Ci ritroviamo per una nuova puntata del percorso di “Fare Voci”.
Ospitando la voce d’autore di Viola Di Grado, nuovamente protagonista con il suo nuovo romanzo “Fame blu” e la nuova raccolta poetica dell’autore lettone Semën Chanin, “Sessione di ipnosi”, capace di una scrittura sempre sorprendente.
E con Antonio Nazzaro ci addentriamo nel quotidiano di quando si perde la propria madre, è “La dittatura dell’amore”.
“Molte cose” sono i cinque testi inediti di Doris Bellomusto, i ‘Margini. Di poesia ed altro’ sono quelli di Maddalena Lotter e del suo “Atlante di chi non parla”, e l’omaggio a Rino Cortiana.
Il libroelibro raccontato da Laura Mautone è di Vera Gheno,”Potere alle parole. Perché usarle al meglio”; Massimiliano Bottazzo ci porta a scoprire la poesia di Manuela Sallustio e Anna Piccioni ci presenta “Iz vetra in sanj – Di vento e di sogni”, nuovo libro di Erika Fornazaric.
Le immagini sono di Prisco De Vivo, presentato da Luigi Auriemma.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
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Ferdinand Savater tra il blu della sera e le carte stropicciate della memoria
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Voce d’autore ————————
E la notte un buio infinito
Viola Di Grado, “Fame blu”
di Roberto Lamantea
“Quando Xu mi morde, quando mi ha tra i denti, nuda e cattiva su di me, io sto bene. […] È cominciata in un pomeriggio di novembre, contro i vetri del suo appartamento a Wujiaochang, con i fari bluastri dei centri commerciali in piena faccia, ed è proseguita in luoghi meno personali. Ex fabbriche tessili e macelli anni Trenta, luoghi pieni di logica e di abbandono, architetture algide e ferrose, luce autunnale alla deriva su filari di lamiere in disuso. […] Ero lì solo da un mese e già mi sembrava casa, come sembrano casa tutte le cose che insieme soffocano e tengono al sicuro”.
È l’incipit magistrale di “Fame blu”, il nuovo romanzo di Viola Di Grado che arriva tre anni dopo “Fuoco al cielo”, sempre per La nave di Teseo. Il teatro è Shanghai, città labirinto da 30 milioni di abitanti, dove le luci della natura sono filtrate da smog, vetro, acciaio, interni ed esterni hanno una fosforescenza alla “Blade Runner” e un buio sporco, vecchi muri, prospettive di ruggine. E torri blu, un blu che inghiotte, e le persone sembrano olografie.
Al centro l’amore per Xu, enigmatica e bellissima ragazza che vive con la protagonista una storia di sesso sadomaso e di amore, amore vero, ossessivo, angosciato dalla possibilità della fuga e della fine. In cinese Wo ai ni significa ti amo, “anche se l’ideogramma “amore” ha dentro gli artigli, e la notte, un buio infinito”, si legge nell’ultima pagina del libro. Significativo che uno dei luoghi dell’amore sia un mattatoio.
Protagonista del romanzo, l’anonimo io narrante, è una ragazza italiana che lascia Roma per Shanghai, la città dove Ruben, il fratello gemello da poco scomparso, sognava di vivere e aprire un ristorante.
Mentre insegna italiano ai cinesi, la ragazza incontra Xu dai “capelli color catrame, mani sottili, gambe lunari”, e intreccia con lei una storia di desiderio, dipendenza e fuga che sarebbe piaciuta a Bataille.
Viola Di Grado scrive con un bisturi, incide le parole, le incide sulla pelle, nella carne, nei labirinti dello spazio, interni che sembrano Escher, grattacieli pugnali verso il cielo, colori acidi, una folla di personaggi-ombre che si muovono nel buio di viottoli e muri come ectoplasmi.
Ma dietro la ruggine c’è il dolore dell’essere vivi, un’umanità ai margini che forse non ha mai saputo che cos’è la speranza. È “la città dei soldi e degli amori veloci. Dei palazzi costruiti così alti per non vedere in basso la vita che implora”. E su tutto il pensiero ossessivo di Ruben, l’altro sé, la cui assenza è vissuta dalla protagonista come un’amputazione.
Sono molte le scene “forti” del romanzo, disegnate sulla pagina a pennellate ruvide, senza mai una smagliatura: Viola Di Grado sa tenere alta la tensione anche nelle pagine descrittive e trasformare gli ambienti in metafore delle psicologie dei personaggi, quasi dei correlativi oggettivi.
E c’è la pietà. La pietà per le persone, quando ricorda Nanjing Road, un tempo la via del piacere, “delle puttane a buon mercato e del cibo importato. Ragazzini emaciati venduti alle fabbriche lavoravano per quattordici ore al giorno, poi morivano come piccioni all’improvviso, tornando a casa, in un angolo di strada lercio di piscio e di scarti animali. Poi c’erano quelli non voluti. I bambini nati per sbaglio dal desiderio, da uno scampolo di amore vorace senza progetto, nati in un abisso di fame e di miseria, poi affogati nei canali di scolo: tra il 1920 e il 1940 furono ripescati ventinovemila corpi. E le donne-giocattolo dalle facce tonde e rosee uscivano dai seicentosessantotto bordelli del quartiere, ombre nere nei vicoli bui, accorpate e frementi come banchi di pesci, mentre tutto urlava o gemeva – il rumore del vivere è spesso simile a un urlo d’aiuto – sempre intente a scavalcare i corpi dei bambini, pelle grigiastra, denti vividi come quarzo”.
Ci sono le donne degli ombrelli, accucciate sulla strada, ad ogni ombrello è incollato uno strappo di carta con un nome e un numero di telefono: sono le mamme che cercano un fidanzato per le figlie.
Il mattatoio degli anni Trenta, dove la protagonista e Xu si amano a morsi, dove dal buio spuntano nere altre figure di amori fuggevoli e drogati.
Il mattatoio dal pavimento ruvido “per evitare che gli agnelli scivolassero sul proprio sangue” e dove ogni giorno “morivano milleduecento agnelli, prima di essere sfiniti da una corsa febbrile lungo le rampe buie e infinite. […] I maiali restavano al piano terra, perché erano lenti: per loro la morte arrivava tutta insieme”.
Il mattatoio dove le grida di terrore degli agnelli e il metodo scientifico dello sterminio non possono non ricordare Auschwitz.
Il bestiario urbano: gatti e cani nelle gabbie; girini arancione fluo in vasche d’alluminio, tartarughe neonate con gli adesivi di Hello Kitty appiccicati sul guscio, che sbattono l’una contro l’altra in una ciotola. Il museo dei serpenti, a Pudong, “rettili giallo ocra di due metri e nugoli di insetti brulicanti”, teche con dentro alligatori immobili: “La loro disperazione, in quegli spazi così stretti, tra le piante sintetiche, era evidente dalla postura immobile”. Gli spiedini di blatte fritte.
In una scena la protagonista scopre che l’odore della sua pelle è cambiato: “Adesso era un odore serio, profondo, come un pozzo su cui non cade la luce. Nell’ultimo mese avevo mangiato, oltre alle solite radici grigiastre e tuberi macerati in salse pungenti, troppe zampe essiccate contratte dal dolore. Stomachi aperti, fegati dal sapore ferroso. Piccoli cervelli inascoltati. Per un mese intero avevo ingerito l’interno dei corpi”. Un furore quasi cannibalico, come nel racconto ‘maudit’ “Il castello dell’inglese” di André Pieyre de Mandiargues (molto amato da un regista cinematografico oggi dimenticato, il polacco-francese Walerian Borowczyk). Ecco perché, come dice Xu, “è normale fare incubi se vivi a Shanghai. Questa città ti entra nella testa”.
È un teatro della crudeltà che è scenario e metafora dell’amore tra Xu e la ragazza italiana, l’amore come dilaniamento. Insetti, animali, torri di ruggine, l’onnipresente luce blu fluo e ipnotica, o blu carbone, sono l’immagine di quell’amore, non uno scenario. Perché l’amore, dice un passo del libro, “non è una cosa umana”.
Se questo romanzo dovesse diventare un film l’unico regista in grado di dirigerlo è David Cronenberg.
Ma c’è una scena finale potente, dolcissima, dove a essere morso non è più il corpo, ma quella metafora insostituibile che è l’anima. “Fame blu” è uno di quei romanzi da cui esci con un groppo in gola, perché sa anche dirti dove trovarla, la speranza.
Intervista a Viola Di Grado:
Tu hai vissuto in tanti luoghi: nata in Sicilia, laurea in Lingue e letterature orientali a Torino e in Filosofie dell’Asia orientale a Londra – dove abiti – Kyoto, quattro lingue: italiano, inglese, cinese, giapponese. Ti senti in fuga? E la letteratura nasce dalla fuga? Hai detto: “Vivo come un’eremita dentro il mondo”…
Sì, ho sempre vissuto nella fuga. Fuggire è un moto creativo, è un gesto letterario perché come ogni romanzo nasce da un preciso identificare dove sta il pericolo e dove la possibilità di trasformazione.
Nel romanzo Shanghai è una metropoli di buio e luci al neon, fosforescenze e ruggini, luoghi abbandonati, grattacieli, strade-labirinto, un’infinità di negozi e ristoranti: credo che l’amore tra la protagonista e Xu non potesse che nascere qui…
Esattamente. Shanghai ha creato la storia di “Fame blu”. Con i suoi sbalzi onirici e la sua personalità schizoide e divorante.
“Quando Xu mi morde, quando mi ha tra i denti, nuda e cattiva su di me, io sto bene” è l’incipit del libro: un amore di morsi e sangue prossimo al sadomaso, ma la scena finale, quando la protagonista ha già il biglietto aereo per tornare in Europa ma corre da Xu, mi ha commosso. Senza le sovrastrutture della tradizione letteraria europea nel libro c’è una traccia romantica?
Il romanticismo nasce dalla confusione tra eros e tanathos. Dunque, un finale in cui le due cose si mescolano è certamente romantico nel suo senso più compiuto.
Sempre sull’amore: “Fame blu” racconta l’ossessiva ricerca dell’altro. In “Fuoco al cielo”, il romanzo del 2019, l’amore è allucinazione, la protagonista “vede” il suo bambino in una creatura mostruosa trovata in un bosco nel villaggio dove abita, contaminato dalle radiazioni vicino a una centrale nucleare. Definiresti i tuoi libri anche romanzi d’amore?
Li definisco come romanzi dell’abisso. L’abisso è la verità nascosta della vita ordinaria.
Xu e la ragazza-io narrante mangiano insetti, tartaturghe, interiora, perfino blatte; visitano luoghi dove alligatori sono prigionieri immobili e rassegnati in anguste vetrine: “Fame blu” è anche una metafora della crudeltà? Nel mattatoio sembra di udire ancora le grida degli agnelli che vengono uccisi in una catena di montaggio che fa pensare ad Auschwitz. So che tu ami gli animali…
La protagonista si offre a Xu come un agnello sacrificale è costretto ad offrirsi a un delirio umano. L’amore, nella sua forma più pura – come quello delle mistiche – è sacrificio di sé. Ma cosa stai offrendo e qual è il risultato di questo abbandono di sé rituale e terrificante?
Che cos’è la scrittura per te?
Le mie branchie!
Mi piacciono molto i tuoi post su Facebook, si leggono come pagine di diario, sguardi, pensieri, parole rubate al tempo, ma anche aneddoti della tua vita quotidiana. Credo che i social siano strumenti importanti di dialogo e incontro, che possono anche avvicinare chi scrive libri e i lettori: sei d’accordo?
Certamente. I social eliminano ogni barriera, e questo può essere bello ma anche pericoloso.
L’autrice:
Viola Di Grado (Catania 1987) con il suo primo romanzo, “Settanta acrilico, trenta lana” (e/o 2011, La nave di Teseo 2022), pubblicato quando aveva 23 anni, è stata la più giovane vincitrice del Campiello Opera Prima e del Premio Rapallo Carige Opera Prima.
Con “Cuore cavo” (e/o 2013) è stata finalista al PEN Literary Award e all’International Dublin Literary Award. Con La nave di Teseo ha pubblicato “Bambini di ferro” (2016) e “Fuoco al cielo” (2019, Premio Viareggio selezione della giuria).
Vive a Londra dove si è laureata in Filosofie dell’Asia Orientale. All’Università di Torino si è laureata in Lingue e letterature orientali (cinese e giapponese). I suoi libri sono tradotti in diversi Paesi.
(Viola Di Grado “Fame blu” pp. 192, 18 euro, La nave di Teseo 2022)
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Guido Ceronetti fra vetro carta e cielo
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Tempo presente ————————————–
Molte cose
Cinque testi inediti
di Doris Bellomusto
Molte cose
sono immanenti e fragili,
senza radici
fluttuano nel tempo
che non hanno,
finiscono prima di iniziare,
iniziano con impeto
e sono anelli perfetti,
cerchi chiusi,
circonferenze morbide
senza angoli né spigoli.
Queste cose accarezzatele piano
come fossero un cane
bastardo
testimone d’amore e solitudine.
*
Fra acqua e aria
assorta e sola
su una foglia
di ninfea nasco
e muoio.
Sono vagito e lacrima
e non so pregare.
*
A tiranni ingannevoli
ubbidisce paziente
il mio sangue corrotto.
Fra l’ombelico e la lingua
langue il desiderio impuro
di rinascere animale.
Di lava e fango
è pieno il ventre
in questo maggio
odoroso di acacie.
*
Oggi non ho desideri
portami dove c’è vento
guida tu.
Esposto al sole blando
di Maggio l’amore costa troppo,
compriamo un cesto di fragole
e chiediamo alle rondini
il prezzo del ritorno.
*
Siamo qui
per contare
l’uno all’altro
le vertebre
cercare fra le ossa
una promessa.
L’amore
è il tempo perso
giocando a mosca cieca,
è nella mano che suda
le sue carte e non le gioca
L’autrice:
Doris Bellomusto si è laureata in lettere classiche presso l’Università della Calabria, insegna materie letterarie presso il “Liceo G. Pascoli” di Barga, in provincia di Lucca, dove vive dal 2011.
Ha pubblicato le raccolte di poesie “Come le rondini al cielo” (edizioni Tracce, 2020) e “Fra l’Olimpo e il Sud” (Poetica edizioni, 2021).
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Susan Sontag tra carta e cotone ed i segni scolorati del tempo
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Voce d’autore —————————
Mi chiedo se sia il caso di stupirsi
Semën Chanin, “Sessione di ipnosi”
di Giovanni Fierro
In un tempo presente sempre più omologato, capace di invocare e rincorrere la sicurezza del conservatorismo, tanto politico che emotivo, la poesia di Semën Chanin diventa più che necessaria.
Autore lettone che vive a Riga, poeta di lingua russa, Chanin con il proprio scrivere è capace di scardinare convenzioni letterarie che stanno mostrando il fiato corto, riuscendo a dare ossigeno non solo al fare poesia in sé, ma anche nel proporre una percezione diversa del proprio vivere.
E i testi della sua recente raccolta “Sessione di ipnosi” ne sono la brillante dimostrazione.
Ventisei poesie, che si susseguono, ma che sembrano anche intrecciarsi, annodarsi, strapparsi l’una con l’altra; a creare una voce che esplora realtà e visioni, tessendo un unico luogo dove l’epifania della sua scrittura diventa forza e sovversione.
“Sulle prime ti paragoni a una foto sfocata dell’anno passato/ provi ad assomigliarti il più possibile rilassandoti dopo/ la brusca contrazione dei muscoli facciali e scrollando la testa”, ma ben presto si deve accettare che è il tempo a segnarsi e a segnare, che il momento è lo sguardo che hai adesso, il vortice emozionale che vivi e non sempre capisci subito, e “sfili le pinne/ fai nuove amicizie/ fissi lo sguardo su ombelichi discinti”.
E da queste constatazioni Semën Chanin rivolta il già consolidato, esplora l’inconscio, scarnifica il conosciuto e lo appende al gancio del possibile: “appannare vetri nel modo convenuto, applicare patine/ e graffiare bagliori di albe false/ non servirà a cambiare questo quadro distorto/ che tende all’infinito e esce fuori scala”.
Perché scrivere è un modo attento di entrare in ipnosi, nel farsi guidare dalle parole, dalla loro chiarezza o dal buio che hanno in petto. È affidarsi a qualcosa che ancora non si sa, ma con la fiducia che sarà qualcosa di vero: “entriamo in confusione. torna in mente il professore/ che prende il carboncino cancerogeno, lo succhia/ coi denti lo spacca, sputa e bestemmia”.
Semën Chanin crea innumerevoli nuove possibilità di lettura del reale, non lo subisce, ma anzi lo fa diventare strumento di conoscenza, miccia di sensibilità, crepitio di significato.
Anche quando va a cercare una base ancora più solida – “e bevuto dalla guerra sottomarina/ il caffè doppio della notte/ impudente mette a nudo/ ancora un altro fondo” – o a disilludersi di ogni epifania transitoria – “lui sa come/ evitare con un ombrello rotto/ lo stato di grazia/ che si rovescia dall’alto dei cieli”.
E allora, leggendo “Sessione di ipnosi”, il lettore capisce che tutto è ancora da ricostruire, che c’è prima bisogno di capire lo stato attuale delle cose, la cifra umana che sta in ogni accadere in cui siamo coinvolti, “ma non allarmarti, vecchio, con l’energia e l’intraprendenza rimaste/ soffieremo l’immortalità usa e getta alle ragazze che la vendono sottobanco”. C’è sempre bisogno di un sano contrabbando.
Perché l’invito di Semën Chanin è quello di evitare il pericolo più grande, non riuscire ad onorare la propria fine, se “morirai non come un pagliaccio che scivola su una buccia di banana/ tra le risate degli amici// ma per l’aggravarsi del tedio che ti contraddistingue/ in compagnia di conoscenti a malapena conosciuti”.
Il cortocircuito necessario per far saltare i circuiti di sicurezza è nelle pagine di “Sessione di ipnosi”.
Intervista a Semën Chanin:
I testi di “Sessione di ipnosi” si muovono in più dimensioni. Ma il loro essere/vivere in questo modo, le unisce o le divide?
Se immaginiamo che ci sia un certo numero di persone nella stessa stanza, allora, ovviamente, vedremo immediatamente le differenze che ci sono tra di loro, e anche quello che hanno in comune.
Ogni poesia è creata in modo differente da ogni altra poesia, ma se le mettiamo assieme, possiamo notare il fatto che si trovano nello stesso spazio – sia mentale che reale, e così si avvicinano, si collegano tra di loro.
Questi testi si possono ‘vivere’ anche come un monologo interno, in prima persona, intimo. Come un vero e proprio domandarsi di ogni cosa. Può essere anche così?
Nel libro risuonano voci diverse, ci sono differenti registri di discorso; ad esempio la poesia “ho vinto me stessa …” è costruita come se fosse una conversazione ascoltata da un osservatore esterno, nella poesia “sulle prime ti paragoni…” c’è un dialogo che può essere tranquillamente estratto da un primo incontro tra due persone, dopo essersi conosciute solo tramite internet, c’è anche la presentazione della lezione di un professore, ci sono voci dal di dentro di una persona, ci sono voci che si rivolgono a te, ci sono voci rivolte al mondo esterno. Anche all’interno di una singola voce ci sono frammenti del parlato dell’“altro”.
Questo è piuttosto un discorso che, nella sua essenza, si sforza di allontanarsi dall’idea stessa di monologo, per essere invece in dialogo con il mondo. Quanto bene tutto questo poi riesca è, ovviamente, un’altra questione.
Queste tue poesie sono quindi un invito al lettore di non accontentarsi mai di come le cose, la vita appaiono, e a cui ci siamo abituati? Perché il tuo scrivere è proprio una forza che esce da ogni possibile confort zone…
Certo, da una parte tutto questo può essere visto in questo modo. Ma nel libro c’è anche una dimensione ironica. In queste pagine non è così evidente come nel mio libro precedente, “Omissis” (Miraggi, 2018); ma ovviamente non vuol dire che non sia.
E questa presenza dell’ironico è in parte legata alla sensazione che ci siano cose a noi familiari, che ci possono piacere, e alle quali siamo affezionati e a cui ci sentiamo legati in modo naturale.
Tutto il libro è un continuo creare nuove possibilità di percezione del reale, di fare nuove scelte per il proprio vivere di ogni giorno. Pensi che questo sia proprio necessario nel nostro tempo presente? Se sì, perché?
Mi sembra che la poesia stessa dia la possibilità di uscire dal consueto, ed è capace di sentire che questa possibilità è reale.
Perché è la realtà stessa a cambiare, quindi non c’è niente di fantastico, di impossibile, in queste sue possibilità.
E il tuo scrivere è anche una ricerca continua di ‘illuminazioni’, ‘accensioni’, che portino più luce nel buio sociale nel quale siamo immersi… ti ci ritrovi in questo?
Spero proprio che sia così.
Dal libro:
che ne dite di spostare la sessione di ipnosi a martedì? c’è posto fino a pranzo
chi può? possono tutti?
non vedo le mani. uno, due. bene, la spostiamo
compiti per casa: alleniamo lo sguardo ad appannarsi
mesmerizziamo gli oggetti inanimati
pratichiamo istintivi scatti d’ira
e non dimentichiamoci di eseguire le cadute all’indietro
per la prossima volta portare qualcosa
di caldo e le funi da rosicchiare
*
chi ha provato
a fuggire
come fugge una giovane servetta
per proteggere gli occhi
dal sole che picchia col suo volo radente
lui sa come
evitare con un ombrello rotto
lo stato di grazia
che si rovescia dall’alto dei cieli
dritto sul tuo capo
lui sa e non prende sonno
nella prigione
per cui si è indebitato
*
non si è pentito, questo ha chiesto di riferire
a te e all’onorata compagnia al completo
ai dèmoni neri e a lei
a colei che, a colei a cui
e a colei con la quale – sono sempre
parole sue: non è ancora il momento
di eliminarmi dalle liste nere
non mi sono pentito, lascio una scia alle mie spalle
non chiedo perdono e sarò solo peggiore
deperirò
come il cibo
o peggio ancora – come la letteratura
questo ha detto
*
seduto sul petto di una valigia di cartone stracolma
spingendo convulsamente la chiusura
premendo con tutto il peso perché si chiuda una buona volta
senza capire cosa ancora le serva
di quello che hai lasciato fuori
così che la finisca di schiacciare le dita
appena rinfili la frangetta spuntata dalla fessura
la blusa, la camiciola sgualcita di seta
la riga che corre sulla calza
la camicia col rammendo a filo spesso
la doppia fodera rincollata con cura
con rinnovato vigore spingi il bottone della serratura
perché si sposti la linguetta metallica
eccola che scatta, non scatta?
(Le traduzioni in italiano sono a cura di Elisa Baglioni)
L’autore:
Semën Chanin (Riga 1970) è l’ipostasi poetica di Aleksandr Zapol’, traduttore e divulgatore in lingua russa della poesia lettone.
Semën Chanin non è però soltanto uno pseudonimo, ma un’identità linguistica differente, che descrive la linea che separa il traduttore dalla lingua (e dalla cultura) lettone dal poeta russofono cresciuto e formatosi al di fuori della Russia. È fondatore e membro del gruppo poetico Orbita (1999).
Nel 2018 ha pubblicato per l’editore Miraggi la raccolta “Omissis”.
(Semën Chanin “Sessione di ipnosi” pp. 80, 12 euro, Pequod 2021)
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Emil Cioran tra frammenti di legni e foglie d’autunno, nel bianco dell’assenza
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Voce d’autore ——————————
Ti chiamerò e non avrai nome
Antonio Nazzaro, “La dittatura dell’amore”
di Giovanni Fierro
“Di dolore in dolore si va solo con amore”. Potrebbe essere questo il nervo scoperto che tiene a sé tutte le nuove poesie di Antonio Nazzaro, che in questa intensa raccolta a titolo “La dittatura dell’amore” parla dell’aggravarsi della salute di sua madre, del tempo che hanno condiviso fino alla sua scomparsa.
In questo suo nuovo fare poesia Nazzaro non nasconde nulla, evidenzia e testimonia, ci porta in un quotidiano dove “il tempo spacca il verso/ le risposte si seccano/ sulle labbra come imprecazione”.
La sua forza di poeta e di figlio è nel suo stare nel centro preciso del suo esistere, “a sostenere un respiro in equilibrio/ a sfiorare una mano da cui scappare/ e poi sempre ritornare”, in un accompagnare la madre in ogni minuto ed ultimo stare assieme, dove il punto di non ritorno si sta già preparando: “Sei diventata leggera troppo leggera. Una foglia di quest’autunno a raffreddare l’aria in anticipo”.
“La dittatura dell’amore” si muove fra testi che sono brevi, altri molto più lunghi, altri ancora che sono prosa.
Ma è lo sguardo di Antonio Nazzaro che fa la differenza. Si pone sempre dove il guardare è prima di tutto partecipazione, silenzio e attesa. Nel tempo più delicato di ogni possibile fragilità: “Penso a come si sollevano i fiori secchi per non far cadere i petali”.
È anche una confessione che dura la verità di un dolore, anzi due; quello della madre ma anche quello del figlio, dove l’autore può sottolineare che “mi ammalo non di te ma del tuo morire”. Sì, è impossibile tornare indietro.
Ma allora bisogna trovare uno stare al mondo da difendere, seppur nutrito a strazio, e sapendo bene che ogni giorno è solo un costruire lento di una futura e certa mancanza. Una piaga che non si asciuga, che si fa sentire e riconoscere, dove in prima persona “io ascolto/ questo rosario d’ossa/ che cerca/ di sfuggire alla morte”.
Ed è forse questo esercizio del ricordare, che già si inizia a fare prima dell’ultimo commiato, la parte più profonda di un camminare vicini che ha la scadenza della malattia.
Ma Antonio Nazzaro sa riconoscere che in tutto questo c’è sempre l’attrito da cui ognuno di noi proviene a tenere acceso anche il commiato più doloroso, anche il corpo più martoriato: “ti vedo scomparire/ come una stella/ in un boato/ di luce”, “e poi l’attesa/ di un colpo di luce/ o del buio spento”.
Anche se poi la mancanza è “il vuoto delle parole/ è il sottovuoto dell’anima”.
Dal libro:
quando la malattia
tocca gli occhi dello sguardo
da sempre veste e riveste
in un muto parlare
gli anni della vita
resta una sola domanda
come si piangono
i vivi?
(6 settembre 2021)
*
Malattia. dodicesimo giorno/2. Senza ora.
a te che porti via
non avrai la mia fede né il mio odio
hai rubato
l’uomo più buono che ho conosciuto
che dicono padre
hai fatto sorgere e spegnere Daniela
che mai ha saputo di avere un fratello
hai appeso alla corda dondolante Virma
e con lei mio figlio
hai sottratto al gioco
infinito dell’amicizia Dario
adesso strappi
chi mi ha sentito prima che vedessi la luce
e chiamano madre
ti resterà la mia indifferenza
e graffi sulla terra
(15 settembre 2021)
*
ti chiamerò
e non avrai nome
sarà la morte
a rispondere
in silenzio
(19 febbraio 2022)
*
adesso che non
ci siete
sono una barca
non senza porto
ma senza ancora
(13 maggio 2022)
*
ti ricordo come non sei stata
probabilmente mai
in fondo ricordarti
è un ingannarmi
fare te impossibile
per fare sopportabile
l’assenza tua
(2 giugno 2022)
Intervista ad Antonio Nazzaro:
Come si affidano le parole alla poesia, quando si scrive di un dolore, quando si affronta la malattia che la propria madre sta vivendo?
In verità credo che avvenga in forma naturale il passaggio da ciò che vivo alla poesia. Voglio dire che, come le necessità di mangiare e bere, la parola poetica è una di queste esigenze senza le quali non mi è possibile vivere.
La silloge precedente a “La dittatura dell’amore” raccontava la nascita e il vivere della relazione amorosa con Eleonora la mia compagna attuale. Tutto quello che segna il mio vivere e il mio sentire la vita trova nel versificare la possibilità di dialogare con il mondo e quindi di avere un senso che va al di là del particolare, per farsi amore-parola condivisa e aperta. L’arte per me è tale solo se è capace di dialogare con l’altro, di creare un territorio d’incontro.
In quest’ultimo libro la poesia ha sicuramente avuto un valore auto-terapeutico molto forte, ma credo che il fare arte occupi per tutti gli artisti uno spazio terapeutico.
In quei giorni ricordo che, dopo aver sistemato le faccende di casa ed essermi preso cura di mia madre, salivo le scale che separavano la mia stanza dal soggiorno e mi sedevo con il desiderio di scrivere, come si fa con un diario, e non pensavo di raccontare la solitudine o la sofferenza ma di condividere un pezzo duro della mia vita ma a suo modo anche bello.
Forse è questo il senso di fare del dolore poesia: scoprire il bello di un momento che sembra totalmente buio e dargli luce, la luce della poesia e della condivisione.
Ancor di più la scelta delle parole mi sembra che sia nata da una necessità, che muove il bisogno di una essenzialità nel formulare le frasi, nello sguardo che si sceglie. Ti ci ritrovi in questo?
In questa silloge il linguaggio poetico è cambiato molto rispetto alle mie opere precedenti. La parola e la frase dovevano esprimere un sentimento forte estremo: l’accompagnare una madre alla morte, fine di un percorso inevitabile dal momento in cui è stato diagnosticato il cancro.
La prima scelta è stata quella di usare un registro a metà tra il diario e la cronaca. Questo ha implicato l’uso di un linguaggio poetico sempre meno legato alla musica e al ritmo sonoro.
Credo che in questo fare poesia l’idea fosse ed è quella di usare una visione filmica della storia. In particolare, credo che la parola qui si fa costruzione di un’opera di video arte o di cortometraggio. Per questo nella prosa poetica è sparita la punteggiatura e solo è presente l’uso del punto.
Sono frasi da vedere che scorrono come in un’opera video di Vito Acconci i cui esordi nell’ arte sono stati come poeta, che parte da “Azioni che sono caratterizzate da stati di disagio, da uno sforzo inconsueto (…) vengono riprese generalmente da una camera fissa, senza audio, o con la sola presenza della voce dell’artista“.
Dopo “l’entrata in se stesso”, come ha definito le sue prime azioni, inizia a “entrare negli altri” attuando lavori e performance nelle quali Acconci è allo stesso tempo “artista e spettatore”. Credo che questo sia il movimento che induce la parola in molti testi del libro, mettermi a nudo per poi dare la possibilità di fare la stessa cosa al lettore, trovando un senso e un’identità al dolore.
Perché, poi, in questo nuovo libro ci sono testi brevi, altri molto più lunghi, alcuni che sono prosa. Come se ci fosse bisogno di ‘modalità’ diverse, per tempi e situazioni diverse. È così?
Sì, direi che è inevitabile proprio per la scelta di fare un diario-cronaca non di una morte annunciata ma di una morte inevitabile ma da vivere fino in fondo. I codici letterari sono diversi ma la parola, questa era l’intenzione, non poteva che essere la parola poetica.
Ho esordito nel mondo della parola scritta come un giornalista o meglio cronista di “nera” ma sotto l’influenza di una tradizione famigliare legata alla fotografia giornalistica che ha visto mio nonno, mio padre, zii e cugini fare i fotoreporter. Lì ho imparato che la fotografia è una, ma assume di volta in volta un linguaggio di luci e d’ombre diverso rispetto a ciò che è chiamata a raccontare.
Quando chiedevo a mio padre come facesse a non farsi sopraffare dalle morti e sofferenze, di cui era spettatore e narratore, lui diceva che l’avere la macchina fotografica in mano e davanti agli occhi gli permetteva di avere un filtro, un elemento a fare distanza da ciò che ritraeva.
Credo che la parola e le diverse modalità del suo uso ne “La dittatura dell’amore” abbiano avuto la stessa capacità di creare quella distanza che aveva la macchina fotografica per mio padre e quindi di permettere il raccontare.
E quindi, in che modo la tua percezione del tempo è cambiata, se è cambiata, in questo intenso periodo che hai portato sulle pagine del tuo libro? Perché, mi sembra, che questo tuo nuovo scrivere sia anche un ridefinire la percezione del tempo…
Il problema del tempo è un problema d’occidente. Questa affermazione nasce dalla mia vita di emigrante in America Latina che, sebbene rappresenti l’estremo sud della cultura occidentale, in buona parte vive altre culture.
Noi abbiamo l’idea che il tempo sia qualcosa da programmare, da fare e rendere sempre in una visione di futuro o, in questo periodo storico, il tentativo affannoso di registrare un presente più che di viverlo. Viviamo un’epoca dove il distopico affascina e l’utopia spaventa.
Quando mio padre iniziò a non stare bene vivevamo in Venezuela e un’amica, figlia di quella terra piena di contraddizioni e bellezze, sempre mi ripeteva: “poco a poco Toño, poco a poco”. Lì ho capito che il tempo non è una proiezione, che non si deve vivere lanciati nel futuro ma si deve vivere il momento “poco a poco”, e che alla fine della giornata si può dire con sollievo e felicità: “anche questo giorno è finito”.
Può sembrare una visione di precarietà della vita ma in verità è l’espressione più vitale che io conosca. E credo che questa visione abbia accompagnato, direi quasi inevitabilmente, l’idea del tempo racchiusa nella silloge.
La cosa bella ed importante di questo tuo nuovo libro è che tutto è sì esposto e mostrato, ma nulla è ostentato né sbandierato. Come si fa a mantenere questa tensione narrativa?
L’amore per la vita non si può ostentare o sbandierare. Si deve vivere e capire che il grande dono che tutti abbiamo è che la vita è bella, tanto bella. Ricordo mia madre sul balcone a fumare con me una sigaretta, sapeva bene che doveva morire, ma nel vedere il sole spuntare tra nuvole e montagne si è messa a cantare, e non era un canto disperato di chi va verso la morte, ma il canto di chi nonostante tutto vede la bellezza del momento che le è dato vivere.
Cantava felice e io con lei. Poco dopo quasi cadeva e aggrappandosi a me disse: “bello tornare a cantare insieme e adesso portami a letto che ho male”. Non c’era né disperazione né tristezza nel suo sguardo ma il bagliore di un’allegria profonda. La mia scelta di starle accanto come lei fece nel mio lungo periodo della furia (così definisco la mia tossicodipendenza) era naturale, non era un’obbligazione o un atto eroico, ma solo essere figlio e questo non si ostenta semplicemente si fa.
“La dittatura dell’amore” è anche un fare i conti con la fragilità umana?
No, credo di no. La fragilità umana è legata alla morte anche se noi la viviamo come un’opposizione alla vita mentre nei miei anni americani ho imparato che la vita è tale solo se c’è la morte e quindi invece d’essere il contrario della vita è il suo senso profondo, per cui non si può amare la vita senza amare la morte.
“La dittatura dell’amore” è il racconto di una debolezza che dà forza. La mia famiglia venne travolta dalla presenza di mia sorella Daniela strozzata alla nascita con un forcipe e rimasta un vegetale con una motricità quasi uguale a zero, a parte nelle crisi epilettiche dove riusciva a fare salti e movimenti che spesso le provocavano fratture. La scelta di tenerla in casa nonostante le resistenze mie e di mio padre ci trasformò tutti. Mia madre mi diceva:” Come sei figlio tu è figlia Daniela”. Tutti abbiamo pagato in maniera forte questa scelta: mio padre divenne una persona chiusa, taciturna, spingeva la sedia a rotelle di mia sorella come Sisifo la pietra. Mia madre visse depressioni che la portarono al bordo di una follia e io, dopo aver sostenuto la parte del figlio doppio che fa anche quello che avrebbe dovuto fare la sorella, mi sono perso in quasi quindici anni di tossicodipendenza. Eppure, con tutte queste debolezze, siamo rimasti una famiglia sempre presente nel momento del bisogno. Le nostre debolezze e incapacità ci hanno permesso una solidarietà unica credo, tra noi e poi con il mondo.
“La dittatura dell’amore” è un libro dove la debolezza si trasforma in forza solidale. Aggiungo che il libro ha anche un valore civile con la sua ribellione al dolore insensato e nel volere un’eutanasia che non tolga il dolore di chi assiste ma di chi lo vive, e denunciando che l’assistere le persone in queste condizioni fa ammalare anche chi si fa carico di sostenerne la malattia.
Ancor di più ti muovi nella traduzione… le difficoltà di un quotidiano vivere, condiviso con tua madre, come si sono tradotte poi nella ‘lingua scelta’ per raccontarlo in forma di poesia? Quale il passo che hanno fatto, per diventare le parole che poi hanno fatto il libro?
La lingua italiana è in qualche modo un “itañolo” perché spesso nella sua costruzione fa più riferimento alle grammatiche ispane che a quella italiana. Ho cercato di arginare l’entrata di termini latinoamericani che dentro di me sentivo che esprimevano meglio il sentimento o emozione che vivevo, perché avrebbero complicato la lettura.
Solo in uno dei momenti più duri di questo viaggio ho fatto un’eccezione, quando mia madre mi aggredì delirante e mi colpì con un pugno accusandomi di volerla uccidere; sono uscito senza aria dalla sua stanza e sono finito in un bar. Quasi in automatico ho chiesto una tequila e nel libro questo momento è scritto in messicano.
Come ho scritto in uno dei testi che compongono il libro: “la lingua di traduttore si è incagliata tra i denti e non so che parole trovare per tradurre il tutto che viviamo”. Credo che il tradurre poesia mi abbia aiutato a tradurre il caos che vivevo e in questo senso la mia doppia lingua si è fatta un “sin fin” di immagini a cui attingere.
Cosa ha significato sapere che giorno dopo giorno si stava preparando una assenza, quel lento e doloroso costruire la mancanza di tua madre? E in questo, lo scrivere, che ruolo ha avuto? Al di là della pura espressione artistica e culturale…
Credo che sia stato il vivere ogni istante come se fosse un giorno qualunque, dove l’assenza avrebbe potuto esistere solo senza esserle al fianco. Certo, sapevo che lei sarebbe andata a passeggiare sui “parami” andini e che io non avrei potuto condividere con lei quei sentieri che sfiorano il cielo ma non era questo il punto, quello che contava era ed è stare al suo fianco.
Anche adesso che non c’è continuo a sentire la sua presenza più che la sua assenza. Vita e morte se messe sullo stesso piano permettono di non vivere un’assenza ma una presenza differente.
E come metti in relazione “La dittatura dell’amore” con il resto dei libri da te scritti e pubblicati?
Credo che “La dittatura dell’amore” sia il compimento di un percorso del mio sentire e vedere la poesia come una fotografia (le influenze famigliari sono forti). Nel primo libro “Amore migrante e l’ultima sigaretta” (Edizioni Arcoiris, Italia coedizione con Ril Editores, Cile, 2018) la poesia cercava nella brevità e nella parola sempre evocativa l’effetto della fotografia. Poi, dopo un libro uscito solo in America Latina, “Cuerpos Humeantes” (Editorial Uniediciones, Colombia, 2019), dove la prosa poetica cercava di usare la poesia come un racconto d’immagini sulla costruzione di frasi brevi e concitate, sono arrivato al Fotoromanzo poetico “Diario amoroso senza date” (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), una silloge dove poesia, fotografia e grafica si complementano.
Con questa silloge “La Dittatura dell’amore”, sebbene ritorno al libro tradizionale, porto a compimento un processo poetico artistico che mi fa dire che questo libro è l’opera di video arte più compiuta che ho fatto.
L’autore:
Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963) è giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collane di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici.
Ha pubblicato le sillogi “Amore migrante e l’ultima sigaretta” (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), “Corpi Fumanti” (Uniediciones, Bogotá, 2019) e “Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico” (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021).
È autore del libro di racconti brevi “Odore a” (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e del libro di cronaca e poesia “Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste” (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017).
Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
È traduttore dall’italiano e dallo spagnolo. Il suo libro di traduzioni più recenti è “Dino Campana Suramericano – Cantos Órficos” (Abisinia Editorial, Argentina 2022).
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Otto Weininger tra il bianco del Delirio e la piccola luna d’argento
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Margini. Di poesia ed altro —————————-
Quando invece tutto da sempre si dissolve
Maddalena Lotter, “Atlante di chi non parla”
di Roberto Lamantea
Con il titolo “Questioni naturali”, nel 2019 Maddalena Lotter ha pubblicato, con una nota di Gian Mario Villalta, ventotto testi in “Poesia contemporanea – Quattordicesimo quaderno italiano” di Marcos y Marcos: i temi dell’origine e del dissolvimento s’intrecciano, come dice un verso, in un “valzer viennese su pattini d’argento”, una danza sull’orlo della fine, come nel Settimo sigillo di Bergman o in Dracula di Bram Stoker.
Tanto vale accoglierla, la fine, cullarsi in una cupa ineluttabilità, fingendo di non averne còlto i segnali: “[…] anche gli avvisi della terra/ rimbalzano sottili da un albero all’altro morendo/ poi in silenzio, senza disturbo alcuno per qualcuno/ che ignaro fischietta e passeggia e rede/ in una soffice presenza tra le foglie/ quando invece tutto da sempre si dissolve”.
“Atlante di chi non parla” (Aragno), il nuovo libro di Maddalena Lotter, rinvia a quei testi, la voce del “pianeta azzurro” – per citare un delicato film di Franco Piavoli – è quella di un’elegia.
I quattordici movimenti del libro, scritto tra il 2018 e il 2021, sono un cantico delle creature nella luce dell’addio: il sole è disciolto in una polvere viola, il tempo abbraccia geologia e paleontologia e si proietta in un microcosmo di agonie di insetti, una cicala, una farfalla, un misterioso uccello della Carinzia che vola via dal suo nido, alberi neri, unendo il museo di storia naturale e quello di anatomia con le teche dei feti o “giganteschi calchi di ventri diversi”, nella sala degli uteri, ai miti (il cane Argo, la cultura classica attraversa tutto il libro) alle variazioni della luce, sino a “Fame” che può essere letto anche come un inno al veganesimo.
“Atlante di chi non parla” è un titolo “abitato da animali estinti da millenni, o in estinzione, o immaginari, demiurghi della mia fantasia e qualche umano”, scrive l’autrice.
Una cicala, che “cantava a tutta bocca” muore – “anche questo è un agosto di ferro/ e di fame” – e legioni di formiche nere se ne contendono la carcassa: “questo vuole, dunque, la terra?” è la domanda leopardiana, seguita da due versi desolati: “Tutto viene fatto a pezzi/ e a nulla vale che cantasse”.
È un canto, un Abschied mahleriano il libro di Maddalena Lotter, struggente e dolcissimo, scritto con il pennino di una poeta e musicista (Maddalena suona il flauto traverso).
Il dio di queste poesie, ha notato Gianluca Furnari su palinwebmagazine, non è il dio biblico, “ma un dio ovidiano, che crea il mondo un po’ a caso”.
Un libro sull’agonia della natura e della terra? Un manifesto ambientalista/animalista? Il canto di un pianeta ferito? Anche, ma l’etichetta suona molto riduttiva. Perché – ecco la svolta e il primo valore di questa silloge – dal dolore della coscienza ferita nasce il canto, quindi la scrittura, cioè un’affermazione, un esserci: non è mai una resa.
Eppure anche la scrittura è un’eco, la lingua – come già insegnava Saussure – non è la realtà, forse la sua versione fonica attraverso le gabbie della grammatica, ma è la “traduzione” di ciò che lo sguardo ha visto:
scrivo perché il primo valore
è la testimonianza
ma non so dire con esattezza quello che vedo,
se qualcuno leggerà
sappia che anche la mia è una traduzione
non è questo quello che ho visto.
Quello che ho visto prima di parlare
non viene centrato da nessun linguaggio.
Dal libro:
Algor
Questo è l’attimo di una farfalla che muore; le zampe sottili, con cui prima su ogni fiore si posava, ora si stanno ritirando, è questione di pochi secondi; la luce del giorno compone un cordoglio d’argento sulle acque del torrente; è un attimo e le sue ali sono secche, estinte, e il resto tutto rannicchiato, solo su un lato, come quello di un bambino.
*
Congedo di un uccello della Carinzia
Le ali perfette tagliano l’aria,
gli occhi sono socchiusi
e il manto, rosso,
sfolgora come una vernice
sullo sfondo del cielo.
Facile, dice, è il viaggio naturale
perché necessario.
Arrivederci, mia dolce montagna. Arrivederci
correnti, arrivederci fiume.
Arrivederci, mio nido d’amore nell’albero.
*
Antropocene
L’era degli uomini è finita
ma nulla vieta di immaginare
quel ciondolo tutto fatto di luce
dentro la sua conchiglia
a miglia e miglia dalla vita,
sul fondale
una cosa piccola che brilla
e non ci salva
e tace.
*
Scendo a certe profondità del mondo
dove le alghe avvolgono, le pietre diffondono
suoni sottili.
Cosa sanno e quale lingua parlano
mi chiedo quei fischi tra le caverne.
Con riguardo non muovo che la coda,
sono il loro immobile ospite e amico;
se resto per molto, mi fanno vedere i riflessi
schiudendo le perle e più in fondo
come una leggenda avvisto l’arpa del tempo.
L’autrice:
Maddalena Lotter è nata nel 1990 a Venezia. È curatrice della collana di poesia “A27” (Amos Edizioni), insieme ai poeti Sebastiano Gatto e Giovanni Turra.
Esordisce a venticinque anni con la raccolta “Verticale” (collana gialla, LietoColle&pordenonelegge, 2015). Nel 2019 pubblica la silloge dal titolo “Questioni naturali” all’interno del XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos) a cura di Franco Buffoni, con prefazione di Gian Mario Villalta.
Suoi testi sono raccolti anche in diverse antologie cartacee (Ladolfi 2015; “Osservatorio fotografico” 2016; LietoColle 2018; “Journal of Italian translations” 2018) e nei maggiori siti letterari italiani (Nuovi Argomenti, Nazione Indiana, Poesia di Luigia Sorrentino e altri).
Vincitrice nel 2014 del Premio Teglio (categoria under 40) e nel 2016 del Premio Fiumi.
Finalista nello stesso anno al Premio Carducci, con Daniele Gorret e Vivian Lamarque.
Fa parte del Comitato del Premio internazionale Amos per la cultura, inaugurato nel 2020 a Venezia con l’assegnazione del premio allo scrittore Daniele Del Giudice.
(“Maddalena Lotter “Atlante di chi non parla” pp. 74, 12 euro, Aragno editore 2022 – collana “I domani”, nota di Laura Pugno)
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Maria Zambrano fra le carte della sera e frammenti di ferro
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Libroelibro ————————————-
Le possibilità del parlare
Vera Gheno,”Potere alle parole. Perché usarle al meglio”
di Laura Mautone
Il paragone tra la lingua e una Maserati lasciata in garage pur avendo la patente, o tra le possibilità infinite che la lingua ci offre e un armadio pieno di vestiti di fronte al quale scegliamo sempre lo stesso completo: si apre così il risvolto di copertina di questo agile manualetto sul potere delle parole.
Vera Gheno, sociolinguista ed esperta di comunicazione digitale, attiva in rete contro l’hate speech, a favore dell’inclusione e dell’uso della ə (schwa), propone un inno al potere del linguaggio.
Inizia a celebrare la caratteristica fondamentale dell’essere umano: il fatto di saper parlare. Attraverso la parola noi definiamo e conosciamo noi stessi, incontriamo gli altri e descriviamo e interpretiamo il mondo che ci circonda e nel quale siamo immersi. La lingua è un codice condiviso da una comunità di parlanti, anche se ancora non si sa molto sul nostro modo di apprendere una o più lingue.
Si sa che i momenti iniziali, addirittura a livello pre-natale, sono fondamentali per creare le connessioni neuronali necessarie a favorire l’apprendimento della linguamadre e di tutte le lingue successive. Si conoscono le aree dedite al linguaggio all’interno del cervello (Broca e Wernicke), ma non potendo vivisezionare un cervello, lo sappiamo per via indiretta a causa di episodi in cui si sono verificate lesioni cerebrali.
Gheno prosegue spiegando che cos’è e a che cosa serve la norma linguistica, introducendo elementi di metariflessione sulla lingua, che dovrebbero far parte di ogni lezione di grammatica. La norma non è assoluta, ma evolve con il contesto e in un determinato periodo storico.
Attraverso alcuni esempi, poi, la sociolinguista riesce a rendere attraenti anche disquisizioni su accenti e d eufonica. Insomma, va bene essere grammarnazi, ma lo si può essere con leggerezza, ironia e consapevolezza. Accenna nel capitolo “Il grande mistero dell’italiano” ad una sintetica storia della lingua italiana dal latino, alle lingue romanze, alle varietà linguistiche dialettali, fino all’italiano della televisione e all’e-taliano.
Si concentra poi sulle questioni lessicali e sulle competenze linguistiche dell’italiano medio colto, che può conoscere tra le 15.000 e le 30.000 parole, rispetto ad un professionista del settore che arriva a conoscerne anche 100.000. Sempre molto poco se si pensa che una lingua di cultura (nella quale, dunque, vengono scritti testi sia scientifici che umanistici di grande complessità) può constare di un numero di parole tra le 300.000 e il milione.
Non c’è di che stare allegri, quindi, bisogna armarsi di pazienza, leggere e cercare di riflettere sulle stratificazioni di senso di cui le parole sono solo una delle innumerevoli tracce.
Se volete conoscere la storia del famoso aggettivo neologismo “petaloso” qui ne trovate, insieme ad altre, una interessante spiegazione. Naturalmente non mancano i riferimenti ai femminili professionali e agli anglicismi.
Verso la fine del volume una sorta di invito alla cura del linguaggio e della scelta delle parole, con l’annuncio di una serie di parole chiave di un vero e proprio modus vivendi: il dubbio, la riflessione e il silenzio, perché, parafrasando Don Milani, il linguaggio è potere.
Nei Ringraziamenti si legge, infine, un’ultima interessante riflessione che rende onore all’umiltà della studiosa, che cita Gramsci e conclude: “Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie […] Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri”. Ammesso che io abbia una qualche cultura, la relazione che ho con voi ne è in buona parte responsabile.
Dal libro:
Ho voluto mettere insieme non solo una piccola rassegna di informazioni di carattere linguistico che ritengo rilevanti per cavarsela nella vita di tutti i giorni, ma anche curiosità che ho scoperto studiando e approfondendo, aneddoti personali che hanno contribuito alla mia formazione, attestazioni di amore per questa lingua che rappresenta metà del mio patrimonio culturale; il tutto in una specie di grammatica destrutturata, da leggere più come un romanzo che non come un manuale: con il gusto della scoperta, anche se non ci sono colpi di scena nella trama.
(Vera Gheno “Potere alle parole. Perché usarle al meglio” pp. 176, 13 euro, Einaudi 2019)
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Ernest Jünger fra fiori secchi e il rosso dell’anima
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Margini. Di poesia ed altro ————————————
Ma dove prendere l’acqua pura
Rino Cortiana, un omaggio
di Roberto Lamantea
È scomparso lo scorso agosto a 78 anni Rino Cortiana, uno dei grandi nomi dell’Istituto di Francese fondato all’Università Ca’ Foscari di Venezia da Stefano Agosti. Anni magici, non solo per le lezioni di Agosti su Bonnefoy, Char, Ponge, Flaubert, ma perché l’ateneo veneziano ospitava abitualmente conferenze e seminari con nomi come Michel Foucault e Jacques Derrida: Venezia era uno dei “fari” del dibattito internazionale.
Con Cortiana c’erano Giovanni Cacciavillani, Vito Romaniello e altri, un team meraviglioso negli anni in cui l’analisi del testo prediligeva gli strumenti dello strutturalismo linguistico e psicoanalitico e della semiologia.
Nato nel 1944, laureato in Lingue e letterature straniere proprio a Ca’ Foscari nel 1969 con una tesi sull’opera poetica di Blaise Cendrars, nel ’70 Cortiana ha cominciato la sua attività didattica e di ricerca passando attraverso i diversi gradi accademici: assistente, professore incaricato, professore associato (1984), professore ordinario (2009).
Tra i lavori sulla poesia francese le sue traduzioni di Cendrars e numerosi saggi sul poeta poi raccolti in “Attorno alla poesia di Cendrars” (Studio LT2, Venezia 2010); altri interventi sono contenuti in “Tra le pieghe dell’orizzonte” (saggi su Soupault, Cendrars, Char, Tardieu, Jaccottet, André du Bouchet, Réda, Bonnefoy, Temple, Noël: Marsilio, Venezia 2012).
Ha curato un’antologia di poesie di Frédéric Jacques Temple (Cafoscarina, Venezia 2015). Tra gli altri ambiti di ricerca la narrativa del Settecento; si è anche occupato della poesia del Maghreb (Sénac e Mohamed Dib). Numerosi gli incarichi accademici, nel 2006-2007 fu presidente del Corso di laurea specialistica in Lingue e letterature europee e postcoloniali.
Rino Cortiana fu anche poeta raffinatissimo: tra le raccolte di versi “L’azzurro di Giotto” (1977-1983), prefazione di Mario Spinella (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1983); “Venezia Venusia Vanesia”, con undici disegni di Vittorio Matino (Libri Scheiwiller, Milano 2002); “Lynx Lynx”, con otto disegni di Lucio Del Pezzo (Libri Scheiwiller, Milano 2005); “Fili di storia” (Marsilio, Venezia 2017); “La tela e il drago. Omaggio a Carpaccio” (Amos Edizioni, Mestre 2017).
Poesia colta, quella di Cortiana, capace di “viaggiare” nelle tele di Carpaccio o nei colori di Giotto a rivelarne movimenti, prospettive, simmetrie, come in un teatro dello sguardo. Poemetto sulla luce, tra mitologia, letteratura e zoologia, bosco-bestiario, i frammenti di canto di “Lynx Lynx” – elegante edizione Scheiwiller dalla copertina verde – sorprendono la lonza dantesca in una natura di licheni, muschi, fonti, tra prospettive dello sguardo e parole come liuti.
Di Rino Cortiana proponiamo alcuni testi:
come un occhio è lo stagno tra le erbe
non lontano dal bosco di pini
la lingua nell’acqua lambisce il velo
che altre lingue hanno sfiorato
lusinghe di reni scattanti sull’orlo
una macchia e poi una macchia
a confronto
che piacere il riflesso bianco dei denti
e quel pelo di foglia e di pioggia
*
nella radura
l’ultimo triangolo di neve
le attraversa l’iride
rivelando il ritrarsi dell’ipotenusa
in fondo alla cornea
le orme
*
e quando sentì i denti
al posto degli occhi
*
a morsi aprì una noce un giorno
vi scoprì
a gomitolo
i colori di una farfalla
da “Lynx Lynx” (2005)
Strofa del fanciullo senza occhi
di calce avevan riempito
gli occhi del fanciullo
al di qua della ringhiera
trasformando in cupo guado
il giglio del suo sguardo
– ma dove prendere l’acqua pura
per il disgelo
a quale fontana
la memoria lontana
minuta come un seme di miglio
o un granello di sabbia
in un giaciglio?
da “La tela e il drago. Omaggio a Carpaccio” (2017)
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Pavel Florenski fra la polvere dell’oro e le croci russe
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Tempo presente ———————————-
Così fuori stagione
Sei testi
di Manuela Sallustio
L’amore
Seta
Sottile stringata,
Strappo stentato,
Stupendo sterrato.
Ricamo
Rilento, rifatto
Rinato,
Risvolto riuscito.
Pace
Patita, passata,
Pazienza perduta,
Pandemia paura.
*
Il senso
Se cerco
Un senso
Mi contamina
L’ euforico buongiorno ad uno sconosciuto,
Ultima spinta dell’istintivo orgoglio
D’ essere specie.
Se cerco
Un nesso,
Il capo dei mali,
I piedi dei soli,
Rimango inerme preda d’ imprecise teorie
Sulla pochezza umana.
E se agli occhi
Di una formica
Appaio un gigante,
La mia titanica presa non è legittima,
Tranne uno scherzo di quella natura
Divoratrice di monti,
Prosciugatrice di mari.
E se tutti,
I sorrisi di braccia spalancate,
I silenzi delle attese,
Le lacrime delle partenze,
Si concentrassero
In un picoquadrato di cosmo,
Rimarrebbero
Gocce d’ eterno
Nel misericordioso catino di Dio.
*
Aprile
Il cielo
Corruga la fronte
In questo aprile
Così fuori stagione
Libero da consuetudini.
Legata a questo presente
Di attimi di pietra,
Come fuoco attendo
Il passare del tempo.
Fingo il sicuro,
Meta dell’anima stanca,
Baciata dai raggi d’oro vivo.
Spero i tuoi occhi
Dove affogare i doveri,
E ramo carico di neve
Mi passa la vita,
Incapace, esausto,
Perdo il controllo.
*
Notturno romano
Rivoli umidi
Su sanpietrini lividi,
Il raggio obliquo della notte,
Lo squarcio tra i tetti,
La storia filtra dalle finestre.
I pensieri fluttuano
Nel ritmico calpestio dei passanti,
Sono mani in tasche pesanti
E gambe danzanti
Su melodie private.
Si può fare silenzio
In una folla di sguardi distratti
E ascoltare una musica
Come verità del cuore:
La superficie
Non mi piace,
Dopo la ruota del pavone
Rimane solo il calore effimero
Degli occhi blu e verdi,
Il ricordo di un fasto
Non la profondità dell’appagamento.
*
Una vita
Le bisettrici degli anni
Si incontrano nel baricentro,
Equilibrio di acque
Che corrono ad un solo mare.
*
Domenica
Rimetterò al collo
Il mio filo di perle,
Sarò la donna calma
Sempre desiderata;
Chiuderò impeto e delusione
In un barattolo di latta,
Dopo averlo svuotato
Per farci i biscotti.
Dismetterò l’armatura,
Deporrò lo scudo,
Cingerò le caviglie
Con bracciali tintinnanti,
Perché è domenica:
Il sole pallido
Abbraccia la fugacità
Delle fronde,
Il cuore elude
Nebulosi pensieri.
Manuela Sallustio, in un picoquadrato di cosmo,
di Massimiliano Bottazzo
La scrittura di Manuela Sallustio è ricerca impegnata e impegnativa, costante, dell’immagine e della parola capaci di indicare la fine o l’inizio.
Immagini come possibilità di un’altrove da stringere nelle mani, illudendosi così di poterlo gestire, controllare, possedere. Un’ altrove che sa di vicino, degli affetti stabili e prossimi.
La scrittura per Manuela Sallustio indica ciò che è, quello di cui dispone, ma anche la sua propensione estetica, di sicuro la contiene.
Scrittura come elemento materiale multiforme, che aperto e adagiato su di un piano è capace di assumere altre sembianze. Il dinamismo addomesticato, di una quotidianità frenetica, che si fa quiete.
La scrittura è necessariamente connessa all’ interiorità, di un luogo come dell’esistere, che si accumula e stratifica.
Il luogo delle radici e come tale è sempre ritorno, possibilità di esperienza sensoriale e intellettiva.
L’autrice:
Manuela Sallustio, nata a Palmanova (Ud) nel 1977, da genitori pugliesi, è orgogliosamente legata alle radici che abbracciano l’intero Stivale.
Amante della musica, della letteratura e delle arti visive, pur avendo seguito un percorso di studi scientifici che l’ha condotta alla professione medica, ha sempre coltivato la passione per la scrittura, in forma di poesia, come urgenza espressiva del proprio sentire.
Si considera sempre in crescita, ha ultimato la raccolta “Il beccare sull’ottone”.
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Martin Heidegger fra la cenere del tempo ed i mozziconi della perdita
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Tempo presente ————————————
Prav nič ti manjkam, Non ti manco proprio
Erika Fornazaric, “Iz vetra in sanj – Di vento e di sogni”
di Anna Piccioni
“Ko bom spet/ nehala sanjati/ bom spet/ umrla (quando smetterò/ nuovamente/ di sognare/ morirò/ nuovamente)”, con questi versi Erika Fornazaric accoglie il lettore nella sua prima pubblicazione di poesie, “Iz vetra in sanj – Di vento e di sogni”.
Una raccolta impegnativa sia per la poeta che per il lettore: per l’autrice che ha diviso l’opera in dodici capitoli alternati in lingua italiana e in lingua slovena. Non sono poesie tradotte, ma questo fa sì che sia possibile cogliere la musicalità e la poeticità della lingua slovena e questo è l’impegno di chi come me non conosce la lingua. Separano i vari capitoli fotografie in bianco e nero, scattate dall’autrice stessa, che fanno da sfondo al suo stato d’animo.
Leggere poesia mi emoziona sempre; ammiro chi dimostra la capacità di cogliere parole che colpiscono la sensibilità di chi legge, creando un filo invisibile tra parola e spirito.
La raccolta di poesia di Erika Fornazaric è un fiume in piena: c’è uno scavo continuo (“mi torturo scavandomi”) nel dolore della perdita di un Amore menzognero, distratto, incapace di cogliere la sofferenza dell’amata: “Prav nič ti manjkam/ Ti/ meni/ zelo/ nenehno razmišljam o tebi/ sem prav taka/ nadležna/ je odtujenost neizbežna/ vsekakor mi rs ni lahko/ Sama izstopim iz tira/ in zdaj gledam za svetom/ kako se brez mene vrti/ kako naj še verjamen/ kako naj še zaupam/ ko mi nož med vretenca štrli/ Da sama sem/ sama sem kriva/ da kdo se pretvarja/ pa ne/ dahlini/ dokler lahko vzame/ pa pride/ zahode in gre (Non ti manco proprio/ tu/ a me/ tantissimo/ ti penso continuamente/ sono davvero così/ indisponente/ allontanarsi è davvero inevitabile/ comunque sia mi è difficile/ Scendo dal mondo/ lo guardo girare/ gira bene anche senza di me/ come credere ancora/ come fidarsi ancora/ col coltello che spunta tra le vertebre/ Se sono da sola/ sarà colpa mia/ ma non è colpa mia/ se uno mente/ se finge/ finché può arraffare/ poi viene/ pugnala e scompare”).
Non c’è corrispondenza di amorosi sensi “se non sono per te ciò/ che tu sei per me (če nisem jaz tebi/ kar meni si ti” pagina 102).
Nei versi sia in italiano che sloveno Erika Fornazaric ripete parole che riflettono il suo stato d’animo, la sofferenza dell’abbandono; la presenza ripetuta di metafore (“curare i sogni”), ossimori (“cieco silenzio”) aumentano il pathos. I silenzi, le attese portano a un cuore cristallizzato che si sta strappando: un Amore perduto nell’indifferenza che provoca angoscia, lacerazioni in ogni fibra vitale: “confusa/ intontita/ non provo rancore/ non provo dolore/svuotata/ un guscio di mare/ sbattuto in risacca/ attendo la pioggia/ il vento/ la neve”.
Quanto dura l’angoscia prima della fine? “Un’ultima parola brucia sulla pelle” è inutile “cercar fuori consolazioni…solo in se stessi ci si ritrova”.
Allo spirito straziato fanno da sfondo immagini sfumate, sfocate come è sfocata “l’anima martoriata”.
C’è tuttavia una speranza “di uscire dal buio nella solitudine del sogno”.
Intervista ad Erika Fornazaric:
Chi è Erika Fornazaric?
Non credo di poter dare una risposta organica e definitiva, né una definizione esaustiva di me stessa. Mi paragonerei forse ad un mosaico, composto da molte tessere, assai diverse e spesso in contrasto tra loro. Sono innanzitutto un’insegnante di letteratura italiana in un liceo di lingua slovena, quasi un ossimoro vivente, dunque. Sono un’accanita lettrice, un’appassionata di teatro e di storia del Cinquecento.
Vado per mostre e mi piace viaggiare. Ho sempre scritto, prevalentemente prosa e teatro, e mi sono anche cimentata in alcune traduzioni; solo recentemente mi sono dedicata esclusivamente alla poesia, trovando forse la mia vera dimensione. Ma è una ricerca tutta in divenire, una guerra costante per imparare ad accettare ciò che non posso cambiare e per accettarmi come sono.
E cos’è la poesia per Lei e che significato ha oggi?
Insegnare a fare e a capire la poesia è sempre stato uno degli aspetti che amo di più del mio lavoro.
Trovo che la caratteristica primaria della poesia, quella di essere un’opera aperta, dia al lettore una libertà interpretativa di un respiro più ampio rispetto alla prosa. Riuscire a cogliere un’emozione, una sensazione, uno stato d’animo ed esprimerli in pochi versi è comunicare in un linguaggio universale.
Oggi più che mai, come in ogni periodo di crisi profonda come quello attuale, è necessario dedicarsi alla poesia. Ritrovare le nostre stesse sofferenze nei versi degli altri crea quel distanziamento emotivo che ci permette di superare, di alleviare le difficoltà personali; sostanzialmente l’arte come terapia.
Perché si scrive poesia? e per chi?
Quando le emozioni divorano devono essere incanalate all’esterno, diventa urgenza metterle su carta per non farsi travolgere e distruggere da ciò che si porta dentro.
Questa è, naturalmente, solo la mia visione personale. Ho letto intere raccolte scritte a tavolino partendo da uno spunto esterno e occasionale; a ognuno il suo, al lettore la scelta.
La mia poesia è l’offerta di una mano amica, di corrispondenza a chi abbia un vissuto ed un sentire simile al mio. Suppongo ogni autore abbia una particolare visione del proprio potenziale lettore.
Come ha scoperto la Poesia?
La poesia ha sempre fatto parte della mia vita; conservo un quaderno con dei versi scritti in terza media, in triestino addirittura, e li trovo ancora validi! Studiare letteratura mi ha permesso di affrontare la scrittura poetica in modo non solo passionale, ma anche tecnico. Cerco di tenermi aggiornata su ciò che viene pubblicato, soprattutto localmente.
La mia personale avventura in versi è, invece, figlia della pandemia. Una mia amica stava passando un momento particolarmente difficile e così le ho passato alcune poesie, quasi per una lettura catartica. La voce si è sparsa e mi hanno spronato a pubblicare; devo ammettere che non mi aspettavo riscontro così positivo.
C’è differenza a scrivere poesia in lingua slovena o in lingua italiana?
Per quanto mi riguarda, sì. La lingua italiana e quella slovena hanno musicalità e capacità espressive diverse che mi permettono effetti molto più incisivi e ritmati in sloveno, mentre l’uso dell’italiano è generalmente accompagnato da melodie più morbide e lente.
Spesso, però, mi rendo conto di filtrare e trasformare echi letterari di una lingua nell’altra, creando qualcosa di diverso, che assume caratteristiche proprie non più riconducibili né ad una matrice né all’altra. Per esempio, la mia poesia in sloveno “Neverin II” risente dell’influsso degli effetti fonici pascoliani: ma ritmo e suoni sono perfettamente aderenti alle specificità linguistiche slovene. Per non parlare del titolo dialettale.
Mi piace pensare che, essendo bilingue, posso muovermi agevolmente tra vari registri linguistici, assecondando l’ispirazione nella lingua in cui si manifesta, mediando tuttavia con tutte le competenze linguistiche che ho a disposizione.
“Di vento e di sogni”: due parole molto suggestive e evocative: quale valore hanno per Lei?
Non potrei vivere senza. Il vento è la mia città e quindi le mie radici, è il bisogno costante di novità e di cambiamento, è leggerezza e potenza insieme: qualcosa di inafferrabile, che può accarezzare o spezzare, quasi a rappresentare l’altalenare stesso della vita.
I sogni, invece, sono l’unica ancora di salvezza per chi, come me, vuole continuare a sperare in qualcosa di bello e di vero, nonostante tutto.
E anche se fa male quando sogno e realtà non coincidono – ovvero quasi sempre – ciò che davvero mi fa paura è il vuoto interiore, l’assenza di entusiasmo e di empatia. I sognatori si riconoscono dalle ali spezzate, e dagli occhi accesi.
Dal libro:
Sari
Kadar računam samo s srcem
se račun ne izide nikoli
vsakič delim svoja čustva
z zgrešenim imenovalcem
in dobim ostanek
A Sara
Quando faccio i conti solo col cuore
i conti non tornano mai
ogni volta divido i miei sentimenti
con un denominatore sbagliato
e mi resta il resto
*
Neverin II
Ponovno
neurje
in gozd zaživi
Grmenje prekine
dežja žuborenje
Prihaja odmeva odhaja
Štejem sekunde
in končno se ulije
prši kjer se odbije
Zemlja hvaležna se vpija
Vreme po naročilu
tudi v meni kaplja
Ko plaz čustev se usuje
pada toča in grmi
kadar v srcu se odbije
mi na licih prši
Samota neizbežno ubija
Neverin II
Stratempo
di nuovo
e il bosco riprende vita
Il tuono irrompe
nel mormorio della pioggia
Arriva rimbomba ritorna
Conto i secondi
e infine diluvia
gli schizzi rimbalzano
La terra grata s’intride
Questo tempo sembra fatto apposta
è tempesta anche dentro di me
Quando cede la valanga dei sentimenti
grandino e tuono
e dal cuore rimbalzano
gli schizzi sulle guance
La solitudine uccide inesorabile
L’autrice:
Erika Fornasaric è nata a Trieste, dove si è laureata in italianistica dedicandosi poi all’insegnamento.
In seguito ha approfondito gli studi laureandosi anche in materie letterarie, traducendo in italiano il primo libro sloveno il “Catechismo” di Trubar (1550). Insegna lingua e letteratura italiana al Liceo scientifico statale F. Prešeren di Trieste.
Il suo orizzonte culturale è caratterizzato proprio dalla conoscenza di entrambe le lingue, quella italiana e quella slovena, come evidente nella sua scrittura.
Negli ultimi anni è stata spesso finalista in vari concorsi e le sue poesie sono state pubblicate su numerose antologie; è stata inserita nell’”Enciclopedia dei poeti italiani contemporanei” (2020).
La silloge qui presentata “Iz vetra in sani – Di vento e di sogni” è il suo esordio.
(Erika Fornazaric “Iz vetra in sanj – Di vento e di sogni” pp. 134, 13 euro -edizioni Goriška Mohorjeva družba 2022)
Immagini —————————
Edith Stein fra rametti dell’origine e i frammenti blu dello spirito
Dieci lavori
di Prisco De Vivo
Intervista a Prisco De Vivo:
di Luigi Auriemma
Caro Prisco, da anni stai lavorando a questo ciclo di opere dove esegui ritratti di scrittori, intellettuali e filosofi, tra cui Ceronetti, Junger, Sgalambro, Florenski, Zambrano, Savater, Sartre, Heidegger e tanti altri. Racchiudi questo ciclo sotto il titolo “Reperti degli imperdonabili”. La domanda che ti pongo è perché li connoti come imperdonabili e in che senso come reperti?
Questi “testimoni pericolosi del pensiero” che ho definito imperdonabili, lo sono perché hanno frugato i fondali della mente elaborando concetti impervi e rischiosi. Invece, i “reperti” stanno agli elementi della natura che li hanno accompagnati durante la loro esistenza in questo cammino dove anch’io sono trascinato ho ritrovato foglie, pietre, cenere, sabbia, carte, vetro, legni, perfino polvere da sparo.
Nel tuo stile artistico di matrice espressionistica il segno caustico e mordace pronto a scavare e rivelare il carattere e la somiglianza del personaggio ritratto sembra avere anche un’azione catartica rivolta ad indagare il tuo mondo interiore. È una mia sensazione o esiste davvero questo parallelo di indagine?
È vero! Il mio indagare attraverso un segno, come tu ben definisci “caustico e mordace”, è pronto a scovare …ma più di tutto a “rivelare” il mistero, l’ignoto che si nasconde dietro l’espressione di un volto; una vera e propria catarsi che si trasforma in testimonianza.
In questi ritratti (ciclo molto più ampio di quello presentato in questa intervista) sembra che intrattieni un dialogo a distanza col soggetto che rappresenti con segno, colore e parole. In che misura questi soggetti pensatori hanno influito sulla crescita del tuo pensiero?
Sulla crescita del mio pensiero credo che abbiano influito molto.. E proprio così mi sono misurato con “la pericolosità del pensiero” quella fatta di strade sterrate, tortuosi sentieri che nella maturità mi hanno portato a conoscere di conseguenza Schopenhauer, Nietzsche, Cioran, Ceronetti e Sgalambro.
A chi di questi ti senti più vicino intellettualmente?
A tutti e a nessuno…più di tutti credo che in questi ultimi anni sono stati Sgalambro, Cioran e Florenski , ma anche a Bruno Forte.
Il mio attuale interesse attualmente si è concentrato a su filosofe come: Edith Stein e Simone Weill per quel loro incontenibile sprofondare la luce.
Nella costruzione dell’opera, insieme al segno della matita anche il colore è sempre modulato come traccia segnica, ridotto al minimo, quasi evanescente o molto velato, con pochissime campiture. Questo modo di dipingere è per togliere peso terreno alle figure rappresentate e restituire una leggerezza ed evanescenza di natura mistica?
Sì, questa condizione “calibrata” come traccia segnica viene ridotta al minimo, come ben tu dici, per me è solo un’esigenza spirituale. Ricerco l’ indefinito che mi introduce lentamente allo spazio “mistico”.
Nella maggior parte di queste opere, oltre ai mezzi espressivi dell’arte vi sono alcuni oggetti o altri elementi di uso comune presi dalla realtà (mozziconi, legno, foglie, cenere, ecc …). Perché questi inserimenti e quali sono i loro significati?
Ribadisco che questi oggetti di uso comune, elementi come (mozziconi, brandelli di legna, foglie, cenere, ecc..) sono tracce riprese dalla realtà; una realtà che ha a che fare con il tempo vissuto di questi pensatori imperdonabili.
Tornando al concetto di spiritualità, in altre tue opere non appartenenti a questo ciclo rendi omaggio a molte figure dell’iconografia religiosa. Che rapporto hai con la religione?
Il mio rapporto con la fede è assolutamente devozionale e confessionale; quando dico “confessionale” intendo di dialogo continuo con Gesù Cristo. Un rapportarsi a Dio e allo spirito con la meditazione e la pratica della preghiera, specie quella del Rosario. La vera fede è rivolta alla trascendenza. Mi viene in mente Bruno Forte in un suo testo dal titolo “La porta della fede” in cui dice: “secondo…un’etimologia medievale “credere” deriverebbe da cor-dare, dare il cuore rimetterlo incondizionatamente nelle mani di un “altro”: crede chi si lascia far prigioniero dall’invisibile Dio”. Ebbene, questo mio credere…lasciarsi imprigionare da un Dio dell’amore.
L’artista:
Prisco De Vivo è pittore, scultore, designer, poeta. Attivo sin dal principio degli anni Novanta, nel 1998 comincia la sua collaborazione con la Galleria Mimmo Scognamiglio di Napoli, che presenta il suo lavoro, articolato in cicli, presso Arte Fiera di Bologna, Art-Cologne e Art-Brussels.
Ha quindi esposto in Italia, Germania, Svizzera, Finlandia,Nizza , New York e Argentina, in gallerie private e in spazi pubblici. In Italia è considerato dalla critica come uno dei più complessi ed originali artisti della sua generazione: la sua figurazione di matrice espressionista sfugge tuttora a qualsiasi rigido inquadramento.
Il suo discorso artistico ha trattato in maniera singolare l’inquietudine umana e si è sviluppato in una dimensione estremamente concettuale. Le sue opere sono in importanti collezioni italiane ed estere. Hanno scritto di lui: Vitaldo Conte, Maurizio Cucchi, Michel Dansel, Alberto Dambruoso, Mario De Micheli, Gillo Dorfles,Gigiotto Del Vecchio, Janus, Francesco Gallo Mazzeo, Rubina Giorgi, Gustav Krefeld, Wanda Marasco, Gianruggero Manzoni, Plinio Perilli, Gaetano Romano, Enzo Rega, David Ross, Manlio Sgalambro, Leo Strozzieri,Massimo Sgroi.
Nel 2014 inaugura “Lucis – Art Studio Gallery”, a Quadrelle(AV), all’interno del Parco Regionale del Partenio, nel suggestivo territorio boschivo del torrente Vallelonga.
Configurandosi come spazio operativo, Lucis è divenuto luogo di contagio che germina visioni di una realtà trascendente, per chiunque ne attraversi liberamente gli spazi, è un vero e proprio laboratorio dell’evanescenza.
Questi i lavori di Prisco De Vivo proposti in questo numero:
Edith Stein fra rametti dell’origine e i frammenti blu dello spirito
Tecnica mista su cartone 2022
Emil Cioran tra frammenti di legni e foglie d’autunno, nel bianco dell’assenza
Tecnica mista su cartone 2022
Ernest Jünger fra fiori secchi e il rosso dell’anima
Tecnica mista su cartone 2022
Ferdinand Savater tra il blu della sera e le carte stropicciate della memoria
Tecnica mista su cartone 2022
Guido Ceronetti fra vetro carta e cielo
Tecnica mista su cartone 2022
Maria Zambrano fra le carte della sera e frammenti di ferro
Tecnica mista su cartone 2022
Martin Heidegger fra la cenere del tempo ed i mozziconi della perdita
Tecnica mista su cartone 2022
Otto Weininger tra il bianco del Delirio e la piccola luna d’argento
Tecnica mista su cartone 2022
Pavel Florenski fra la polvere dell’oro e il le croci russe
Tecnica mista su cartone 2022
Susan Sontag tra carta e cotone ed i segni scolorati del tempo
Tecnica mista su cartone 2022
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.