Fare Voci marzo 2021

A ridosso di una zona rossa diffusa che già si annuncia difficile e faticosa, “Fare Voci” si muove con la consueta volontà di proporre autori, letture, sguardi ed ascolti.

Ad iniziare da Laura Corraducci e la sua nuova raccolta di poesie “Il passo dell’obbedienza”, voce d’autore di qualità ed impegno.
I confini si allargano, poi, con i tre testi inediti in italiano della poetessa bielorussa Volha Hapeyeva e il libro “Lo specchio delle ombre” del francese Bernard Vanel.
Ma la voce d’autore prosegue, con il nuovo e riuscito “Not bad (2019 – 2020)” di Claudia Zironi, e con le poesie e gli haiku di Clara Maggiore, e il suo “La pazienza degli alberi”.

Il ti racconto è nel sorprendente romanzo “Le cose di Benni” di Gianmarco Perale, e nell’invito alla lettura di “Il fiume a bordo” firmato da Angelo Floramo, Mauro Daltin e Alessandro Venier, e di “Memorie della foresta” di Damir Karakaš.

Le altre note sono quelle di Giovanni Zacchigna, e il suo album “Le canzoni della stanza”.

Le immagini sono nel progetto Casa Semplice di Marco Opla Pasian.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

Immagini        —————————–

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————–

Non servono molte parole alla verità

Laura Corraducci, “Il passo dell’obbedienza”

di Giovanni Fierro

Più di tutto, sempre, c’è il bisogno di dare un senso a ciò che si vive.
Riempire di significato le parole che si decide di pronunciare.
Un qualcosa a cui si vuole appartenere. A volte da subito, altre con la scoperta di poterlo fare.
E tutto questo nutre la costruzione de “Il passo dell’obbedienza”, la nuova raccolta di poesie di Laura Corraducci.
Perché il suo scrivere è poesia che vuole stare in piedi, sulle proprie gambe. Che vuole indicare nomi, luoghi e tempi. Uno scrivere che permette all’autrice di creare un tessuto – emotivo e di pensiero – che sa trattenere ed evidenziare nelle sue trame la Storia e le storie.
Perché c’è la necessità di riconoscersi “in un tempo dove l’amore non cede/ e l’eternità può durare soltanto tre ore”; la prima mappa a cui appartenere, la prima esplorazione per trovare poi tutti i gesti vitali.
Laura Corraducci, con il suo scrivere, non fa un passo indietro, non cede di un millimetro nel suo stare con gli occhi aperti. In ogni poesia de “Il passo dell’obbedienza” il suo è un ricordare e costruire il presente. È allungare la mano al tempo che sarà, per tenerlo più vicino, più stretto. A cui affidargli un calore che può essere solo che difeso.
Sì, “c’è la sera che precede il tuo sguardo/ l’attesa dalle labbra si sposta alle dita/ la luce con il buio stringe l’alleanza”, a sancire una intimità che dà intensità al suo passo narrativo.
Sette capitoli, dove Laura Corraducci ci racconta di sé, del suo specchiarsi nelle vele che muovono il mare a lei vicino, del buio profondo dei campi di sterminio e di chi li ha vissuti, di chi ha lottato per la libertà per una Resistenza di cui c’è sempre bisogno, della volontà di trovare nuove terre che dicano di una serenità possibile, della sua Pesaro, di donne – Maria, Juana la loca, Simona Atzori, Caterina Donati – che hanno conosciuto il centro esatto della vita.
E questo suo nuovo scrivere si fa corpo, ha la pelle scorticata e l’anima intera, ha il respiro di ogni respiro, uno per ogni persona che in queste pagine viene ricordata e raccontata. Qui, adesso come nel presente di tempo fa, dove “è acqua di storia che ingiallisce” e dove “siamo veri solo se restiamo/ qui nel cerchio rotto di una stella”. C’è molto lavoro da fare.
Ma il presente in cui si immerge Laura Corraducci è anche il tempo di una società che merita di essere migliore. Ci sono le provenienze, le ferite e le gioie. I tempi del paesaggio e quelli della riflessione.
Dove c’è sempre bisogno di condividere lo stare al mondo, “non servono molte parole alla verità/ basta sentire sottovoce il mio nome/ e tutto il vento che soffi tu mentre lo dici”.
Non rinuncia mai alla poesia come situazione creata da immagini e sensazioni, la sua scrittura curata ed incisiva porta in evidenza il necessario, il profondo, il non dimenticato, ciò che non si consuma, ogni piega che ha saputo anche dare dolore. E per fare questo apre il silenzio, lo esplora, lo mostra, lo rivolta a volte, quando non se ne può fare a meno.
La radice comune di tutti questi testi è profonda, tiene salda ogni parola, ogni fare che Laura Corraducci ha affidato alla pagina. Si sente e si riconosce la sua provenienza, che dà forza e caparbietà al suo testimoniare al suo essere ‘dentro’ e mai ‘fuori’. È lo stare nella propria attenzione, nella comprensione dell’altrui vivere, nello scegliere sempre da che parte stare.
Perché, forse, “Il passo dell’obbedienza” nasce da un luogo unico, da una vibrazione che è capace di dare melodia ad ogni poesia che contiene, il luogo esatto “dove mio padre mi teneva su una mano/ e con l’altra staccava stelle dalla notte”.

 

Dal libro:

la casa che abiti non ti appartiene più
cade polvere dai muri e dagli occhi
sulle favole raccontate ai bambini
eppure vedi sei il solo che ritorna
nei fiori bianchi di questa primavera
per riannodare ogni filo con le mani
a ricordare che il coraggio dell’amore
si nasconde sempre nel timore della resa

*

a mio nonno Giuseppe Corraducci, partigiano, mai conosciuto sulla terra

i sentieri che attraversi non portano segnali
la rotta l’hai cambiata nel percorso
si impara l’immobilità dai boschi
a sigillarsi il cuore nella canna di un fucile
a dimenticarsi il nome dentro un fazzoletto
quanti alberi hai visto corteggiarti le mani
seguirne il pulsare lungo le vene
e quando il buio ti veglia le spalle
cadi in ginocchio davanti alla notte
per sentire odore di figlio sulla corteccia
e l’alito dolce di lei che in gola scende
insieme al sonno ed al tabacco

*

questo è il luogo dove il sole tace
gli uccelli fanno delle nuvole il nido
l’isola dondola sempre in un sogno
dove il mare si curva fino alle stelle
e il cielo è il tetto spezzato delle chiese
ma il re lui sa quando sguainare la spada
venirmi incontro senza implorare
e si inginocchia serio come un mendicante
per tagliarmi paziente il fiato dentro la gola

*

quando le sedie rimangono vuote
io vedo questo abito farsi più scuro
e nessuno ricordare più il mio nome
allora sento la vita compiersi ancora
insieme al dolore bagnato di un fiore
nel passo danzante dell’obbedienza

 

Intervista a Laura Corraducci:

La Storia non è solo questione di tempo passato, ma ci sono persone e avvenimenti da ricordare e da difendere. Mi sembra che questo possa essere uno dei punti cardine de “Il passo dell’obbedienza”…
Grazie intanto delle tue parole e dell’ospitalità a me, alla mia poesia.
Direi che hai colto molto bene uno dei punti cardine, come lo hai definito tu, legato al “ricordare” e al bisogno di custodire, con cura, determinati avvenimenti e le persone che li hanno, in un certo qual modo, abitati.

E in queste pagine si costruisce anche un ‘tempo’ che tutto contiene. Cos’è, un abbraccio a tutti questi vissuti di cui racconti, o è ciò che rimane, ogni singola ‘sensazione importante’ che in qualche modo è emersa da questo nostro tempo così confuso e delicato?
Mi piace l’immagine dell’abbraccio, la trovo per nulla scontata o affettata, direi che in questo tempo che stiamo vivendo, il contatto fisico è forse uno degli aspetti più dolorosi che è stato toccato o, meglio, strappato via, penso al discorso dei nonni che, per questioni di sicurezza, non hanno potuto o non possono vedere i nipoti da molto tempo, esiste tutta una galleria di relazioni importanti che faticano ad esprimersi in questi mesi così complicati e altalenanti, dunque, l’immagine che mi proponi è in una sintonia, seppur asincrona, rispetto ai testi del libro, perfetta.
Dico spesso nelle mie letture (a proposito di abbracci, spero, tanto, di poter ritornare a riabbracciare la poesia con le persone davanti) citando una frase di Pierluigi Cappello, che: “il poeta ha responsabilità nei confronti di chi lo ha preceduto, nei confronti di chi è a lui contemporaneo e nei confronti di chi verrà”, il discorso della responsabilità del poeta non è, certamente, soltanto di Cappello, ma anche io lo sento in modo particolare, non solo, nei testi che ricordano un evento storico preciso; ogni verso, infatti, che decidiamo di condividere con “l’altro” è un atto di responsabilità che pone me, poeta, e il lettore, in un rapporto profondo di interazione e di scambio, mai fine a se stesso, né tantomeno all’aspetto egoico (grande tentazione) del narcisismo poetico e artistico in genere.

Le figure femminili sono fondamentali nel libro. E mi sembra che questo voglia dire che la nostra società con troppa facilità se ne dimentica….
Forse si, la società mette ancora, per certi aspetti, la figura femminile in ruoli stereotipati o, peggio, schiacciati da una richiesta di consumo e di dettami estetici, ma sarebbe un discorso lungo…
In realtà, ho scelto tre figure femminili quasi senza rendermene conto. Ognuna di loro, con storie diverse e sogni differenti, incarna (Maria lo fa anche fisicamente) un destino di vita, un obbedire a ciò che dentro parla loro: Maria dice “sì” a Colui che nemmeno comprende fino in fondo, ma che sente essere la Voce più profonda che abbia ascoltato, la riconosce e, soprattutto, da essa si sente riconosciuta, non può che ascoltarla e seguirla fino alla fine, fino alle conseguenze più estreme, alla morte di Cristo, e poi nella speranza che si fa certezza dentro la Risurrezione.
Juana La Loca non si piega al giogo del potere del suo tempo che la vuole svuotata di ogni dignità e della sua libertà di donna; se lo fa materialmente, non riesce, però, a farlo interiormente.
Ci sono in lei, nella sua storia di reclusa e di “folle” (probabilmente per interessi regali e non per una reale patologia) un’innocenza e una forza straordinarie che rimangono integre, intatte, inalterate dalle logiche corrotte della corona che vorrebbero ridurla al nulla, e paradossalmente, finiscono per esaltarne la forza e la grandezza. Dalla torre senza scampo della sua prigionia, Juana non smette di amare la vita, obbedisce alla verità di se stessa disobbedendo alla menzogna che vorrebbe renderla prona.
Simona Atzori è una danzatrice contemporanea, nata senza le braccia; la sua sezione non a caso si intitola “Poesie per la Venere senza braccia”. La conobbi anni fa quando incontrò degli studenti della scuola di un paese dell’entroterra riminese in cui insegnavo, rimasi molto colpita dalla sua energia e dal suo entusiasmo; nonostante una condizione fisica di grande difficoltà, ha obbedito al suo sogno, diventando una ballerina e ballando su palchi importanti, superando i “no” e gli ostacoli che la vita le ha messo davanti.
Rappresenta l’imperfezione, quello che la società del “corpo sano e perfetto” tende, se non a mettere da parte, a guardare con sospetto, arrivando ad una finta pietà o, peggio, ad una artefatta accettazione.
Tre donne eccezionali, così come Caterina Donati, a lei è dedicata la poesia di apertura dell’intera sezione; è morta nel 2018 a Pesaro, era una psicologa, soffriva di osteogenesi imperfetta ma questo non le aveva impedito di realizzare ciò che sentiva nel profondo, di vivere la sua breve esistenza in modo intenso e assolutamente pieno, diventando punto di riferimento per tante persone che hanno, come me, avuto la fortuna di conoscerla.

Fra le varie sensazione che il titolo mi fa vivere, anche contrastanti tra loro, quella in cui più mi ritrovo è questa sensazione di rimanere con i piedi per terra, di trovare un sentiero da percorrere e da scoprire, e dedicare l’obbedienza ai propri desideri e principi…. ‘obbedienza’ non è una parola facile…
Si, obbedienza è una parola scomoda, fastidiosa, soprattutto se pronunciata nell’epoca in cui impera una cultura dell’io e dell’affermazione del proprio piacere senza se e senza ma (nell’assenza quindi di filtri e divieti che possano impedirne il raggiungimento) come unico parametro delle scelte umane, relazionali, lavorative.
In realtà, faccio riferimento all’etimologia della parola “obbedienza” dal latino “ab-audire”, cioè ascoltare, obbedire è restare in ascolto, fermare il rumore e compiere un atto di volontà preciso, sentire è involontario ma, quando decido di ascoltare, devo impegnarmi, devo silenziare ciò che mi è intorno, e questo diventa necessario se voglio indagare (non oso dire capire) la verità di me stesso, nell’arte, nella letteratura, nella vita.
Tante voci spesso, se non sempre, ci parlano addosso e anche dentro, soffocando quella che, invece, è l’unica che dovremmo sentire e che, a volte, abbiamo paura di fare.
L’obbedienza a noi stessi, all’intimità di noi stessi (non ai capricci emotivi) è sempre un processo creativo e attivo, lungo e per nulla semplice, ed ecco perché si accompagna sempre ad un “passo”, ascoltare non è mai solo per noi stessi, ci mette in movimento e ci porta inevitabilmente verso l’altro, così come il processo creativo che nasce, sempre, da un’azione solipsistica ma si realizza pienamente solo in una condivisione comunitaria.

C’è anche un senso di ‘sacro’ che si muove fra queste poesie. Ma il ‘sacro’ che ha che fare con la vita, con la sua unicità. Può essere anche questo un possibile filo rosso che nutre queste tue nuove pagine?
Direi di sì, il sacro è la vita nelle sue forme più fragili, più quotidiane e “piccole”, trovo questa considerazione molto bella; sacro non è qualcosa di lontano dalla realtà umana, ma di profondamente vicino ad essa, ad ogni suo aspetto, anche quelli più bui e affaticati, credo sia giusto che la poesia li attraversi in tutte le sfaccettature.
La dimensione spirituale, per me importante, non è mai un qualcosa di totalmente e puramente ascetico, la Bellezza è sempre nella e con la carne, mai al di fuori di essa, dal suo candore intatto, bianchissimo, ai lividi scuri e alle cicatrici.
Nulla è escluso da questa “sacralità” che è, come hai detto, l’unicità della vita.

Perché poi, nella sezione “Le vele”, ho vissuto i testi contenuti come un ‘canto’ al respiro, al soffio che nutre ogni cosa, al fiato che riempie le nostre vele, i nostri polmoni…. Un qualcosa che accade ma che ci permette di solcare il mare di ogni giorno, di affrontare ogni onda….
Grazie delle tue parole, hai colto molto bene la sezione che è una di quelle del libro che scrissi fra le prime proprio all’inizio di un’estate.
Vivendo sull’Adriatico il mare è per me uno spazio dell’anima oltre che fisico, è un polmone azzurro al fianco del quale si stende la mia città.
Le Vele sono un po’ tutto quello che hai detto, una libertà materiale ed interiore che, non sempre, anzi quasi mai, è facile, la vela si sporca, si arrotola, deve farsi piccola per aspettare il vento e spiegarsi, è il desiderio della luce e dell’aria, simbolo di vita che riparte sempre, di fertilità, di rinascita laddove sembrerebbe impossibile.

Le Highlands, il mare, la tua città, il ghetto di Cracovia, Parma… la ‘geografia’ del tuo libro è davvero ampia. Cosa tiene vicini ed assieme tutti questi luoghi?
Il desiderio, direi questo, il desiderio tiene insieme tutti questi luoghi, sono posti che ho sognato di vedere e che ho vissuto con grande entusiasmo, indipendentemente dal tempo più o meno lungo che vi ho trascorso; il luogo è il desiderio che si concretizza nello spazio e in un tempo precisi che in poesia ri-attraverso e ricreo per poterli fermare e per consentire a me stessa di sostarci di nuovo e, in un certo qual modo, per sempre.
Nel libro precedente c’era l’Africa, il carcere della mia città dove fino all’arrivo del covid ho fatto volontariato; spazi che, da materiali, hanno acquisito una loro tridimensionalità nei versi o attraverso i versi, questo penso sia il mio modo di entrare nelle esperienze che vivo, la poesia è per me anche un incontro fisico, carnale con la mia stessa vita.

La presenza di Pesaro è qui fondamentale. Sa di radici e di aspettative, di appartenenza e sofferenza. Che rapporto hai con la tua città?
Grazie della domanda sulla mia città, è vero ho un rapporto molto profondo, per certi aspetti filiale, mi sento figlia della mia terra, le devo molto e ho sentito in questo libro la necessità di scriverne in modo più diretto; penso alla poesia che ho dedicato alla liberazione di Pesaro o alla strage di un piazzale del centro (Piazzale Innocenti) in cui, a causa di una granata tedesca, persero la vita 14 persone, di cui la maggior parte bambini.
Volevo che le strade che l’attraversano, le storie di dolore e di amore sacrificale che spesso sono nascoste nei cartelli agli inizi delle vie, non cadessero a vuoto dentro le pupille dei nostri occhi superficiali, distratti, immemori.
In fondo desideravo cantarne la bellezza e anche un poco la gratitudine. La mia non è una poesia del paesaggio, non prettamente direi, ma una poesia dei luoghi e delle persone che rendono umani e vivi i luoghi in cui si muovono, respirano, sognano.

“Il rovescio della luce” include poesie dedicate alle vittime dei campi di concentramento e a persone, anche care, che hanno fatto la Resistenza. Sono un valore che, mi sembra, ha bisogno di essere sempre più mantenuto in vita. La poesia è partigiana?
La poesia è umana direi, anche partigiana nel senso alto di eroismo e coraggio. Ho raccontato mio nonno Giuseppe Corraducci, partigiano, Gina Galeotti Bianchi, la staffetta Lia, ma anche Rolando Rivi, un seminarista quattordicenne torturato e ucciso per la sua fede e perché non volle rinunciare al suo abito scuro di futuro sacerdote, un’obbedienza al sogno pagata con la vita.
Durante la Seconda Guerra Mondiale si scatenò un profondo odio nei confronti dei religiosi di cui si sa ancora molto poco.
La sezione si chiude (così come si apre con una sua citazione) con un testo dedicato ad Etty Hillesum, una donna (anche in questo caso!) straordinaria, che ha saputo trasfigurare l’impossibile, l’orrore più cupo che ha attraversato il Novecento; credo che il valore grande, insieme alla memoria, sia l’atto di resistenza e di opposizione al male anche quando intorno tutto crolla e restano macerie fumanti.
La sezione è ricca di testimonianze di vita che oggi, forse più di allora, appaiono più che mai luminose.

Il linguaggio usato mi sembra sia decisamente al servizio di ciò che dici e racconti. Non ci sono ‘giochi di specchi’, speculazioni di effimere ‘forme poetiche’, né ‘preziosismi’ fine a se stessi. Che lavoro, quindi, c’è stato alla base delle parole scelte, per dare forma allo scrivere di questo libro?
Un lavoro non facile, il famoso corpo a corpo con la parola a volte lascia spossati, sciancati ma forse più consapevoli.
La sezione storica ha, volutamente, un linguaggio più “narrativo” e meno lirico; volevo avesse il passo (per restare in tema con il titolo) del racconto diretto, della storia. Le altre sezioni viaggiano su uno stile meno diretto, meno, a volte, immediato, come, almeno spero, deve sapersi muovere la poesia, in quella zona di mezzo, in una terra chiaroscurale, dove i contorni sono ora netti, ora sfumati, indefiniti e generano uno spazio ancora più grande, infinito.
Che non è dato tanto, o solo, da ciò che dice, ma è soprattutto dato da ciò che la poesia è in grado di evocare nel cuore di chi, appunto, la ascolta e le obbedisce.

 

L’autrice:
Laura Corraducci è nata a Pesaro, dove vive, nel 1974.
Insegna lingua e letteratura inglese nella sua città, dove organizza ogni anno una serie di eventi poetici all’interno della rassegna “Vaghe stelle dell’Orsa”.
Ha esordito nel 2007 con “Lux Renova” a cui ha fatto seguire nel 2015 la raccolta “Il canto di Cecilia e altre poesie”.

(Laura Corraducci “Il passo dell’obbedienza” pp.103, 12 euro, Moretti&Vitali 2020)

 

 

 

 

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Tempo presente        —————————-

La vita si è mossa a modo suo

Tre poesie inedite in italiano

di Volha Hapeyeva

 

аднойчы я сустрэла мужчыну
які думаў што ён торт
не ўдакладняла які – вясельны ці на паўналецце
але вера яго была такой моцнай
што я паддалася
і стала хацець яго
мець на сваёй талерцы жыцця
і ўсё да таго і ішло
адстаяла чаргу ў месяц
прапускаючы наперад дзяцей і інвалідаў не
вядомых мне войнаў
і калі час дайшоў да мяне
аказалася застаўся апошні кавалак
і мужчына-торт аб’явіў
я адзін а вас шмат
не дамся нікому

захапляйцеся маёй прыгажосцю
на адлегласці недасяжнай
я апомнілася
і ўзгадала што не аматарка тортаў

Una volta ho incontrato un uomo
che pensava di essere una torta
non ho riconosciuto di che tipo – da matrimonio o di compleanno
la sua fede era così forte
che ho ceduto
e ho cominciato a volerlo
nel mio piatto della vita
e la vita si è mossa a modo suo –
ho fatto la fila per un mese
facendo passare avanti i bambini e gli invalidi
di guerre sconosciute
e quando è arrivato il mio momento
era rimasta solo una fetta
e l’uomo-torta ha annunciato
a chiunque stesse ascoltando
io sono uno
e voi siete tanti
non sarò dato a nessuno

guardatemi e ammirate la mia bellezza
da una distanza irraggiungibile
mi sono ripresa
e ho ricordato che non amo le torte

*

спраўджваю фіялку
ці супадае ейны колер
з колерам бэзу што квітнеў калісь ля майго дома
даведнік усё ўскладняе
дадаючы лаванду і фуксію
у гэтай кветкавай разнастайнасці
перакладаю твой верш

усё што адбываецца з намі – словы
усё чым мы ёсць адна для адной – вершы

і калі я пішу гэты радок мой лятак выпускае шасі
а ты пайшла на шпацыр у парк
і ў нашых пакоях сталы з разгорнутымі нататнікамі
памаранчавым і чорным
у прадчуванні нас, нашых целаў і колерных
каардынатаў

сумных і сухіх
як размовы пасля таго як ты аднойчы сказала што
сябрам мне быць не хочаш

controllo se la viola
ha lo stesso colore
del lillà che un tempo fioriva in casa mia
il dizionario complica le cose
aggiungendo il lavanda e il fucsia
ai fiori in questa stanza
mentre traduco la tua poesia

ogni cosa che ci accade sono parole
tutto ciò che siamo l’uno per l’altro sono poesie

e mentre scrivo questo
al mio aereo si apre il carrello d’atterraggio
mentre tu stai camminando nel parco
nelle nostre stanze separate ci sono tavoli
con taccuini aperti
uno arancione e uno nero,
che stanno aspettando noi, i nostri corpi
e i colori, nominati dai loro numeri

tristi e aridi
come le nostre conversazioni, dopo che hai detto
di non voler essere mio amico

*

ён набыў ёй сукенку
як развітальны дарунак
на свой дзень нараджэння

ці носіць яе цяпер
цікава

свае сукенкі я набываю сама
падарункі мне – дзіўная практыка
асабліва калі ад мужчын

можа праз леві-строса?
так доўга была падарункам сама

даваць і прымаць
і прымаючы аддаваць
сімвалічная пустата
вяжа нас

замест мужчын і жанчын
мы абменьваемся гісторыямі пра іх

у надзеі
зрабіцца хаця б далёкімі
сваякамі

le ha comprato un vestito
come regalo d’addio
per il suo compleanno

se lo indossa ancora
mi chiedo

i miei vestiti li compro da sola
i regali sono per me una strana abitudine
in particolare quelli degli uomini

forse a causa di Lévi-Strauss?
per molto tempo sono stata un regalo anch’io

dare e ricevere
e prendere così come il dare via
il vuoto simbolico
che ci lega

al posto di altri uomini e donne
ci scambiamo le loro storie

con la speranza
di diventare – almeno – lontani
parenti

 

L’autrice:
Volha Hapeyeva (Вольга Гапеева) è una riconosciuta e premiata poetessa, nata a Minsk, in Bielorussia, nel 1982.
I suoi libri sono stati tradotti in più di dieci lingue e pubblicati negli Stati Uniti, Austria, Germania, Polonia, Russia, Lituania.
Scrive anche in prosa e si occupa di libri per bambini.
Tra le sue raccolte poetiche ci sono “Unshaven Morning” (2007), “Sad Soup” (2014), “(incr)edible stories” (2017), “The Grammar of Snow” (2017) e “Camel-Travel” (2019).
Ha partecipato a numerosi festival ed incontri in tutto il mondo.
Collabora con autori di musica elettronica e artisti visuali, con i quali crea performance audiomusicali.
Fa parte del Pen Club dell’Unione degli Scrittori Bielorussi.

www.hapeyeva.org

(Le traduzioni in italiano dei testi di Volha Hapeyeva sono a cura di Natalia Bondarenko, in collaborazione con Roberto Lamantea e Giovanni Fierro)

 

 

 

 

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Ti racconto        ———————————-

Poi ha acceso il fuoco

Gianmarco Perale, “Le cose di Benni”

di Roberto Lamantea

A Mirano c’è un’antica pasticceria che ricorda i caffè della Mitteleuropa, Vienna o Trieste, poltrone, tavolini, velluti, specchi, con una sala interna dove è perfino possibile leggere o scrivere, cosa rara oggi perché i bar sono uno dei regni del rumore.
In quella saletta della Pasticceria Belvedere, nel cuore storico della bella cittadina veneziana, era facile incontrare un ragazzo sui 30 anni, seduto al tavolino intento a scrivere al computer.
Il ragazzo è Gianmarco Perale, che a Mirano è nato nel 1988 ed è tornato a vivere dopo un periodo a Milano. Nella metropoli lombarda Perale ha frequentato la scuola di scrittura Belleville dove ha seguito tra gli altri i corsi di Walter Siti, che ha letto la prima traccia del romanzo e ha incoraggiato il giovane veneziano a pubblicarlo. Dopo varie riletture e riscritture il testo è diventato un romanzo, “Le cose di Benni”.
“Le cose di Benni” non ha (quasi) trama. L’asse narrativo ruota attorno al rapporto tormentatissimo tra Davide, detto anche Dudi o Drago, 22 anni, e la coetanea Benni, la ragazza di cui Davide è innamorato.
I due si conoscono da bambini. Prologo ed epilogo coincidono: Davide è nella stanza d’ospedale dove Benni è ricoverata perché ha tentato il suicidio dandosi fuoco. In un’altra scena Benni è sul tetto di un palazzo, il pensiero è quello di buttarsi. In un’altra pagina la ragazza uccide Falco, il suo cane, sgozzandolo.
Le tre sequenze “forti” del libro, tre pennellate di colore cupo, sono tutte qui. Il resto è tramato sulle ossessioni di Davide per Benni, sul suo amore malato, nevrotico ma non folle; sulla rete delle amiche e degli amici impigliati in dialoghi ossessivi; sulla gelosia, gli inseguimenti e gli appostamenti per vedere dove va la ragazza (che ha una breve relazione con il cameriere di una discoteca) per le strade di una spenta periferia: nel romanzo Milano è poco più di un’ambientazione geografica, fra strade, palazzi e appartamenti, e certi interni ricordano la pittura di Edward Hopper.

Ma anche se non succede quasi niente al di là di quanto accennato la lettura di “Le cose di Benni” inchioda, il lettore non si stacca dalle pagine, una dopo l’altra, costruite con dialoghi secchi, tesissimi, frasi brevi, dove i personaggi spesso non vanno oltre l’allusione.
Solo Davide ha qualche scatto, ogni tanto, e affronta l’argomento in modo diretto, provocando il rifiuto da parte degli amici: Benni si vede con qualcuno? Benni va da una psicologa? Ci dice bugie?
In un passaggio crudele del libro, verso la fine del romanzo, Yuri, l’amante di Benni, dice a Davide: “Sei uno sfigato. Le bugie le dice a te”. Innamorato senza speranza, nel gorgo di una nevrosi che confina con la follia, Davide ricorda certi personaggi di “inetti a vivere” disegnati da Svevo o Tozzi.
In certi momenti Benni ricorda – in tutt’altro contesto narrativo – Ghìsola, la protagonista di “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi (1919): la bellezza di Ghìsola è proprio il suo fuggire.
O l’amore mai raggiunto dei libri di Pavese, che viene anche citato con un’unghiata ironica: “Dimmi qualcosa di romantico. Ce la fai? Qualsiasi cosa. Che non l’abbia già detta Pavese”.
Lo stile de “Le Cose di Benni” – così secco – rinvia alla narrativa americana, a una prosa senza fronzoli. Dialoghi come schegge, segmenti minimali che dettano gli slittamenti della trama, glissements, piccoli spostamenti di sguardo.
Perale riesce a creare tensione narrativa sul niente, su dialoghi minimi, spezzati, quasi balbettati, ma che trasmettono l’angoscia di un vuoto. Il racconto si snoda fotogramma per fotogramma, con frammenti di visioni del contesto in cui il dialogo si svolge, nulla è sottinteso, ogni gesto – anche il più banale – viene seguito nel suo svolgersi in uno stile affidato alla paratassi, il passato prossimo, il discorso diretto: “Sui fornelli c’erano una pentola chiusa e una aperta. Marta ha tirato fuori un tagliere, poi è andata al frigo. Ha preso una cipolla ed è tornata al lavello. L’ha sciacquata e l’ha appoggiata sul tagliere. Ha preso un coltello, l’ha passato sotto l’acqua e ha tagliato in due la cipolla. Poi ha acceso il fuoco”.
Si potrebbe citare anche Perec, per questa prosa. Il ricorso al passato prossimo “esplode”, in un racconto costruito sui dialoghi, nell’uso martellante del verbo “dire”:

“È la mia migliore amica.”
“Non è vero. E lo sai. È la cosa che ti dici tu. E lo dici perché lo dice lei.”
“Cosa intendi dire?” ho detto.
“Quello che ho detto.”

O del verbo “vedere”:

Non la vedevo da cinque mesi. Carlo mi aveva detto che Benni e Rebecca si vedevano poco, e che gli altri non l’avevano più vista.

Davide è disilluso ma la sua ansia rivela un’ostinata volontà di vivere. È significativo che in questo romanzo nessuno dei personaggi parli mai del futuro, accenni a sogni, desideri. Non è la voglia di vivere che manca: è una motivazione, un’identità. Quella che in questi anni spenti e volgari i giovani si sono visti togliere.

 

Dal libro:

C’è stato silenzio. Mi fissava e non diceva niente. Siamo rimasti così per qualche secondo. Mi si era slacciata una scarpa. Nonostante i guanti, avevo le dita congelate e si muovevano lentissime. Ho fatto un doppio nodo, poi ho guardato Yuri.
«È un problema se si uccide?» ho detto.
Si è guardato attorno.
“Cosa stai dicendo?”
“Quello che ho detto.”
Silenzio.
“E perché dovrebbe uccidersi?”
“Perché sì.”
Silenzio ancora.
“È uno scherzo?”
“No.”
Si è messo a ridere.
“Hai qualcosa che non va. Lo sai?” ha detto.
“Non ho niente che non va. Te lo assicuro.”
Mi guardava come se fossi matto. Così ho detto: “È la verità. Ed è già successo. Capisci?”.
Ha smesso di sorridere.
“È successo, cosa?”
“Che provasse a uccidersi.”
Ha fatto un passo in avanti.
“Cioè?” ha detto.
“Hai capito.”
“Giura.”
“Sì.”
“Come?”
Non ho risposto. Si è messo le mani sulla faccia, e poi ha detto: “Che problemi hai?”.

 

Intervista a Gianmarco Perale:

“Le cose di Benni” è un libro insolito nella narrativa italiana ed è il tuo primo romanzo. Libro di un giovane sui giovani, tramato di disillusioni e ossessioni, il romanzo racconta di un amore difficile o forse impossibile e di caratteri border-line. Come ti è nata la prima traccia o idea del libro? Ha avuto più riscritture?
È un libro di ossessione. Ogni personaggio, ognuno col proprio punto di vista, tenta di inquadrare le emozioni del protagonista. Quello che Davide crede di provare, Benni non lo vede e gli altri non lo capiscono.
Al principio c’è l’incomprensione. La mancanza di un vocabolario, un registro che guidi i personaggi e che li aiuti a comprendersi e a concordare nelle decisioni prese. In ogni azione, a ogni scelta, qualcuno non capisce, non accetta e non perdona.
Trovo che Davide sia un pavido, un illuso. Si dimena come un pesce, preso all’amo quando è in acqua. Trascinato a riva, al posto di dimenarsi, lottare, sbattere la coda, Davide si ferma. Si agita freneticamente nelle assenze, e poche e timide volte in presenza di Benni. Con lei vive il coma, un sonno profondo, con qualche fiammata, ma mai coraggiosa.
La disillusione, invece, è il tratto principale dei personaggi satellite. Tutti si accorgono che le convinzioni di Davide hanno un nucleo oscuro, nonostante alcuni lo spalleggino. Tutti comprendono il disagio, ma nessuno mette a fuoco.
Non ricordo la genesi di questa storia. Trovavo interessante far vivere un personaggio come Davide.
Il testo ha avuto due stesure, entrambe negli ultimi due anni.

Il tuo stile narrativo è secco: dialoghi diretti, minimalismo che “fotografa” ogni sequenza, frasi brevi: quali sono i tuoi modelli letterari? Sulla scrittura ha inciso la tua formazione teatrale?
Penso siano tre. Hemingway: ossessioni, la paura e il coraggio, storie di toreri, cacciatori, soldati e morte. Uno stile semplice, e una semplicità continua.
Carver: i racconti liberi e i racconti editati da Lish. Mai una parola in più. Ogni frase è millimetrica. Intuizioni estetiche. La capacità, come Hemingway, di creare gente e quotidianità.
Ágota Kristóf: linguaggio scarno, povero e profondo.
La mia formazione teatrale ha inciso per due motivi: la credibilità del dialogo, e l’importanza dei diversi livelli di profondità che in uno scambio di battute un personaggio può raggiungere. Nei dialoghi cerco di mescolare le intenzioni dichiarate con le intenzioni nascoste. Il teatro mi ha insegnato che in una battuta di dialogo si può ragionare a più livelli. Che quando un personaggio parla, posso rendere le sue intenzioni molteplici. Esplorative. Mai definitive.

Anche la Milano dove si svolge la storia è disegnata al minimo: periferie, palazzi, condomìni, come se alla trama in levare corrispondesse un’ambientazione altrettanto minima, strade, bar, l’Università.
A Milano hai vissuto per qualche anno: ci racconti la tua esperienza?
Sono andato a Milano per le opportunità. Gran parte dell’editoria opera lì. Corsi, presentazioni, persone.
Ho lavorato in un cocktail bar e ho condiviso un appartamento. La mattina leggevo, il pomeriggio scrivevo e la sera lavoravo. Alle 2.00 ero a casa, dormivo, e il giorno dopo uguale. E il giorno dopo ancora, per quattro anni.
Ho frequentato la scuola di scrittura Belleville, e i corsi con autori di altissimo livello e grazie ai quali sono cresciuto.

Il tuo rapporto con i personaggi…
Non ho rapporti con i personaggi. Ogni tanto, nella scrittura, mi capitava di dispiacermi per Davide. Ma poi pensavo: “Se ti dispiace, vuol dire che è credibile”.

Tu hai 33 anni. Come vedi la tua generazione?
Una generazione piena di idee. Con meno certezze, ma più coraggio.

 

L’autore:
Gianmarco Perale (1988) ha frequentato la scuola di scrittura Belleville di Milano, dove è stato allievo di Walter Siti.

(Gianmarco Perale “Le cose di Benni” pp. 240, 19 euro, Rizzoli 2021)

 

 

 

 

Immagini       —————————–

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Voce d’autore        ——————————

L’occasione di partire

Bernard Vanel, “Lo specchio delle ombre”

di Giovanni Fierro

Il Mediterraneo come incontro necessario e riconosciuto. L’Italia come amore che sa illuminare. La scrittura, la poesia, come il fiorire del proprio raccontare.
È questo il punto da cui partire per dire de “Lo specchio delle ombre” del poeta francese Bernard Vanel, volume di liriche che sorprende e testimonia quanto sia importante portare la bellezza al centro di ogni osservazione.
E il volume inizia con un ringraziamento a chi è stato per Vanel una figura fondamentale, da cui ha ricevuto la fascinazione per l’Italia e la sua cultura: “Per non dimenticarti – non ci crederai mio caro Henry – ho conservato la tua vecchia bicicletta. Dormiva dalla tua partenza nel silenzio di una soffitta”. Perché poi per l’autore, “L’Italia è diventata, dopo viaggi e soggiorni, il paese singolare delle emozioni innate. E Volterra la sua capitale”.
E il Mediterraneo è questo presente allargato e disponibile, che Vanel racconta, dalla Spagna al Maghreb, dalla Sardegna a Olimpia.
Lo scrivere di Vanel, una prosa poetica dall’ampio respiro e dalle delicate tessiture, è capace di rivelare immagini che rimangono, con la stessa intensità di una fotografia: “Fa caldo. Ed i cigni d’Amarante, sul fiume liscio, aspettano qualche manna che cada dai tavoli”.
Si, queste pagine guardano al passato, che diventa il luogo dove tutto è una trasparenza, attraverso la quale le stagioni della propria vita si incontrano e si mescolano, si rafforzano, si danno motivo per esistere ancora di più. Non solo nell’attimo di una personale percezione: “Mi rivedo allora, l’orecchio attaccato al transistor, negli anni sessanta, avevo dodici o tredici anni, piangere piano lacrime di felicità sulla tela certa della cucina buia”.
“Lo specchio delle ombre” è un libro che invita al viaggio, anche quanto non è confortevole, “E la nebbia avvolge il disincanto che provo a camminare tra le pietre morte dove vorrei credermi solo”; ma può di certo fissare l’unicità di ogni stupore, “Attraverso la finestra, la luce bianca e bionda del sole già alto, dà la sua consistenza al mattino di febbraio”.
Perché qui, in queste pagine, tutto è lambito da qualcos’altro: la terra dal mare, le parole dal dire, lo sguardo dal silenzio, il chiarore dall’attesa. Ma non c’è mai attrito, semmai un muoversi di ogni accadere dentro all’altro, in un confluire che crea una luce, mai frontale da dare fastidio, ma sempre diffusa e in cui immergersi, che permette al guardare di vedere.
Forse “Lo specchio delle ombre” è un luogo, e un tempo, dove poter stare per sempre. Come la poesia?
Intanto il trovare le parole giuste di Bernard Vanel continua a dialogare con la fotografia: “Di nuovo il mio sguardo ricompone lo spazio”.
E in questa sua ricerca, essenziale e scelta, non può che ritrovarsi con la necessità di invocare la figura e la presenza di Euridice, per dare al desiderio corpo e destino. A ricominciare sempre il cammino verso ciò che è irrinunciabile.
Si viaggia per andare. Si scrive per rimanere.

 

 

Dal libro:

Lettera a Henry

[…]
Ma mi ricordo anche delle prime ore del mattino. Ci leggevi, per cominciare la giornata, Il vangelo di Matteo. Era il tuo modo, quello che noi preferivamo, per invitare alla preghiera la ribellione dei nostri quindici anni.
Con la tua tonaca nera, qualche libro sotto il braccio, “un po’ d’aglio nelle vocali” (come si diceva di Stendhal), sei tu che mi hai insegnato il desiderio dell’Italia, le terre bruciate della Basilicata e i cipressi della Toscana. Eravamo venti ragazzi appena usciti dall’infanzia che non avevano mai avuto, se non molto raramente, l’occasione di partire.
[…]

*

Tras Os Montes

Nei giardini di Vila Seca, le cisterne sono prosciugate e il giorno muore nel rumore della sera. È il momento in cui la mucca del vicino passa e defeca per strada, sui selciati che scivolano. I pipistrelli volteggiano sopra le soffitte e si sentono i secchi che vanno alla fontana. A Nord, sulla strada di Braganza, dal lato di Murga, l’incendio sfiora ancora l’orizzonte delle colline.
“Tranquilidade. Seguro contra fogo.” Che l’effigie dei santi ed il ferro di cavallo, sulla porta delle stalle, per questa notte ancora protegga il paese.

Vila Seca, 17 agosto 1998

*

Ourika

[…]
Di nuovo il mio sguardo ricompone lo spazio. Nell’esplosione della luce, ecco che arrivano. Ora sembrano avvicinarsi a salti agitando i loro capelli lunghi.
Sono lì. Ormai vicinissimi. E sono dei bambini. Tre ragazzine sfinite, sotto un fardello di fieno. Vengono da lontano e vanno al villaggio, sulle rive dell’Ourika. Una per quanto stanca trova il modo di salutarci facendo un sorriso. Passano. I sussurri delle loro fascine hanno lo spessore delle parole.
Ed io resto lì, confuso di luce, una ferita nell’anima.

Valle dell’Ourika, giugno 1974

*

El Port de la Selva

[…]
Vicino a me sulla sabbia, una giovane donna bionda sposa innocentemente la felicità dell’estate, senza nessun altro vestito di nozze che il bronzo della sua pelle.
Le palpebre chiuse, inerte ed irreale, lei riluce della sua crema solare. Sdraiata sulla schiena. La posa distrugge in lei tutti i segni esteriori del pensiero. Lei è tutt’uno con il mondo, con l’estate che brucia. Lei ne è il calore e la luce, il rumore delle voci e delle onde, nella tenerezza e nell’ordine incessante delle sfere vagabonde.

El Port de la Selva, 18 agosto 1997

*

Euridice V

Poi un giorno Euridice
Le ombre mi prenderanno
Con tutto questo amore
Sparso nel petto

Sarò il deserto
La pietra nel campo
Inerte e inutile
Nell’eterno oblio

*

Euridice VI

Sarai Euridice
Il desiderio e la sete
Sempre ricominciati
L’ingiuria dei morti

La schiuma del mare
Che corteggia la barca
Prima d’inghiottirla
Nelle alghe viola

 

Intervista a Bernard Vanel:

Lo specchio delle ombre” è un libro di soste ed incontri. E il luogo che tutto contiene, più di ogni posto, è il mar Mediterraneo. Che significato ha per lei?
Il libro potrebbe essere una specie di diario di viaggio, ma non è solo quello. In effetti mi sono reso conto, dopo la scelta di questi testi, che il Mediterraneo era onnipresente.
Mi sembra che sia la culla delle mie prime emozioni di viaggio nate sui banchi di scuola. Ecco perché il testo inaugurale è un omaggio al professore d’italiano che mi ha insegnato il desiderio dell’Italia…

In queste pagine sono citati autori ed artisti, che con i loro lavori hanno creato opere necessarie per dare ancora più valore al vivere. È questo il compito della cultura, dell’arte?
Si. Mi è sempre piaciuto viaggiare in luoghi in cui hanno vissuto scrittori e artisti, per condividere il loro sguardo sul mondo. È un modo di vivere altre vite (anche se è un’illusione) e allo stesso tempo aumentare la mia.
L’arte è una finestra aperta sul mondo; e questi testi sono anche loro, in modo modesto, piccole finestre che si aprono su vari posti del Mediterraneo.

La memoria e il ricordo sono molto presenti in questo suo volume. È anche il desiderio di farli stare in un presente condiviso?
Questi testi sono come fotografie fatte con le parole. La letteratura, come la fotografia, dà l’occasione (anche in questo caso illusoria) ad ognuno di poter fuggire al tempo e di fare rimanere ‘presente’ il passato.
Per me la memoria è essenziale. Il ricordo ci dà la prova che abbiamo vissuto.
Il passato è una forza (La Forza del passato di Pasolini!) che ci aiuta, per vivere il presente e per affrontare il futuro.

In queste pagine si alternano pagine di narrativa e di poesia. Come mai questa scelta?
Ci sono tre sezioni: La lettera a Henry, undici pezzi di viaggio e la poesia a Euridice. Secondo me la poesia non è solo una questione di forma. La prosa è poetica. Tutto dipende dalla scelta delle parole e dell’emozione che trasmettono. È una questione di sensibilità e di sincerità.
Nel libro anche la Lettera a Henry, attraverso le immagini che restituisce, è poesia.
Il viaggio evocato, al di là del Mediterraneo, è il viaggio della vita, dall’infanzia fino alla morte (che ricorda Euridice).
Mettere in forma poetica la realtà è un modo per raggiungere un assoluto che si vorrebbe eternità.

Si vive anche una geografia di vicinanze, che mi sembra sia ciò che serve ora, nel momento in cui varie realtà nazionali vogliono chiudersi in sé, costruendo distanze e chiusure. È anche questo lo spirito di “Lo specchio delle ombre”?
Nel viaggiare c’è bisogno, per me, di ricercare la diversità che ci arricchisce e che si chiamava, una volta, esotismo. Ma non nel senso folcloristico della parola. Ciò che conta è uscire da se stessi, è l’incontro con l’altro (fuori dai circuiti dei tour operator), con una cultura diversa; sicché, per me, il primo valore del viaggio è l’apertura.
Vengo da una zona di montagna, lontana dalle strade e, nei miei ricordi di ragazzo, chiusa d’inverno per parecchi mesi. Il Mediterraneo diventa il “paese” del sole, della passione…

Si, è una geografia anche ideale, dove potere stare bene. È un invito, fatto ad ognuno di noi, al costruirsela? Si può fare? Se sì, come?
Diciamo una geografia magica… come ognuno, forse, un giorno l’ha sognata. Come la sognavano anche i romantici (Nerval, Gautier, Musset…).
Come dicevo prima, si costruisce nell’incontro con l’altro, creando una rete di amicizie, attraverso le conversazioni. Al di là dei paesaggi, che danno la prima emozione, quello che conta è l’umano nella sua diversità.

E una vicinanza è anche l’atmosfera della sua scrittura, che costruisce da sé un senso di confidenza, che coinvolge ancora di più il lettore…
La scrittura è il modo migliore per fare delle confidenze. Diventa come un sussurro all’orecchio del lettore. Sono molto attaccato ad un certo ritmo, ad una cadenza, che contribuisce a dare alla prosa una dimensione poetica. Anche all’estetica del poco, del quotidiano, affinché tutti possano riconoscere alcune cose che hanno vissuto.

Nitidamente traspare anche una continua ricerca di ‘bellezza’…. è anche lo scopo della poesia?
Si, la letteratura vuole abbellire il mondo. Come se non ne fossimo mai soddisfatti. Può rendere bello anche ciò che è brutto. È il senso del titolo del libro di Baudelaire “I fiori del male”…
È l’interfaccia tra il mondo e la nostra sensibilità.

E questi momenti, in cui viene mostrata e raccontata, sono momenti che ne mostrano anche la fragilità. La scrittura quindi, forse, serve a darle la forza per rimanere? Per non scomparire ed invece essere ricordata e vissuta?
Esatto. È l’illusione di potere serbare attimi rubati al tempo che le parole fanno rivivere.

L’ultimo testo è dedicato ad Euridice. Mi sembra una invocazione, una ricerca continua di ‘senso’, di significato al vivere i propri giorni in modo completo, ricco e inimitabile. Può essere così?
Euridice è il simbolo dell’Eros nel suo confronto con Thanatos. L’inquietudine della scomparsa.
Sperando che il primo possa vincere. Penso di pubblicare, fra poco, una raccolta di racconti “La vendetta di Eros”…

 

L’autore:
Bernard Vanel, professore di letteratura e di cinema, è nato a Marvejols e vive a Mende, in Lozère (Francia). Ha lavorato per diverse case editrici pubblicando una ventina di libri tra cui prose poetiche e racconti di viaggio (“Abécédaire des ailleurs”, “Ombres toscanes”, “Conversations en Bucovine”).
Ha tradotto le poesie di Maurizio Cucchi, Roberto Veracini, Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Milo de Angelis.
Un aspetto fondamentale della sua produzione letteraria è la poetica del viaggio (Cendrars e Larbaud sono gli autori di riferimento, oltre all’amato Nerval).
Ha creato la casa editrice franco-italiana “L’ours de granit”.

(Bernard Vanel “Lo specchio delle ombre” pp. 43, euro 10, Edizioni ETS 2019)

 

 

 

 

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Ti racconto        —————————

“Il fiume a bordo”, “Memorie della foresta”

Angelo Floramo, Mauro Daltin, Alessandro Venier e Damir Karakaš

di Luca Buiat

 

Inizia con un filo d’acqua ed il suo mistero dentro una roccia, dove la parola sorgente è sinonimo d’avventura, sinonimo di nascita, un punto senza ponte dove non ci sono rive né rivali né confini.
S’intitola “Il fiume a bordo”, il nuovo libro di Angelo Floramo, Mauro Daltin e Alessandro Venier.
Tre voci, dunque, che raccattano storie attraverso i paesaggi attraversati dai fiumi Tagliamento e Isonzo dove l’acqua diventa la madre di tutte le cose.
Si percepisce il tonfo di un albero che muore per darne la vita ad un altro, si sente il bisogno di scrivere una riga per ogni posto nuovo che si scopre, e ci si muove senza metter radici perché a stare fermi ci si ammala.
La terra che ti ha generato t’illude di essere indispensabile, lontano da qui ti sentiresti perso perché siamo anime perdute che vagano su sentieri sconosciuti.
“Il fiume a bordo” è un libro in cammino, dove ci si lascia ammaliare dalla voglia di fermarsi per scoprire l’arte del saper stare, si ascolta il suono della prima neve che cade ed il respiro della foresta, i suoi rami che graffiano il cielo dentro una voce lontana, dove le api bevono i colori perché nel loro miele si possono trovare tutti i colori della terra.

 

Nel libro di Damir Karakaš, “Memorie della foresta”, c’è un ragazzo che vive nel verde ininterrotto di una foresta abitata da un orso.
Abita in una casa di legno imbottita di vecchi giornali, li legge accanto alla porticina di metallo della stufa, dove il bagliore della luce è più caldo e luminoso.
Di giorno assieme a suo padre accompagna le mucche a pascolare sui prati, il sole illumina le natiche di sterco, di notte le stelle trascinano dietro a sé code infuocate.
È malato il ragazzo, e a volte il suo cuore batte così forte che gli sembra di averne uno per ogni dito, è così magro che ha le ginocchia appuntite.
Suo padre gli dice di mettersi i pantaloni perché non riesce a guardarlo; poi esce di casa, e parla con Dio, chiedendogli perché dà vita a ciò che non è fatto per vivere.
Sua madre invece non parla, si mangia le parole e a volte lo picchia per difenderlo da suo padre.
Sogna il mare il ragazzo, si distende sulla spiaggia, si accarezza le gambe secche, la pelle bianca, nuota, ai margini della foresta.
Quando suo padre scanna il maiale, estrae dal ventre la vescica urinaria, ne spreme fuori l’urina, la gonfia, producendo un suono stridulo.
Ci giocano con la vescica; il ragazzo, lanciandola sopra le loro teste, lentamente vola nell’aria quella specie di palla, mentre il suo fruscio resta a lungo tra le sue mani…
Ora il giorno è così bianco, riluce come se non potesse mai più scendere il buio, il ragazzo la respira questa luce.
Si mette in cammino attraverso alberi giganteschi, si addentra in profondità e la foresta non sembra avere mai una fine.

 

(Angelo Floramo, Mauro Daltin, Alessandro Venier “Il fiume a bordo. Viaggio sentimentale lungo il Tagliamento e l’Isonzo” pp. 128, 14 euro, Bottega Errante Edizioni 2020)
(Damir Karakaš “Memorie della foresta“ pp. 144, 15 euro Bottega Errante Edizioni 2020)

 

 

 

 

Immagini       —————————–

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————

Sarebbe bello ricominciare

Claudia Zironi, “Not bad (2019 – 2020)”

di Ilaria Battista

Prendo in prestito le parole della poetessa Claudia Zironi per presentare il suo nuovo libro “Not bad (2019 – 2020)”:

Sarebbe bello ricominciare? Se potessimo immaginarci differenti sarebbe bello ricominciare?
Se potessimo donare di nuovo il nostro tempo passato lo faremmo?
Vivremmo di nuovo senza sapere se si diventa mai immuni dal dolore? Dopo aver vissuto la banalità della decadenza del corpo umano dentro i luoghi preposti, quando si esce, poi, saremmo ancora abili all’amore?
Cercheremmo di dimenticare sapendo che i ricordi e il silenzio dei giorni avranno comunque, sempre, lo stesso destinatario?
Sapendo che il nostro bene più prezioso è il tempo, se potessimo ricominciare, da domani continueremmo a sprecare vita e a vendere anni?
Sapremmo ancora scrivere d’amore dopo aver vissuto altri trenta inutili anni da sconfitti?
Sarebbe bello ricominciare, proprio dall’inizio, se ci promettessero una intera nuova vita, splendida e giusta, un corpo nuovo, una mente brillante, un talento che lasci tutti senza fiato?
Lo vorremmo? Lo faremmo?
O ci limiteremmo a cercare una parola puro suono, un battito, una eco, un sentimento, un’ultima parola che contenga il senso di tutto questo struggimento?

 

Dal libro:

nella conta dei lutti
amico mio
tu che sei di tanto avanti, dimmi
si diventa immuni dal dolore?
o i dolori si sommano in un cuore
sempre più gonfio e crepato, invecchiato
prossimo all’esplosione. lo rende spento
tanto dolore, il cuore, piccolo e duro
come un sassolino di cava, opaco
un grumo immobile, nero. dimmi
o se il dolore invece lo fa leggero
e trasparente, e il cuore vola via
lasciandoci soli.

*

sarebbe bello ricominciare, io e te
ma proprio dall’inizio, da prima che
da prima dei se, da prima
che le foglie di due anni fa cadessero e
si disfacessero in un fango dorato che fa da specchio
ai pochi uccelli rimasti dalla migrazione, da prima che
non ci conoscessimo e non sapessimo che non ci saremmo
amati, da prima che il tuo amico ti lasciasse solo
una sera in cui avevi proprio bisogno di farti una bevuta al pub
da prima che io nascessi, che fossi concepita, che fossi solo
immaginata, da prima che nascessi tu, come una promessa
di eterna estate, da prima che le api e che il miele e che i fiori
da prima che i vulcani soli
abitassero il pianeta, da prima che dal caos
emergesse la luce. sarebbe bello ricominciare
immaginarci differenti, sorridere al pensiero
di vederci, di nulla chiedere e insieme andare
verso un quieto viale del parco a cercare
le nate margherite.

*

se tu fossi il vento io
starei ferma
tra le lavande di giugno, immobile
con abiti ampi, bianchi di bucati antichi
ti lascerei passare, aperta e sorridente
come scampata
alla storia, agli anni, alla fossilizzazione
degli ammoniti, ti lascerei entrare
sotto i cotoni nascosti, tra le pieghe della gonna
ti lascerei rubare ogni profumo – terra della terra
fiore di ogni fiore – vento mio, mio sole – ti donerei
questo nostro nuovo tempo passato.

Intervista a Claudia Zironi:

Uno dei primi passaggi del libro è “Sarebbe bello ricominciare”. L’idea di un possibile ritorno al passato per riviverlo è un sentimento che mi pare di aver colto spesso nei suoi versi, insieme alla consapevolezza che molto probabilmente rifaremmo gli stessi errori, sempre che errori siano.
Pur sapendo che i passi saranno forse gli stessi e che la direzione sarebbe forse la stessa, sarebbe comunque bello ricominciare?
L’idea di ricominciare implica la speranza di non ripercorrere le stesse strade. Anche minime varianti del vissuto potrebbero portare all’evoluzione delle situazioni in senso completamente diverso.
Da un punto di vista personale, certe scelte fatte nella mia vita sicuramente le rifarei e vorrei che portassero agli stessi risultati, altre, come si può immaginare, no.
Da un punto di vista poetico, posso dire che molta della mia scrittura si fonda su periodi ipotetici, su evocazioni ucroniche o distopiche, sulle “sliding doors” che avrebbero potuto, varcate o non varcate in un dato istante, fare la differenza.
Ho sempre amato leggere di scienza e fantascienza, di archeologia, di esoterismo. La metafisica e il surrealismo mi attraggono fatalmente. Ho sempre compiuto voli fantastici sulla realtà e questo si riflette nel mio modo di scrivere.

Mi hanno colpito molti suoi versi, ma quello che ha coinvolto tutti i miei sensi è stato “Se tu fossi il vento io starei ferma tra le lavande di giugno”, mi è parso di sentire il rumore del vento, di vedere il viola dei campi, di sentire il profumo intenso delle lavande.
Ne ho tratto una dolcezza che poi mi ha accompagnato agli altri versi, ma che in qualche modo si è dissolta lentamente, come se l’immagine dei campi di lavande appartenesse davvero ad un tempo passato che non ha potuto essere nuovo.
C’è un ricordo particolare legato a questa immagine o è un’immagine poetica neutra, sintesi magari di più ricordi e sensazioni?
Come dicevo sopra, nella mia poesia la componente fantastica è fondamentale. Non credo nella verità della poesia intesa come autobiografismo, verità e onestà in scrittura sono due concetti ben distinti.
Sicuramente metto a nudo quello che sento e riverso nella scrittura le mie esperienze ma le situazioni create sono spesso frutto della fantasia. A volte perfino i sentimenti di cui parlo vengono utilizzati per creare atmosfere ed evocazioni di stati d’animo, o per accompagnare il lettore all’esplorazione dell’animo umano e delle dinamiche psicologiche, ma non rispondono alla realtà del mio vissuto.
Poiché a volte la poesia arriva prima della realtà, il poeta potrebbe arrivare a desiderare un’esperienza perché gli è stata suggerita dalla poesia.
Ma prima di arrivare alla risposta vera e propria, a supporto delle mie affermazioni, vorrei anche citare alcune parole del grande, recentemente scomparso, Franco Loi: “Come per i sogni anche la poesia va scritta immediatamente. Nei sogni il nostro inconscio prende il sopravvento, così, allo stesso modo, si scrive ciò che si è. Attraverso la poesia si conosce se stessi, il rapporto con le cose, con la natura e con gli altri uomini. Il poeta con la poesia è.” e ancora: “Noi abbiamo bisogno di schematizzare la realtà, ma essa, alla fine, va sempre oltre i nostri schemi e le nostre teorie. Il poeta, allora, non interpreta la realtà, ma l’affronta e si confronta con essa. E si lascia dire… Io ho imparato un poco alla volta. Prima anch’io “costruivo” poesie, ma col tempo ho capito che la poesia o ci attraversa o non è.
Ora la risposta alla sua domanda: non ho ricordi legati a campi di lavande – che ho visto solo in fotografia, e mi piacerebbe moltissimo andare in Provenza per assisterne alla fioritura in sterminato viola – né il campo di lavande è “immagine neutra” perché la poesia non prevede immagini neutre, e la sintesi non riguarda solo ricordi e sensazioni perché la sintesi in poesia riguarda il respiro del mondo.

Il dolore è spesso presente nei suoi versi, dal potentissimo “nella conta dei lutti amico tu che sei di tanto avanti, dimmi si diventa immuni dal dolore”, all’altrettanto potente immagine del “volo scelto come ultimo … con la fretta giovane della sconfitta”.
Pensa anche lei come tanti artisti che tutto nasca dal dolore, che se fossimo felici avremmo altro da fare che dedicarci all’arte, perché non ne sentiremmo la necessità?
Questi versi che lei cita sono – e qui mi sento quasi in contraddizione con quanto ho affermato sopra – affatto autobiografici: i primi – scritti dopo la morte di mio padre avvenuta a fine 2018 – se le poesie fossero in ordine cronologico nel libro, starebbero in apertura, e i secondi – scritti a luglio 2020 in un momento terribile – proprio come purtroppo stanno, chiudono il libro. Mi ci fa riflettere lei, ora, su questo fatto che il mio libro si è sviluppato tra due pesanti lutti.
Comunque, come ho scritto di recente nel commento al libro di poesie del giovane Luigi Carotenuto “Krankenhaus”: “Non si dovrebbe vedere il padre invecchiare, soffrire, andarsene, non si dovrebbe scrivere di ospedali e mancanze, la vita dovrebbe essere dolce e bella e giusta in ogni attimo che resta con noi. Ma poi cosa si esperirebbe, di cosa ci arricchiremmo, di cosa sarebbe fatta l’arte, di cosa scriveremmo?

Uno dei versi che mi è rimasto più impresso è “poi anche i vermi si estingueranno e tutto tornerà alla perfezione”.
Crede che la perfezione potrà esistere solo quando non ci saranno più creature viventi, che sono per natura imperfette per definizione? O che la perfezione possa esistere solo in un mondo senza creature e quindi senza sentimenti, perché sono i sentimenti a renderci imperfetti?
Il sentimento non è messo in discussione. È di sentimento – che sia negativo o che sia positivo – che si nutre la creazione artistica.
Il verso deriva dalla mia visione nichilista e distaccata dell’esistenza. Mi ri-autocito – da qualche parte c’è un mio aforisma che recita più o meno così: “La vita è un breve attimo che interrompe l’eternità dell’inesistenza terrena”.
Il verso da lei riportato vuole suggerire che la vita possa essere solo un’interferenza, una turbativa della perfezione del nulla inconoscibile.

Mi è piaciuta molto la sezione delle poesie i cui titoli sono nati da foto e tag trovati su Instagram.
Penso che sia un modo nobile, se mi è concesso il termine, di coniugare il mondo che ci circonda con il mondo che dimora dentro di noi.
Non crede che verso questi nuovi mezzi, che poi a pensarci bene così nuovi non sono, ci sia un certo snobismo intellettuale, a volte insopportabile?
Io trovo la rete e gli Internet media assolutamente straordinari. Il problema non sono i mezzi ma il contesto sociopolitico in cui avviene il loro utilizzo. Non amo lo snobismo intellettuale e le torri d’avorio accademiche. Ma non avallo neppure la mercificazione e il consumo della poesia.
Non sono, ad esempio, contraria alla “instapoetry”, perché ciascuno di noi ha un modo personale e unico per incontrare l’ispirazione, ma sono contraria all’appiattimento intellettuale ammiccante alla massificazione, per raggiungere con la rete un facile consenso di pubblico poco raffinato, che qualcuno propone e pratica.
Ho trovato divertente il mondo degli hashtag di Instagram, che corredano e raggruppano per temi le foto. Mi sono lasciata trasportare da queste combinazioni e buona parte delle poesie della seconda sezione “Not bad”, che dà il titolo al libro, sono scaturite effettivamente dalla loro suggestione.
Altre, che volevo inserire nella sezione ma nate da altri momenti emozionali, hanno invece solo assunto un titolo scelto tra gli hashtag di Instagram.

Infine un’ultima domanda. È riuscita a trovarla un’ultima “parola che contenga il senso di tutto questo struggimento”?
La chimera che ogni poeta e ogni mistico insegue? No, certo che non l’ho trovata, né mai la troverò. Perché se la trovassi, con lei troverei forse la risposta al mistero dell’esistenza, all’inconoscibile, il pensiero definitivo, il suono primordiale, il canto dell’universo, il nome di Dio.

 

L’autrice:
Claudia Zironi, bolognese, si occupa di promozione culturale con l’associazione “Versante Ripido”.
È nella redazione della rivista “Le Voci della Luna” e ha fatto e fa parte di giurie di premi nazionali di poesia. Ha pubblicato le raccolte poetiche “Il tempo dell’esistenza” (Marco Saya Edizioni 2012); “Eros e polis” (Terra d’Ulivi Edizioni 2014), uscita nel 2016 anche in USA per Xenos Books / Chelsea Edizioni, nella traduzione di Emanuel Di Pasquale; “Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni” (Marco Saya Edizioni 2016). Nel 2018 ha corealizzato e coprodotto in KDP, con la poetessa Silvia Secco e con la pittrice Martina Dalla Stella, il libro d’arte e poesia “Ursprüngliches Leben – Poesia e pittura in dialogo” (Edizionifolli di Silvia Secco).
Sempre del 2018 è la pubblicazione su KDP di “Variazioni sul tema del tempo” (collana di poesia Versante ripido). Del 2019 è la pubblicazione artigianale, in tiratura limitata di 40 esemplari, di “Quando si spegne il cielo” (Edizionifolli). Per i tipi di Marco Saya Edizioni è uscita, nel 2019, l’antologia a cura di Sonia Caporossi “Claudia Zironi – Diradare l’ombra – Antologia di critica e testi – 2012/2019”.

(Claudia Zironi “Not bad (2019 – 2020)” pp. 132, 14 euro, Arcipelago Itaca 2020)

 

 

 

 

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Voce d’autore        ————————

Ti sento nelle parole non dette

Clara Maggiore, “La pazienza degli alberi”

di Salvatore Cutrupi

 

Il libro di Clara Maggiore dal titolo “La pazienza degli alberi”, edito da Culturaglobale Cormons, è composto da due sezioni; la prima contiene poesie occidentali e la seconda riguarda invece la poesia haiku, di origine giapponese.
Leggendo le sue liriche si rimane immediatamente colpiti dal tratto leggero e carezzevole dei versi, come se fosse stato il tocco di un pennello a dipingere le parole. Le sue poesie rivelano un patrimonio di sentimenti che sublimano l’espressione poetica e sorprendono al primo impatto, coinvolgendo il lettore per i temi trattati, per il vissuto della poetessa e per quello dei suoi protagonisti.
La commozione è tangibile quando lei parla di sua madre, “mi guardo allo specchio/ e mi vedo com’eri: lo stesso volto/ gli stessi pensieri”, ma anche quando ricorda altri affetti non strettamente famigliari tra cui il suo collega di insegnamento (e mai dimenticato amico mio) Alessandro, “abbiamo condiviso/ stagioni di parole/ bevendo a lunghi sorsi/ il tempo della scuola/ seminando i pensieri come fiori”.
E nel suo “seminare” c’è anche tutto il suo donare agli altri. L’autrice vive e si nutre di affetti e dedica, con una semplicità disarmante, parole d’amore all’uomo con cui divide le ore dell’età matura (… e se talvolta inciampi/ non temere/ io sono lì/ ti abbraccio/ non ti lascio cadere) e in questo inciampare e sorreggere c’è tutta la fragilità della vita in comune, e nello stesso tempo la forza e la fierezza del suo essere donna.
Nella sezione dedicata alle diciassette sillabe degli haiku trovano dimora altri stati d’animo della poetessa, come quel senso di inquietudine generato dallo scorrere del tempo, dalla perdita degli affetti e dalla consapevolezza della caducità della vita (Mono no Aware).
Nello stesso tempo altri suoi haiku ci procurano meraviglia e stupore (Wabi), per le esplosioni di bellezza che la natura ci offre con le sue stagioni e il suo divenire.
Si può dire che la poesia tradizionale e quella haiku di questa silloge si integrano e si completano a vicenda; sono come due pianeti diversi in ognuno dei quali c’è vita, e in cui c’è tutta la coinvolgente vita poetica di Clara Maggiore.

 

Dal libro:

Le nostre stagioni
Ad Alessandro Pesaola

Abbiamo condiviso
stagioni di parole
bevendo a lunghi sorsi
il tempo della scuola
seminando i pensieri come fiori.
Eravamo flessuosi come giunchi
ancora verdi e teneri nel vento
e abbiamo visto morire le stagioni
del tempo e della vita
ad una ad una.
Abbiamo respirato l’aria pura
di mille volti giovani e curiosi
accompagnando conquiste e turbamenti.
Non so se abbiamo o no
lasciato il segno
a chi dopo di noi
prosegue il viaggio
ma l’amicizia vera che ci lega
rende speciale quest’ultima stagione.
Mentre si allunga l’ombra della sera
di questa sera sofferta e pensosa
non raccontiamo il tempo già passato
immaginiamo quello che ci resta
come il tempo da vivere più bello
riempiamolo di rughe e di sorrisi
e dispensiamo abbracci a chi ci ama.

*

La pazienza degli alberi

Sapere che ci sei
questo deve bastarmi
anche se sembra poco.
Ti vedo dentro le nuvole
a farne fazzoletti
per le mie lacrime asciutte.
Ti penso nel respiro del vento
che ti raggiunge dove sei
nel luogo più lontano
e sfida la pazienza degli alberi
mentori della mia pazienza.
Ti sento nelle parole non dette
nelle carezze non date
nella distanza che ci avvicina.
Incredibilmente ci avvicina.

*

il merlo fischia
e già s’avanza aprile
occhi nell’erba

*

il mio sorriso
se appena ti allontani
diventa pioggia

*

a testa china
nel campo senza luce
un girasole

*

nei panni stesi
si racconta la storia
di questo tempo

*

abbandonata
una sedia di paglia
accanto a un pino

*

merletti d’erba
arabeschi di bosso
e noi ragazzi

 

Intervista a Clara Maggiore:

Scrivere poesie è il veicolo utilizzato da molti poeti per mettere a nudo i propri sentimenti e per rappresentare i valori esistenziali in cui si crede. È così anche pe te?
La mia prima poesia ha visto la luce quando avevo cinque anni. L’ho dettata a mia madre che l’ha scritta perché non avevo ancora imparato a scrivere. Era una poesia in rima (mi riusciva naturale mettere in rima le parole) dedicata ad un’amica di nome Emilia, una ragazza che aveva otto anni più di me e che ammiravo moltissimo per la sua simpatia e il suo sorriso contagioso.
Imparato a scrivere, non ho più smesso, ma molto è andato perduto o è rimasto nel dimenticatoio perché scrivevo per un bisogno innato e non avevo mai pensato che potesse interessare ad altri.
Durante il percorso universitario alcune mie poesie sono state lette per caso da un carissimo amico di studi che aveva istituito un concorso di poesia per conto della curia arcivescovile della mia città. Mi pregò, letteralmente, di partecipare perché aveva apprezzato i miei versi. Lo feci e vinsi uno dei premi in palio (una pubblicazione delle edizioni Paoline sulla vita di alcuni Santi).
Fu il primo passo verso l’esternazione pubblica dei miei sentimenti e dei miei valori. Poco tempo dopo mi sposai e venni a vivere in Friuli. Non fu facilissimo, dovevo scrivere la tesi di laurea e il mio tempo si esauriva tutto nei compiti domestici e nello studio.
Dopo un anno arrivò la cicogna e mi dedicai totalmente alla cura del mio bambino. Niente più poesie per qualche anno.

Nelle tue poesie c’è la malinconia per gli affetti perduti ma c’è anche la meraviglia e lo stupore per la bellezza di ciò che ci sta intorno. Come riesci a conciliare questi due aspetti diversi, nella quotidianità del tuo vivere?
L’ispirazione è tornata durante l’attività didattica. Insegnando Italiano ho ritrovato la bellezza del mondo letterario e quindi quello della poesia. Quel bisogno è ritornato e ho ripreso a scrivere versi lasciandoli talvolta nel cassetto della scrivania o cestinandoli spesso e volentieri.
Ho recuperato le poesie scritte da ragazzina perché mia madre, con lungimiranza e affetto, le aveva conservate. Ne ho scritte poi molte altre, soprattutto negli ultimi venti anni senza mai pensare di pubblicarle.
La vita nel frattempo mi ha riservato gioie e dolori, come a tutti noi, e mi ha suggerito temi e contenuti che ho riversato immancabilmente nelle poesie. Gli affetti più cari, le amicizie più vere, i sentimenti più profondi, la mia religiosità, i miei dubbi, l’amore, la morte, il dolore, il senso di socialità che innerva le mie convinzioni, anche politiche, il rispetto per la natura in tutte le sue espressioni, l’incontro con le persone più diverse e la curiosità di scoprire e interpretare la realtà, hanno animato la mia penna nella fusione di tutto ciò che mi circonda e che vivo con partecipazione intensa e costante.
Il tutto ha prodotto tre libri la cui pubblicazione devo ancora una volta alla sollecitazione di due cari amici. Sono nati così “Come semente”, ”Quando seminai la luna” e l’ultimo, “La pazienza degli alberi”.

”La pazienza degli alberi”. Puoi spiegare il perché di questo titolo? Qual è il significato che in questo caso tu hai voluto attribuire agli alberi?
Il titolo “La pazienza degli alberi” è la sintesi di tutto ciò che gli alberi rappresentano per me, ovvero un simbolo pieno di significati umani.
Ho abitato in campagna per i primi venti anni della mia vita, in una casa circondata da alberi diversi che spesso accoglievano i miei giochi d’infanzia, mi offrivano ombra e frescura durante le roventi estati pugliesi, mi sorprendevano per la loro saldezza e per la dovizia di frutti che producevano e che mi divertivo a raccogliere arrampicandomi sui rami e rischiando l’osso del collo.
Mi sorprendeva che fossero sempre lì, fermi e saldi al loro posto, maestosi, resistenti e pazienti come persone sagge che sanno aspettare e soffrire. Ho poi identificato alcune persone importanti nella mia vita con gli alberi più possenti, come la quercia e il pino. Ho compreso l’importanza della pazienza nel percorso di vita degli esseri umani, e anche nella mia vita, ritenendola una virtù essenziale per la convivenza tra le genti e il mantenimento della pace, anche quella interiore.
Ho sempre pensato che ogni essere vivente sia dotato di anima, quindi anche gli alberi.

La seconda parte del libro è composta da poesie haiku, di origine giapponese. Come è nata la tua passione per questo genere poetico, così lontano dalla nostra cultura occidentale?
Ho conosciuto gli haiku una ventina di anni fa, quando una mia cara amica giapponese mi ha regalato un libro di poesie del suo paese.
Tra queste c’erano anche haiku, soprattutto quelli di Osho. Mi hanno subito affascinata, anche per la loro capacità di sintetizzare in soli tre versi qualsiasi aspetto della realtà. La diversità della cultura a cui fanno riferimento non rappresenta per me alcun problema, anzi, mi sono ulteriormente convinta di quanto il mondo sia piccolo e noi umani tanto simili nei sentimenti.
Li ho anche proposti ai miei alunni che si sono divertiti a crearne tanti, riferiti prevalentemente alle stagioni e alla loro giovane esperienza. Ne ho scritti molti anch’io e grazie a un’amica che li tratta da tempo e ne diffonde sapientemente la conoscenza, ho sentito il bisogno di pubblicarli nel mio ultimo libro.

Io ho avuto il piacere di leggere questo tua silloge alla fine dell’estate scorsa. In questi ultimi mesi, a causa del lockdown, è cambiato qualcosa nella tua emotività e nel tuo desiderio di scrivere nuove poesie?
Il lockdown ha sicuramente influito in modo negativo sulla mia emotività. Lo stravolgimento della quotidianità, la lontananza dalle persone care, soprattutto dai miei nipotini, il timore di ammalarmi e, nel caso, di morire in solitudine, non hanno aiutato la mia creatività, in particolare durante la prima terribile fase della pandemia.
Poiché l’essere umano si abitua a tutto, ho ritrovato la serenità necessaria per continuare a scrivere ed ho già in cantiere nuove sfide poetiche. Ho scritto molti nuovi haiku, alcune poesie proprio dedicate a questo momento tanto difficile e ho ripreso la stesura di una biografia romanzata.

 

L’autrice
Clara Maggiore, insegnante di materie letterarie nella scuola media, attualmente in pensione, è nata a Taranto e vive a Palmanova (UD).
Si è dedicata alla poesia fin da piccola. Ha realizzato una consistente produzione di testi poetici e partecipato ad alcuni premi letterari conseguendo segnalazioni di merito.
Ha anche scritto copioni in rima per alcuni musical rappresentati nell’ambito dell’attività teatrale svolta nella Scuola Media di Ruda dal 1994 al 2008.
Ha pubblicato con le Edizioni Culturaglobale i volumi “Come semente” (2010), “Quando seminai la luna” (2015) e il recente “La pazienza degli Alberi” (2020).
Fa parte del gruppo di attori dell’Associazione “Accademia Nuova Esperienza Teatrale” di Palmanova.
In quanto membro del direttivo dell’Associazione LiberMente di Palmanova segue in prima persona le attività relative alla Poesia.
Si è anche cimentata nell’arte della pittura realizzando quadri di soggetto paesaggistico.

(Clara Maggiore “La pazienza degli alberi” Edizioni Culturaglobale 2020)

 

 

 

 

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di Marco Opla Pasian

 

 

 

 

Le altre note       ———————————–

Filastrocca dei resoconti

Giovanni Zacchigna, “Le canzoni della stanza”

di Antonello Bifulco e Vieri Peroncini (Nessun Giorno Sia Senza Poesia)

 

Quando troviamo un disco cantautorale che contiene una traccia che si intitola “Vomito” noi, nativi analogici nonché figli di Squallor & Co. già andiamo in sollucchero, a prescindere.
Poi scopri il contenuto del disco, e ti accorgi che sei di fronte a qualcosa di valore sotto tutti gli aspetti: e l’autore ne è un giovane come Giovanni Zacchigna, detto Zac (va bene, questo non lo so veramente: ma me lo immagino, e comunque glielo affibbio io, il diminutivo di jacovittiano sapore).
Di Zac sappiamo mezza data del compleanno, cioè il giorno – 3 gennaio – ma non l’anno, però a dispetto della maturità è senz’altro più negli -enti che negli –enta, come si può dedurre anche dal fatto che il suo primo e per ora unico album ufficiale è uscito appena il 12 aprile del 2019.
Si intitola “Le canzoni della stanza”, ed è autoprodotto, seguendo i canoni estetici cantautorali, nel senso che nei testi vi è una narrazione, la quale segue una riconoscibile struttura sintattica e logica, e del resto non potrebbe essere diversamente, sapendo che Giovanni si lega alla scrittura fin da giovane (ok, è ancora giovane, ma capiamoci).
Che l’album non ammicchi alla facile vendita, alla scalata alle classifiche coi quattro concetti presi a noleggio di rap-trap-sgnap, lo si capisce fin dall’inizio, col brano “La finestra” che è inaspettatamente strumentale, nonostante la sonorità folk. La quale, diciamolo ora, è una delle due modalità di elezione di Zac, che oscilla tra la ballata folk, americana nella fattispecie e la canzone cantautorale italiana.
Su queste, si instaurano a volte atmosfere “più cupe e ansiogene”, per dirla con le parole di Giovanni stesso, ma anche venate di una malinconia che pare quasi una nostalgia del non vissuto, e che fa dei testi di Le canzoni della stanza, spesso, delle vere e proprie poesie in musica.
Seguono brani legati alla crescita e alla ricerca, come “Filastrocca dei resoconti”, ballate di viaggio e crescita come “Si e No” (E sono in ritardo / anche se non so da quando / Io devo mettermi in viaggio / che sia un sì o un no no no).
Brani, questi, che potete trovare anche su Youtube, dove c’è anche l’ultimo estratto dall’album, “Quel che resta (nella mia testa)”, clip che inizia con una citazione di Jung: capito il tipo?
Che decidiate di ascoltare il cd o di vedere un video, le canzoni di Giovanni Zacchigna non sono di quelle che si mettono in sottofondo mentre pelate le cipolle per il soffritto: richiedono qualcosa di più di un minimo di concentrazione riflessiva, perché è ben vero che Zac “s’impegna a descrivere le inquietudini della sua generazione, incastonata in una società sempre più liquida e incerta”, società nella quale i rapporti umani sono in via di progressiva polverizzazione (checché ne possano dire gli “Amici”…) e le tensioni di ogni tipo, al netto delle pandemie, sono al contrario in aumento esponenziale.
Poi, “Le canzoni della stanza”. Un richiamo alla solitudine, all’isolamento in mezzo alla folla, alla stanza come luogo del sé, del ritorno all’utero universale? O che altro? Al bisogno di protezione? Alla stanza si richiama “La Finestra”. Ovvio? Mica poi tanto, ma ad ognuno una libera interpretazione di cosa rappresenti, nella poetica di Giovanni, la Finestra e la Stanza, che cosa nella sensibilità e per gli stati d’animo di un figlio sensibile della Generazione Z – Z come Zac.
Che per “Le canzoni della stanza” sceglie il bianco e nero, sia nelle belle foto che per la copertina, un delicato tratteggio a matita, carboncino, grafite insomma, forse un abbozzo, forse uno schizzo, sicuramente un segno da ascoltare.
Ma stavamo dimenticando il “Vomito”. Anche questa, se volete, la trovate su Youtube. Ma a nostro modo di vedere, questa è la classica (mica tanto) canzone che da sola vale il prezzo del disco, sia per le sonorità che per il testo:

le discoteche con luci da shock
le ragazze che cantano pop
che si fanno le foto in tutti i posti
e su Facebook citano Bukowski
Mi suscitano il vomito.

Naturalmente, non sono le sole cose ad avere un effetto emetico su Zac. Tutt’altro.
L’importante è avere sempre il coraggio di dire quali sono, le cose che ci suscitano il vomito / ci suscitano il vomito / ci suscitano il vomito…
E come potremmo non essere d’accordo, noi che apriamo i social con il blister di Plasil a portata di mano?

 

Intervista a Giovanni Zacchigna:

La casa rappresenta uno spazio fisico intriso di significati simbolici ed emozionali, è per molti aspetti il riflesso della nostra psiche, del nostro mondo interno e del nostro modo di rapportarci agli altri.
La casa, la psiche e le stanze, tutto legato ad un filo conduttore che scandisce quel passaggio che l’uomo compie nel portare avanti le fasi della sua vita giungendo di volta in volta da un luogo all’altro, da una stanza a quell’altra. Quante stanze ha vissuto Giovanni per arrivare a scrivere e mettere in musica questo suo primo album?
La prima importante “stanza” fu l’esperienza con mio fratello nel progetto musicale “Agrakal”, la quale indirizzò il mio rapporto con la musica verso la composizione delle prime canzoni e le prime esperienze dal vivo. Fu una fase cruciale che mi insegnò il valore dell’impegno, della ricerca e della passione nei confronti del proprio lavoro.
Ci fu poi una donna che portò una drastica accelerazione alla mia capacità compositiva; ogni artista ha un jolly nella tasca che giustifica la sua vena creativa. Infine, la preziosa amicizia con la solitudine mi offrì spazio e tempo per raccontare le diverse stanze e gli avvenimenti avvenuti al loro interno.

Piero Ciampi, De Andrè, Capossela, Bobo Rondelli fino a Claudio Lolli, questi i campanelli mentali che si sono messi in moto ascoltando i tuoi pezzi.
Claudio Lolli in “Aspettando Godot” diceva: “E giorni e giorni a quei tavolini / Gli amici e le donne vedevo vicini / Io mi mangiavo le mani però /Non mi muovevo e aspettavo Godot“.
Nelle tue “Stanze” cosa stai aspettando? e quali i retroscena della tua vita quotidiana al loro interno?
Poco prima di prendere l’iniziativa di scrivere, comporre e registrare un album tutto mio, c’erano tante attese, speranze e paure. Sentivo di dover prendere in mano la mia vita e allo stesso tempo sentivo l’impellente bisogno di esprimermi attraverso il mio modo di sentire e fare musica.
Ho fatto coincidere le due necessità: una volta lasciato il luogo in cui Godot mi aveva dato appuntamento, le mie forze si sono dirette verso la realizzazione di questo disco.
Nelle mie stanze aspetto le stesse cose che si aspetta un ragazzo tra i 20 e i 25 anni: l’essere ascoltato, qualche opportunità per realizzare i propri progetti, i mezzi necessari non solo per affrontare il futuro, ma anche per contribuire a delinearne le caratteristiche.
Per sapere i retroscena della mia vita quotidiana dovresti rivolgerti proprio a quelle stanze che, meglio di me, li avranno notati e sopportati.

Cantautore… ho sempre pensato a quanto fosse importante questa parola sulle spalle di chi sceglie questa carriera.
Nell’album sembra affiorare una nostalgia del non vissuto ma, allo stesso tempo, mi è piaciuto vivere delle vere e proprie poesie in musica. Quali sono i tuoi Cantautori dell’anima e quali, se vi sono, i Poeti che più ti hanno emotivamente coinvolto?
Faccio una piccola premessa sul termine “cantautore”. Ritengo sia una parola abusata che ogni autore di canzoni sceglie di cucirsi addosso. Io dal canto mio cerco di scrivere canzoni cantautorali, che obbediscano cioè alle regole, in realtà molto rigide, del genere del cantautorato.
Per questo motivo mi definisco un cantautore senza troppa paura di far storcere il naso a qualcuno, anche se non tutte le mie canzoni sono cantautorali.
Detto questo, inizio coi poeti poiché più semplice: adoro i poeti della Beat Generation ed in particolare Burroughs; Alda Merini è pane per gli innamorati; Vincenzo Costantino, intimo amico di Capossela, è un toccasana per quando ci si sente soli.
Per scoprire i miei “cantautori dell’anima” è invece necessario risalire ad una malefica strategia che misi in atto durante l’infanzia.
Da bambino ero solito infatti tapparmi le orecchie ogni volta che qualche nota usciva dallo stereo o dalla televisione. A mia madre è sempre piaciuta la musica americana: il folk e il rock springsteeniano soprattutto.
Mio fratello era riuscito invece a trasformare un vecchio video registratore in un vero e proprio canale televisivo, dedito alla trasmissione di due soli programmi: il concerto di Fabrizio De André al teatro Brancaccio e lo spettacolo di Giorgio Gaber al teatro comunale di Pietrasanta.
Io continuavo a tapparmi le orecchie, ma in silenzio stavo rubando a entrambi. Fatto mio il bottino, mi accorsi subito che era necessario trovare una sintesi tra due mondi musicali così diversi ed io la trovai in Tom Waits.
Non devo invece praticamente nulla a mio padre per quanto riguarda la mia cultura musicale. Lui era solito gridare la parte saliente di “Vesti La Giubba” mentre stava al volante della macchina: adoro i pagliacci, mi fanno paura.

Un album, nove brani, un videoclip appena pubblicato con il pezzo “Quel che resta (Nella mia testa)”.
In esso la citazione Junghiana sull’inconscio che non è soltanto male, ma è anche la sorgente del bene più alto. Come mai questa citazione e da cosa hai preso spunto per la realizzazione del videoclip? La giostra è una di quelle stanze che stanno a simboleggiare la prima infanzia?
Sono stato sempre attratto dallo studio della psiche umana e dell’inconscio in particolare. Il bambino è più vicino all’inconscio rispetto all’adulto e ciò gli conferisce un dinamismo che lo porta al gioco e ad una preziosa creatività.
Credo sia importante recuperare quell’impulso e volgerlo alla creatività, durante tutto il corso della vita. Io da bambino strinsi un rapporto quasi morboso con il giocare: mi piaceva utilizzare i giocattoli per dar voce alle storie che affollavano il mio cervello.
Diventato adulto, rinunciare al gioco avrebbe comportato una negazione di me stesso troppo grande: trovai nella musica lo strumento per continuare a giocare. In questo contesto entra la giostra, che rappresenta il tempo che passa e i personaggi della storia.
Nella realizzazione del video ho voluto premere su una pericolosità: l’inconscio può giocare dei brutti scherzi se si è lasciati soli ed isolati.
Con l’arrivo di una pandemia globale, che ci ha visto tutti segregati dentro il flusso dei nostri pensieri all’interno delle nostre stanze, il video diventò automaticamente attuale. Il mio pub,blico lo notò e, nei primi giorni seguenti alla pubblicazione, il videoclip ottenne un buon riscontro.
Colgo l’occasione per ringraziare quel pubblico che, oltre a non avermi lasciato solo in un periodo spinoso per la produzione artistica, ha aderito all’appello.

Nella realizzazione di un disco ci sono molte anime che partecipano, oltre a quella del cantautore, chi sono quelle che hanno dato corpo a questo album e quanto hanno inciso alla nascita del bellissimo “Le Canzoni della Stanza”?
Moltissime e invoco già il perdono poiché non le nominerò tutte. Il primo vitale sostegno giunge dall’infinita generosità materna che mi ha regalato la possibilità di autoprodurre interamente il disco.
Poi ebbi la fortuna di innamorarmi di una donna, che mi ha fatto la gentilezza di contare le stelle a mio favore nel cielo di Lisbona.
A livello strettamente musicale invece ho trovato sin da subito una forte intesa con il fonico Marco Parlante, che ha registrato e curato l’album. Vanto la partecipazione di Fabio Mini, insegnante di chitarra che continua ad avermi in cura, nella quinta traccia del disco. Mio fratello Andrea, con il suo talento naturale con la ritmica, mi ha aiutato a rendere “Quel Che Resta (Nella Mia Testa)” la canzone che più mi identifica a livello musicale.
Quando mi rivolsi a Giulio Dagostini per la parte grafica, e lui mi propose di raffigurare un bar con una donna all’interno per un album dal titolo “Le Canzoni Della Stanza”, ebbi dei timori.
Tuttavia, quando alle prime vendite la gente mi chiese come prima cosa chi avesse fatto le grafiche, capii che la cosa aveva funzionato. Giulio ha fatto un ottimo lavoro. Infine, l’amico Andrea Rosasco ha realizzato le foto presenti nel libretto.

Estrapolo alcune frasi da “Per farti sorridere” meravigliosa, delicata e forte canzone d’amore: “E spiegandomi che le idee vanno fuori moda”, “Io t’ho tirato fuori gli anni settanta e Berlinguer”, “Amore non preoccuparti vai, lotta e poi ritorna”. Quanta lotta interiore per trattenere un amore, quanta lotta sociale per vivere questo momento storico che pare avere poco di sociale. Quale il tuo rapporto con l’amore, la lotta, il sociale e soprattutto con Berlinguer?
Non credo di essermi mai chiesto quale fosse il mio rapporto con l’amore. Mi faccio invece molte domande sulle relazioni e sui legami che stringo con le persone.
Da uomo fortemente femminista ho degli inviolabili punti fissi quando mi rapporto con le donne: il più assoluto rispetto, innanzitutto, cosa della quale purtroppo molti uomini sembrano dimenticarsi, cancellando secoli e secoli di evoluzione.
Detto questo, conservare un amore è molto faticoso ma la ricompensa è elevata. “Ai momenti di abbandono alternavano le fatiche con la gran tenacia che è propria delle cose antiche” cantava Gaber. Questo è l’amore.
Ho avuto un buon rapporto con la lotta quando ero studente, godendo dell’ultimo flusso di occupazioni scolastiche nel nostro paese.
Ora, in una società così avanzata ed impigrita dal processo tecnologico, sembra necessario inventarsi nuove forme di lotta e di protesta: questa fase storica ha portato e porterà a diverse conseguenze sociali ed alcune risulteranno molto tetre. Gli studenti in questo periodo hanno avuto delle belle idee, facendo anche tornare alla ribalta le occupazioni scolastiche.
Se per “sociale” intendi il senso comunitario, sono d’accordo con te: non ci siamo proprio. La mia composizione artistica cerca di riferirsi proprio al sociale ed in particolare a come viviamo noi giovani nella società di oggi.
In questo album cerco di affrontare il tema dei rapporti umani ponendo un accento sulla precarietà della condizione giovanile. Un accento sul quale credo eserciterò maggior pressione nei miei prossimi lavori poiché credo sia arrivato il momento di dar voce a quei ragazzi abbandonati nelle loro stanze.
Berlinguer? Che dire di Enrico, rappresenta un’identità politica che ho potuto conoscere soltanto attraverso la nostalgia negli occhi dei miei genitori dinnanzi alla crisi della sinistra e al sorgere del berlusconismo. Non cerco più affannosamente una forza politica che rappresenti quell’ideale, al quale rimango comunque fedele.

Dedicato a noi quattro in quella vecchia casa, dove il poco di quel vivere era sinonimo d’una felicità a cui era bello dedicare le sere e rubare tutto il tempo possibile.” Una dedica in terzultima pagina del libretto dei testi, che racchiude molte stanze e molti sentimenti. Raccontaci quali sentimenti, se non tutti almeno alcuni, e a quali altre stanze stai lavorando per il tuo futuro cantautoriale?
Ho sempre ritenuto che la dedica debba essere qualcosa di privato: chiuso dall’interno, non totalmente pubblico. Scrissi quella dedica in forma tale da far pensare ad una casa umile nella quale un gruppo di amici ha vissuto diverse piacevoli serate.
Il resto è storia. Posso dire che quelle serate furono davvero piacevoli: gli spazi angusti e ristretti della casa offrivano costantemente la possibilità di interagire e comunicare; la semplicità di quella vita quotidiana, promossa dalla povertà economica, garantiva la ricerca dello straordinario nelle piccole cose.
Il mio futuro cantautoriale porterà sicuramente canzoni che non tratteggeranno più l’autoreferenzialità della stanza, ma saranno ambientate in ampi spazi e credo sia giusto così.

 

 

L’artista:
Giovanni Zacchigna è nato a Trieste nel 1996.
Nel 2015 pubblica il suo primo EP: “Attimi Giovanili”.
Il suo album “Le canzoni della stanza” vede la partecipazione di diversi musicisti come Marco Vattovani, Fabio Mini, Federico Seraffini, Daniele Dibiaggio, Marco Parlante, Boban Efremovski, Andrea Basso ed il fratello Andrea Zacchigna.

Il video di “Quel che resta (Nella mia testa)” lo si può ascoltare e guardare qui

Su Spotify qui

 

 

 

 

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di Marco Opla Pasian

 

Intervista a Marco Opla Pasian:

Da dove nasce il desiderio di semplicità che anima tutte queste tue case?
Ho coltivato negli anni in diversi ambiti – professionali, culturali e più in generale, relazionali – processi di sintesi con risultati in forma di ‘metaprogetti’, e questo di solito porta ad una lettura semplificata di concetti a volte molto complessi.
In questo progetto visivo metto in ordine molti dei temi che sottendono la percezione intima di una casa, dalla sua creazione, ai pensieri che inducono ad abitarla, dal cantiere ai materiali costruttivi, cercando visuali semplificate attorno un’unica iconica sagoma. Ogni casa racconta una storia ed ha una sua storia, che è anche una storia di ricerca e scelta nel taglio di un’immagine, presa di volta in volta dal web attraverso i motori di ricerca con parole chiave interlacciate su più combinazioni.
La sintesi estetica, quella visibile al colpo d’occhio, e comunque l’obiettivo che mi pongo, un lavoro di riduzione progressiva, di dettaglio pulito, che in effetti può essere un desiderio di semplicità.

In questo periodo di pandemia, per molti la casa è diventata un limite, una chiusura. Invece questo tuo lavoro da forza, mi sembra, alla concezione di casa come nido, come protezione… può essere così?
Si, credo di sì. In una tra le immagini che quotidianamente posto su facebook ho lasciato infatti questa didascalia: “La casa è prima cantiere e prima immaginazione di spazio e prima ancora voglia di pensare a come stare intorno al mondo e al tempo stesso come proteggersi da esso.” Con ciò mi è chiaro il concetto di protezione, che è vocazione primaria in ogni sfera privata, mentre la pandemia ci ha fatto conoscere un aspetto emotivo che fa coincidere la chiusura fisica di un luogo con l’impossibilità di alimentare la propria sfera pubblica. Per chi non ha compreso questo paradigma, il disagio nel trattenersi a lungo nella propria abitazione è stato maggiore.

È anche un invito a rivedere il nostro vivere in base a quanto ci è veramente necessario?
Credo che l’idea di sintesi grafica e di semplificazione tematica porti anche a suggerire un modo semplice del vivere quotidiano, pur non essendo questo un motivo principale ispiratore. Ma quanto hai osservato, ponendomi la domanda, in effetti è un atteggiamento che comunque sta alla base di ogni mio operare nel progetto artistico e in quello più strettamente architettonico, un atteggiamento sempre volto a limitare sostanzialmente gli sprechi di segni e di energie.

Poche linee a delimitare, ma anche inventare, uno spazio dove stare. È un po’ come scrivere poesia… può essere una similitudine valida anche per il tuo ‘lavorare’ artistico?
Mi fa piacere che si possa arrivare a questo bellissimo parallelo. Ho sempre pensato al “progetto” come declinazione di un linguaggio (architettonico, visivo), che poi debba esprimersi in una narrazione, in una storia facile e semplice da recitare. Una casa deve potersi raccontare in poche parole.
D’altro canto, ho sempre guardato con ammirazione la sintesi poetica che molti amici poeti fanno soprattutto nel descrivere i luoghi. Poche parole come pochi segni, che rimandano a riflessioni più ampie e profonde e aiutano la libertà di pensiero.

Il tema ‘casa semplice’ a cosa si può allargare, cosa di altro può contenere?
Uno dei temi che indaghiamo da tempo con Opla+ (che è un gruppo indipendente di ricerca ambientale in cui milito dal 2000) è quello dei margini, dei bordi. Quindi mi viene in mente che allargare o contenere, presuppone la conoscenza dei propri margini (limiti, contorni) ed è la stessa ‘indagine’ vista da una o l’altra parte. La ‘casa semplice’ perciò porta, secondo me e rispetto a quanto accennavo prima, a valutare quando siano interferenti e compenetranti la sfera personale e quella pubblica. Un esempio semplice è l’odore dello spezzatino del vicino sul pianerottolo, ma anche tutte le performance collettive dai balconi durante il primo lockdown fino ad alcune aree urbane specifiche, come certe calli di Venezia, dove i rumori domestici ti avvolgono e si amplificano.
Il tema della ‘casa semplice’ allora si allarga al suo esterno nei paesaggi che di volta in volta ci appartengono, purché si rimandi alla personale consapevolezza di stare con noi stessi e con gli altri.
Io questa la chiamo ‘urbanistica dei sentimenti’.

 

L’artista:
Marco Opla Pasian è nato a Roma (’62) e si laurea presso lo I.U.A.V. di Venezia, architetto libero professionista, si occupa di network culturali ed è attivo come concept-designer.
Vive e lavora a Portogruaro, Venezia. Esordisce come artista postale e musicista e nel 2000 assieme a Giorgio Chiarello fonda e dirige il gruppo di ricerca indipendente OPLA+ con cui realizza principalmente installazioni ambientali.
Lavora spesso con immagini da Google Street View e con le poesie di autori amici.
Con Roberto Ferrari ha pubblicato il libro d’artista “Assolo” ( https://issuu.com/simonecuva/docs/assoloperunattimo ).

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Livio Caruso.

ospiti:
Natalia Bondarenko, Luca Buiat, Antonello Bifulco, Vieri Peroncini.

 

 

 

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