dal bambino prima che cominci a parlare: in casa sua si parlava dialetto, un “utero fonico” e una lingua subito legata al paesaggio, alla terra. Zanzotto ha raccontato anche che il suo amore per la poesia è nato quando da bambino ascoltava le filastrocche, ninnenanne, cantilene e insieme i versi di Tasso e
Ariosto “cantati” dalla nonna… Quanto sono importanti per lei le radici (l’infanzia, il dialetto…)?
L’infanzia è la mia miniera. L’ho vissuta così pienamente, in strada, in libertà, in selvatichezza. Non mi sono mai ammalata e per questo la nonna mi chiamava in dialetto “la mì seibadga” la mia selvatica.
Me la ricordo come un tempo in cui ero muta, senza parole, tutta occhi, orecchie, ginocchia scalpitanti e scorticate, ma senza voce.
Da quel silenzio penso sia nata la mia scrittura. Muta e sbigottita, così mi ricordo. Ma perché gli adulti non mi spiegavano il segreto che avvertivo dietro ogni cosa? Perché tacevano così tanto?
E poi i morti che sentivo sempre intrecciati ai vivi, i morti che occupavano le stanze appena restavano vuote. Anche loro tacevano.
Quella bambina silenziosa, vivace e sbigottita è rimasta con me, in me, ed è lei che nel pericolo si afferra a ciò che salva.

Poesia e teatro come s’incontrano nel suo lavoro?
Fra queste due sponde, poesia e teatro, mi pare si sia compiuto il mio destino. Che fortuna indicibile nascere come poeta in teatro, avere una piccola comunità sempre mutevole con la quale fare questa arte o gioco o mestiere, abitare questa polvere e questo cielo, questo fango e questa luce.
Anche in teatro siamo nati in silenzio, con i primi due spettacoli senza parole e il terzo sussurrato. E siamo nati subito col verso, solo versi sulla nostra scena, solo la lingua verticale e monumentale della poesia. Cesare Ronconi, mio sposo e regista del Teatro Valdoca, ha visto in me una poeta prima ancora che io scrivessi e mi ha chiamata a quello che a lui sembrava il mio destino.
Scrivo per attrici e attori che sono lì ad aspettare i miei versi – spero si immagini quanto questo sia coraggioso, avventuroso e nevrotizzante – dentro una scena di solito ricca di intensità e bellezza.
Sono fortemente guidata dentro una libertà che a volte mi sgomenta. Credo di avere dato il meglio di me servendo la scena, anche se davvero è sempre una camminata sul baratro.
Da un lato potrebbe essere considerata scrittura d’occasione, ma dall’altro c’è un giro di forze dal quale si viene coinvolti pienamente, agitati, appassionati. Quasi una scrittura in immersione.

 

L’autrice:
Mariangela Gualtieri è nata a Cesena nel 1951. Laureata in Architettura all’IuaV di Venezia, nel 1983 ha fondato con Cesare Ronconi il Teatro Valdoca. Il suo primo libro, pubblicato da Crocetti nel 1992, è “Antenata” (nuova edizione Crocetti 2020). Tra versi e spettacoli della Valdoca seguono: “Fuoco centrale” (Quaderni del Battello Ebbro 1995), “Sue dimore” (Catalogo Palazzo delle Esposizioni, Roma 1996), “Nei leoni e nei lupi” (Quaderni del Battello Ebbro 1997), “Parsifal” (Teatro Valdoca 2000), “Chioma” (Teatro Valdoca 2000), “Fuoco centrale e altre poesie per il teatro” (Einaudi 2003), “Senza polvere senza peso” (Einaudi 2006), “Sermone ai cuccioli della mia specie” (L’Arboreto Edizioni 2006), “Paesaggio con fratello rotto – Trilogia” (Luca Sossella Editore 2007 con dvd), “Racconti delle grandizze” (Il Vicolo 2008), “Bestia di gioia” (Einaudi 2010), “Caino” (Einaudi 2011), “Sermone ai cuccioli della mia specie” – nuova edizione libro+cd audio” (Teatro Valdoca 2012), “Le giovani parole” (Einaudi 2015), “Quando non morivo” (Einaudi 2019) e “Paesaggio con fratello rotto” (Einaudi Collezione di teatro 2021).

(Mariangela Gualtieri “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia” pp. XIV-150, 14 euro, Einaudi “Gli struzzi nuova serie” 2022)

Le fotoritratto in bianco e nero sono di Melina Mulas.

 

 

 

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Neve e fragole

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

Tempo presente       —————————-

Z veje breze padajo, Cadono dai rami di betulla

Nove haiku

di Dimitrij Škrk

trdi kamen
meri korake
vrnitve

pietre dure
misurando i passi
del mio ritorno

*

sinica odleti…
z veje breze padajo
krpe snega

la cincia vola via…
cadono dai rami di betulla
stracci di neve

*

na zidu
družinska ura
brezčasna

sul muro
un orologio di famiglia
senza tempo

*

jablana v cvetju
moja veza z očetom
in mojim dedom

melo in fiore
mettendomi in contatto
con mio padre e i miei nonni

*

zujanje pčela
na cvijeću veljače
uranilo proljeće

ronzio d’api
sui fiori di febbraio
segnali di primavera

*

kaplja za kapljo
pada v tišino noči-
zvok zdanitve

goccia dopo goccia
piove sul buio della notte
il suono dell’alba

*

krik ptic-
jata odleti preko polj
v njenih očeh

il grido degli uccelli-
sui campi il gregge vola
negli occhi di lei

*

osamljen leptir
u treptajima krila cvrčaka
ljeto lebdi

farfalla solitaria
nel battito d’ali di un grillo
si libra in volo l’estate

*

na razpotju
Kristu z rokama kaže
na obe poti

al bivio
Cristo sul crocefisso
punta entrambe le direzioni

 

Dimitrij Škrk, sui fiori di febbraio

di Salvatore Cutrupi

Una caratteristica della poetica haiku è quella di colpire il lettore con concetti non straordinari, ma con la rappresentazione di eventi “normali” che appartengono alla quotidianità, ed in particolare al continuo cambiamento e rinascere delle stagioni.
Con i suoi haiku, Dimitrij Škrk ha il merito di aver colto questo aspetto e di averlo proposto con la leggerezza e l’immediatezza dell’attimo presente, del qui ed ora, riuscendo ad esprimere pensieri profondi in sole tre righe.
Un’importante particolarità del suo poetare è quella di saper creare una sorta di incastro straordinario, di abbinare cioè alle suggestioni della natura gli accadimenti umani collegati ad essa, di raffigurare scenari intrecciati con la condizione umana. Nel suo scrivere l’autore, incarnando lo spirito della poesia tradizionale breve giapponese, spesso arriva ad annullare o a mettere in secondo piano il proprio “io”.
Con la purezza dello sguardo, l’autore evoca pensieri che suscitano stati d’animo propri della poetica haiku, come la solitudine (wabi), lo scorrere inesorabile del tempo (sabi), la leggerezza e semplicità libere da preconcetti (kanami), la nostalgia (mono no aware) e la profondità del mistero (yugen).
È facile ritrovarsi nelle parole di questo haijin per chi ama lasciarsi avvolgere dalla bellezza di ciò che ci circonda e considera la natura un luogo dove “abitare”.
Leggere i suoi haiku aiuta ad aprire la mente ed è come fare un viaggio in luoghi mai visti prima; è come intraprendere un cammino che strada facendo ci sorprende sempre di più e ci arricchisce di immagini, di colori e di nuovi profumi.

 

L’autore:
Dimitrij Škrk è nato a Capodistria nel 1951 e da molti anni vive a Slovenska Bristrica, città della Slovenia nord-orientale.
Laureato in ingegneria chimica all’Università di Lubiana, dal 2014 si occupa principalmente di poesia giapponese.
Molti suoi contributi sotto forma di Haiku, Haibun, Haiga, Senryu e Tanka sono stati premiati e pubblicati in prestigiose riviste internazionali.

Le traduzioni in italiano degli haiku sono a cura di Salvatore Cutrupi.

 

 

 

 

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Cassetta della posta

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

Voce d’autore       —————————

Le cose splendono altrove

Luca Pizzolitto, “Crocevia dei cammini”

di Giovanni Fierro

Per nulla accomodante, la poesia di Luca Pizzolitto trova il nervo più nascosto del nostro esistere. E lo mette in evidenza, lo sottopone all’attenzione e al riconoscimento del suo significato. Per dire cosa è rimasto, quali sono le certezze che non sono svanite. E c’è poco da fare, sono rimaste quelle che fanno più male.
Il suo “Crocevia dei cammini” diventa così tanto un desiderio di incontro, quanto un luogo lasciato alle spalle, che non ha più la forza di sopravvivere alla solitudine, alla desolazione emotiva del nostro presente, della nostra società.
Certo, non è un arrendersi, perché Pizzolitto rimane aggrappato ad un desiderio che gli fa scrivere che “nasca, la nuda parola/ si volga ancora in canto”, sapendo bene che è la poesia stessa la possibilità di riscatto, di nuovo inizio.
Ma prima c’è il mondo, pronto per “andare in pezzi, fiorire un mattino”, nel quale comunque riconoscersi per accertarsi che “mi sopravvive il tempo/ ed ogni carezza”.
Certo non tutto è perduto, ma il senso di esilio da ogni possibile e augurata gioia è forte e palpabile.
“Crocevia dei cammini” è un libro fatto anche di cieli. C’è quello che attira con la propria gravità, “i miei silenzi/ cadono sul cielo bianco/ di aprile”, e di cui non sapremo mai se è in grado di attutire la caduta o di renderla più dolorosa; e quello che si travasa nel proprio vissuto, “è notte, si riempie di cielo/ la mia lontananza”.
E in questo quadro per nulla rassicurante è la prima persona, l’io, che si fa carico del vivere, è il che si confronta con il mondo e l’oltre mondo.
Di sicuro dentro il movimento di un pensare che contiene “questa necessità di essere/ visto, contenuto, amato”. Ancora il desiderio di non essere sconfitti, riconoscere “il taglio del rovo, portare in salvo/ le cose e, da esse, essere salvate” e, ancor di più, “allenare gli occhi e il cuore/ all’esercizio misurato della gioia”.
Ma non è facile, proprio per niente, perché tra persona/autore e mondo, ad incidente avvenuto, non c’è mai una constatazione amichevole: “noi andiamo sempre verso un tempo,/ una stagione che non sappiamo”. Forse dove fa anche più male.
O forse no, perché “le cose splendono altrove”. E non c’è comunque più possibilità di scelta: “il mio cuore scende tra le foglie/ e lascia spazio al cielo”.

 

dal libro:

È il cadere atroce della bellezza
tra la fame e il rantolo della ragione
non è muta la polvere

questo silenzio tra i nostri corpi
il fragile inganno delle mani.

*

Sia benedetto il vuoto
che ingoia e mastica,
sia benedetto il tempo
avaro di speranza,
sia benedetto il pianto,
la nuda miseria, la malattia.

I bianchi fiori recisi
dei nostri deserti.

*

Allenare gli occhi e il cuore
all’esercizio misurato della gioia

in questi giorni in cui il tempo
si fa carne, volto, respiro.

Verso cosa siamo andati
per sprecare così tante parole?

*

Nell’alba scura di fine febbraio,
nel tuo mare asciugato dal pianto,
sulla ferita aperta di un domani
migliore, il dolore incompleto
della mente

il volto della sera si apre
sulla miseria delle strade:
nasce il giorno, oltre il mio tempo,
si veste di minuscoli fiori rosa
il ramo del pruno.

 

 

Intervista a Luca Pizzolitto:

Prima cosa, il titolo: “Crocevia dei cammini” è un invito a ciò che viviamo, o a ciò che stiamo perdendo? -Perché sembra proprio che “Crocevia dei cammini” esplori molto bene un punto di non ritorno…
“Crocevia dei cammini” è un monito e, nello stesso tempo, una descrizione precisa; “Crocevia dei cammini” vuole dire del tempo sacro dell’incontro: con se stessi, con gli altri, con un’alterità che trascende e supera l’umano.
Il titolo della raccolta riporta a quel qualcosa che avviene nei momenti più inaspettati, quando tutto sembra già deciso, tracciato, irremovibile. Eppure c’è, c’è sempre, anche solo un brevissimo istante di kairos abitato dalla possibilità di un qualcosa che vada in maniera differente.
Questo è, dal mio punto di vista, un punto ottimale di “non ritorno” che nasce, sempre, da un incontro: fisico o spirituale, con una persona, con una realtà che rimette te, le tue insicurezze e fragilità, le scelte che attendono risposta, al centro di un incrocio (non più simbolo di smarrimento e confusione, ora, ma prospettico di un nuovo scenario di possibilità).
Scriveva Ungaretti, insieme all’amico Vinicius De Moraes: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro“.
È così. È davvero così.

Tutto questo tuo nuovo libro sembra anche dire che ogni cosa è misurabile. Ma allo stesso tempo che il vivere, il ricordare, il dimenticare, il desiderare, i volti e i nomi, i desideri e i peccati, sono un qualcosa che si può affidare solo alla poesia. È così?
Ogni cosa è misurabile da un punto di vista matematico, scientifico, razionale; ma è altrettanto vero che niente è misurabile con precisione assoluta su un piano intimo, di interiorità.
Trovo che questi due piani, caratteristici della nostra natura umana, vadano rispettati e coltivati entrambi. Non solo, vanno anche messi maggiormente in comunicazione tra di loro.
Sono convinto che la poesia abbia un forte ruolo catartico per l’uomo: una capacità importante di porre un freno alla deriva mentale della colpa, del dolore, del senso di inadeguatezza che ognuno porta con sé. Certo, la poesia (e l’arte, più in generale) non è un qualcosa di risolutivo; sarebbe anche troppo semplice, così.
È senz’altro, però, un qualcosa di prospettico, uno strumento che permette di rileggere ciò che è stato con un alfabeto differente da quello usato finora. E questa possibilità enorme è data, secondo me, dalla forza ancestrale che conserva la parola poetica.
Diceva Ritsos che le nostre parole vere giacciono nel silenzio.
Io, a questa cosa, credo fermamente: credo che la parola poetica sia una parola vera, che attinge la sua viscerale forza trasformatrice dalla fonte più pura che ci sia: il silenzio.

Nel particolare, di pagina in pagina la polvere diventa presenza importante. Cosa significa? Perché mi sembra che ci sia un muoversi fra la polvere e ciò che è rimasto, di questo mondo….
La polvere è un’immagine che, fin dal libro precedente, (“La ragione della polvere”, peQuod, 2020) ho sempre trovato ricchissima di significati, di richiami simbolici, archetipici.
La polvere si accumula sulle cose dimenticate, più o meno volontariamente abbandonate, lasciate al lento naufragio del tempo; la polvere è simbolo dello scorrere e della caducità di tutto ciò che è creato e, quindi,
destinato ad una fine; la polvere è ciò che resta e sopravvive ad ogni cosa (noi umani compresi) al concludersi del proprio ciclo di vita; la polvere è anche, però, quell’insieme di particelle minuscole ed insignificanti che, quando in una stanza entra un soffio di aria fresca, si solleva nell’aria, e se ci guardi attraverso, vedi, definito e potente, il riflesso inconfondibile della luce.

Tanto si vive in “Crocevia dei cammini” come un’apertura ad ogni intensità del vivere, e tanto si vive anche una difesa da tutto questo. È così? È un necessario, e anche inevitabile, attrito del proprio stare al mondo? E in questo domandarsi c’è una prima persona singolare, un io che si fa carico di tutto ciò, mi sembra, comunque un invito a non arrendersi…
Scriveva Ermes Ronchi, in un libro che lessi parecchio tempo fa, che “la bellezza è trasparenza di una lontananza”.
Trovo che questa frase esprima, in parole diverse ma in comunanza di significato, ciò che chiedi tu nella domanda.
Il cammino dell’uomo, per quanto scosceso, ferito e sanguinante, ha sempre, come attesa, il desiderio di una bellezza più grande, che trascenda la ripidità di questo andare verso una cima che pare mai arrivare.
Io penso che la bellezza abiti ogni essere vivente; e non ci sia nessuna esperienza in grado di cancellare questa scintilla divina che ha dimora in noi. Certo, violenza, abusi, traumi, malattie fisiche o psichiche, sono in grado di far precipitare questo minuscolo seme negli abissi più neri e distanti; ma rimane sempre, come dicevo, se non una traccia, almeno un inespresso desiderio di bellezza, nell’uomo: in tutti gli uomini.
Che però, come dice Ronchi, è trasparenza di una lontananza. Quindi è, molto spesso, un qualcosa di estremamente fragile, corruttibile, che si vede sollevando il proprio dolore e la propria storia in controluce.
E a volte è così difficile trovare anche quel minimo spiraglio di luce che faccia vedere attraverso, in prospettiva…
Questa è, secondo me, la tensione che tu rilevi chiaramente, nelle mie poesie: un continuo attrito con il mondo, interiore, doloroso e circostante, ma che giunge o, perlomeno, anela disperatamente ad un’apertura verso uno spazio di cambiamento e bellezza.
Con la consapevolezza che, alla fine di tutto, “ci sopravvive il tempo/ ed ogni carezza”; ovvero la capacità di essere, anche a fatica, altro dalle nostre paure e fragilità, diventando dono per le paure e le fragilità di chi incontriamo lungo la strada.

Questo tuo nuovo scrivere ha la volontà di approfondire, di non accontentarsi. E quindi, più del pane. e più del sapere, in “Crocevia dei cammini” c’è la presenza della fame. Ma quale fame?
In “Crocevia dei cammini” (e, forse, ancora maggiormente nel libro che sto scrivendo in questi mesi e che si intitolerà “Getsemani”) tornano assai di frequente le parole fame, sete. E sono, proprio come dici tu, un qualcosa di fortemente “altro”, che travalica il semplice nutrirsi (o dissetarsi) materiale.
È una sensazione di incompletezza che mi sta appresso, vicino, da tempo, ormai. È una sensazione di insoddisfazione (implicita, secondo me, nella stessa condizione di finitudine propria dell’essere umano) ma che in una certa qual misura, sento accresciuta, sento fortemente richiedente verso di me, per la dimensione di vita che vivo; vita in cui ho tutto il necessario, ma che percepisco in maniera chiara ed assoluta, mancarmi qualcosa di fondamentale.
Questo, per me, rappresentano – ora – queste due parole (fame, sete) che mi accorgo tornare spesso, spessissimo, in ciò che scrivo.
Concluderei questa intervista con una citazione di Philippe Jaccottet, che ben racchiude sia il senso che io colgo di questa intervista, sia quel significato di continua tensione verso un qualcosa che vada oltre, cui la poesia si avvicina grandemente ma che, per fortuna, nemmeno lei riesce a raggiungere, precipitando così nuovamente l’essere umano nella condizione di finitudine, ma con un retrogusto di desiderio nuovo, di bellezza forte.

 

L’autore:
Luca Pizzolitto è nato a Torino, città dove vive, nel 1980.
Da circa vent’anni si occupa di poesia, pubblicando diversi libri.
I più recenti sono “Il silenzio necessario“ (Transeuropa 2017), “Dove non sono mai stata” (Campanotto 2018), “Il tempo fertile della solitudine” (Campanotto 2019), “Tornando a casa” (Puntoacapo 2020) e “La ragione della polvere” (peQuod 2020).
Nel 2008 ha vinto il Festival Arezzo Poesia, nel 2014 il Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri e nel 2019 il Premio Internazionale Città di Latina.
Da fine 2021 ho la curatela del blog e della collana di poesia portosepolto, per conto della casa editrice peQuod.

www.lucapizzolitto.it

(Luca Pizzolitto “Crocevia dei cammini” pp.103, 14 euro, peQuod 2022)

 

 

 

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39 gradi 6

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Tempo presente       —————————

Pulire le parole

Maddalena Fingerle, “Lingua madre”

di Laura Mautone

A Maddalena Fingerle mi legano diverse cose. A parte la provenienza dallo stesso territorio, l’amore per la lingua, una certa insofferenza per alcune caratteristiche del Sudtirolo, soprattutto una fortunata coincidenza: la mia prima supplenza di Filosofia a scuola la devo alla sua nascita. Era il 1993.
A parte questo dettaglio irrilevante, ma simpatico, se non altro per lo scorrere del tempo inesorabile, Maddalena è un´entusiasta.
Quando, dopo aver letto d´un fiato il suo libro, le ho scritto per farle i complimenti e chiederle di concedermi una intervista, le sue parole sono state “scoppiettanti” di gioia.
I suoi post su Facebook lo testimoniano: riesce a condensare in poche righe gioia e dolore, corse e conquiste, gratitudine e straniamento, insieme a formule benauguranti, ripetute per tre volte, che magari porta fortuna.
Maddalena Fingerle è nata a Bolzano, ha studiato Germanistica e Italianistica a Monaco di Baviera. Nella sua tesi di dottorato, discussa da pochi mesi, si è occupata delle strategie di evasione in Tasso e Marino. Alcuni suoi racconti sono usciti su Nazione Indiana, Crapula e Narrandom.
Il suo pluripremiato primo romanzo “Lingua madre” (Premio Italo Calvino 2020…), giunto già alla quarta edizione, ha il pregio di unire interessanti riflessioni teoriche sulla lingua italiana e su quella tedesca, sulla loro percezione e sulla traduzione, con una particolare sensibilità anche visionaria e uno sguardo disincantato sulla realtà storico-sociale del cosiddetto “bilinguismo sudtirolese”, sulle idiosincrasie e contraddizioni di quella terra.
Questi aspetti sono assolutamente e armoniosamente uniti ad una trama che incuriosisce e muove a leggere con la stessa ossessione di cui il protagonista parla a proposito dello “sporcare le parole”.
Al di là della vicenda di Paolo Prescher e del suo esito, che rimane in fondo abbastanza ambiguo, anche se permane un´impronta fortemente drammatica, ciò che è particolarmente riuscito è lo stile che la giovane autrice ha scelto: originale, fresco e insieme ossessivo, un po´ come i temi e i luoghi di cui parla.

Intervista a Maddalena Fingerle:

Come è nata la tua passione per la scrittura?
Al liceo partecipai a un corso di scrittura, che era più un corso di lettura, in cui c’era Giorgio Vasta che usava un linguaggio vertiginoso con estrema precisione e parlò anche del Premio Calvino. Fu in quell’occasione che pensai che mi sarebbe piaciuto scrivere.

Passiamo al tuo romanzo: hai ricevuto tantissimi riconoscimenti, oltre al Premio Calvino (XXXIII edizione), che ha portato alla pubblicazione, il Premio Comisso giovani Under 35, il Premio Flaiano Under 35, il premio Comisso, e altri che non diciamo per scaramanzia, uscirà in febbraio la traduzione tedesca per Folio Verlag (traduzione di Maria E. Brunner) tantissime interviste, recensioni, presentazioni online e in presenza … Come ci si sente?
Sono molto grata, in particolar modo al Calvino e alla Italo Svevo, dove ho trovato una grande accoglienza sia umana che professionale.

“Lingua madre” è un romanzo (quasi un romanzo di formazione a rovescio), che parla di Paolo Prescher, un giovane bolzanino, che vive in una famiglia disfunzionale (o almeno così ce la descrive lui): la madre, che piange sempre e crede di essere un´artista, una creativa, perché dipinge; la sorella Luisa, presa da sé e dai ragazzi, che gioisce quando gli altri stanno male; il padre affetto da mutismo; Paolo che mostra una sensibilità particolare. Soprattutto è ossessionato dalle “parole sporche”, per questo, ad un certo punto, non sveliamo perché, decide di andare via da Bolzano, dove tutti “sporcano le parole”, andare a Berlino e non parlare mai più in italiano. Ci puoi spiegare cosa intendi e perché questa idea di “pulire le parole”?
A “pulire le parole” a Paolo è Mira, la ragazza milanese che conosce a Berlino: significa, per lui, essere ascoltato, essere accettato con le sue stranezze, essere amato.
Mira parla pulito perché è sincera e l’intenzione – sempre nella prospettiva del protagonista – corrisponde alla parola.

Questa idea ha a che fare con la particolare situazione altoatesina/sudtirolese… dove “tutti sono bilingui come io” … Come è stata recepita in Sudtirolo e fuori la tua dissacrante (e reale) descrizione della realtà sudtirolese?
A parte qualche critica che confondeva il piano del reale con il piano fittizio, per cui ci si aspettava che io o il romanzo trovassimo soluzioni per la situazione socio-politica del bilinguismo è stato apprezzato per quel che è: un romanzo.

Che cosa vuol dire sentirsi a casa nella lingua? E tu in quale lingua ti senti a casa?
Sentirsi a casa nella lingua significa riuscire a esprimersi con sicurezza o avere l’impressione di riuscire a esprimersi al meglio.
Io non mi sento sicura, linguisticamente parlando, in nessuna lingua, ma quella in cui mi sento più a mio agio è la mia lingua madre, l’italiano. Il tedesco l’ho imparato ed è la lingua che più mi affascina.

L´ossessione per la lingua o la passione per la lingua? Quanto ti hanno influenzato le tue ricerche per il Dottorato a proposito di Giambattista Marino e dell´Adone… nel Barocco la lingua e l´estenuazione delle sue potenzialità metaforiche sono uno dei nodi fondamentali (Tesauro, ecc.) Paolo Prescher è l´anagramma di parole sporche, ad un certo punto madre e merda …
L’ossessione è sempre passione, secondo me. L’Adone mi ha molto influenzato, soprattutto per l’atteggiamento giocoso dell’amalgama delle citazioni, che ho utilizzato per Paolo in funzione di una sua incapacità di affrontare temi emotivi. Così, quando è in crisi o è emozionato, attinge al serbatoio delle letture e delle citazioni letterarie.

Nel libro ad un certo punto parli di parole che riempiono la fame (p.61): che cosa intendi? E quali sono queste parole?
Per Paolo le parole hanno un suono, un odore e un sapore. Alcune parole riescono fisicamente a sfamarlo: globo, per esempio, è per lui un pasto completo, aiuola è un capriccio, come lo è lo zucchero filato che gli riempie la bocca. Altre parole, come il glicine, sono liquide e lo dissetano, altre sono uno spuntino, come intonaco, che gli impasta la bocca, altre ancora gli vanno di traverso, come biglia.

Le tre parti del libro presentano ritmi e atmosfere diverse, pur nella continuità della trama e delle vicende presentate: l´inizio a Bolzano, una progressiva crescita del disgusto – l´oasi felice del linguaggio a Berlino – il ritorno ricco di aspettative a Bolzano, che si rivela poi cupo, con la madre che sporca di nuovo le parole e il finale … in un crescendo di inquietudine e ansia, dettate anche dalle scelte stilistico-sintattiche e lessicali che operi …
Esatto: le tre fasi seguono il cambiamento del protagonista, così anche il linguaggio cambia in base a come si sente. Se nella prima parte Paolo è oppresso e il suo linguaggio ossessivo, nella seconda il protagonista si rilassa e sta bene, si anestetizza e il linguaggio si distende per scoppiare nella terza e ultima parte, nel delirio della voce narrante.

Nel tuo romanzo ci sono molti riferimenti alla lingua tedesca e anche soluzioni ardite: parole inventate, liste e ripetizioni … ci spieghi i motivi di queste scelte stilistiche?
Le ripetizioni sono funzionali all’ossessione del protagonista. Nell’ultima parte Paolo perde il controllo che aveva ricercato ossessivamente per tutto il romanzo e le parole si svuotano di significato, a causa della sporcizia. Non credo ci siano parole inventate.

Il personaggio di Paolo è molto sarcastico, tu, invece, sei così graziosa e dolce … da dove viene tutta quella rabbia?
Si vede che mi conosce poco! La rabbia di Paolo è dovuta all’ambiente oppressivo in cui cresce e che, nella sua mente, è un tutt’uno con quello della città.

Il finale è volutamente aperto, anche se si percepisce una tensione emotiva e un´inquietudine molto forte: perché questa scelta?
Il finale è aperto fino a un certo punto perché, sebbene non vengano descritti i dettagli, è chiaro quello che succede e che succederà. Ho scelto l’allusione perché la sentivo come una scelta delicata, e adatta alla voce narrante, per una scena già di per sé molto violenta.

 

Dal libro:

“[…] Fragola è una parola che mi fa venire il prurito sulla lingua. […] Il fatto è che alcune parole tolgono la fame perché riempiono lo stomaco, anche al di là della cadenza e della dizione. Globo, per esempio, è un pasto completo, aiuola è un capriccio come lo zucchero filato e riempie la bocca, e poi ci sono parole liquide che ti rinfrescano e ti dissetano, come glicine, e quelle che sono come le merende o uno spuntino, e tra queste c´è intonaco che ti impasta la bocca ma è bello come lo fa. Ci sono anche parole che vanno di traverso, come biglia, che fa fatica a scendere ma quando scende la senti nella pancia. E dipende tanto anche da chi la pronuncia.”

 

L’autrice:
Maddalena Fingerle è nata a Bolzano nel 1993, ha studiato germanistica e italianistica ed è ricercatrice universitaria,
Il suo primo romanzo è “Lingua madre”, che ha vinto il Premio Italo Calvino, il Premio Comisso under 35, il Premio Flaiano under 35, il Premio Città di Girifalco, il Premio Fondazione Megamark e il Premio POP.

(Maddalena Fingerle “Lingua madre” pp. 200, 17 euro, Italo Svevo Edizioni 2021)

www.maddalena-fingerle.com

 

 

 

 

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Autunno in città

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ——————————

In un silenzio da non potersi quasi scrivere

Daniel Gahnertz, “Golden oldies”

di Giovanni Fierro

Ho scritto “Golden oldies” tra il 2009 e il 2010 quando lavoravo con le consegne della spesa a casa di anziani non completamente autosufficienti”. Queste le parole in apertura di libro, che il suo autore Daniel Gahnertz pronuncia, nell’introdurre il lettore alla lettura di queste sue pagine.
E poi il poeta svedese che vive a Goteborg va ancora più nello specifico, nell’anima di questa sua raccolta: “Cera una tragicità in questi anziani che vivevano più o meno sempre in lockdown, prima del lockdown finale, la morte”.
La quotidianità di chi vive in difficoltà, in ogni propria fragilità di salute e mentale, nei giorni ultimi che preparano a ciò che non sarà più. Tutto questo Gahnertz lo affronta e lo racconta, e la grazia di questa sua scrittura è proprio quella di mantenere questi protagonisti persone, senza farle diventare personaggi.
Il tubo di gomma che le usciva dal naso era collegato/ alla bombola d’ossigeno nell’ingresso./ ‘Non calpestare il tubo” sbuffò dal tavolo della cucina’”, e anche “ma ormai sapevo che metteva il porta catetere/ in frigorifero/ schizzando sulla confezione aperta del latte”.
L’autore ci parla di queste donne e di questi uomini con una sincerità che vive la necessità del quotidiano, e anche le sue mancanze, i desideri oramai sopiti, le dipendenze che piano piano sono diventate una nuova carta d’identità.
Gahnertz entra in contatto con ognuna e ognuno di loro, costruisce un dialogo, una disponibilità, un ascolto.
Tutto il libro è quindi uno spaccato sociale, una ricognizione d’anime, giorno dopo giorno, ben sapendo che questo sopravvivere, in ogni momento, ha sempre tutta la morte attorno.
Così la sua poesia mette al mondo una intimità che diventa anche geografia sociale, da dove guardare il mondo e poterlo giudicare: “Dalla casa si vedevano la valle/ e il termovalorizzatore di Sãvenãs./ “Pensa! Undici comuni ci scaricano l’immondizia, cacchio dovrebbero/ bruciare/ le loro schifezze a casa propria!”.
L’importante è dare voce ad ognuna di queste persone, anziane nell’età ma vive e aggrappate al respiro sorgivo come ogni bambino, adolescente e adulto. Ognuna a modo proprio: “Nel cestino del deambulatore c’erano un mucchio di disegni/ il cui soggetto era solo Elvis, a colori vivaci/ come di un bambino di sette anni”; “fumo lo stesso/ finché non sarà finita … la vita mi sta davanti/ e dietro … mica avrai dimenticato le sigarette?”.
E di loro Daniel Gahnertz, con pochi tratti di parole, riesce sempre a tratteggiare un ritratto perfetto: “Florence era stata in 127 paesi/ bartender diplomata/ marinaia a 21 anni/ aveva visto la fine di un matrimonio/ e morire suo figlio monaco buddista”. Quanto basta per creare fiducia, quel campo sempre più piccolo ed irrisolto dove potersi incontrare, dove riuscire a capirsi; anche solo imparare che “I piloti di guerra inglesi avevano un’ottima vista grazie ai mirtilli…/ mi ha detto mio cognato…”, e rendersi conto che “Incrociò le braccia come il bordo di una fontana/ i cui delfini erano i seni/ già in tuffo verso le ginocchia”.
“Golden Oldies” è un libro di poesia che sa entrare nelle pieghe più nascoste di uno spaccato di società che si sta muovendo sempre più verso il margine dell’attenzione comune; sapendo dare dignità a chi sta affrontando l’ultima stagione della propria vita.
In una solitudine dove potersi far dire che “Tu e io, ja, abbiamo animo di artista… sappiamo/ che la ferità sta qvi dentro!”/ Si tamburellò la tempia/ e io non potei che essere d’accordo”. Un’altra verità che si aggiunge.

 

Dal libro:

II

La signorina Ahrenberg voleva sempre vedere
cosa non ricordava
di aver ordinato.
Fui costretto a tirare fuori
le cose una a una.
Indicava col bastone le prime volte
prima che imparassi
che dentro lo sportello sotto il forno teneva il pane
che ovviamente
il pacchetto vecchio del burro andava
sopra a quello nuovo.
Fece “gnam gnam” alla vista del succo
e la dentiera suonò le nacchere.
“L’estate è piovuta via” disse
restando però ferma a quel poco
di vita che le
rimaneva.
“Tanto non può essere
peggio di qualsiasi altro giorno…”
Va’ in Svizzera allora
pensai scendendo in ascensore
via dalla megera
in un silenzio da non potersi quasi scrivere.

*

XXII

Il tubo di gomma che le usciva dal naso era collegato
alla bombola d’ossigeno nell’ingresso.
“Non calpestare il tubo” sbuffò dal tavolo della cucina”.
“No no” dissi io evitandolo con un salto.
Berit con il quadretto “casa dolce casa”
sulla parete della cucina soffriva di una grave forma di asma
BPCO
bronchite
polmonite
e quando parlava gorgogliava
come un documentario sulla natura
subacquea.
“Non cominciare mai a fumare, dammi retta!!”
Tossì espellendo uno sputo di catarro
che andò a riempire alcune caselle vuote
del cruciverba.

*

XXIX

Quel brontolone di Åke aveva con il tempo
una relazione a distanza.
Mi aprì dopo un raccapricciante urlo da soprano:
“SI I I-I-I-I-I I I!”
con i testicoli che spuntavano dall’orlo della T-shirt.
“La gioventù di oggi non sa niente della guerra…quando fui
chiamato alle armi
durante la seconda guerra mondiale dovevamo proteggere
l’udito…dovevamo stare distesi, sì, stavamo a lungo a terra
in quella specie di trincee circolari,
coperte da un disco metallico sul quale cadevano le granate… e
non potevamo proteggerci le orecchie! Pensa te! Un delirio!”
Le orecchie erano pelose come quelle di un gatto norvegese delle
foreste e dal naso antenne spesse come le zampe di un moscone
puntavano
la tv sempre accesa.
Mentre predicava dietro al deambulatore gli tremavano le gambe
e lo scroto pendulo scandiva
il tempo.

 

L’autore:
Daniel Gahnertz, giornalista, fotografo freelance e haijin pluripremiato in numerosi concorsi letterari, ha pubblicato “Golden Oldies” (“Fel Förlag”, 2012), “Non senza titolo” (Qudulibri, 2014) e “Empty little space” (La Ruota editore 2018).
I suoi haiku sono presenti in numerose riviste internazionali.

(Daniel Gahnertz “Golden oldies” pp. 135, 8 euro, La Ruota Edizioni 2022)

Le immagini di Daniel Gahnertz sono dei particolari tratti da foto di Remigio Gabellini, e sono tratte dall’archivio privato di Qudulibri.

 

 

 

 

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Donna con velo

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ———————————

La psiche mia s’impigliò nelle spine

Pier Franco Uliana, “Corrispondenze dal roseto boreale”

di Roberto Lamantea

È un giardino della memoria poetica, della lingua, idiomi, conglomerati stilistici il nuovo raffinatissimo libro di Pier Franco Uliana, “Corrispondenze dal roseto boreale”, vincitore del Premio Giorgi, coedizione qudu-Le Voci della Luna. Il poeta veneto torna in libreria dopo “Per una selva”, lirico canto pubblicato nel 2018 da Dario De Bastiani di Vittorio Veneto.
Uliana cantore, come Zanzotto, del bosco luogo della natura e della storia e di una léngua antica, “l’ytala silva dei volgari dove il poeta va ostinatamente in caccia della lingua della poesia” annota Giorgio Agamben nella bandella. Su tutto la rosa, fiore simbolo tra storia e iconologia.
“Corrispondenze dal roseto boreale” è una Spoon River dove la voce non è quella dei poeti ma quella dell’autore che a loro si rivolge in una sorta di mimesi stilistica, citando nomi legati alla loro biografia, sintagmi, versi famosi.
Si va da Dante a Hölderlin, Tasso, Leopardi, Petrarca, Pascoli, Anne Sexton e Sylvia Plath, Zanzotto, i russi (Mandel’štam, Gumilëv, Achmatova, Cvetaeva, Majakovskij, Pasternák, Brodskij…), sino a Celan, Ungaretti, Caproni, Montale, Franco Loi… Sia chiaro: nessun esibizionismo intellettuale.
Per Uliana la biblioteca è luogo di dialoghi con le ombre. Si veda “Lilium vs Rosa” sul fiore simbolo di Firenze, dove “il fiore è profano e pagano (odio il rosso/ fiorentino), è oscenità e vanità (l’oro mi ripugna)”; è la talea di Scardanelli, l’eteronimo con cui Hölderlin si firmava negli anni di reclusione nella torre di Tubinga; sono i “mazzi di fior fiore/ di parole” di Pascoli nel suo studio in Garfagnana; è “L’orto di Andrea”, dove la mimesi con la lingua di Zanzotto arriva a una vera unità, anche morfologica e sintattica, con la scrittura del poeta di Pieve di Soligo e la sua “Natura: Naturans/ et Naturata/ denaturata/ e snaturata”.
Così anche nello splendido testo su Celan, “L’infiorescenza di Paul”, dove la “rosa di nessuno” cita “Die Niemandsrose”, il libro del 1963, e la “sepoltura nell’aria” un verso della poesia più conosciuta del poeta rumeno-tedesco, “Fuga di morte”.
L’omaggio a Leopardi, “Il giardino di Giacomo”, è ricamato su sintagmi e lemmi famosi come il “mazzolin di rose” del “Sabato del villaggio”, la “donzelletta”, la “vecchierella”, la ginestra, la luna e il passo dello “Zibaldone” sul giardino fiorito (Zib. 4175 del 22 aprile 1826) come luogo di ogni sofferenza.
A volte è la poesia del Trecento a intonare questi versi, in una raffinata specularità simbolica e metrica. È una passeggiata lirica nella storia della poesia che, come scrive Ivan Crico nella prefazione, “decide di far parlare non chi è muto ma, ancora una volta, chi già in vita non si rassegnò, come la maggior parte dei suoi simili, a non dare una forma udibile o visibile a ciò che sentiva o pensava”.
È un libro difficile, ricamato di citazioni, e la lettura è anche un gioco a indovinarle (ma soccorrono le “Note dell’autore” a fine libro). A spiegare il paesaggio di Uliana è anche il titolo perfetto della prefazione di Ivan Crico: “Per periferie di spine”.

 

Dal libro:

Petali rinascimentali

La rosa è la radura nel bersò
del desiderio e il desiderio un poema
aperto alle parole della veglia
e del sogno, non c’è verso di dargli
la direzione, o stanza ottagonale
ad acquietarlo, una ricerca che
è un saliscendi per la biblioteca
della memoria pur di darne il senso.

Se d’ironia ti punge, nell’anima
ti fa oraziano e satiro nel corpo

*

La rosa è fior volubile, la cerchi
per il cortile volgare e per l’hortus
conclusus degli erbari, per la corte
latina e per i giardini botanici,
e te la trovi per caso tra cuore
e pochette del soldatino ferito.
Se poi l’elogio ne è scritto per ogni
corteccia allora ogni fonte è a rischio

d’inquinamento e i rovi guasteranno
i pascoli d’Arcadia e di radura

*

Tra i roseti di Granada

Prima toccò a gitani e omosessuali,
poi ai democratici, infine agli ebrei…
larve raminghe per un cielo perso:
l’empireo, quello ctonio, d’olocausto.

La psiche mia s’impigliò nelle spine
dei roseti, per terra di Granada
ora canta, senza temerne l’ombra,
come cicala del piombo ha saputo
rivestire le ali, sì da assordare
in eterno falangi di franchisti.

 

L’autore:
Pier Franco Uliana è nato a Fregona (Treviso) nel 1951 e vive a Mogliano Veneto.
Laureato in Filosofia, è stato insegnante. Ha pubblicato varie raccolte di poesie nel dialetto veneto del Bosco del Cansiglio: “Sylva -ae” (1985), “Troi de Tafarièli” (2001, presentazione di Franco Loi), “Amor de oṣei” (2007), “Fontana Parađiṣe” (2011), “La casa, la léngua e l’armelinèr” (2013), “Il bosco e i varchi” (2015, nota di Edoardo Zuccato) e “Per una selva” (2018, nota di Giorgio Agamben); e in lingua italiana “Lo specchio di Rainer” (2000), “Siderea arx mundi” (2009), “Pizzoc Panopticon” (2012), “Ornitografie” (2016), “Parlar al monte perché il cielo intenda” (2017); oltre a racconti, studi di toponomastica e di linguistica, tra cui “Lessico etimologico del dialetto rustico del Vittoriese” (2018) e “Voci del dialetto vittoriese di origine celtica e germanica” (2021, nota di Lorenzo Tomasin).
Ha ricevuto, tra gli altri, il Premio “Noventa-Pascutto” (1995), il Premio “Fondazione Corrente” (2001), il Premio “Pascoli” (2015), il Premio Speciale “Campana” (2019) e il Premio “Salva la tua lingua locale” (2020).

(Pier Franco Uliana “Corrispondenze dal roseto boreale” pp. 64, 10 euro, Qudu-Le Voci della Luna 2022)

 

 

 

 

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Notte d’inverno

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

Tempo presente       —————————

A Sauron

Sei testi

di Alessandra Flores d’Arcais

 

Sto passando l’estate

Sto passando l’estate
a consumare le suole
nel quartiere di Sauron
non c’ero mai stata prima
è pericoloso dicono
così sono sempre in allerta
temo gli agguati
di cani liberi e ringhiosi
parlo solo con voi
tutte le sante sere afose
mentre vi guido
lungo le strade dell’alienazione
tra scimmie urlatrici
e bradipi tridattili.
Non dovremmo inoltrarci
nei parchi incantati
attorno alle prigioni dei poveri
ma inseguiamo la luce
come insetti notturni
e la nostra amicizia
immortalata da questa estate surreale.

*

Mai una tregua

A Sauron
campagna e città
sono in guerra
da quarant’anni:
la fattoria scalcinata
brandisce il forcone
contro gli ecomostri
e la strada sterrata
lancia sassi a catapulta
sull’asfalto strisciante;
la roggia in trincea
difende anatre e pantianis
sparando getti d’acqua
verso la casa galera
da cui spuntano i coltelli;
gli orti
assediati dal cemento
mostrano i muscoli
al grattacielo parasole;
gli spaventapasseri
affogati nel mais
sfidano a calci e pugni
corvi, operai e betoniere
non ci sarà mai una tregua
per la campagna
già sconfitta
non solo a Sauron.

*

I ragazzi di Sauron

A Sauron
i ragazzi sfidano la vita
in bilico sui tetti ubriachi
calpestano vetri scalzi
e corrono nei vicoli nudi
al coprifuoco
si sotterrano
confondendosi tra i rifiuti
per eludere la psicopolizia
ribelli inutili
reclusi in un panottico.

*

Grappoli scuri

A Sauron
pochi Italiani
sono io la straniera
che si aggira nel buio
trascinata da un cane
a guardare con invidia
grappoli scuri
maturati tra il cemento:
donne mussulmane
che chiacchierano e ridono.

*

Gli zombi di Sauron

Vietato l’accesso agli strani
è scritto all’ingresso
ma Sauron
accoglie anche gli zombie.
Ne ho visto uno steso a terra
una sera
credevo fosse stecchito
ma si è rialzato
e ciondolava
farfugliava
puzzava soprattutto
e se ne è andato malfermo
sulle proprie gambe
mentre arrivava l’ambulanza.
Ne incontro spesso un altro
infagottato in un vecchio giubbotto
persino ad agosto
capelli unti
e sguardo vacuo
percorre sempre la stessa strada
senza meta
alla stessa identica ora.
C’è anche una femmina tra loro
chiamata Due Novembre
scheletro vestito
afflitto e solitario.
Si nutrono di alcol, droga e psicofarmaci
gli zombie di Sauron.

*

Alle fermate

A Sauron
si aspetta l’autobus
su sedie e poltrone sfondate
trascinate da casa
che a volte restano
per mesi o anni
alle fermate
scialbi salottini di periferia.

 


Alessandra Flores d’Arcais, diario di viaggio a Sauron

di Massimiliano Bottazzo

Una piccola silloge, un diario di viaggio metropolitano o entrambe le cose.
Una prosa poetica che racconta un territorio ben poco rassicurante e rasserenante, abitato da comparse più simili ad ombre, tanto prossimo quanto distante.
L’assenza di elementi che definiscano come bello lo spazio circostante narrato, contribuisce a rendere una sensazione claustrofobica
Inevitabile pensare alle atmosfere di Ballard, Dick, Pynchon, Burroughs.
Si alternano esotismi animali “tra scimmie urlatrici/ e bradipi tridattili“, a conflitti tra campagna e città “gli orti/ assediati dal cemento“.
Riconoscimenti dell’altro da sé “grappoli scuri/ maturati tra il cemento” e figure marginali tanto aliene quanto apparentemente più somiglianti.
Uno spazio pubblico condiviso, che fa da palcoscenico per le umanità che loro malgrado lo calcano.
Uno spazio suo malgrado arredato come “scialbi salottini di periferia“.
L’ autrice ci restituisce un pastiche dai tratti postmoderni che in realtà respinge, qui non c’è inclusione, piuttosto una fatica che si percepisce alla stessa lettura.
Viene da chiedersi se poi non venga piuttosto poeticamente narrato un luogo interiore di inevitabile sofferenza.

 

L’autrice:
Alessandra Flores d’Arcais è laureata in Lingue e Letterature Straniere moderne all’Università di Padova , con successivo Dottorato di Ricerca in Letteratura francese presso l’Università Statale di Milano.
Ha insegnato nelle università di Venezia e Udine come anche in istituti di diverso ordine e grado.
Ha tradotto saggi storici per le case editrici Guerini, Il Mulino e Einaudi.
Le sue pubblicazioni: il saggio di letteratura francese “Le Voyage en Icarie” d’Étienne Cabet (2002), i romanzi “Idem.” (2014) e “Scimmie di corte” (2015), la raccolta di poesie “Strappi” (2016) e vari interventi su tematiche di letteratura francese in opere collettive.
Alcune sue poesie sono presenti in antologie, riviste online e plaquette.
Ha partecipato a festival, manifestazioni, incontri e presentazioni di poesia e narrativa in Veneto e Friuli Venezia Giulia.
È stata segnalata dalla giuria al Premio letterario internazionale Casentino nel 2015, sezione poesia inedita ed è stata finalista al Premio Claudia Ruggeri (Versante Ripido) nel 2018, sezione poesia inedita.

 

 

 

 

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Interno 8

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

Voce d’autore       —————————–

L’effetto ottico dal fondo cieco

Alberto Mori, “In Fra”

di Giovanni Fierro

Bisogna partire dalle foto che Alberto Mori posta sul suo profilo facebook. Immagini che già dicono qualcosa, ma che poi lui reinterpreta, liberandole dal loro riconosciuto significato e regalandole nuova vita, nuove identità, nuove possibili interpretazioni. Un fare arte che ha in Marcel Duchamp un riferimento di qualità.
E questa forza rigeneratrice la si trova anche nel suo fare poesia, e in questo suo più recente lavoro, “In Fra”.
Libro singolare, raccolta di scritti che non si accontentano di trovare la bellezza, ma che sono anche capaci di farla saltare in aria, per vedere un po’ cosa succede, e un po’ denudarla, osservarla alla sua radice.
La vista del sole annuvola/ dinanzi all’interruttore cosmico”; è questa la grandezza misurata che fa del libro di Alberto Mori un continuo laboratorio di imprevedibilità.
E l’imprevedibilità è la cifra stilistica, non solo di contenuto, di “In Fra”, agente chimico che trasforma ogni sguardo, accelerante che abbrevia i tempi della combustione. Perché di certo queste poesie bruciano di una necessità di scoperta, di bisogno nel trovare nuovi punti di riferimento. Ma anche di riflessione e di pensiero.
Scrive bene Lucia Grassiccia nella postfazione del libro, nel dire di come nella poesia di Alberto Mori “sopravvive una tensione fra astrazione e percezione”; perché in ogni spigolo e in ogni angolo di questi testi si possono scoprire la “Limatura brevissima di luce/ Cenni ad irradio/ Smeriglio del volto”, ed è un qualcosa che si fa esperienza, vissuto profondo ed ampio, campionario di possibilità e attestato di esistenza.
Sì, “La retroazione distanzia// Inscrive arti ad intreccio alla carne”, nel corpo di quando ci si accorge che ogni manifestarsi dell’accaduto non è mai univoco.
Alberto Mori sfida le parole e lo sguardo, sfida se stesso, si mette in confronto con ogni essere umano, a cui chiede di uscire dalla confort zone della propria rassicurante sensazione, da quell’“Aria senza luogo” dove è pericoloso rimane rinchiusi.
Anarchico ed esploratore, Mori fa della poesia l’aritmetica più rischiosa, la grammatica meno tranquillizzante. Il primo passo del nuovo cammino “È accaduto// Limpido    Fra     Trasparenze”.
Soprattutto quando si è sicuri che il presente è più semplice di quello che ci sembra: “Novembre/ Dietro l’albergo/ Qualche mercedes parcheggia”. E invece proprio lì dietro “Scolma fessurato nel tombino” anche “Lo stesso desiderio del nulla”.

 

dal libro:

La distanza sola da pronunciare dopo….

“Hai parlato di Debussy
Mentre asciugavi le tazze”

Quando tutto manca
Nessun pensiero resta presente

Ricomincia dallo spazio possibile
Vuoto cauto appena più caldo

*

Il braccio fa leva

Da gomito a palmo

Il braccio sottrae

Mentre la mente

Smarca raptus utile

Da estorto fa mancanza

Senza appoggio Senza visione

*

Cielo

Illumina origine invisibile

Dalla città rientrano voci spente

La cornice sigilla bordi

Dal frame intatto pulsa addentro

*

Questa nota silenziosa

“Dove poteva essere e non era?
Ma ritorna…
Anche quando non è più”

Intervista ad Alberto Mori:

Ancor più che in precedenza, penso che in questo tuo nuovo scrivere, uno dei fattori portanti del libro sia, in qualche modo, l’imprevedibilità. Chi legge si trova sempre davanti ad un qualcosa che succede e che sorprende. Ti ritrovi in questo?
Non conosco mai, escluso il feedback delle riflessioni critiche e d’ascolto dei reading, fino in fondo quello che pensa un lettore; mi interessa, comunque, soprattutto “come pensa” di utilizzare quello che scrivo e cosa gli suggerisce di fare, più o meno prevedibilmente, non importa e per fortuna, non tutta la poesia va verso la poesia, ma è già nel vivente: proprio qui mi fa talvolta ritrovare.

E in che modo questo anima il tuo fare poesia? Perché mi sembra che il tuo scrivere sia una ricerca continua, un non accontentarsi, uno spingere il limite della percezione un po’ più in là…
Certamente, come insegna Marcel Duchamp: “Il caso è una probabilità fluttuante”. Anch’io combino qualcosa nella vita e nelle parole e ricerco fin quando raggiungo quella che definisco una buona “recettività operativa”e credo che questa azione del fare, crei proprio, lei stessa via via, il limite da interrogare.

E la percezione è spina dorsale di tutto “In Fra”. La si vive, la si respira… Ma è percezione di un qualcosa che c’è già, o di un qualcosa che potrebbe essere o diventare? Quel qualcosa che nel vivere a volte si manifesta, altre si nasconde sapientemente….
Viviamo in trasformazione continua: tutto / tutti/e vuole/vogliono visibilità. “In Fra” è un tentativo di tenere assieme la frammentazione del quotidiano, aggregandolo in un continuum che si svolge all’interno di una invisibilità conclamata, la citazione iniziale di Giampiero Neri, che si aprirà nei passaggi della raccolta; quello che è accaduto nella percezione chiara del presente, si troverà alla fine del percorso. Limpido Fra trasparenze.

Fondamentale è anche riconoscere il tuo stare in ascolto, la tua capacità di individuare quella voce che nasce dal vivere di ogni giorno, che sennò sfugge e di cui è facile non accorgersene. È come se tu riuscissi a mettere sulla pagina il respiro che mantiene in vita ogni esistenza…
Le voci si disseminano intermittenti nella raccolta. Sono notazioni brevissime in corsivo.
Il nostro ascolto è già naturalmente in 3D senza la tecnologia. In ogni momento ci siamo noi con la nostra soggettiva che ascolta, i rumori ed i suoni del mondo che ci circondano e la qualità d’ascolto con la quale ogni volta possiamo decidere di dare rilevanza di presenza al nostro dintorno silenzioso o sonoro.
A tutto ciò, anche senza la pagina e la scrittura, il verso della poesia concorre con la sua organizzazione essenziale della parola.

In “In Fra” c’è anche molto altro. Ad esempio, mi sembra, che sia anche un intenso confrontarsi con la propria mente, con il suo potenziale e con ogni suo possibile limite. È (anche) così?
Di sicuro non è un Mind-Challenge di lettura delle onde cerebrali: in alcuni passaggi è libertà combinatoria , dove le due particelle “In” e “Fra”, sono posizionate per essere attratte ed attrarre altre parole asintattiche che il lettore può comporre con il proprio occhio e con la voce, trovando ogni volta, se lo desidera, un equilibrio compositivo diverso.

E un aspetto fondamentale di questo tuo libro è il suo lavorare con il tempo, il suo esplorarlo, il misurarlo. Cosa significa questo per te? O cosa può significare….
Lo scrivo in un passaggio: “Aria senza Luogo” (pag. 36) e qui aggiungo che il vento si sceglie tutti i cronotipi che vuole….

 

L’autore:
Alberto Mori è nato a Crema, dove vive, nel 1962. Poeta performer e artista, sperimenta attività di ricerca nella poesia utilizzando in interazione vari linguaggi d’arte: poesia sonora e visiva, performance ed installazione, video e fotografia.
Ha all’attivo varie partecipazioni a Festival di Performing Arts. Dal 1986, numerose le pubblicazioni editoriali. Tra le più recenti “Esecuzioni” (2013), “Meteo Tempi” (2014), “Canti Digitali” (2015), “Quasi Partita” (2016), “Direzioni” (2017), “Minimi Vitali” (2018) e “Levels” (2020).
Nel 2013 e nel 2014, le sue raccolte “Esecuzioni” e “Davanti alla mancante” sono state finalisti del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano”.

www.albertomoripoeta.com

(Alberto Mori “In Fra” pp. 41, 8 euro, Fara Editore 2021)

 

 

 

 

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39 gradi 4

Dodici opere

di Antonio Colmari

Libroelibro        ——————————-

Tra i sogni di tante notti

Dacia Maraini, “Caro Pier Paolo”

di Laura Mautone

Inizia con un sogno questo epistolario postumo dedicato a Pier Paolo. Solo Pier Paolo, perché si tratta di un caro amico. “Stanotte ti ho sognato. Avevi il solito sorriso dolce e mi dicevi: ‘Sono qua!'”. Ma poi come spesso accade nei sogni l’uomo scompare inspiegabilmente. “È così strano che dopo tanti anni, nel sonno, io trovi ancora il modo di ricordarti e di vederti. Sei sempre il giovane cinquantenne che ho frequentato negli anni Sessanta e Settanta: il corpo agile, sportivo, la faccia seria, non imbronciata, ma pensosa, lo sguardo sognante, il passo deciso e sempre pronto a correre”.
Sulla copertina del libro compaiono due giovani: la donna, Dacia Maraini, dietro l’uomo, lo scrittore, tutti e due con gli occhiali da sole scuri. La giovane sbircia da sopra la spalla qualcosa che il giovane sta leggendo. Si nota una certa complicità e intimità e, se non fosse per le camicie improbabili, si direbbe una fotografia scattata ieri.
Il dialogo si ricostruisce attraverso la penna amica di una giovane donna che ricorda con tenerezza lo “sguardo mite, interrogativo,” molto lontano dall’immagine scandalosa e provocatoria che caratterizza Pasolini pubblico.
Da subito, però, Maraini racconta anche le improvvise sparizioni di Pier Paolo alla sera in trattoria, quando c’erano troppe persone a tavola. Ricorda anche il latte che gli avevano ordinato al posto del vino per contrastare l’ulcera, la sua dieta ferrea, senza fritti e sughi. Ricorda le cene che cucinava per lui nella villa a Sabaudia dove si erano ritirati con Moravia.
Anche in quelle occasioni a un certo punto della serata, Pier Paolo spariva, ma loro non si preoccupavano. “Sapevamo che prendevi la tua veloce automobile e andavi in cerca di quel ragazzino che eri stato e che ti sfuggiva da sempre“.
Dacia Maraini tesse una trama di ricordi attraverso i sogni o forse attraverso i sogni è Pier Paolo stesso che dialoga di nuovo con l’amica di sempre e le parla dei progetti che avrebbe voluto realizzare e che non è riuscito a portare a termine. L’immagine dello scrittore è un’immagine mite e arrendevole, nelle sue contraddizioni.
Maraini tenta tra le righe un’analisi anche psicanalitica: forse è nel buio di quel ventre materno nel quale volevi tanto tornare che sei finito. Forse ogni notte era quella la pace dei sensi che cercava nei corpi dei ragazzi. La morte di Pasolini è ancora avvolta nel mistero e Maraini sembra propendere per la versione della presenza di altri, oltre a Pino Pelosi, sulla scena del delitto, anche per l’inspiegabile ritrattazione del giovane dopo trent’anni.
Ritornano i resoconti dei vostri viaggi in Africa alla ricerca di luoghi e di quella volta che avete girato giorni e giorni solo per trovare il fumo adatto alla scena del tuo film. Non nasconde anche le discussioni sull’aborto: lei, che aveva sofferto sulla sua pelle la perdita di un figlio al settimo mese, in quel periodo in cui si diceva “il personale è politico”, ma soprattutto ricorda il momento della telefonata con l’annuncio dell’omicidio. Era scioccata, non le venne nemmeno una lacrima quando vide la bara chiodata.
Il testo contiene anche riferimenti alle opere e a alcuni versi del poeta che Maraini collega, a volte, agli eventi biografici: i viaggi, le amicizie, gli amori. Racconta delle aspettative deluse di Maria Callas e del loro incontro irrealizzato.
Insomma, queste lettere a un amico che non c’è più rievocano un’immagine personale e affettuosa di Pier Paolo. Da ritrovare.

 

Dal libro:

E così noi ballavamo, seguendo il ritmo dei tamburi, con una gioia del movimento fine a sé stesso. I piedi andavano da soli, battevano, giravano, saltavano giocavano, niente avrebbe potuto fermarli, le braccia volavano in alto, poi tornavano a intrecciarsi, le mani cavalcavano l’aria, le teste giravano come trottole e il vento faceva fluttuare le nostre camicie, mentre i nostri occhi si riempivano di allegria. Mi piace terminare con questa immagine felice il nostro breve incontro tra i sogni di tante notti che hanno seguito la tua morte. Addio, Pier Paolo, e che la morte ti sia più benigna della vita. Con affetto, Dacia.

(Dacia Maraini “Caro Pier Paolo” pp. 203, 18 euro, Neri Pozza 2022)

 

 

 

 

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Interno 7

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ——————————

Solo chiudere gli occhi appena un poco

Sabrina Giarratana, “Poesie nell’erba”

di Roberto Lamantea

C’è una linea, una rete di corrispondenze, nella storia della poesia, che lega intimamente i versi alla natura. È una linea che va grosso modo da Saffo al Virgilio delle Bucoliche e delle Georgiche a Tasso, Leopardi, Pascoli, l’Herbarium di Emily Dickinson sino ai nostri giorni e la “botanica esatta” di Zanzotto e Piersanti e che nel confine tra lirica, fiaba e poesia “per bambini” matura una scrittura che guarda al microcosmo di steli e fiori, all’incanto del tempo, per divenire con semplice profondità un inno alla bellezza della natura e della vita.
Un piccolo, emozionante e graficamente stupendo libro di versi/fiabe è “Poesie nell’erba” di Sabrina Giarratana, pubblicato da AnimaMundi Edizioni di Otranto con i bellissimi disegni – acquarelli e matite – di Sonia Maria Luce Possentini. Il libro ha vinto il Premio Pierluigi Cappello 2021.
Sabrina Giarratana vive nella campagna emiliana e i suoi versi delicati, dalle rime leggere – ogni testo in dieci endecasillabi variati in rime e assonanze – rinviano certamente a Rodari ma anche a tratti al Palazzeschi giocoliere di Rio Bo. Il simbolo del libro, e della poesia naturans, è lo stupendo disegno di pagina 6, un vecchio libro dalla carta ingiallita da cui germoglia un prato.
Sabrina Giarratana canta quel mondo incantato che è negli occhi di un pascoliano poeta-bambino. Sono poesie tessute di attese dell’alba, “la promessa di un giorno che non c’era”; l’odore della menta selvatica, che resta a lungo “tra il cervello e il cuore”; la capacità di rinascere dalle proprie ferite, la forza dell’attesa, mentre resta un segreto ciò che si dicono al tramonto “un albero padre e un albero figlio”.
E un inno: alla fragilità delle cose, al trascolorare, il passare dalla vita al suo ricordo.

 

Dal libro:

Ora dormi, con gli occhi chiusi segui
i contorni delle alte colline
dove ti nascondi nei giorni bui
troverai il sentiero dei rosmarini
e poi, più in là, quello delle ginestre
che ti porterà fino alla montagna
lassù, ti affaccerai alle finestre
tra le rocce, guardando la campagna
in basso, dove una piccola rosa
ti saluterà, vestita da sposa.

*

Alle tue piccolissime ali morte
alle vite bellissime, ma corte
alla fragilità della bellezza
a ogni nuovo addio, senza tristezza
a ogni cosa che rinasce e rimuore
e alla forza eterna dell’amore
alla meraviglia dell’universo
al miracolo ogni giorno diverso
all’essere qui, all’esserci stati
e alla fortuna di essere grati.

*

Certe sere ti bastano due cose
quando le gambe ormai si sono arrese
la stanchezza, perché hai corso abbastanza
e poter stare a fissare per ore
una fiamma, che scoppietta e che danza
e non vuoi niente di altro da fare
niente che ti distragga intorno
da questa fiamma alla fine del giorno
solo chiudere gli occhi appena un poco
spegnerti piano piano con il fuoco.

 

L’autrice:
Sabrina Giarratana è nata a Bologna nel 1965, da mamma olandese e papà siciliano. Il suo primo libro, “Amica terra”, illustrato da Arianna Papini (Fatatrac 2008) è entrato nella Selezione White Ravens 2009 dell’Internationale Jugendbibliothek di Monaco, selezione annuale dei 250 migliori libri per ragazzi nel mondo; nuova edizione Fatatrac 2015, Premio Il Libro nella Roccia Alta Badia 2016.
Del 2009 è “Filastrocche in valigia, viaggi dell’andata e del ritorno”, illustrato da Pia Valentinis (Nuove Edizioni Romane 2009, nuova edizione Parapiglia Edizioni 2021).
Grazie al Cisp, Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli, nel 2006 ha conosciuto il popolo sahrawi e nel 2007 ha fatto un viaggio nei campi profughi sahrawi di Tindouf, in Algeria, per scrivere il suo primo romanzo per ragazzi “La bambina delle nuvole, una storia del Sahara” (Rizzoli 2009).
Seguono “Piccole conte” (Fatatrac 2012, illustrato da Francesca Assirelli), “Conte incantate” (Fatatrac 2013), disegni di Paolo Domeniconi, con il cd del gruppo di voci a cappella dei Blu Penguin Vocal Band (nuova edizione 2019), “Filascuola” (Nuove Edizioni Romane 2013, illustrazioni di Vittoria Facchini).
Poesie di luce” è del 2014 (Motta Junior Giunti, illustrato da Sonia Maria Luce Possentini), dove è pubblicata anche la poesia “Una luce bambina” dedicata a suo fratello Daniele scomparso nel luglio 2014, il libro ha vinto il Premio Rodari nel 2015 e nel 2021 è stato ripubblicato da Giunti.
Con Il Leone Verde Edizioni ha pubblicato nel 2015 il libro “Canti dell’attesa”, illustrato da Sonia Maria Luce Possentini, ventuno poesie sulla gravidanza e la nascita, con la prefazione di Beatrice Benfenati, fondatrice della scuola di yoga in gravidanza dell’Associazione Asia di Bologna.
Nel novembre 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo per adulti “La parola muta” (Giulio Perrone Editore). Nel 2022 ha vinto il Premio Andersen come miglior scrittrice.

(Sabrina Giarratana, Sonia Maria Luce Possentini “Poesie nell’erba” pp. 62, 18 euro, AnimaMundi Edizioni 2021)

 

 

 

 

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Pianoforte con vaso di fiori

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Ti racconto        ————————————–

La prima montagna è il Korada

Una storia

di Luca Buiat

Ero ancora un ragazzo molto timido, quando avevo sentito per la prima volta il nome di un monte ignoto.
Una mattina molto fredda mi trovavo in una osteria a Cormons, dove dei signori anziani stavano sorseggiando del vino bianco, avevano appena detto soddisfatti: “Ha nevicato sul Korada!”.
Da allora quel nome iniziò ad attirare la mia curiosità, volevo sapere dove si trovava, come prendere una strada tranquilla e andarci in bici fino alla sua testa. Quel nome aveva già una forma, un qualcosa dentro di sé che dovevo scoprire, come se fosse una piccola pietra da esaminare con lentezza.
Non sembrava dalle voci che avevo sentito, troppo lontana da raggiungere in una mezza giornata o poco altro, ma quello che mi intrigava era che a volte in inverno ci cadeva la neve; quindi si trattava di una cima che lambiva il cielo, di qualcosa che stava al di sopra delle nostre care colline.
Capii che c’erano dei monti sospesi, fatti di roccia viva, che guardavano dall’alto il Collio, come se fossero dei custodi del cielo e della terra.
Ora sapevo che c’era ancora qualcosa di più vasto da esplorare, con uno sguardo ancora più esteso e largo dove metterci gli occhi e spingersi con le gambe ancora più in là.
Quando non sapevo cos’era la Brda e c’era ancora il confine a spezzare le terre del Collio, decisi di prendere una mappa geografica per conoscere a fondo i tanti posti in cui volevo un giorno andarmene per fare delle escursioni.
In paese c’era un’edicola dove ci si trovava un po’ di tutto: dai libri ai dolci fino ai giocattoli, quella piccola vetrina con le cartine colorate m’invitava a fuggire in mondi lontanissimi ma a volte, come nel Korada, vicino a noi, dove si srotolava la nostra vita, tra le altalene del Foro Boario e le corse improvvisate nei boschi di acacia che filavano sul Quarin.
Ne presi una molto dettagliata dove s’intravedevano quelle strade bianche che portano nei luoghi più segreti ed isolati.
Subito dopo l’aprii e con l’indice iniziai a guidare il mio istinto verso i colli orientali.
Il Korada si trovava proprio lì vicino.
Sfogliando ancora la carta della mappa, iniziavo già ad immaginarlo: aria nuova da respirare, dove posso scorgere un’altra finestra, dove è possibile aprire il cielo e stare lì a guardarlo in silenzio.
La sua grandezza, lo spazio e la solitudine dello spazio, dove sentirsi in Pace e fondersi con l’aria che respiri.
È la montagna più vicina a noi, dista solamente una decina di chilometri dal Collio.
Così iniziai a mente, a costruire il mio itinerario verso la mia prima montagna in bicicletta. Da Cormons pensai di andare a Brazzano evitando la statale e le auto, percorrendo i primi metri in Via Sottomonte, proprio sotto la riva del Quarin, per poi arrivare sotto la Chiesetta del San Giorgio e dei suoi millefiori, che stanno sul sagrato a guardare l’acqua che scorre sul fiume.
Da lì prendere la più delle classiche strade ombrose e fresche, la strada che costeggia lo Judrio.
Un tratto bello ed insolito dove incrociare i vari sentieri che vanno a camminare in salita dentro al cuore che accende il Quarin, altre vie, dove andare incontro alle anime d’acqua che si trovano nelle sorgenti nel Bosco di Plessiva.
Sono spiriti liquidi da osservare, che entrano ed escono dalla terra, tenaci e vivaci anche nelle giornate più calde. Li trovi lì ad aspettarti, pronti a colmare il tuo vuoto d’acqua, nella gola riarsa della bocca.
Altri posti poco conosciuti dove evitare l’asfalto e stare a contatto dentro il mondo naturale e bellissimo che circonda Cormons, un luogo ideale dove vivere la bellezza della natura.
Dopo una manciata di chilometri si raggiunge Vencò, si gira a destra verso la ex-dogana, si lascia a sinistra il Cammino Celeste, una splendida strada bianca che arriva fino a Scriò, un minuscolo groppo di case in cima ai Colli orientali.
Dopo il Casinò di Venkò, si arriva a Neblo, si lascia il cartello Dobrovo a destra e si i prosegue dritti, ed inizi a cogliere che sei già arrivato in un altro ambiente geografico.
Lo capisci dagli orti enormi che trovi accanto alla strada, dalle piante giganti raccolte che li circondano e proteggono, poi da lì c’è una lunga strada in salita.
Devi lasciare sulla sinistra la Gostilna di Peternel, a destra la strada che ti porta al ponte naturale di Krcnik.

È una strada incantata dove non trovi nessuno, le poche persone che trovi ti guardano in modo stupito, e sembrano chiederti il motivo della tua presenza. Trovi i loro sguardi sorpresi spiaccicati al vetro del finestrino delle loro auto.
Dopo una manciata di km, si trova una grande terrazza dove si spalanca una radura del verde più verde, vecchi camion abbandonati mutati in arnie colorate, abitate da migliaia di api. Fin da subito riconosci la frescura delle Valli, una chiesetta che fa da sentinella sopra un altopiano. Intravedi l’inizio della selvaggia gola dello Judrio, le alpi Giulie, e tutte le suggestioni che accogli con piacere e mistero quando sei nei paesaggi della vicina Slovenia.
Per finire un lungo sterrato ti porta sino al desolato rifugio, in mezzo alle malghe che sanno di erbe selvatiche e fiori che si muovono assieme al vento. Vento che da sempre accompagna le tue sgambate lungo le sconosciute strade del Nord-est.
Nella forestale, guardi enormi alberi solitari sul deserto verde, poi pietraie candide che ti annunciano felici con un brusio che finalmente sei arrivato in montagna!
Una distesa di faggi fortificata dalla propria inespugnabilità, dove la luce eterna del sole gioca a svelare luci e ombre nella magia del bosco al tramonto. Rocce umide che regalano sfumature iridescenti e luminose.
A volte è capriccioso il Korada e si arrabbia con te perché non hai voluto osservare quei nuvoloni blu che poco a poco si sono addensati proprio sopra le sue cime, e allora ti lava da cima a fondo fino ad inzupparti i calzini dei piedi.
Ti fa tremare le gambe dal freddo, ti chiedi dove sia finito il calore del tuo corpo e non riuscendo più a muovere i pedali della tua bici non sai più da che parte andare.
Non vedi l’ora che riesca il sole per asciugarti e scaldarti la pelle ma non ti arrendi perché sai che i tuoni e i lampi ti faranno vedere qualcosa che conosci molto bene.
Adori i temporali che si scatenano qui in estate, poi lo ammetti: volevi andartene in quota per goderti i contrasti multicolori che si aprono dopo la tempesta, il blu che si stende sui pascoli verde coccodrillo. Quei vapori bianchi che si alzano in alto come dei fantasmi, dall’asfalto incandescente appena bagnato dai goccioloni di pioggia.
Eccoli i primi raggi di sole, vanno ad appoggiarsi su quei rami dei castagni, ora sai che potrai tornare a casa asciutto, ma intanto ti godi quel momento che aspettavi quando guardavi per la prima volta quella cartina con la scritta in piccolo: Korada.
Il Korada non è solamente una montagna alta 810 metri, è qualcosa che vive, qualcosa che senti sulla pelle, ogni volta che ci torni lo trovi diverso, ogni volta che ti basta mezza giornata o poco più per scioglierti assieme al cielo.

 

L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons nel 1971.
Il piacere nei libri lo scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse. Dopo questo libro inizia a scrivere piccoli racconto e poesie.
Appassionato di paesaggi naturali che preferisce attraversarli a piedi o in bici, Buiat pensa che sia già tutto scritto. “Occorre a “noi” osservatori percepirne la lingua che sentiamo in mezzo ai nostri passi“.
Da qualche anno ha iniziato a frequentare i corsi di scrittura creativa che si tengono all’UNITRE di Cormons.

 

 

 

 

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Donne al bar

Dodici opere

di Antonio Colmari

 

 

Intervista ad Antonio Colmari:

di Giovanni Fierro

L’uso che fai dei colori è molto misurato. È una scelta, o una conseguenza del tuo pensiero di fare pittura?
Dipende dal tema trattato; in questo ultimo periodo, per esempio, si attiene a una visione realistica delle immagini proposte, e faccio riferimento agli interni e frammenti.
Altre volte c’è stata la necessità di vedere il colore come un qualcosa che proviene dall’animo, che è dunque espressione del sentire tumultuoso e personale.
L’uso che ne faccio rimane in generale quasi sempre subordinato ad una precisa logica dove il segno, la linea, i piani sovrapposti, danno vita all’immagine definitiva.

Ogni immagine da te creata sembra quasi che leghi assieme dei frammenti di un qualcosa che è successo. O anche dei frammenti di un qualcosa che rimane. Può essere così?
Quasi sempre l’impianto compositivo non presenta una centralità, al contrario parte degli elementi che costituiscono l’immagine risultano tagliati, e di conseguenza fuori inquadratura: come momenti magici di una realtà bloccata, di un fotogramma di un film.
Sì, proprio così, luoghi visitati di cui persiste un ricordo e sui quali si elabora una interpretazione, una visione.

E mi piace molto la sensazione che in questi tuoi lavori il tempo sia solo un contenitore, un momento nel quale incastonare il tuo voler raccontare…. ti ci ritrovi in questo?
In effetti sono punti di vista inconsueti: dall’alto, dal basso di scorcio, talvolta frontali, liberi di esplorare e di catturare l’attimo; punti di vista che la pittura coglie sempre nella parzialità dell’inquadratura; visioni sequenziali, poste in apparente e netto contrasto con la staticità delle immagini pittoriche. Sono parte fondante di un racconto dove il tempo sembra si sia fermato o congelato.
Si vive una sensazione di sospensione, quasi di nuova attesa

La presenza umana è minima, quasi assente. Eppure, si avverte una presenza di desiderio, di esperienza umana, di vita di ogni giorno. Sono gli oggetti che ritrai, che custodiscono un senso di umano che ha già vissuto, che è già stato esperienza?
Il pianoforte aperto, il quaderno degli appunti sul tavolo, la porta aperta che dà sulla terrazza con lo sfondo del mare, per citarne solo alcuni, raccontano di una presenza umana che c’è, ma che vuole lasciare spazio agli oggetti quotidiani, come dici tu.
Nella serie 39 gradi, l’assenza invece è sostituita da elementi: la sedia a sdraio, l’ombrellone, il mare, gli occhiali da donna, che fissano un passato lontano già vissuto, che è già stato esperienza.

 

L’artista:
Antonio Colmari nasce a Gorizia nel 1954. Si laurea all’I.U.A.V di Venezia in Architettura.
Insegnante in vari Istituti Superiori della Regione per le discipline: Tecnologie e tecniche di rappresentazione grafica, Disegno e storia dell’arte.
Inizia ad esporre in collettive e personali agli inizi del 2000. Vive e lavora nella sua casa-studio di Gorizia.

 

Questi i lavori di Antonio Colmari presentati nel numero di settembre di Fare Voci:

Frammenti 3
disegno su carta   2022

Neve e fragole
acrilico su tela   cm 40×60   2004

Cassetta della posta
collage   cm 40×50   2022

39 gradi 6
pastelli su carta   cm 210×210   2022

Autunno in città
pastelli su carta   cm 21×30   2021

Donna con velo
acrilico su tela   cm 60×80   2009

Notte d’inverno
acrilico su cartone telato   cm 40×560   2004

Interno 
disegno su carta   cm 21×30   2022

39 gradi 4
pastelli su carta   cm 210×210   2022

Interno 7
disegno su carta   2022

Pianoforte con vaso di fiori
collage   cm 50×70   2021

Donne al bar
smalto su tela   cm 70×100   2009

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.

 

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