Benvenuti nel nuovo numero di “Fare Voci”.
Che si apre con l’autore bosniaco Faruk Šehić e il suo nuovo libro “Racconti a orologeria”, un ‘romanzo esploso’ dove la guerra è continua detonazione per la vita di uomini e donne, deflagrazione di storie e Storia. Proprio come il nostro tempo presente.
E l’autore di Sarajevo ce ne parla in una intensa intervista.
La voce d’autore è affidata a Roberto Veracini e il suo “Esercizi di distanza”, e a Gabriella Musetti con “Un buon uso della vita”. Due libri preziosi, necessari nel rivelare lo stato attuale del sentire umano.
I margini di poesia ed altro sono quelli espressi da Silvia Bre con la sua nuova raccolta “Le campane”, da Alessandra Corbetta con i testi di “Estate corsara” e con le pagine di Francesca Ruth Brandes con il suo “Tutti i pesci del mare”.
“Italian justice” e “Feast of the Innocents” sono i due testi inediti di Jude Luciano Mezzetta.
Le immagini sono i lavori di Pierpaolo Lista, fra pittura, installazioni e fotografie. intervistato da Luigi Auriemma.
Mentre il libroelibro proposto da Laura Mautone è di Peter Mendelsund, “Che cosa vediamo quando leggiamo. Una fenomenologia con illustrazioni”.
E poi cinque testi per iniziare a conoscere il mondo poetico di Vanessa Modafferi, con una nota di lettura firmata da Massimiliano Bottazzo.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini ——————————–
In viaggio
di Pierpaolo Lista
Ti racconto —————————–
Forse è andata diversamente
Faruk Šehić, “Racconti a orologeria”
di Giovanni Fierro
Una guerra che è esplosa. E vite umane che sono detonate, storie saltate in aria, la Storia che va in frantumi. Il tempo che si riduce a frammenti sempre più difficili da far combaciare. Questo è il nervo, ma anche il tessuto sensoriale, di “Racconti a orologeria”, il nuovo libro di Faruk Šehić, scrittore bosniaco che vive a Sarajevo.
Šehić ha già incantato la critica con il suo romanzo “Il fiume”, vincitore del Premio Letterario dell’Unione Europea, pubblicato in Italia nel 2017 e già ospitato sulle pagine di Fare Voci., dove narrava della sua esperienza al fronte.
E anche “Racconti a orologeria” è un romanzo esploso, brandelli di un corpo da ricomporre, la cui memoria è un continuo cortocircuito di esperienze e visioni.
“Abbiamo continuato a bere. La notte prometteva di farci dimenticare la guerra e ricordarci che il tempo ha un suo ritmo, nel quale le vite degli esseri umani non hanno alcun ruolo”. E allora che fare?
Di certo “Racconti a orologeria” non è una narrazione accomodante, anzi tutt’altro. Faruk Šehić non fa sconti, parla di ciò che sa, lui che ha combattuto in prima linea nella guerra di Bosnia ad inizio anni Novanta.
Anche solo per constatare che poi “il Ventesimo secolo ce lo siamo lasciati dietro. Siamo diventati dei consumatori non violenti. Di fatto è l’unica cosa che siamo diventati”, al prezzo di tutto il sangue già versato in guerre che hanno infiammato ogni presente.
In “Racconti a orologeria” il vivere e il sopravvivere si intrecciano, si doppiano, si sottraggono.
L’adesso e il passato si incistano, il futuro è già accaduto, e rimane la sensazione viva e dolorosa di aver già raggiunto e lasciata alle spalle la propria personale Apocalisse. Che è il frutto di un cammino intrapreso in tempi insospettabili: “Ci siamo iscritti in prima elementare alla scuola dell’apocalisse e abbiamo continuato la nostra scolarizzazione”.
La prima persona e tutti i protagonisti del libro di Šehić fanno i conti con se stessi, con gli altri, con una società ormai collassata, dove cercare un milligrammo di felicità è poter vivere sempre e comunque nel corpo di un dolore.
Magari dove accorgersi che “man mano che la notte si allontanava, le stelle si avvicinavano sempre di più”. E può bastare questo a dare sollievo al proprio fiato, alla propria esistenza cardiaca.
Il valore aggiunto a queste pagine è la bellezza della scrittura dell’autore, che permette al suo dire e raccontare di non arrendersi, di essere strumento di avvertimento e condivisione, di testimonianza e premonizione. Qualcosa di veramente prezioso: “Abbiamo viaggiato attraverso il tempo e lo spazio così a lungo che tra i capelli ha iniziato a formarsi l’argento dell’universo”.
p.s. nota di merito per l’impeccabile traduzione in italiano del libro, ad opera di Elvira Mujčić, a cui va anche un sentito ringraziamento per aver tradotto in italiano l’intervista a Faruk Šehić che di seguito pubblichiamo.
Intervista a Faruk Šehić:
Leggendo “Racconti a orologeria” si ha la sensazione di leggere un romanzo che è esploso, che si narra in tanti e diversi racconti. C’è qualcosa di vero in questo?
Sì, si può dire che questo libro sia una sorta di romanzo disgregato – proprio come fosse esploso. Anche se la mia intenzione non era quella di scrivere un romanzo frammentato, perché i protagonisti di questi racconti sono diversi, anche lo stile dei racconti varia di storia in storia.
Ovviamente può anche essere letto come un testo unico, perché nel suo sottotiolo “Il canto preapocalittico” c’è un gioco di significati, ma c’è anche una chiara direzione che indica dove si muove il testo, di cosa parla.
Se consideriamo che nei quattro anni da quando è uscito questo libro sono accaduti eventi cruciali a livello mondiale, soprattutto se pensiamo alla guerra in Ucraina, allora si può desumere che il sottotitolo è stato profetico.
Pagina dopo pagina, chi legge il suo libro avverte quasi il desiderio dell’autore di contenere il tempo, di poterlo costringere in un unico presente. È possibile? Come si fa a contenere il tempo? Se si può….
Il tempo, ovviamente, non può essere fermato e nemmeno controllato. Ma lei ha ragione, era la cosa che avevo fatto anche nel libro “Il mio fiume” e lo faccio anche nel mio nuovo romanzo “Lettere di cemento, persona di diamanti”.
La mia ossessione verso il tema del tempo e dello spazio forse è legata alle mie letture dell’opera di Hawking e anche al fatto che amo l’astrofisica, la cosmologia ecc… Inoltre c’è il fatto che i miei protagonisti sono melanconici perché bramano un mondo stabile (qualsiasi cosa questo possa significare); anelano all’interezza di un mondo che è esploso, desiderano una vita lineare e per questo sono ostaggi del XX Secolo.
Perché nella realtà nulla è lineare, nemmeno integro, il loro desiderio è quello di tornare nel Paradiso, nel tempo prima della guerra, l’epoca paradisiaca. Sanno che è irrealizzabile, ma è possibile almeno sotto forma di desiderio utopico.
Tutti noi desideriamo tornare nell’infanzia, indipendentemente dal fatto di aver vissuto una guerra come apocalisse o non averne avuto esperienza. Noi che abbiamo vissuto l’apocalisse della guerra nutriamo un desiderio ancor più forte di tornare indietro, verso l’infanzia, perché siamo segnati da una duplice malinconia: la malinconia per il passare delle nostre vite e la malinconia per la distruzione del nostro mondo materiale (la distruzione causata dalla guerra).
Poco tempo fa ho scritto su twitter che noi, in quanto sopravvissuti, survivors, abbiamo delle antenne particolari e possiamo presentire l’arrivo di spaventosi eventi storici, ma la cosa tragica è che nessuno ascolta quel che abbiamo da dire. A noi, come sopravvissuti, non si crede neanche un po’.
Io sapevo con certezza che la Russia avrebbe attaccato l’Ucraina. Ne ho scritto prima dell’invasione dell’Ucraina. Ho fatto un’intervista con uno scrittore ucraino, volevo farla prima della guerra, perché volevo avere una prova materiale nella quale ci fosse scritto che sapevo che sarebbe scoppiata la guerra. Purtroppo la nostra guerra in Bosnia è totalmente dimenticata, tutto quello che sta accadendo in Ucraina, qui è già stato. La guerra in Ucraina è un copia e incolla della nostra, con la differenza che l’aggressore è ancor più malvagio e pericoloso del nostro aggressore.
Tutto accade secondo uno schema simile: si distruggono le città e i villaggi, si uccidono i civili in fila per comprare il pane, i morti si seppelliscono nei parchi. Sono cose che abbiamo già vissuto a Sarajevo e in altre città.
Inoltre è incomprensibile che della guerra in Ucraina si parli come della prima guerra sul suolo europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale, confermando così che la guerra in Bosnia non è riconosciuta come un evento storico importante. A noi è spettato un ruolo secondario, non so perché sia così, forse perché siamo di un’altra religione e quindi non abbastanza “bianchi” né abbastanza europei.
Perché forse, alla fine, l’orologio è anche uno strumento che aiuta a misurare i battiti cardiaci. C’è in questo una volontà di vicinanza all’essere umano?
L’orologio è materiale, il tempo no. Io amo gli orologi da polso. Li colleziono, per quel che la mia situazione economica me lo consente. Ho immaginato Gesù Cristo come un orologio di carne e sangue, perché la sua vita è il momento dal quale misuriamo l’inizio del battere del nostro tempo.
L’orologio scandisce il nostro tempo terreno, il temo cronometrabile in tutte le fasi temporali. Non esiste un unico tempo cosmico, anche se mi piace immaginarlo così, io non sono uno scienziato, sono un poeta-scrittore. Come afferma Carlo Rovelli: il tempo è una questione di emozione.
Tutto il libro è molto articolato, nei vari momenti di cui è composto. E dove si trovano tracce di futuro, il lettore si trova davanti a sé un post-futuro. Come se l’Apocalisse fosse già stata all’opera. È così?
Sì, per noi che abbiamo vissuto la guerra in Bosnia Erzegovina, l’apocalisse è già avvenuta. Nel nuovo romanzo articolo questo tema in una maniera molto più chiara. L’apocalisse è un termine dagli svariati significati legati al credibile – che sono la base dei racconti nebulosi hollywoodiani.
La mia versione di Apocalisse è legata all’istante in cui si devasta una società. Una società si distrugge molto tempo prima che venga annientata con la guerra. Nel momento in cui in una società perdono valore alcune norme di vita civile, ecco che inizia l’apocalisse.
L’apocalisse nazista non ha avuto origine quando Hitler ha invaso la Polonia o la Gran Bretagna, bensì quando i tedeschi, i cittadini della Germania, si sono trovati ad osservare in silenzio la distruzione dei negozi, delle panetterie, degli appartamenti dei loro concittadini di origini ebraiche.
Quando uccidere un uomo per strada diventa la normalità allora arriva l’Apocalisse. Quando tutto ciò che era proibito e considerato sbagliato diventa ordinario e desiderabile, quando il male diventa un fatto di prestigio sociale, allora ci siamo inoltrati nel territorio dell’Apocalisse. Quando il presidente di una nazione dichiara che un’altra nazione non esiste e che le persone che abitano quella nazione non esistono e sono un’invenzione, si tratta di un chiaro invito a commettere il crimine.
Così Milošević parlava della Bosnia e dei bosniaci, così ora Putin parla dell’Ucraina e degli ucraini. Così Hitler parlava di ebrei, slavi e rom.
La sua scrittura è di una bellezza che sa coniugare semplicità di narrazione e potenza espressiva. E se c’è un qualcosa che mette in rilievo, ovunque nel libro, è la presenza di un attrito costante. Fra persona e persona, fra presente e passato, fra desiderio e realtà… si ritrova in questo?
Mi fa piacere che lei pensi questo. Questi attriti sono importanti. L’intera poetica della mia scrittura è basata e costruita sulle contraddizioni. Nel romanzo “Il mio fiume” dopo ogni passaggio terribile e pesante, ne segue uno sulla bellezza e l’indistruttibilità della natura.. è necessario dare speranza nei tempi difficili, ma è altrettanto necessario guardare negli occhi la sorte e saper indicare chiaramente il male.
La nostra società, con la sua Storie e le sue storie, è andata oltre il punto di non ritorno? E ognuno di noi con lei?
Penso di aver già risposto nelle domande precedenti, però sì, già da un bel po’ abbiamo oltrepassato il limite oltre il quale non c’è più ritorno. Non deve per forza essere qualcosa di solamente negativo, ma il mondo che conoscevamo è definitivamente svanito.
In quanto sopravvissuti, noi bosniaci lo sapevamo prima di chiunque altro in Europa, adesso lo sanno tutti gli europei mentre guardano le immagini tv e i video girati dai cellulari della distruzione e della sofferenza delle persone in Ucraina.
Non è che il mondo dopo l’Ucraina non sarà più lo stesso, già ora non lo è più, cambia a una velocità paurosa.
O la dimensione umana può essere l’unica forza che ci può salvare?
Sono d’accordo. L’umanità ci può salvare, se però ci ricordiamo di essere umani, perché molti continuano a non voler vedere, a non voler ascoltare la sofferenza delle altre persone. Mi dispiace tanto per le persone dell’Ucraina, ma mi dispiace anche per quelli dell’Afganistan, dell’Iraq, della Siria, dell’Africa che muoiono continuamente nel Mediterraneo e verso i quali tutti abbiamo perso l’empatia.
Perché la loro sofferenza è meno importante di quella dei profughi ucraini? Quello che salva me è la creazione artistica. Credo solo nell’arte.
Perché nel leggere il suo libro, si vive sempre e comunque solo un senso di sopravvivenza. È questo ciò a cui siamo destinati? Sopravvivere e non vivere?
È una buona domanda, anche se pure la sopravvivenza è vita. Ne scrivo in maniera molto più elaborata nel nuovo romanzo, dove racconto i sopravvissuti, persone che abitano le macerie delle città europee, distrutte da innumerevoli guerre.
In quel romanzo non ci sono nazioni, confini, solo città fumanti dopo le guerre e persone che non si interessano più di ideali di nazioni e stati. Il mio romanzo racconta del tempo e dello spazio dopo il fallimento delle nazioni.
Quando è iniziata la pandemia avevo la sensazione che quell’evento avrebbe potuto mettere in ombra quel che stavo scrivendo, quando è iniziata la guerra in Ucraina mi son chiesto la stessa cosa: il mio romanzo risulterà insensato e la realtà della guerra lo calpesterà, dato che aveva iniziato a manifestarsi quello di cui andavo scrivendo, ma questo dubbio l’avevo già accennato nel racconto “L’orologio di carne e sangue” della raccolta “Racconti a orologeria”. Ecco qui il passaggio:
“La mia fine del mondo non è frutto della punizione divina, del malcontento del Creatore a causa del nostro stile di vita. La mia fine del mondo è una sensazione personale che non mi abbandona dalla fine della nostra guerra. A volte mi sembra che la realtà mi stia alle calcagna. Per quanto io sia avanzato verso il futuro, ambientando l’azione nei paesaggi che più amo, dove dall’asfalto spunta un’erba dura e selvatica, i logo delle multinazionali si trasformano in polvere e cenere, mentre la cenere è la moneta del futuro, non riesco a sfuggire alla realtà. Scappo laddove i mezzi di trasporto pubblico sono sprofondati nella ruggine e diventati il parco giochi degli animali selvatici. Laddove attraverso gli appartamenti abbandonati, soffia il vento del Nord, ideale per fantasticare o per lanciarsi verso le stelle. La realtà ha un’immaginazione migliore della mia. È difficile eluderla. Se leggi le notizie, ti rendi conto che hai indovinato il tema dell’apocalisse, tranne per il fatto che nel romanzo non hai gli zombie, poiché una volta sei stato un profugo – uno zombie, quindi ne conosci il dolore. Sei stato uno sfollato, uno zombie locale perché non hai abbandonato la tua nazione. Combattevi contro il virus dentro di te, lo stesso che aveva infettato i tuoi nemici. Ne sei venuto a capo, hai passato con successo il test della tua piccola apocalisse personale. L’uomo è una bestia e si preoccupa solo di se stesso. Non me la prendo a male. In qualsiasi momento dovesse manifestarsi un’apocalisse di grande portata, io sarò pronto”.
E quindi, adesso come adesso, quale pensa sia il ruolo della letteratura nel nostro presente?
Il ruolo è quello di ricostruire un mondo che è stato distrutto o che sarà distrutto. Oggi ho visto delle fotografie, anzi in realtà un lavoro di un’artista ucraina che, sulle fotografie che immortalano gli appartamenti distrutti, ha disegnato delle persone, in ciascun appartamento. Ha ridato vita a coloro che sono fuggiti o sono morti, ovviamente non ha ridato davvero loro la vita, ma lo ha fatto nella nostra memoria.
Questo significa ricostruire un mondo, ricostruire le emozioni. Perché una volta che tutte le macerie saranno ricostruite, allora bisognerà chiedersi: e adesso? Dove andiamo adesso? Come ricostruire le macerie che abbiamo dentro? Questa è la domanda più difficile con la quale le persone dell’Ucraina non si sono ancora misurate, perché la guerra dura ancora, ma l’artista ucraina Anismova lo ha anticipato, ha già previsto quel che accadrà. Questo è il ruolo potente dell’arte.
L’autore:
Faruk Šehić, poeta, scrittore e giornalista bosniaco, è nato nel 1970 a Bihac e cresciuto a Bosanska Krupa.
Ha studiato veterinaria a Zagabria fino allo scoppio della guerra in Bosnia nel 1992, quando ha fatto ritorno per arruolarsi nell’Esercito della Bosnia Erzegovina.
Durante il conflitto è stato comandante di un’unità di centotrenta soldati ed è stato ferito gravemente a un piede. Dopo la guerra ha studiato Letteratura all’Università di Sarajevo. Lavora come giornalista per il settimanale BH Dani.
È considerato una delle voci più autentiche e poetiche della ex-Jugoslavia; pone al centro della sua opera l’esperienza della guerra, raccontandone la quotidianità, la brutalità, ma anche l’umanità con uno stile sobrio e poetico.
Ha pubblicato: ”Poesie in divenire” (Sarajevo, 2000), ”Hit Depot” (Sarajevo, 2003), ”Sotto pressione” (racconti brevi, Sarajevo-Zagabria 2004), ”Transsarajevo” (Zagabria, 2006).
Il suo primo romanzo ”Il mio fiume” (Buybook Sarajevo 2011 e Mimesis 2017) ha vinto il Premio Meša Selimovic nel 2012 e il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2013.
Nel 2019 è stata pubblicata in Italia la sua raccolta di poesie “Ritorno alla natura”, edita da Lietocolle.
(Faruk Šehić ”Racconti a orologeria”, pp. 124, 12 euro, Mimesis 2020)
La traduttrice:
Elvira Mujčić, nata nel 1980 in Serbia, vissuta tra Bosnia, Croazia e Italia, è una scrittrice e traduttrice italo-bosniaca.
Laureata in Lingue e Letterature straniere, è autrice dei romanzi “Al di là del Caos”, “E se Fuad avesse avuto la dinamite”, “La lingua di Ana”, “Dieci prugne ai fascisti” (Elliot edizioni, 2016). Nel 2020 ha pubblicato “Consigli per essere un bravo immigrato” (Elliot edizioni).
Tra le sue traduzioni in italiano: “Il letto di Frida” di Slavenka Drakulić, “Il nostro uomo sul campo” di Robert Perišić e “Il dono d’addio” di Vladimir Tasić.
Ha curato la traduzione del cartone animato “Draw not War” e del documentario “La periferia del nulla” di Zijad Ibrahimović.
È coautrice dello spettacolo teatrale “Ballata per un assedio” e dello spettacolo “I quaderni di Nisveta”.
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Combinazione
di Pierpaolo Lista
Voce d’autore —————————–
“Italian justice”, “Feast of the Innocents”
Due testi inediti
di Jude Luciano Mezzetta
Italian Justice
Before me runs the smoke of justice
on the road to Maralunga cape:
clouds color of marlin
in the west and south,
the cardiac sea –
echo Doppler –
the rhythm rhymes with my gait.
All so distinct. Then
the official car comes round the curve.
The night falls.
The red lights
turn
and turn
Giustizia italiana
Davanti a me corre il fumo di giustizia
sulla strada che va al capo di Maralunga;
le nuvole il colore di pescespada
nell’ovest e nel sud,
il mare cardiaco –
echo Doppler –
il ritmo fa rima con il mio passo.
Tutto così ben definito. Poi
la macchina ufficiale
arriva alla curva.
Scese la notte.
Le luci rosse
girano
e girano.
(traduzione in italiano a cura di Jude Luciano Mezzetta)
*
Feast of the Innocents
(Lerici, December 2013)
“And in Rama I hear the voice of Rachel.
She is weeping for her children. For they are no more”.
Now into the fortieth hour of fast
and twentieth day of intestinal pain
my wife says she is ready for the emergency clinic.
And for seven hours I wait in and out of the emergency room,
and I walk the garden of the hospital,
where the slope of the hill is steep several laurels
have been pruned, the cuts straight and clean
and white, white dust over the cut branches
still ungathered, and leaves still crisp,
and I walk the edge of the emergency room,
beyond the low rock border a sprawling palm
is dropping dark copper dates on the thin lawn,
on its own matted trunk and on the asphalt,
and a few roll towards me as I climb the road,
and I let them bounce and roll down the shoulder
and into the mossy drain.
After seven hours it is night when they call me.
They take me to the long corridor lined with gurneys,
and she is supine directly in front of me in the middle
of ten gurneys and she rises to meet me.
To the left and to the right of her
the bodies on the gurneys lie still,
their eyes are red, the mouths agape;
they will ride to the death floor.
Then I go to where they put her, in the overflow
ward, her bedside metal cabinet door will not open
for it is frozen shut with rust, and when I use the
electric command to call a nurse, it does not
work and the light that should shine does not.
Augustus said it was better to be Herod’s pig than his son.
And we the sons of the pathological state
to what Salem do we run
in the dead of winter?
Festa degli Innocenti
(Lerici, Dicembre 2013)
“E in Rama sento la voce di Rachel.
Sta piangendo per i suoi bambini. Perché non ci sono più”.
Oggi, nella quarantesima ora del digiuno
e nel ventesimo giorno dell’afflizione intestinale,
mia moglie dice che è pronta per la clinica di emergenza.
Per sette ore aspetto dentro e fuori il pronto soccorso
e cammino nel parco dell’ospedale,
dove il declivio della collina è ripido alcuni allori
sono stati potati. I tagli dritti e puliti
e bianchi, bianca polvere sui rami tagliati
non ancora ammonticchiata e foglie ancora fresche,
e cammino sul limitare del pronto soccorso,
oltre il basso ciglio di roccia una palma tentacolare
sta gocciando datteri, scuro rame sul prato rado,
aggrumati sul proprio tronco e sull’asfalto,
pochi rotolano verso di me che mi inerpico lungo la strada.
Li lascio rimbalzare, rotolare giù per il bordo,
dentro una cunetta muscosa.
Passate sette ore, è notte quando mi chiamano.
Mi portano nel lungo corridoio foderato di barelle,
lei è supina proprio di fronte a me e in mezzo
a dieci barelle si alza per venirmi incontro.
Alla sinistra e alla destra di lei
i corpi giacciono quieti sulle barelle,
i loro occhi sono rossi, le bocche spalancate;
cavalcheranno al piano della morte.
Poi vado dove hanno messo lei, in un troppopieno
reparto, l’anta metallica accanto al letto non si apre:
è assiderata, chiusa dalla ruggine, e quando uso
il comando elettrico per chiamare un’infermiera,
non funziona e neppure la luce, che dovrebbe brillare.
Augusto ha detto che era meglio essere il maiale di Erode che suo figlio.
E noi i figli dello stato patologico
verso quale Salem ci affettiamo
nel cuore dell’inverno?
(traduzione in italiano a cura Francesco Macciò)
L’autore:
Jude Luciano Mezzetta è nato in Italia alla fine della Seconda Guerra mondiale, poi, piccolissimo, si è trasferito con i genitori a San Francisco, dove ha vissuto la maggior parte della sua vita e dove ha preso parte alle ultime avventure poetiche del post Beat Generation.
Ha pubblicato le sue poesie sulla preziosa rivista letteraria “Invisible City” diretta da Paul Vangelisti.
I suoi lavori poetici hanno condiviso quelle pagine assieme agli scritti di Diane Di Prima, Charles Bukowski e Jack Hirschman.
Da qualche anno vive a Lerici, nel Golfo dei Poeti.
Alcune sue poesie compaiono nell’antologia “Poets West”, assieme a quelle di Gary Snyder e Kenneth Rexroth.
Le sue letture dal vivo, assieme a musicisti jazz, sono vere e proprie esperienze di ascolto.
Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di poesie “Longitudini”, per ETS edizioni.
Il traduttore:
Francesco Macciò è nato a Torriglia nel 1954 e vive a Genova.
Dal 2011 è direttore artistico del Festival torrigliese “TorrigliaInArte”.
Ha vinto il Premio “Cordici” di poesia mistica e religiosa (2009) e il “Satura città di Genova” (2012).
Ha curato il volume di studi su Giorgio Caproni “Queste nostre zone montane”, con introduzione di Giovanni Giudici (La Quercia Edizioni 1995).
Ha pubblicato i libri di poesia “Sotto notti altissime di stelle” (Agorà 2003 / Matisklo 2013), “L’ombra che intorno riunisce le cose” (Manni 2008), “Abitare l’attesa” (La Vita Felice 2011, finalista Premio Volterra Ultima Frontiera 2012 e finalista Premio Internazionale Mario Luzi 2014/2015) e “L’oscuro di ogni sostanza” (La vita Felice 2017).
Numerosi i suoi saggi critici apparsi su varie riviste. Suoi testi poetici sono stati tradotti e pubblicati in Germania e negli Stati Uniti.
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Anteprima
di Pierpaolo Lista
Margini. Di poesia ed altro —————————-
Di rimanere ferma nelle notti, devota al vuoto.
Silvia Bre, “Le campane”
di Roberto Lamantea
Una poesia di Pascoli che è un vero e proprio concerto di fonemi, “Alba festiva”, che apre “Myricae” (1891-92), canta il tessuto di suono e silenzio delle campane: il loro suono visivo (Pascoli è maestro di sinestesie), di cielo, notte, lontananze; il suono prima e dopo il rintocco, il graffio del vuoto che si fa preludio, l’eco – solo mentale – dopo l’ultimo don (il fonema d intona il tessuto sonoro dei versi: d’oro, d’argento, dondolìo, adoro, dilla, onda, desio) ma l’ultima parola è tomba. È il loro esserci anche quando sono mute. Metafora del tempo e della storia, dello spazio e della scrittura, nell’ultimo libro di Silvia Bre, “Le campane”, pubblicato come gli altri e le sue traduzioni da Emily Dickinson nella Collezione di poesia Einaudi, le campane sono – scrive Sara De Simone in una recensione stupenda sul quotidiano Il manifesto – la “cima che dondola il tempo, sono il battito remoto e segreto dell’esistenza, salutano la nascita o l’addio […] Le campane provengono da un “lontano”: sai che quel lontano è amare amare tanto./ E stai, a sentirle da qui/ mentre parli a bassa voce col morire”.
È sempre De Simone ad annotare che “esistono poeti la cui forza espressiva è tanto grande da somigliare al silenzio. Il silenzio del cielo, il silenzio delle montagne, il silenzio di prima che nascessimo e quello di quando moriamo. Il silenzio dell’attimo prima che suonino le campane”.
Così quella delle grotte di Chauvet, le magnifiche pitture rupestri nel Sud della Francia, “è un’aria lenta/ che ha luogo da sé/ e canta all’aria./ Il ritmo innato vaga prima/ della vita”. Il loro tempo – il tempo dei disegni della preistoria – è anche il nostro tempo: “discendere da loro/ in un destino// nel fumo// negli spazi// essere stati il futuro di qualcuno”.
Tempo e spazio sono un gioco di prospettive: “Da qui la riva è una fantasia, un fantasma/ che ci ha deposto al largo per farsi guardare// e intanto si rintana sul fondale, il mare/ invade tutto il lago.// Ad avvistare la scena/ solo queste parole”.
Il suono delle campane è metafora anche della scrittura: “La parola è un impiglio, poi crolla/ come ogni monumento/ e l’incontro si scioglie/ (nell’ingorgo dei suoni s’incaglia/ un attimo di senso/ e l’attimo nel suono pare eterno// smette quando/ di colpo lo convince/ la deriva del tempo lì attorno)”.
A volte il soggetto del verso è evocato ma non detto, o è prima della parola, molti sono i vocativi ed è frequente il ricorso al “tu” montaliano. Proprio sui suoni della scrittura di Silvia Bre annota Roberto Galaverni sulla Lettura: “[…] non resta più nulla dell’andamento fluido e un poco incantatorio del discorso poetico” dell’autrice bergamasca, “prevalgono lo spezzato, il franto, l’irto, il dissonante”, quelle sonorità espressioniste che rimandano, ulteriore conferma, al primo Montale.
Amiamo il suono di campane lontane – è la quarta di copertina – perché “siamo attirati da distanze che ci chiamano, che non vediamo e non conosciamo”. Forse è la nostalgia dell’origine, dell’infanzia ma con la coscienza (ed ecco la poesia di Pascoli che apre Myricae) del vuoto finale, il canto dell’origine, della culla, è anche quello della fine, della tomba.
“Le campane” è un libro sull’assenza e la rinascita: “Non sono mai nessuno i poeti –/ nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria/ pugnalano in lingue il lontano./ Poi l’aurora”.
Dal libro:
L’apparire di sparsi movimenti
del sole, delle strisce lunari
poi nella loro luce gli animali
tra foglie tutte nuove
disegni, come i gesti delle fate
e dei maghi
discendere da loro
in un destino
nel fumo
negli spazi
essere stati il futuro di qualcuno.
*
Quei numeri tatuati sul pianeta
aspri musi di faina dove l’iride turbina
e si schianta involontaria smarrita
la selvaggina umana: per la scala minore
su sfondo oro sbanda un meridiano
di rintronati dalla fragranza di un suono
la loro eleganza disadorna.
Non sono mai nessuno i poeti –
nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria
pugnalano in lingue il lontano.
Poi l’aurora.
*
La notte sui muri scrivo
nella corte bianca senza giudici, quando l’occhio si taglia
perché il piombo fiammeggi a calori argento mentre vedo.
Entrasse almeno nella bocca. Io parlo invece
l’artificio, dico il coltello che baratta
il luogo con un altro
questo comparto industriale smesso dove pascoli
dove si bela tra la ruggine e il tetano negli scoli
e sono così poco che amo anche questo
allucinare senz’alba mentre spazia una solitudine lunare.
Mi si dica, lo chiedo in ginocchio,
dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra
un gesto di pietà da offrire a un altro
a chiunque, e qualcuno lo ha fatto o lo farà
in un tempo astrale senza saperlo.
*
Cimiteri di campane via dal mondo
fanno l’unione della terra all’erba, vegliano
sulla diaspora dei morti, trame dell’insaputo,
nessuna luna ha una febbre così fredda
di rimanere ferma nelle notti, devota al vuoto.
Ma un’aria protesa è un fulmine, il venire meno
al loro patto insegnando senza luogo la disfatta
e non è alta la nota della fine ma si immagina tremenda,
la sua ferita fino in cielo è non morire.
L’autrice:
Silvia Bre è nata a Bergamo nel 1953. Vive a Roma. Ha esordito nel 1990 con la raccolta di poesie “I riposi” (Rotundo). Da Einaudi ha pubblicato “Le barricate misteriose” (2001, premio Montale), “Sempre perdendosi” (Nottetempo 2006, premio Montano), “Marmo” (2007, premi Viareggio, Mondello, Frascati, Penne, Arenzano), “La fine di quest’arte” (2015).
Tra le sue traduzioni tre volumi da Emily Dickinson per Einaudi: “Centoquattro poesie” (2011), “Uno zero più ampio” (2013) e “Questa parola fidata” (2019).
Per la Biblioteca Adelphi ha tradotto le poesie di Robert Frost, “Fuoco e ghiaccio”, edizione a cura di Ottavio Fatica (2022).
Tra gli autori da lei tradotti: Robert Graves, Alberto Manguel, Alice Walker, Claudia Rankine, Doris Lessing, Naomi Alderman, Alison Lurie, Siobhan Fallon, Sharon Kivland, Lodro Rinzler.
(Silvia Bre “Le campane” pp. 68, 10 euro, Einaudi 2022)
Immagini ——————————–
A galla
di Pierpaolo Lista
Voce d’autore —————————
È fatto giorno
Roberto Veracini, “Esercizi di distanza”
di Giovanni Fierro
È un grande piacere seguire nel tempo il percorso d’autore di Roberto Veracini. Il poeta di Volterra, libro dopo libro, sta costruendo una appartenenza alla poesia davvero importante, con il suo scrivere che sempre di più è capace di creare la confidenza necessaria con il dire.
E questo suo nuovo volume, “Esercizi di distanza”, lo dimostra. Sono pagine che arrivano in un momento dove è necessario tirare delle somme, considerare il punto in cui si è arrivati. È un guardarsi allo specchio, nel desiderio di essere sinceri con se stessi. Ma anche con il mondo intero.
“Un’improvvisa sensazione di felicità/ e subito la paura/ di una improvvisa delusione./ Si vive così”, e questo è il confronto da cui è bene non togliersi. Certo, ci si domanda quali possono essere le certezze, quali i porti sicuri a cui approdare. E intanto Roberto Veracini il primo approdo sicuro ce lo indica, il porto sepolto della poesia.
I testi di “Esercizi di distanza” sono brevi, si risolvono tutti in quattro righe. Arrivano al nervo, al necessario, a ciò che deve rimanere.
Queste sue nuove poesie hanno l’immediatezza dell’haiku e la freschezza dell’acquarello, e allo stesso momento sono versi decisi, che non permettono di tornare indietro.
“Costruire una soglia, più di lì/ non si può, né col sentimento/ né col ritegno. Costruirla solida,/ ché non si passi”. Un qualcosa che al primo sguardo, alla prima lettura, può sembrare una difesa. Ma che poi ti rendi conto che è solo un invito ad indovinare cosa contenere, cosa raccogliere. Perché le scelte devono essere fatte, con determinazione, ben sapendo che non possono essere indolori. Sono la verità della nostra carta d’identità, la nostra reale data di nascita.
Roberto Veracini sa bene che “Esercizi di distanza” solo apparentemente è un libro di risposte, perché poi a viverlo pagina per pagina ti rendi conto che è un libro di domande. E di dubbi. Quelli che sono l’innesco dell’età in cui si vive il presente, il riconoscere la preziosità dell’esistere.
Certo, non è facile, perché si deve anche riconoscere che a volte “’Non riesco più a commuovermi’, dici,/ non mi escono le lacrime”, e si ha paura di non sentirsi più in sintonia con l’universo intero.
E si deve azzardare, si deve correre il rischio di giocarsi tutto, al solo sapere che “Da lontano le cose si vedono meglio/ o non si vedono affatto”.
E come sulla pagina bisogna “Fermarsi a sentire./ Solo questo,/ sempre. È una condizione/ irripetibile”.
Anche solo per dire e scrivere che “Tutte le crisi portano in sé/ la consapevolezza che ogni cosa/ può essere l’unica cosa/ o una cosa soltanto. È uguale”.
Chiara e inappellabile, la scrittura di Roberto Veracini è nutrimento di cui non si può fare a meno. Perché anche questo suo nuovo libro dimostra che ogni distanza, una volta percorsa, diventa una vicinanza.
Dal libro:
Constatazione
Restare soli si deve
quando non riconosci più
lo sguardo delle persone,
le loro vite senza di te.
*
Mancanze
Si cerca un appiglio
ad ogni mancanza,
senza preoccuparsi troppo
di quel che manca
*
Scotellaro
“È fatto giorno” diceva Rocco,
eppure era buio pesto.
Ma lui aveva la luce dentro,
poteva bastare
*
Così inutile
L’amore grande di un uomo
può rivelarsi così inutile,
un seme sparso
mai più rintracciabile
*
Lividi
Quattro versi non bastano
a costruirsi un alibi. Si resta
comunque esuli, così esposti
nei nostri lividi
Intervista a Roberto Veracini:
Qual è la distanza del titolo? Di certo non è una distanza dal tuo vissuto…
Tutto è nato per caso, durante il lockdown, prendendo (anche per necessità) le distanze dalle persone, dalle cose, inventandosi un modo un po’ cinico e ironico di porsi di fronte alla realtà, senza sconti, senza una sola parola in più.
Non è una distanza dal mio vissuto, è un altro modo di vedere il mio vissuto: porsi da lontano, come da un osservatorio, per cercare di vedere meglio, come un esercizio della mente. Tutto questo con una regola formale inderogabile: quattro versi e un titolo.
A leggere queste pagine mi viene da pensare che “Esercizi di distanza” sia anche un fare il punto della situazione con il tuo stesso scrivere. Quale il percorso che hai costruito con la tua poesia?
Sono arrivato alle brevi istantanee di “Esercizi di distanza” perché avevo bisogno di togliere ancora tutto quello che era possibile, arrivare all’essenza. Ma in questa essenzialità ho cercato di mettere tutto quello che esprime il mio modo di fare poesia.
E quindi, sempre in modo un po’ ironico, un po’ cinico, un po’ filosofico, c’è la rivendicazione di certi valori per me necessari, come la visione poetica della vita (e quindi, per forza, una visione rivoluzionaria), l’amicizia, l’amore, la fedeltà ai propri ideali e ai propri sogni (e quindi la rivendicazione di una inevitabile diversità nella realtà in cui stiamo vivendo, anche a costo di restare ai margini).
Con la mia poesia credo di aver costruito un percorso di autenticità nella diversità delle forme perseguite, inseguendo quella poesia onesta, di cui parlava Umberto Saba.
È anche un mettere sulla paginai tuoi propri riferimenti, penso a Leo Ferré e a Rocco Scotellaro, ad esempio. E mi sembra che sia anche un dire grazie a chi ti ha permesso di essere poeta, il diventarlo. C’è anche questo in “Esercizi di distanza”?
Sicuramente. È una sorta di bilancio di una vita, in cui compaiono emozioni legate a momenti ed esperienze per me fondamentali.
È come dire “Ecco, ho fatto questo, io sono questo!”. E così si va dai sogni dell’adolescenza e della giovinezza al disincanto dell’età adulta, dalla rivendicazione del mio modo di essere alla constatazione della difficoltà di restare fedeli a se stessi, dalle piccole grandi emozioni di ogni giorno alle inevitabili delusioni… Ci sono alcuni miei riferimenti culturali, Rocco Scotellaro (su cui ho fatto la tesi di laurea all’Università di Pisa) e la sua poesia d’impegno civile, Leo Ferrè, Paolo Conte e la canzone-poesia, e poi Modigliani e Cezanne…
E poi la base di tutto: gli amici e le donne che hanno segnato la mia vita. Pensa che per il libro avevo preparato questa dedica (che poi non ho messo, non so perché): “Alle donne della mia vita/ che mi hanno fatto amare/ la vita, agli amici/ che me l’hanno salvata”.
Apparentemente è un libro di risposte, ma poi a viverlo pagina per pagina ti rendi conto che è un libro di domande. È come se il fare il punto della situazione abbia bisogno di ulteriori punti interrogativi. Mi sbaglio?
Sono sempre stato affascinato dagli haiku e dalla cultura zen, le mie non sono mai risposte, ma istantanee che rimandano a nuove domande. Cerco di cogliere quel soffio di cui parla Renè Char nella citazione che ho messo all’inizio del libro. Qualcosa da cercare sempre. E sempre nel dubbio.
In che modo questo libro contiene i tuoi libri precedenti? Se lo fa….
Credo che i temi siano gli stessi che mi porto dietro da quando ho cominciato a scrivere… invece è diversa la forma, il modo di affrontarli, con questa brevità che diventa regola per una ricerca in profondità, un percorso in verticale, uno scavo ulteriore (d’altronde Caproni, un altro dei miei punti di riferimento letterari) diceva che il poeta è un minatore…
La scrittura qui è ancora più essenziale e necessaria che in passato. Da cosa è nato questo desiderio/bisogno di trovare una forma espressiva di questo tipo?
È nato dalla necessità di scavare, per arrivare sempre più in profondità, togliere le parole superflue per arrivare a quella parola, togliere il rumore per arrivare al suono…
Cosa ha lasciato in te la scrittura di “Esercizi di distanza”?
È stata una cosa veramente strana, perché il libro è nato a poco a poco, come un gioco con me stesso: costringermi ad esprimermi con pochi versi, in cui dire tutto.
E dirlo come da lontano, distaccato dal mondo eppure ancora più dentro al mondo, quasi in un’altra dimensione, trovando un modo di scrivere che credevo non mi appartenesse (non così, comunque).
Dal mio osservatorio essenziale la visione ha assunto un’altra connotazione, illuminando altre possibilità di conoscenza, inaspettate.
L’autore:
Roberto Veracini è nato nel 1956 a Volterra, dove vive.
Ha pubblicato le raccolte di poesia “La ragazza in bianco” (1985), “Stazioni, attese” (1990), “Epifanie dell’angelo” (2001), tradotta anche in francese, “Da un altro mondo” (2011) e “Via de’ laberinti” (2020).
Nel 1993 è stato tra i fondatori della rivista fiorentina “Pioggia obliqua”.
Nel 1999 è uno dei promotori del Premio Letterario “Ultima frontiera”, dedicato a Carlo Cassola.
E nel 2005, assieme a Paolo Fidanzi, ha dato vita alla rivista “Il foglio di poesia”.
(Roberto Veracini “Esercizi di distanza” pp. 80, 10 euro, Edizioni ETS 2021)
Immagini ——————————–
Vietato fotografare
di Pierpaolo Lista
Tempo presente —————————-
Io sento il respiro
Cinque testi
di Vanessa Modafferi
Cuore e Amore
Questo tipo di Poesia mi viene a noia.
Fegato e milza
tessuti e viscere
questa Poesia mi vive addosso.
Cuore e Amore
mi innalza gli zuccheri nel sangue
la tua assenza, invece
mi scava una tomba negli intestini
e la solitudine mi perfora un polmone.
Se cado, mica inciampo
se cado, ci resto.
Se tu non sei lì ad accogliermi
non c’entra nulla Cuore e Amore
se tu non sei lì
mentre sanguino
esiste solo il giorno interrotto
il mal di stomaco e le vene rattrappite.
Esistono i capelli bianchi e gli occhi secchi.
Ti voglio, ti voglio adesso
anche senza sole
anche senza arcobaleni del cazzo
con pignatte di illusioni.
Ti voglio accanto, dentro e sopra.
Non vicino o per mano!
Dentro a scorrermi vita.
*
Sento lo struggersi di tutte le cose
delle pietre sudate
dei tombini intasati
dello scricchiolio del legno aggredito.
Quel legno aggredito da tutti
dal tempo, dal parassita,
da muffe verdastre.
Da chi vi incide iniziali – banali-
e
chi si schianta distratto.
Sento lo stridere di tutte le cose
sui ferri battuti
sui morti passati
su quelli pronti a partire.
Sento, sento che tutto respira
che duole la colpa, di non esser
nata matura
di non essere morta acerba
e
di non credere più
alle favole dei volti coi sorrisi stampati.
Sento chi manca
sento essermi affine
chi mi manca di giorno
patendo l’assenza
in assenza assoluta di sostanza.
Ho detto che ce la faccio
e ce la faccio ogni giorno
anche se sento
– più di tutti –
io sento il respiro
di un dio nascosto in tutte le cose.
*
Il mio punto di svista
ha inizio con te.
Fuori mira e fuori traiettoria
sfocata e inibita certezza
– probabilmente –
sei punti al massimo
su un bersaglio qualsiasi.
La mia confusione mentale
la sbornia dopo una festa
di una noia mortale.
L’anticiclone
la rotta cambiata in fase d’emergenza.
Il mio disastro naturale
immaturo uragano
sempreverde conifera montana
a ricordarmi che
non è così che si fa poesia.
Elencando aggettivi, soggettivi
malcapitate metafore, ridicole sciagure.
Sei il mio punto di svista
e non azzecco un verso
nemmeno adesso
che ti ho perso.
A fatica respiro
e continuo la mia vita da salice piangente;
Immersa nelle acque
dei corsi imponenti
ad aspettare su questa sponda
chi ride sguaiato, col suo banale
e centrato
punto di vista perfetto.
*
Mi libero di te ogni giorno
Lascio pezzi, brandelli, ritagli
sopra ogni cosa.
Sui fili sottili pronti a spezzarsi
Sulle goccioline di sudore
di chi ansima sopra un corpo.
Sui vetri appannati,
sulle ossa che si sbriciolano.
Sul sangue lasciato ad essiccare.
Mi libero di te ogni giorno
Mentre mi depilo
mentre tolgo dagli occhi il velo
che avevi sapientemente riposto
ad ovattare i gesti spietati
del tuo essere inutile.
Cammino sopra il tuo odore
Sopra la tua consistenza molliccia.
E ti perdo pian piano
Come un gusto lontano nel tempo.
Una consapevole conquista.
Un muro imbrattato.
*
Ti regalavo parole bellissime
e tu, non sapevi che fartene.
Erano così incandescenti
che non le toccavi
non ti scaldavi
non ti scioglievi.
Il vizio del poeta é questo:
iniziare un dialogo
autoerotico
e non godere mai.
Io sento il respiro
Lo scrivere di Vanessa Modafferi
di Massimiliano Bottazzo
La poesia di Vanessa Modafferi parla all’ altro da sé prendendolo per il bavero e la scossa che segue non è priva di conseguenze. “Il mio punto di svista/ ha inizio con te“.
È, la sua, capacità di non debordare mai dalla giusta misura eppure essere efficace come uno schiaffo, che colpisce e lascia il segno.
In questa distanza, tra ciò che è e non è, consiste la sua poetica di ricordi, sensi, corpi, prese di posizione, consapevolezze. “Sento lo stridere di tutte le cose… Senti che tutto respira… Sento chi manca …“.
I cinque testi che vengono qui proposti raccontano come meglio non si potrebbe questo carattere del suo narrare poetico. Ritmo, tanto, incalzante, sensuale, erotico.
“Ti voglio, ti voglio adesso/ anche senza sole/ anche senza arcobaleni del cazzo/ con pignatte di illusioni./ Ti voglio accanto, dentro e sopra./ Non vicino o per mano!/ Dentro a scorrermi vita“.
Una mente narrante affilata, presente, che non è disposta a fare sconti, che abita uno spazio non incline ai compromessi.
Ancora, è una poesia dei colori e delle immagini, non di rado forti, secche, che rivela l’altra parte di Vanessa artista, la pittrice, che sa celare dietro i tratti di superficie la propria essenza fino ad una inattesa religiosità di natura spinoziana: “io sento il respiro/ di un dio nascosto in tutte le cose“.
L’autrice:
Vanessa Modafferi è figlia di tradizioni diverse e numerosi trasferimenti si intrecciano nella sua vita, Liguria, Calabria, Veneto e Friuli.
Un percorso di vita eterogeneo che la fa approdare alla poesia e ad una pittura istintiva, ruvida, diretta, spietata, caratteristiche che si ritrovano anche nelle parole che scrive.
I suoi versi danno voce ai segni che produce e restituiscono i ricordi e sanno essere affilati per tracciare le distanze che la separano dai propri affetti profondi.
L’autore:
Massimiliano Bottazzo è nato a Padova nel 1968, ha vissuto a Gorizia e attualmente risiede a Udine. Durante gli studi universitari fonda, assieme ad altri studiosi, la rivista “Simplegadi” di filosofia comparata tra pensiero orientale ed occidentale, contribuendo alla stessa con articoli e traduzioni.
La sua prima raccolta poetica è “Tracce” del 2016, seguita da “Scalzo per errore” (Caosfera edizioni) del 2020.
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Interno
di Pierpaolo Lista
Margini. Di poesia ed altro ——————————————
Si apre piano prima, poi divora i giorni
Alessandra Corbetta, “Estate corsara”
di Roberto Lamantea
Hanno l’incanto delle vecchie fotografie i versi di Alessandra Corbetta che, dopo “Corpo della gioventù” (2019), torna alla poesia con “Estate corsara”.
La scrittura di Alessandra Corbetta è chiara, verrebbe da dire trasparente, ma questi ritagli d’immagini, queste fotografie di spiagge, piste da ballo, camere d’albergo, città, stazioni ferroviarie, viali e vetrine, anche nelle cartoline sotto il sole hanno una luce tenue, una voce lontana.
Come nei racconti di Pedro Salinas, l’amore è sempre qualcosa che fugge, quel patio, quella strada, sono consegnati per sempre alla luce del ricordo. È come se la vita fosse una musica e ogni fotografia – ogni verso di questo libro – una nota smarrita nel tempo, come se la pienezza della vita fosse nel suo fuggire, l’essere nel divenire: la lezione della grande letteratura mitteleuropea. Sono “luoghi/ dispersi dentro i luoghi”. Come il petalo di una rosa antica che fugge dalle pagine di un libro.
È l’Heure bleue di una poesia stupenda, “quell’invisibile perduto/ che continua, fa capolino”; giri di versi perfetti: “San Marino stava nella nebbia/ come una sorpresa rossa nell’anno/ della prima volta”; “è un petalo di margherita che cade/ o magari una preghiera antica”; “[…] Altri quattro petali/ sono caduti, contro il muro la neve/ si è fatta fitta e trema e odora la rosa bianca”; “Nei tuoi / capelli bagnati la sacralità della luce-aria”; “Quanto sia esatto il congedo/ forse lo sanno gli scalini della chiesa/ o gli angoli bui delle vie nascoste”, versi che sono puro Salinas (“Appuntamento a tre”, uno dei sette racconti di “Vigilia del piacere”); “il verdeazzurro dell’infanzia” approda a un verso alla Zanzotto: “nel falsovero dell’imago appesa“.
È un libro di amori “Estate corsara”, ma è come se avessero perso i colori, si fossero smarriti nell’aria, come se per una legge della vita fosse solo il tempo a dare verità alle cose: “Ricordi? Eravamo” è il verso lapidario che conclude “Pietrasanta I”.
Amori che hanno scelto un’altra strada o forse altre illusioni: “C’è una tremenda solitudine in questo guardare la notte da un balcone di provincia” inizia l’unico testo in prosa, che conclude amarissimo: “Scegliere di vivere è non averti mai incontrato”.
Dal libro:
Alle giostre
Siamo state anche noi ragazze in attesa
della dedica alla pista Baduer: “La 109
brilla più della luna stasera” intanto cadeva
lo zucchero dalla frittella sulle gambe,
si provava a indovinare la prossima canzone.
Stavamo sulla fine dell’estate come fosse
la Stagione – pochi anni e braccialetti colorati
a tenere il conto di muretti nomi cuori
trafitti da una freccia di indelebile.
Ora tocco quei fili arcobaleno
sui miei polsi troppo fini
e non so dire se ho sognato i giorni settembrini,
se alle giostre ho riso per davvero
del proiettile che fiero
buttava a terra la lattina
*
Varchi
Aspettano qualcosa, aspettano
lo strappo. L’hanno immaginato mille volte,
mille volte.
Parte dal guinzaglio o dalla bocca del cane
che lo morde, parte dalla fretta del passaggio.
Si apre piano prima, poi divora i giorni
*
San Giovanni
A San Giovanni era novembre.
Qualche luce indorava la sera:
dentro la locanda della strega giocavamo
a fare i grandi. Quanti inverni
dureranno questi abbagli, questi luoghi
dispersi dentro i luoghi dove andranno?
Tra i passi leggeri dei vent’anni
mi lasciavi come il pesce aperta
di stupore, varcavi la soglia del plurale
sorridendo, non chiedendo se condanna
o redenzione.
*
Partenza II
Se la fine è questo andare via violento
siedimi accanto per l’ultimo attimo
dei giorni insieme, ché di chiedere tempo
non è più tempo e il gioco del “Ti ricordi?”
è già sulle bocche di altri, in altri corpi.
I vivi è chi resta a contare gli anni
indietro e avanti – i morti invece vanno,
hanno già in mano un nuovo biglietto
senza nome e cognome, senza orario.
L’autrice:
Alessandra Corbetta (Erba 1988) è dottore di ricerca in Sociologia della comunicazione e dei media e lavora come adjunct professor e teaching assistant all’Università LIUC-Carlo Cattaneo di Castellanza (Varese).
Ha fondato e dirige il blog Alma Poesia (www.almapoesia.it), con il quale ha anche curato la pubblicazione del volume “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete” (puntoacapo editrice 2021).
Collabora con il blog spagnolo di letteratura e poesia Vuela Palabra, scrive per il giornale online Gli Stati Generali e per UniversoPoesia-StrisciaRossa, per Rete 55 conduce la rubrica “Poetando sul sofà”, dedicata a grandi autori della poesia italiana.
Ha pubblicato la raccolta di versi “Corpo della gioventù” (puntoacapo 2019), l’ultima produzione saggistica è “Corpi in rete. Rappresentazioni del sé tra visualità e racconto” (Libreria Universitaria 2021).
Tutta la sua attività è consultabile sul sito www.alessandracorbetta.net
(Alessandra Corbetta “Estate corsara” pp. 94, 15 euro, nota di Marco Sonzogni, puntoacapo 2022)
Immagini ——————————–
Messa in scena
di Pierpaolo Lista
Voce d’autore ——————————-
La traccia l’attesa la sorpresa
Gabriella Musetti, “Un buon uso della vita”
di Salvatore Cutrupi
“Un buon uso della vita” è il titolo dell’ultimo libro di Gabriella Musetti, edito da Samuele Editore. Si tratta di un libro di poesie dove le protagoniste sono donne, in cui si affronta il tema della morte, ma non di quella che avviene in modo naturale, bensì di quella non attesa e soprattutto di quella cercata.
L’argomento affrontato è uno di quelli più difficili da mettere in versi e ciò porta a dire che la Musetti ha scritto un libro coraggioso, con un tema estremo che pochissimi poeti avrebbero saputo affrontare.
Nella prima parte del libro vengono presentate storie di donne semplici, apparentemente tranquille, non conosciute al grande pubblico, dove la morte arriva in modo fulmineo, senza preavviso.
Nella seconda parte della silloge invece vengono presentate storie di poetesse famose che si sono sottratte volontariamente alla vita, pur avendo spesso raggiunto la notorietà e quindi persone all’apparenza meno fragili di altre.
Ci sono infine immagini di donne che, nonostante delusioni d’amore o maltrattamenti fisici e psichici vari, hanno scelto di convivere con la loro mediocrità e i loro problemi. Alcune di queste sono poi col tempo anche riuscite a riprendere una vita normale e a vivere in sintonia con la loro quotidianità.
In queste poesie della Musetti c’è un’intensità e un’essenzialità che non lasciano spazio a parole superflue, e ogni verso evidenzia l’intensità del disagio che aleggia nelle storie proposte.
Le liriche spingono il lettore a fare un percorso introspettivo che lo conduce a porsi in ascolto con sé stesso, ad interrogarsi sulla percezione dei propri momenti di malessere e dei vari stati d’animo che accompagnano il suo vivere.
Le disamine poetiche dell’autrice spingono il lettore a riflettere sul significato che si vuole attribuire alla nostra presenza nel mondo di oggi, e ci invitano a capire quanto sia importante accettare la nostra individualità.
E riuscire a fare il nostro viaggio terreno su strade non accidentate, cercando e scoprendo la bellezza nelle cose semplici o addirittura nelle nostre imperfezioni, è forse un modo di comportarsi che può condurre a fare “un buon uso della vita”.
Dal libro:
le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore
*
era morta davanti allo specchio
mentre si truccava per uscire
un occhio spalancato uno chiuso
a tirare la linea sulla palpebra
la traccia l’attesa la sorpresa
ciò che vide nell’orbita spenta
era denso e molle come placenta
*
di lei si diceva che volesse troppo
una casa bella
delle sincere e profonde relazioni
affettive
ma il suo parere
contava poco
morì così come per gioco
*
le donne che non vanno al fiume
con le pietre in tasca
aspettano silenziose alla finestra
uno sguardo al tempo
uno al paesaggio
che passi questo maggio e la stagione
fiorita torni l’autunno con le sue
brume
confonde e assopisce ogni lume
*
da qualunque parte osservi
te ne accorgi appena
di una infima fessura
nella materia piena
un distrarsi oscuro
dal comune senso palese:
non è il sesso non l’acume
neppure una sensibilità meglio esercitata
Intervista a Gabriella Musetti
Come è nata in te l’idea di scrivere un libro che affronta il suicidio, un tema così complesso, spesso scomodo, a volte un vero tabù?
Questa idea è nata all’interno di un percorso più ampio, che riguarda temi diversi e collegati tra loro: il sentimento di mancanza, di insufficienza, di precarietà che spesso molte donne provano e hanno provato, nelle diverse epoche, come se fossero in un certo senso inadatte a una vita compiutamente attiva e autonoma, pubblica, ai loro stessi occhi.
Ho tentato di sondare il ‘non detto’, la morte. Una morte volontaria solo di coloro che chiamerei ‘le disobbedienti’, quelle che hanno scelto la morte come un atto di ribellione o di rinuncia, hanno fatto una scelta terribile, drammatica. Le altre donne che il libro propone, la maggior parte, sono quelle anonime che la morte coglie improvvisamente in un momento casuale della loro vita e mostrano la incompiutezza di una esistenza fragile, quasi un passaggio noncurante nel mondo.
Hai scelto di parlare del suicidio al femminile perché pensi che le donne siano più deboli e più fragili rispetto agli uomini, oppure hai voluto soprattutto studiare e poi portare all’attenzione del lettore questo aspetto del mondo femminile?
Non credo che le donne siano più deboli o fragili rispetto agli uomini, anche se spesso l’educazione, il senso comune, gli stereotipi parlino di forza maschile e debolezza femminile, e questi concetti siano stati invasivi nella vita di uomini e donne, privata e pubblica.
Tutta la società, nei tempi passati, è stata costruita su questi principi, da qui i ruoli diversi tra uomini e donne nella vita pubblica, nei lavori, nelle istituzioni, nell’accesso agli studi, nelle responsabilità civili, ecc. Ma non mi interessa mettere a confronto diverse realtà e farne una rivendicazione. Ho voluto mettere sotto osservazione un aspetto più propriamente intimo delle donne, il loro sentirsi a disagio avendo interiorizzato questi principi fino a farne una regola di vita non detta, da non forzare.
E parimenti lo scatenarsi dell’ansia di libertà e di autonomia che esprimono sempre, questa insoddisfazione persistente rispetto alla propria posizione, una postura di ricerca continua. Specie nei tempi passati.
Oggi le cose sono cambiate e stanno ancora più rapidamente cambiando, nella nostra società. Oggi mi pare si affacci una consapevolezza nuova che mette in gioco parimenti uomini e donne giovani, con dei parametri legati alla precarietà, ma su altri aspetti della vita.
Nelle poesie vengono immaginate storie di donne in buona salute che hanno perso la vita improvvisamente, senza alcun segno premonitore, altre che hanno deciso di sopportare il peso di una vita di sofferenza e soprattutto storie di poetesse famose che hanno scelto volontariamente di non vivere più. Verso quali di queste figure di donna è più forte la tua vicinanza?
La soglia della morte diventa rivelatrice di un nodo critico, sia quando è casuale, sia quando è decisa dal soggetto e portata a compimento nella sua scelta ineluttabile. È una lente sottile attraverso cui ho cercato di osservare alcuni tratti della vita di queste donne. Non posso dire verso quali di queste sia andata la mia profonda vicinanza.
Certamente le poetesse e le scrittrici suicide, appunto le ‘disobbedienti’, sono le autrici che ho letto lungamente, studiato, amato nelle loro opere perché hanno scritto, manifestando apertamente l’inquietudine abissale che moltissime altre donne, le anonime, hanno vissuto sulla propria pelle, senza magari essere in grado di indagarla e senza averne una chiara consapevolezza.
Sono state donne in qualche modo travolte dalla vita, cercando, ognuna di loro, di agire al meglio nella cura del quotidiano, della vita comune con le sue necessità materiali ed elementari, quella che mantiene al mondo la nostra specie.
Mentre le autrici hanno indagato con profondità e acume quel sentimento di angoscia che rimanda all’indietro, ai primordi dell’essere umano e che ha a che fare con la nostra finitezza e con l’oscurità e il mistero.
Nel libro non ci sono chiare indicazioni sul come comportarsi per fare “un buon uso della vita”. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
Questa è una domanda davvero difficile e non ho ragionevoli risposte a riguardo. Un buon uso della vita è ciò che auspico, senza avere ricette in questo campo. Credo che alcune indicazioni potrebbero essere quelle di tener conto della nostra fragilità e inermità di esseri umani come di un dato ineludibile, una condizione che abbiamo cercato di ignorare per molti secoli, pensandoci al centro del mondo, addirittura padroni della natura.
E oggi vediamo tutti in quale situazione stiamo vivendo, con la non incredibile ipotesi della nostra scomparsa come specie.
Il tuo penultimo libro “La manutenzione dei sentimenti” è uscito nel 2015. Sono passati 6 anni prima della pubblicazione di questo tuo ultimo lavoro poetico. Hai impiegato tutto questo tempo per curare altri interessi letterari oppure è stata lunga la gestazione del libro?
Entrambe le cose. Da una parte non sono una scrittrice compulsiva, ho bisogno di tempo, di lavorare sui testi a lungo. Questo libro ha avuto una gestazione lunga perché si è trattato di dare una veste poetica a tematiche concettuali che avevo in mente da molto tempo, ma non volevo scrivere un saggio.
Il lavoro sulla lingua e sul ritmo è stato continuo, dovevo adeguare la forma a quanto volevo dire.
“La manutenzione dei sentimenti”, di cui hai parlato, tratta tematiche soggettive, esperienze di vita vissuta che avevano a che fare con la mia storia personale. Qui, invece, scompaio come soggetto, divento osservatrice di una realtà che mi trascende anche se mi include. Il punto di vista è totalmente cambiato. Poi, c’è stata anche la nascita della casa editrice, Vita Activa Nuova, fondata con alcune amiche, che ha preso molto tempo e molta cura. Una avventura culturale che ci appassiona.
L’autrice:
Gabriella Musetti è nata a Genova, ora vive a Trieste. Organizza “Residenze Estive”, incontri internazionali di poesia e scrittura a Trieste e nel Friuli Venezia Giulia.
Dirige la Rivista “Almanacco del Ramo d’Oro, Nuova serie”, semestrale di poesia e cultura. È socia della Società Italiana delle Letterate. Ha fondato recentemente, insieme ad altre, la casa editrice Vita Activa (www.vitaactivaeditoria.it).
Collabora a diverse riviste letterarie. È presente in alcuni testi e antologie critiche. Ha scritto libri per la scuola e curato pubblicazioni saggistiche tra cui: “Sconfinamenti. Confini passaggi soglie nella scrittura delle donne” (Il Ramo d’oro Edizioni, 2008), “Guida sentimentale di Trieste” (Vita Activa, 2014), “Dice Alice. Percezioni e storie di donne” (Vita Activa, 2015), “Oltre le parole. Scrittrici triestine del primo Novecento” (Vita Activa, 2016).
In poesia ha pubblicato alcuni lavori tra cui: “Obliquo resta il tempo” (Lietocolle, 2005), “A chi di dovere” (La Fenice, 2007, Premio Senigallia Spiaggia di Velluto), “Beli Andjeo” (Il Ramo d’Oro Edizioni, 2009), “Le sorelle” (La vita felice, 2013) e “La manutenzione dei sentimenti” (Samuele Editore, 2015).
(Gabriella Musetti “Un buon uso della vita” pp. 87, 12 euro, Samuele Editore 2021)
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Sguardo sul retro
di Pierpaolo Lista
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Il mondo che mi è di fronte
Peter Mendelsund, “Che cosa vediamo quando leggiamo. Una fenomenologia con illustrazioni”
di Laura Mautone
La copertina di questo libro si presenta come un blocco nero con al centro una serratura dorata. Ciò a cui allude è tutto ciò che accade quando vediamo, leggiamo e capiamo: un mondo dorato che si nasconde al di là della porta del libro e che si apre davanti a noi quando leggiamo.
Che si sia di fronte ad un libro visionario e anticonformista lo si capisce subito: copertina di design e pagine nere, caratteri tipografici diversi, una succinta biografia, titolo diviso su più pagine, un indice che è una mappa da interpretare e una pagina di citazioni da Ludwig Wittgenstein a Agatha Christie, da Laurence Sterne a John Keats. Questa conversazione illustrata, come viene definita nella quarta di copertina, ci guida attraverso parole e segni nell’analisi e nell’interpretazione del mondo della lettura.
L’autore, art director e pianista classico in via di redenzione, si pone e ci pone una serie di domande tanto ovvie quando non banali: come vediamo i personaggi, i luoghi e gli oggetti, che incontriamo, quando leggiamo? Che immagini nascono nella nostra mente di fronte alle parole scritte? Da dove vengono? Sono chiare o confuse? Le risposte a queste domande ci sono fornite in parte dall’autore, grazie a incipit di classici, mappe, disegni e citazioni, che ci accompagnano nell’esplorazione del mondo delle pagine scritte. La storia della lettura è una storia di immagini e di immaginazione.
Il libro è inoltre ricco di disegni, immagini, fotografie, stimoli visivi e grafici, che illustrano la riflessione del lettore, che, in una sorta di caleidoscopio, in una metariflessione, rivive nella lettura di queste pagine tutti i dubbi e le fasi della decifrazione di quei segni che si chiamano parole.
Parole che aprono mondi e dischiudono anime, non solo quelle dei protagonisti dei nostri libri preferiti, ma anche degli scrittori stessi. I personaggi sono codici da decifrare. Ed è l’omissione a rendere più ricche le narrazioni. Le domande che i libri aprono in noi sono le più diverse, non ultime quelle più profondamente filosofiche: qual è la differenza tra vedere e comprendere? Qual è la differenza tra mondo fenomenico e realtà raccontata nel libro e riprodotta attraverso la lettura? Quando leggo il mio ritrarmi dal mondo fenomenico avviene in maniera troppo rapida perché me ne possa accorgere. Il mondo che mi è di fronte e il mondo che è al mio “interno” non sono semplicemente vicini, ma si sovrappongono, si accavallano. Il libro sembra essere il punto di intersezione tra questi due mondi, o anche un canale, un ponte, un passaggio tra i due.
I libri non ci forniscono subito tutte le informazioni per farci immaginare ciò di cui raccontano. Tutti i libri iniziano con un senso di dubbio e disorientamento. Siamo lettori e direttori d’orchestra e, allo stesso tempo, siamo pubblico, quando iniziamo a leggere le pagine di un libro. Le storie sono di tutti, dei lettori e non solo del loro autore: quando il nostro occhio si posa sulla pagina scritta non ci immaginiamo esattamente quello che aveva in mente l’autore.
L’autore può disseminare il testo di segnali, indizi, avverbi e aggettivi che ci aiutano a immaginare un mondo, ma siamo noi a ricrearlo. Leggere è guardare attraverso; guardare oltre … ma è anche guardare, con occhi speranzosi e miopi, verso… Insomma, una bella esperienza quella della lettura: leggete l’elenco di metafore utilizzate nel libro per descrivere la lettura stessa … anche solo per questo ne vale la pena.
Tuttavia questo libro vale la lettura in tutto e per tutto: liste, domande, disegni, simboli, grafica, mappe, fotografie e frammenti che ci accompagnano nella confusione razionale ed estetica della vita, quella vera.
Dal libro:
La storia della lettura è la storia di un ricordo. Quando leggiamo, siamo immersi. E più siamo immersi, meno siamo capaci, in quel momento, di controllare attraverso le nostre facoltà analitiche l´esperienza nella quale siamo immersi. Così, quando parliamo di cosa proviamo leggendo, stiamo in realtà parlando del ricordo di aver letto.*
E il ricordo della lettura è un falso ricordo.
*Lo sforzo, impossibile, di analizzare in maniera introspettiva la nostra stessa coscienza è descritto da William James come il “tentativo di accendere la luce abbastanza in fretta da poter vedere che aspetto ha il buio.” (p.9)
(Peter Mendelsund “Che cosa vediamo quando leggiamo. Una fenomenologia con illustrazioni) pp. 430, euro 19.50, Edizioni Corraini 2020)
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Sogni sospesi
di Pierpaolo Lista
Margini. Di poesia ed altro—————————-
Ricomincia per ritmi infiniti
Francesca Ruth Brandes, “Tutti i pesci del mare”
di Roberto Lamantea
“Ci vuole più coraggio ad avere fiducia nelle radici profonde di un rapporto, a praticare la presenza piuttosto che l’assenza”. “Tutti i pesci del mare” è il nuovo libro di versi di Francesca Ruth Brandes, nato in un’occasione dolorosa della vita dell’autrice, ma non è un libro sul lutto, anzi, è una celebrazione della presenza, è la gratitudine per la vita vissuta insieme o per la vita e basta.
Chi ha la fortuna di conoscere Francesca non è sorpreso: veneziana, medico psichiatra di orientamento junghiano, giornalista e curatrice d’arte, Francesca Brandes trasmette questo impulso vitale anche parlando di libri di altri, ne sa cogliere la luminosità segreta.
Dobbiamo nutrire rispetto – scrive nel prologo – per i ricordi: “La memoria come vicenda attiva, emozionante: spesso cresce quando viene messa in discussione, quando ci si apre anche alla dissonanza, perfino alla confusione” perché “essere felici in questo mondo è, ad ogni età, un atto rivoluzionario”.
È il “futuro della domanda” di Maria Zambrano. Ed è il messaggio che attraversa tutta l’opera dell’autrice veneziana sin dal suo primo libro, “Canto a più grida” (Centro Internazionale della Grafica di Venezia 2005). Così in “Trasporto” (LietoColle 2009) o in uno dei suoi lavori più intensi, “Storie dal giardino” (La Vita Felice 2007) dove tocca il tema dell’immigrazione, lei pacifista come Edmond Jabès e Gershom Scholem.
Questo piccolo libro canta la vita arricchita da ciò che è stato, l’esserci: “Sono stata terra vergine/ non vergine,/ sono stata legno/ che poteva cantare.// Ora ti canto”.
È anche metafora della scrittura e ad essere maliziosi questi versi potrebbero essere una lezione a tanti poeti improvvisati: “Se scrivi e non canta,/ butta via. Ricomincia/ per ritmi infiniti/ ancestrali monodici.// Ricomincio.// Se balli e non canta,/ se non ti emozioni, fermati/ e pensa se ci credi.// Se non ci credi, / butta via, scegli/ l’immobilità”.
Dal libro:
Pirati con classe
truffatori
imbroglioni
ammalati, narcisi
ingenui lottatori
donne disperate
adoratori del sole
meschine amanti
tutti li hai onorati.
Ti piaceva la gente
per le sue debolezze.
Tranne le tue
magnifico Snel
volato a Topolinia,
tranne le tue.
Per consolarti
costruivo abbachi,
strumenti di calcolo
manuali d’istruzioni
per caldaisti.
Ne eri grato al mondo
Sua nequizia
e un po’ a me.
*
Una questione di musica.
La musica basta a se stessa
dicevi con la tuta
da sverniciatore
nel giardino di maggio.
Suona ancora per noi
Suona nello sciabordio
delle barche
ancorate sotto casa
suona nel vento
con furore
mentre Pimpa abbaia
ogni disperazione.
Suona nei passi, ti prego
The Lady and the Unicorn.
Hai risposto all’appello
forse
nel frinìo delle cicale.
*
Lasciamo gli abissi
ai profondi
la chiacchiera ai cialtroni.
Teniamo l’attenzione, via.
L’attenzione è la preghiera
del vivente.
L’autrice:
Francesca Ruth Brandes è nata nel 1961 a Venezia, dove vive. Ha scritto e condotto per RadioRai programmi di attualità culturale e si è spesso occupata di tematiche ebraiche.
Tra le pubblicazioni: “L’altra storia” (Eidos 1995), “La casa dei viventi. L’antico Beth Chaim di San Nicolò del Lido” (Atiesse 1997), “L’ultima farfalla a Terezìn” (testo teatrale, 1998), “Pacovska Magica Kveta” (1999), “Nagual o del non-visto” (2004), “La parte per il tutto” in “Pensare e insegnare Auschwitz” (Franco Angeli 2004), “Canto a più grida” (Venezia 2005), “Piccole benedizioni” (Padova 2006), “Tikkun” (Silvana Editoriale 2008), “Non appena avrò taciuto” (2009), “Trasporto” (LietoColle 2009), “L’undicesimo giorno” (LietoColle 2012), “Storie dal giardino” (La Vita Felice 2007). Ha pubblicato per Marsilio “Itinerari ebraici del Veneto”.
(Francesca Ruth Brandes “Tutti i pesci del mare” pp. 64, 10 euro, Zacinto Edizioni 2022)
-La prima foto ritratto di Francesca Ruth Brandes è di Umberto Cornale.
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Tintoria
di Pierpaolo Lista
Intervista a Pierpaolo Lista
di Luigi Auriemma
Caro Pierpaolo, nelle tue opere pittoriche utilizzi il vetro come supporto, materiale insolito su cui dipingere. Da quale necessità si origina la scelta, la preferenza e l’esigenza che ti ha portato all’uso del vetro?
Quando ho iniziato la mia ricerca artistica, ho utilizzato tutti i tipi di materiali. La scelta del vetro e del cristallo, come supporto, è avvenuta in seguito alle varie sperimentazioni e alla diversa gestualità d’azione che mi concede la superfice vitrea.
Ho introdotto tra gli strumenti di lavoro, oltre al tradizionale pennello e spatola, anche il giravite. Il segno pittorico è diventato anche incisione.
Intervenire sul retro della lastra mi permette di annullare la materialità dell’oggetto. Il risultato è di levigatezza dell’immagine.
Nelle opere pittoriche rappresenti principalmente oggetti in uso nella nostra quotidianità, penso a oggetti come chiavi, forbici, pennelli, mollette per bucato, buste da lettera usati in opere dai titoli “Combinazione”, “Appunto” e “In viaggio”. Oggetti riconoscibili ma dipinti con estrema sintesi, con pochi tratti, asciutti, scarnificati, essenziali, di memoria minimale. Come si confrontano questi oggetti nel quotidiano artistico rispetto al quotidiano reale e di quali nuovi significati si investono?
I miei soggetti nascono da immagini mentali. Realizzo scenari disabitati, dove la presenza della figura umana è restituita solo attraverso suggestioni visive.
Sono la messa in scena di un’interiorità in cui gli oggetti di vita quotidiana hanno una dimensione simbolica, realizzati per esprimere un’idea, un concetto.
La levigatezza della superficie del vetro, dipinto sul retro, riflette ciò che gli si pone davanti. Quindi anche l’osservatore si riflette sulla superficie dell’opera. Qual è il confronto che si stabilisce, nell’atto della visione, tra l’osservatore e l’opera?
La superficie specchiante del cristallo dà la possibilità allo spettatore di entrare nello spazio dell’opera e di farsi figura partecipe di un dialogo più intimo e mentale con la rappresentazione.
L’opera è un atto iconico costruito per essere visto. Che rapporto hai, tu come artista, con l’osservatore; esiste un luogo/non-luogo dove vi incontrate?
Per me luogo d’incontro tra l’artista e l’osservatore è l’opera stessa. Attraverso i titoli svelo il significato personale che voglio attribuire alla composizione e il fruitore può ricostruire ciò che ho prospettato.
I tuoi quadri sembrano “teatrini” delle attese (penso anche alla “messa in scena” delle tue foto). L’attesa è un tempo che si condensa, si stratifica, diventa sovrastorico; in che correlazione ti poni rispetto al tempo e alla storia?
Attraverso la scarnificazione, la leggerezza e la sospensione, cerco di alleggerire le immagini dal tempo della vita e di immetterle in un panorama fuori dal tempo.
Esprimi la tua creatività con l’uso di vari media. Spazi dalla pittura alla fotografia, ai video e alle installazioni, qual è quello dove esprimi meglio il tuo lato più nascosto, più interiore ed emotivo?
Tutti i miei lavori evocano qualcosa di intimo e personale e la scelta del linguaggio da utilizzare dipende esclusivamente dalle mie esigenze espressive e creative di quel momento.
Quali progetti hai per il futuro?
Prossimamente parteciperò con dei lavori fotografici a una mostra collettiva curata da Marco Izzolino presso la galleria Centometriquadri Arte Contemporanea.
Altre proposte di collaborazione non sono ufficiali e sono ancora in fase di valutazione, quindi preferisco non anticipare i dettagli.
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Appunto
di Pierpaolo Lista
I lavori di Pierpaolo Lista qui proposti:
Pittura:
Appunto 2022, smalto su vetro, cm30x40.
Combinazione 2022, smalto su vetro, cm30x40.
In viaggio 2022, smalto su vetro, cm30x40.
Interno 2022, smalto su vetro, cm30x40.
Sguardo sul retro 2012, smalto su vetro, cm100x120.
Installazioni:
A galla 2021
Sogni sospesi 2021, ferro, stoffa e smalto, cm90x110x200.
Fotografie:
Tintoria 2010, stampa inkjet su carta cotone, cm66x100.
Anteprima 2020, stampa inkjet su carta cotone, cm40x60.
Vietato fotografare 2017, stampa inkjet su carta cotone, cm40x60.
Messa in scena 2012, stampa inkjet su carta cotone, cm40x60.
Pierpaolo Lista (Salerno 1977) vive a Paestum e lavora tra Napoli e Milano.
Dipinge sul retro della lastra vitrea con pennellate, graffi e incisioni sulle campiture di colore. Nel 2007 intraprende anche un percorso fotografico.
Per realizzare le immagini, ricostruisce nel suo studio una realtà fittizia popolata da oggetti realizzati con materiali poveri. Negli ultimi anni realizza anche video e installazioni.
Il suo lavoro è una prassi di ricostruzione di scenari disabitati, ambientazioni scarnificate, riproduzione di oggetti rappresentati da linee essenziali.
Le sue immagini nascono dalla manipolazione di archetipi narrativi, immagini mentali, flash visivi.
Luigi Auriemma è nato a Napoli nel 1961.
È artista e poeta. È fondatore e coordinatore della rivista d’arte “LEONARDA”.
Dal 1988 ad oggi ha partecipato a numerose esposizioni personali e collettive, in tutta Italia, e le sue opere sono inserite in collezioni pubbliche e private.
Ha pubblicato articoli per le riviste “Art a part of culture” e “Lobodilattice”.
Sue poesie sono state pubblicate in varie riviste come “Match”, “Leonarda”, “Eco”, “Starter”, “La morte per acqua”, “Frequenze poe-tiche”, “Dialogue” e antologie come “La Clessidra”.
Suoi testi poetici figurano in vari cataloghi d’arte.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Livio Caruso.