Continua la ricerca di Fare Voci.
Anche a maggio un numero con varie e significative presenze di poeti, artisti e musicisti.
Con la voce d’autore di Raffaela Fazio e la sua nuova raccolta poetica “Tropaion”, i tre inediti in italiano di David Bandelj, gli haiku dell’inglese Brendon Kent, la plaquette firmata da Max Ponte ed Andrea Laiolo a titolo “Le parole festive” e Giampaolo De Pietro con le sue pagine di “Dal cane corallo”.
Continuano le cronache del coronavirus, con Luca Buiat e l’antologia poetica “Dal sottovuoto” curata da Matteo Bianchi.
Le altre note è il nuovo album “Il campo del vasaio”, per l’importante ritorno del cantautore Teo Ho.
Le immagini sono le nove foto a titolo “Anam” di Graziano Giovanatto.
Buona lettura.
Giovanni Fierro
(la nostra mail: farevoci@gmail.com)
Immagini ————————–
Anam
Nove fotografie
di Graziano Giovanatto
Voce d’autore ———————
La capienza del respiro
Raffaela Fazio, “Tropaion”
di Giovanni Fierro
È di certo un momento importante per Raffaela Fazio.
Perché questa sua nuova raccolta “Tropaion” porta ulteriore significato al suo scrivere e al suo profilo d’autore.
La sua poesia è materia sempre viva, capace di essere un continuo laboratorio di espressione e ricerca, di sguardo che, radicato nel presente, si confronta con il passato e si prepara per i giorni a venire.
“Tropaion” è il suo nuovo passo, il suo progetto che esce a poca distanza dai precedenti “L’ultimo quarto del giorno” e “Midbar”, e dalla raccolta di poesie d’amore di Rilke, da lei curata.
“Tropaion” (la pratica comune con la quale i guerrieri greci erano abituati a riportare in patria le spoglie dei nemici sconfitti in battaglia, assieme alle loro armi, come commemorazione della vittoria) è il titolo di questo libro, che nella sua prima sezione si apre con un rendere onore alla battaglia, più che alla vittoria o allo sconfitto, un onorare la vita e il vivere, nei suoi accendersi e nei suoi spegnersi.
Perché, e questo sembra dirci Raffaela Fazio, forse solo quando si è accettato tutto questo, puoi iniziare a riconoscerti, a tratteggiare un’immagine di te.
La battaglia è questo accadere, sia nelle geometrie d’amore o nel domandarsi del proprio stare al mondo, è questo mettere in evidenza ed indicare, il non rinunciare mai, l’esporsi e trovare al setaccio del vissuto le parole da tenere e da conservare, le parole a cui affidare il diventare poesia.
Raffaela Fazio è chiara da subito, su quale però sia il prezzo da pagare, “È passione. Ma fa male”. Non c’è alternativa.
E di certo il vivo di tutto ciò consuma, perché “Ogni fiamma/ è fedele a un disegno”. Ma allora c’è anche qualcosa che presenza non ha, ma che esiste già e forse è proprio una promessa a cui tenere fede, un qualcosa da compiere, che innesca e condiziona, che comunque si riconosce e alimenta i desideri.
Per scoprire che “Volgerà alla fine/ anche questa battaglia/ non vista”.
Raffaela Fazio si rimette in gioco, continuamente, non si accontenta, non cerca né scorciatoie né facili appagamenti. “Tropaion” è questo suo rilanciare, nell’ampliare il talento della sua poesia, e nel continuare a dare forma a pensieri e dubbi.
Il passo successivo è il capitolo “Imago”, dove i temi sensibili con cui confrontarsi sono la memoria (che accende e illumina) e il tempo (che contiene e dà forma).
“Se ogni ricordo/ si specchia in un ricordo/ come può il tempo/ uscire da se stesso?”; come non andare al cinema di Andrej Tarkovskij e al suo gioiello ‘Lo specchio’?.
E si trova anche che “La materia/ di cui la vita è fatta/ mi è sconosciuta/ ma so che non somiglia/ a nessuna/ delle poesie che ho in testa”, e ci si domanda di questa distanza, di questa realtà difficile da testimoniare e da portare nella verità delle parole.
Ma le poesie di “Imago” sono anche capaci di un tessuto ancora più fitto che si intreccia, dove un filamento più resistente regala un senso di pace diffusa, sospirata e comunque sempre all’erta. Ma sicura e definita da poter dire “un salto/ e poi la meraviglia”. Forse è il momento di poter lasciarsi andare un po’ di più, lasciare che sia il desiderio a dare forma ad ogni accadere….
“Dalle fenditure” contiene scritture che escono da ciò che finora è stato esplorato, cercano un ‘fuori’, escono dal perimetro già misurato, hanno bisogno di un nuovo confronto.
“Sii tenero/ come chi vive/ dei suoi frantumi”, “si lascia il sonno ai suoi cunicoli di terra”. Si incontra l’altro e ci si spoglia dei fardelli; la memoria ritorna da protagonista, “Non c’era nell’infanzia/ il sospetto/ che il segreto/ un giorno avrebbe avuto/ un altro contenuto”, ma ora è strumento per sottolineare di quanto e di come ci sia tanto di misterioso, e di inspiegabile, nel vivere. Raffaela Fazio ci invita a ricordarcelo, e a portare continuamente acqua ai suoi fiori. Anche per preparare la nuova primavera. Per la sua possibile durata. Perché è “Difficile disporsi/ all’eternità”.
Riferimento sempre importante per l’autrice sono i propri figli, il cui scrivere dedicato questa volta è contenuto nelle pagine di “Avanguardia”.
È anche qui il percorso è indicato, evidente, mostrato e vissuto. “Staccatevi un poco/ perché vi metta a fuoco/ perché vi legga col giusto respiro”. E forse con queste parole parla anche delle sue poesie…..
“Tropaion” si chiude con lo scrivere di “Dall’alto del colle”, testo singolo e occasione per contenere l’anima di Rilke; passi capaci di dare nome e cognome a questo suo nuovo libro, nella sua identità che è un chiudere e un riaprire: “Mi tendo e vibro (sospesa/ felice traiettoria di un pensiero)/ e non atterro”.
Modo migliore non c’era (non c’è), per portare a conclusione questo cammino di assoluto valore, questa immersione nella battaglia visibile e non, che celebra ogni vittoria e ogni sconfitta, che le unisce e le intreccia, ne fa corpo unico a cui regalare il respiro.
Dal libro:
Nel gioco si accende la fuga
e nel bosco la caccia:
ogni cosa pare si rinnovi
non dal tepore della tana
ma per l’accelerarsi
di battiti, di appelli.
La natura ha bisogno di tensione
tra destini votati
a una disperata cerimonia.
In eterno si rincorrono gli amanti
nel giardino d’inverno.
Distanti, diversi:
disuguale la capienza del respiro
nell’odore controvento.
È passione. Ma fa male.
Nel carniere ha l’assoluto
di cui ha perso
tutto il sangue, la speranza.
*
La memoria
ci guida fino all’alba
poi rallenta.
Il tempo degli eventi
la distanzia.
E la sua narrazione
è un desiderio
a cui si torna
senza mai arrivare
come mai si arriva
a un luogo dell’infanzia.
*
È stato
il primo temporale della foglia.
Ora lei si allunga, aspetta
che l’assenza la raggiunga.
La goccia che la lascia
non è persa
nel viaggio
sottratto alla pena di cadere
è diventata altro:
aria di pioggia
che di nuovo accoglie
la foglia nella fronda
e un poco ne confonde
la voglia
di crescere in larghezza
con l’urgenza
di sopravvivere da sola
alla gioia.
*
Punteggiatura
(per i miei figli, aprile 2016)
Staccatevi un poco
perché vi metta a fuoco
perché vi legga col giusto respiro.
Al fiato insegnate il riposo
siatene il tempo sospeso
che rende
meno labile il senso
e il buio
più orecchiabile nota di fondo.
Intervista a Raffaela Fazio:
La prima parte è inerente al titolo “Tropaion”, ma mi sembra che più che rendere onore alla vittoria o allo sconfitto, è un rendere onore alla battaglia in sé, alla vita e al vivere…
Sì, è così. La vita è una tensione tra realtà contrastanti. Una tensione essenziale, perché connaturata alla crescita e al divenire, ma anche dolorosa, perché comporta rinunce, attriti e prese di coscienza rivelatrici delle nostre ombre. È come dire che la vita, per essere tale, si porta dietro, si porta dentro una parte di morte.
D’altronde, nell’immagine classica del “tropaion”, il simbolo della vittoria (della sopravvivenza) si compone proprio di elementi che richiamano la morte; nella nostra lotta, l’avversario è spesso al nostro interno, resta con noi anche se sconfitto, non ci abbandona, solo si trasforma. La battaglia a cui faccio riferimento nel libro è dunque una battaglia che ciascuno combatte e che non di rado rimane nascosta agli occhi degli altri; da qui il titolo della prima sezione: “Una battaglia non vista”. Credo che, se ci ricordassimo questo, ovvero che dietro ogni volto incontrato si cela la fatica del vivere (pacificata o no), avremmo uno sguardo diverso, più solidale.
E accettato questo, puoi iniziare a riconoscerti, a delinearti. Cosa che mi sembra succeda nella seconda parte del libro, dove la tua presenza, pagina dopo pagina, si fa importante e significativa. Non a caso, in questa sezione (“Imago”) ti confronti anche con temi ‘sensibili’ come il tempo e la memoria…
Presa coscienza della tensione che ci abita, rivolgiamo, come dicevo prima, uno sguardo nuovo a noi stessi e al mondo.
E “riflettiamo”… in tutti i sensi della parola. Anche il pensiero è un riflesso, è un gioco di rimandi, come lo è la memoria. In fondo, non esiste una totale trasparenza, come non esiste una linearità: l’immagine (nostra e del mondo) è una compresenza di immagini che si sgretolano e si ricompongono. Ma in questo caleidoscopio, la ricerca del senso è irrinunciabile. Nell’ambivalenza del reale, all’interno dell’orizzonte che ci spetta, ciascuno sceglie la zona di luce verso la quale indirizzare il proprio sguardo. Ecco perché, pur parlando di battaglia in tutto il libro, scrivo: “Ma l’uomo non è fatto/ per la lotta./ Il suo indugiare/ somiglia alla coscienza/ o al suo sonaglio:// un salto/ e poi la meraviglia.” Non è una contraddizione: la lotta di cui la vita è fatta, come la lotta combattuta al nostro interno, ci ricorda comunque che siamo esseri di relazione, insicuri e al tempo stesso consapevoli, capaci di sorprenderci nell’incontro con l’altro e desiderosi proprio di stupore.
Nella sezione “Dalle fenditure” il tuo scrivere racconta di come ci sia tanto di misterioso, e inspiegabile, nel vivere. Qualcosa che forse si può solo evocare, ma con cui si deve fare i conti, se ci si vuole immergere nell’intensità dello stare al mondo. Mi sbaglio? (“si lascia il sonno ai suoi cunicoli di terra”; “Non c’era nell’infanzia/ il sospetto/ che il segreto/ un giorno avrebbe avuto/ un altro contenuto”)
Non ti sbagli. Il nostro vivere sottende il mistero, e tende al mistero. La nostra legittima (auspicabile) volontà di comprensione deve accettare i propri limiti. Limiti che, per me, sono anche una ricchezza. In questo senso, ho scelto l’immagine del vaso di terracotta che, grazie alla sua imperfezione, rivela qualcosa che sarebbe altrimenti rimasto nascosto: sono le sue fenditure che fanno intravedere la luce al suo interno. Parlo quindi della fragilità tutta umana come possibile spazio di accoglienza, come apertura verso ciò che sfugge al nostro controllo, ma di cui si intuisce, a sprazzi, il potenziale benefico.
Lo sguardo ai tuoi figli, che vive nella quarta parte, è anche un voler guardare al di fuori del luogo di appartenenza, ma anche di lotta, che hai costruito e raccontato fino a quel punto del libro? O cos’altro?
In realtà, guardo ai miei figli come attori della lotta che non risparmia nessuno. Anche loro sperimentano tensioni e contraddizioni. La crescita è, per sua natura, un avvicendarsi di fasi in un processo che si snoda per confronto e per contrasto. E il mio rapporto con i miei figli è un continuo risintonizzarsi, un allentare la presa per “stringere” altro, una geografia in divenire in cui le proporzioni variano e le distanze non sono quelle che sembrano.
Unico punto fisso (a rischio di sembrare banale) è l’amore, ovvero il desiderio di non perdersi, di lasciar spazio al silenzio, senza che questo ci separi.
Il libro poi si chiude con una poesia singola, a cui affidi il saluto. Non a caso, penso, c’è anche una citazione da Rilke. Recentemente hai tradotto un libro di sue poesie d’amore; come è entrata, se è entrata, la sua poesia in “Tropaion”?
I versi di Rilke che cito alla fine del libro vengono da una poesia intitolata “Eranna a Saffo”.
Ma Rilke entra in “Tropaion” non tanto a livello di immagini, quanto per affinità spirituale. La poetica di Rilke mette in luce l’ambiguità e l’ambivalenza della vita, ne esalta la bellezza attraverso la tensione e la compresenza degli opposti. Riporto qui quanto ho scritto su di lui, nell’introduzione a “Silenzio e tempesta” (Marco Saya Edizioni, 2019), dove raccolgo e traduco alcune delle sue poesie d’amore, appartenenti a periodi diversi: “Il poeta non diffida della provvisorietà del mondo e degli affetti, non soffoca l’inquietudine, ma accetta l’esistenza interamente, convinto che anche ciò che appare estraneo e doloroso potrà alla fine rivelarsi fecondo. Persino l’abisso e la morte vanno dunque ospitati”.
E mi sembra anche che l’ultima poesia del libro sia allo stesso tempo un chiudere e un riaprire, con il suo “Mi tendo e vibro (sospesa/ felice traiettoria di un pensiero)/ e non atterro”. Può essere così?
Sì. È giusto. Tengo molto all’ultima poesia del libro, “Dall’alto del colle”, che è stata scritta molto tempo dopo le altre. Come dici tu, è un po’ un modo di ricapitolare la riflessione e, allo stesso tempo, di rilanciarla. Alludendo non solo ai versi di Rilke, ma anche al brano di Lucrezio nel ‘De rerum natura’ (“eppure c’è un luogo sulle alte montagne, di dove tutto sembra star fermo: un bagliore immoto nel piano”), la poesia rispecchia la distanza dal passato e il riposizionamento in un luogo più “alto”, che permette uno sguardo più ampio, non assediato dalla paura e dalla rassegnazione, ma capace di proiettarsi in avanti.
Mentre la prima poesia della raccolta parla di un esercito chiuso dentro la mente e dentro il corpo, dunque di una battaglia combattuta nell’ombra e con l’ombra in maniera attiva ma anche disperata, perché destinata al fallimento e alla reiterazione, l’ultimo testo suggerisce un’immagine diversa: non sono più io ad agire, ma sono “agita”, sono lanciata come un giavellotto da una forza esterna che mi muove e che mi trasforma, sono la traiettoria sospesa, nell’aria e nella luce, di qualcosa che sta nascendo e che non finisce di nascere.
Come si pone “Tropaion” rispetto alle tue più recenti pubblicazioni?
Rispetto alle altre raccolte, “Tropaion” è un libro più “luttuoso”, più buio per certi aspetti, perché molte poesie parlano di battaglie mentre le battaglie si stanno ancora combattendo, o evocano i segni lasciati, i dubbi irrisolti, le contraddizioni irriducibili. Ma in fondo, è un libro scritto come un commiato: una specie di rito di passaggio, necessario per andare oltre.
L’autrice:
Raffaela Fazio è nata ad Arezzo nel 1971 e vive a Roma dal 2000, dove lavora come traduttrice, dopo aver vissuto per dieci anni in vari paesi europei.
Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato “Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images” (2012).
È autrice di diversi libri di poesia. Tra i più recenti “L’arte di cadere” (Biblioteca dei Leoni, 2015); “Ti slegherai le trecce” (Coazinzola Press, 2017); “L’ultimo quarto del giorno” (La Vita Felice, 2018); “Midbar” (Raffaelli Editore, 2019).
Ha pubblicato anche il volume “Silenzio e Tempesta” (Marco Saya Edizioni, 2019), sua traduzione di poesie d’amore di Rainer Maria Rilke.
(Raffaela Fazio “Tropaion” pp.96, 15 euro Puntoacapo Editrice 2020)
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Nove fotografie
di Graziano Giovanatto
Voce d’autore —————————-
Transitorietà, Preludio e fuga, La visitatrice
Tre inediti in italiano
di David Bandelj
Minevanja
Glodaj
čas
ko
ti
drugo
ni
dano
nisi
bil
ustvarjen
zato
da
bi
se
stvarstvu
rogal
pes
si
klatež
v
prosojnosti
neshojenih
stez
Transitorietà
Mordi
il tempo
non
avendo
altra
scelta
non sei
stato
creato
per
prenderti
burla
della
creazione
sei
un cane
randagio
nella
trasparenza
di sentieri
non battuti
*
Preludij in fuga
Zakaj
se
ne bi
ljubila
ob Bachu
v Schweitzerjevi
izvedbi
v zaznavanju
vsake
tematske
variacije
v bitju najinih
žil
krčim
odsev
danes
nekoliko
goste luči
ki mi ne
dovoljuje
razbiranj
tišine
nihanje
ure
jeclja
čas
v prostoru
končnosti
pričakujva
jo
skupaj
v
zrenju
teme
Preludio e fuga
Perché mai
non
facciamo
l’amore
ascoltando Bach
nell’esecuzione
di Schweitzer
percependo
ogni
variazione
tematica
nel battito
delle nostre vene
riduco
il riflesso
dell’odierna
luce un po’
troppo intensa
che non mi
permette
di decifrare
il silenzio
l’oscillare
della pendola
balbetta
il tempo
nello spazio
della finalità
l’aspettiamo
insieme
entrambi
contemplando
il
buio
*
Obiskovalka
Ponavljala
je vedno
iste
beside
ko je
sedla
k
pregledu
niti
se
mi ni
zdelo
potrebno
da bi
jih
povzemal
na koncu
je
s stola
padel prah
morda
del
nje
La visitatrice
Ripeteva
sempre
le stesse
parole
quando era
dal medico
in visita
di
controllo
non
mi
pareva
neanche
necessario
di tentare
a
riassumerle
alla fine
dalla sedia
è
caduta la polvere
forse
una parte
di lei
l’autore:
David Bandelj (1978) poeta e musicista goriziano, consegue il dottorato di ricerca in letterature comparate all’Università di Lubiana ed è per alcuni anni docente universitario.
Ha pubblicato quattro raccolte di poesia, un libro di saggi, due monografie teorico-letterarie e un’antologia della poesia slovena contemporanea in Italia.
È stato premiato a concorsi nazionali ed internazionali ed ha partecipato a diversi festival e reading.
Le sue opere sono tradotte dallo sloveno in diverse lingue (italiano, inglese, macedone, ceco).
Insegna lettere negli istituti scolastici con lingua d’insegnamento slovena a Gorizia ed è direttore artistico del coro giovanile Emil Komel, con il quale svolge un’intensa attività concertistica in Italia e all’estero.
(Le traduzioni in italiano sono a cura di Jolka Milič.
Il testo “Transitorietà” è tratto dalla raccolta “Razprti svetovi” (2006), mentre “Preludio e fuga” e “La visitatrice” da “Odhod” (2012).)
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Ti racconto ————————–
L’orto di solitudine
Cronache del coronavirus
di Luca Buiat
La parola magica non funziona più, l’amore non basta.
“Io e te non possiamo stare vicini!”
“Ma siamo sicuri di averlo meritato questo flagello?”
“Serve un idea e quando nasce può cambiare il mondo.”
In questi giorni di clausura, l’orto è diventato la nostra isola di solitudine.
Di silenzio, cura e delizia.
Ora sono seduto su questa sedia in mezzo alle piante.
Prima l’orto era un mucchio di foglie secche sparse, alta malerba tra pietre dimenticate.
Abbiamo strappato le erbacce, estirpato le radici, cavati i sassi.
Girata la terra con i lombrichi, ne abbiamo aggiunta altra ricca di minerali.
Ora è terraferma staccata dal resto, non ci sono brezze marine impregnate di iodio, nemmeno burrasche che strillano negli oceani.
È tutto uno svolazzare di insetti attorno a noi, un ronzare insistente di api e vespe.
Qui il vento è debole, si fa dolce sulla rucola selvatica appena spuntata, muove le foglie della menta, sfiora le spighe della lavanda, soffia sul nido di merli tra le siepi.
Il fusto nodoso del rosmarino si è fatto robusto, ha preso la forma dell’Istria.
Il glicine cammina giorno dopo giorno e i suoi penduli petali viola fanno festa, si avvolgono sul filo di ferro della rete.
Il sole è uno e scalda le squame della lucertola scolpita sull’asfalto del muretto.
L’acqua scende dalla fontana, porta frescura alla terra che bagna.
Passa dentro il gambo della fragolina che mostra i suoi petali bianchi al cielo.
Tonifica il colore delle foglie del peperoncino.
Bagna i tuoi piedi nel piatto di zinco colmo di pietre, lo abbiamo raccolto nelle acque smeraldine dell’Isonzo.
L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel dicembre 1971.
Ha iniziato a scrivere delle poesie verso i quindici anni, con un “linguaggio poverissimo, forse perché in Friuli negli anni 80 pioveva sempre; ricordo che passavo intere giornate a guardare il ‘brut timp’ davanti alla finestra di casa mia, e prima ancora ci fu il terremoto…”.
Formativi sono anche i libri di Herman Hesse e Jack Kerouac.
Con il gruppo degli Scrittori Creativi dell’Unitre di Cormons da tre anni è tornato a scrivere piccoli racconti e poesie.
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Le altre note ———————-
Storie da raccontare
Teo Ho, “Il campo del vasaio”
di Giovanni Fierro
Una piacevole conferma. Ulteriore prova di una importante crescita artistica.
Questo è il nuovo album di Teo Ho, “Il campo del vasaio”.
Sei nuove canzoni, dove lo sguardo dell’autore si fa ancora più approfondito nella nostra società, nel nostro tempo.
Voce, chitarra ed armonica a bocca. Con qualche percussione che fa capolino fra le varie composizioni.
Questi sono gli ingredienti di un album ‘politico’ e intimo, curato e ispirato.
“Il campo del vasaio” si apre con “15 minuti prima e dopo”, dedicata a Giulio Regeni, capace di trovare la radice violenta di un assassinio che rimane impunito, di un corpo che finisce di respirare con “lo stomaco tra i denti di un cane”. L’armonica a tracciare un ritmo che si fa melodia, lieve per quello che può essere, in questa canzone di lutto che vuole prendersi cura dell’umano stare al mondo, “Copriti bene. Copriti bene. E non dirlo a nessuno, e copriti bene”.
Poi “I conti che ritornano” è una raccolta di immagini e pensieri, polaroid del nostro mondo, dove è facile essere impreparati o confusi, perché “Studio Marx ma poi consegno in bianco”.
Teo Ho ricama melodie che si nutrono di testi accesi e poetici, crudi quando serve e sempre capaci di accendere immagini che hanno il respiro del cinema e il passo del racconto lungo.
Il suo esprimersi è ricco, nel suo variare di intrecci e ritmiche.
Come in “116° sogno”, un quasi spoken word che inizia con “Abbiamo debellato le stragi nelle scuole con le stragi delle scuole”; qui l’atmosfera è più sospesa, il ritmo si nasconde, ci si affida ad una linea melodica volutamente fragile ma importante, “Gli angeli si sparano in bocca, poi fumano e si impiccano all’erba”, con difficoltà si possono trovare minimi segni di speranza. Tutto torna, tutto ritorna, in questa canzone che trova il loop e lo trasforma in identità. “Alice hai ancora pastiglie per ingigantire il mondo? Ho dei pezzi di fungo per poterlo tenere fermo”.
E il mondo si fa sì più piccolo, in “L’operaio, il poeta siriano, il caporale innamorato” dove la vite dei protagonisti sono un unico attrito in cui consumarsi, in cui poi non riconoscersi più, in questa canzone dove il ritmo è più in evidenza, spina dorsale affidata alla chitarra, evocazione per “Aleppo a Pasqua, dinamite e conigli” ma anche “Lascio moglie e due figli, un comodino all’antica, la foto in viola di Antognoni”. Sempre più difficile il sopravvivere. L’armonica trova melodia e canto, narrazione che alla fine suona come una promessa di primavera. Almeno quella.
E poi protagonista è la tragedia di Torino, alla Thyssenkrupp, dove “l’Italia ha la pancia tedesca e la faccia ustionata”, per “sette ragazzi bruciati che c’era Natale, sembravano bachi da seta coi denti carbone”. Il ritmo si increspa lievemente, la canzone trova il rarefatto di una tragedia e del suo ricordo, il peso specifico del piangere.
A chiudere l’up tempo di “22 presenze”, paesaggio che assorbe, trama sonora calda e refrain che si distingue e cattura. Parole che disegnano stati d’animo, “Prezioso come un euro fuori corso, trovato dentro un buco nel divano”.
Sei canzoni dove il testimoniare e il raccontare in acustico di Teo Ho sono una dichiarazione netta e partecipata del dove stare, di quale parte scegliere, di chi ammirare e voler cantare.
Ogni canzone una storia. Ogni storia un’appartenenza da difendere.
Intervista a Teo Ho:
Cosa ha fatto nascere questa tua nuova collezione di canzoni? Quale il punto da cui è nata? E in che modo prosegue il cammino intrapreso con “I gatti di Lenin”?
Credo che la costante, nel primo disco (“I gatti di Lenin”) come in questo, sia proprio il “cosa” li abbia fatti nascere: l’osservazione, la curiosità. Sono un grande appassionato di “storie”, le ascolto e le esploro, non necessariamente per trarne conclusioni, ma per far parte di quelle vite o per dare ancora un po’ di spazio a quelle vicende.
Con “Il campo del vasaio”, l’inizio di tutto è stata la considerazione che le “storie” e le persone che ci hanno vissuto non devono finire nella “fossa comune” della memoria, questa è anche l’idea che ha dato il titolo alla raccolta (ne parleremo dopo).
Se con “I gatti di Lenin” ho raccontato, con “Il campo del vasaio” ho raccontato e ricordato.
Il cammino iniziato con “I gatti di Lenin” è proseguito e si è sviluppato anche da un punto di vista musicale: la collaborazione con Matteo Dainese (Il cane), strepitoso batterista, è stata fondamentale: Matteino ha curato l’arrangiamento e ha introdotto una serie di idee e soluzioni determinanti”.
Il tuo sguardo è sempre più indirizzato dalla – e sulla – nostra società. È il campo di esplorazione delle storie che racconti…. Cosa muove il tuo fare musica in questa direzione, cosa continua ad alimentare il tuo fare canzoni, e proprio con questi argomenti?
Credo sia normale sentire la necessità di “esprimersi” riguardo la società in cui si vive: questa ci inonda di stimoli, ci provoca e non è possibile rimanere indifferenti, non rispondere. Mi capita di pensare che le cose che scrivo abbiano lo scopo, almeno nella mia testa, di incanalare quello che vedo in una logica, di dargli un senso. Poi le rileggo, le canto e mi rendo conto che, spesso, il senso non c’è ma rimane una sorta di “vicinanza” umana nei confronti di ciò di cui scrivo. E questo senso di vicinanza lo senti proprio quando affronti certe situazioni e ti accorgi, alla fine, che questa sensazione alimenta sé stessa, e allora continui.
Anche se il tuo album è molto esposto a livello sociale, e politico, trovo che sia un lavoro molto intimo, anche più del cd precedente….
Indubbiamente, è un disco molto personale (c’è il rischio di ricadere nel più classico “parli degli altri per parlare di te”) e ti posso assicurare che non c’è mai stata l’intenzione, sebbene le idee e le convinzioni siano orientate in modo molto definito, di dare messaggi politici o insegnamenti sociali di qualche tipo.
Un esempio su tutti: nel brano “15 minuti prima e dopo”, scritto per Ricordare Giulio Regeni, ho voluto dare la precedenza a Giulio Regeni, non alla “vicenda diplomatica Giulio Regeni”. Con questo non intendo assolutamente dire che non vada portata avanti la “battaglia” per ottenere verità, questa è doverosa. Voglio solo dire che esistono momenti diversi, da vivere in modo diverso, ciascuno con la propria importanza e dignità.
Mi sembra che, a differenza del cd precedente, ci sia un senso del ‘noi’, come società, più sviluppato e maggiormente esplorato. Mi sbaglio? E anche il senso di responsabilità ‘nostro’ come comunità sociale è maggiormente sottolineato….
Certo, c’è stato un cambiamento anche in questa direzione. Non si tratta, tuttavia, di un percorso studiato: è un’interpretazione che si coglie (che io ho colto) a lavoro finito. La responsabilità del “noi” non vuole essere uno “spalmare” le colpe, quanto un condividere le vite di cui parliamo e i cui ci parlano.
Non ho proposto soluzioni né fatto accuse (non credo lo farò mai), ho semplicemente pensato: se una storia arriva a tutti e tutti sentono l’esigenza di parlarne, allora questa “storia” non si ferma al protagonista ma coinvolge anche comparse e spettatori. E’ un po’ il concetto che sta dietro a “I conti che ritornano”: il bilancio lo dobbiamo fare quadrare tutti.
E a riguardo, con questo tuo lavoro (fino allo stop imposto dalla situazione coronavirus) hai girato per l’Italia. Che realtà hai incontrato? Che tempo presente hai riconosciuto o scoperto?
Purtroppo, a causa dello stop imposto, non ho potuto concludere il giro pianificato e alcune realtà non le ho potute vivere “fisicamente”. Tuttavia i posti in cui ho suonato e, soprattutto, le persone conosciute, artisti e non, si sono confermate come la parte più bella di questa “attività”.
Dal momento in cui si instaura il primo contatto fino al momento in cui concludi il live, è un continuo di stimoli, emozioni, domande, curiosità.
Le realtà incontrate, da nord a sud, sono tutte assolutamente “vive”, umanamente e artisticamente: i problemi sono gli stesse, le idee non smettono mai di nascere e la volontà di “accoglierne” di nuove è ancora il cuore di questi incontri.
Come dicevo i problemi sono gli stessi: le realtà, spesso, sono piccole e vanno avanti con difficoltà: producendo molto (in termini di creatività) e senza aiuto da parte di nessuno, senza compromessi.
Si vive un paradosso per cui, a fronte di un numero sempre maggiore di persone che crea qualcosa nato per la condivisione, i luoghi in cui questa condivisione dovrebbe “vivere” sono pochi e sopravvivono con difficoltà. Una parte del problema, purtroppo, è che gli artisti (parlo degli attuali cantautori) sono sempre più impegnati a realizzare un “prodotto perfetto” e sempre meno disposti ad ascoltare: spesso nell’isolamento ci cado anch’io, è un “mea culpa”.
Il titolo del cd ‘Il campo del vasaio’ è molto particolare, vuoi raccontarlo e spiegarlo?
In “Furore”, di Steinbeck, si fa riferimento al “campo del vasaio” come al luogo in cui si seppellivano i poveri, i senza terra, i profughi: l’episodio della morte della “nonna” Joad è particolarmente drammatico.
La citazione, per fare ancora un passo indietro, è tratta dal Nuovo Testamento: fu il campo acquistato con i denari del tradimento, adibito in seguito a cimitero per gli “estranei” a quella terra.
Il disco parla proprio di questa “fossa comune”, la più pericolosa: la fossa comune della memoria, frutto del peggiore dei tradimenti, l’indifferenza
Qual è il rapporto di queste canzoni con la poesia, visto che la poesia è una scrittura che frequenti e che ti ha anche visto pubblicare una raccolta?
La Poesia è una mia grande passione, da lettore naturalmente. E’ vero: ho pubblicato una raccolta (“La città delle matrioske”) e ogni tanto scrivo qualche verso, ma ogni volta mi rendo conto di quanto sia distante ciò che scrivo, gli stessi testi dei brani, dalla Poesia. Mi spiego: ritengo ci sia una differenza fondamentale in ciò che faccio, che mi rende molto più simile ad un cantastorie, e ciò che realizza un poeta. Nella poesia, in quella che leggo e in quella che i poeti scrivono, c’è un coraggio e una capacità di esporsi che io non ho, ho la sensazione che i poeti si “tolgano la pelle e restino sotto una pioggia di sale”.
Credo che il titolo di una tua raccolta descriva perfettamente questo concetto: “Il riparo che non ho”.
Resta il fatto che amo molto il linguaggio e mi piace giocare con le parole e con le loro regole.
L’autore:
Dietro il nome d’arte di Teo Ho e dietro al suo progetto artistico-musicale, c’è Matteo Bosco, poeta e cantautore friulano.
Ha esordito come poeta con la raccolta “La città delle matrioske”, edita dalla Kappa Vu nel 2013.
Inizia a suonare a Milano, per strada, nei piccoli locali, nei circoli Arci, dove sviluppa uno stile cantautorale personale.
Poi il rientro in Friuli, il confronto con il panorama creativo della regione fornisce lo spunto per nuovi brani, più personali.
Il suo primo lavoro discografico è “I Gatti Di Lenin”, del 2017.
Vive a Milano.
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Anam
Nove fotografie
di Graziano Giovanatto
Voce d’autore —————————–
Blossom rain
Brendon Kent, scrivere haiku
di Salvatore Cutrupi
Leggere Brendon Kent, e i suoi haiku, vuol dire incontrare un poeta che non si limita soltanto all’esplorazione della natura e delle stagioni, ma che si inoltra anche nel terreno della quotidianità; descrivendo la sofferenza umana e manifestando sentimenti di vicinanza verso i più deboli.
Kent è un poeta che si lascia “rapire” dalle cose del mondo, anche dalle più semplici, e così parla di fiori, di nuvole e di pioggia ma parla anche di clausura, di cancelli e mendicanti.
Negli haiku di Brendon Kent si percepisce quel senso di nostalgia e di malinconia che possono suscitare le piogge di primavera o le nuvole che “vanno alla deriva” (Sabi). E si coglie anche il sentimento della leggerezza e dell’innocenza (Karumi), come quando una bimba chiude gli occhi alla sua bambola per farla dormire.
Il poeta ci fa entrare poi in uno stato d’animo di bellezza, di stupore e meraviglia (Yugen) quando “cattura“ il momento in cui gli uccelli nel nutrirsi danno il loro colore all’erba tagliata fresca.
Nei suoi versi si rivela l’attenzione al senso di caducità e transitorietà delle cose (Aware), evidenziato negli ultimi haiku proposti e suggeriti da questo tempo di isolamento, che ci fa meglio comprendere il valore della solidarietà, della comunanza e del percorrere insieme agli altri il nostro cammino verso la meta finale. Anche se gli haiku in lingua inglese in genere vengono scritti o in una sola riga, o al massimo fino a quattro righe, ho scelto di proporre qui alcuni haiku che Brendon Kent ha elaborato in tre versi.
Otto haiku di Brendon Kent:
closing the gap
between us
blossom rain
colmare il divario
tra di noi
pioggia di fiori
*
drifting clouds…
from one dream
to another
nuvole alla deriva…
da un sogno
a un altro
*
fresh mown grass
a woodpeker gathering
its colour
erba tagliata fresca
un raduno di picchi
il suo colore
*
choosing sides
at the mansion’s gates
a beggar’s dog
sceglie i lati
ai cancelli della villa
il cane di un mendicante
*
a smell of earth
from the old woodpile
…spring rain
un odore di terra
dalla vecchia catasta di legno
…pioggia di primavera
*
border fence
a child
picking wildflowers
recinzione di confine
un bambino
raccoglie fiori selvatici
*
mother’s birthday
my bouquet of flowers
on the doorsteps-
compleanno della mamma
il mio boquet di fiori
sul gradino della porta-
*
quarantine nights
a little girl covers
the eyes of her doll
notti di quarantena
una bambina copre
gli occhi della sua bambola
Intervista a Brendon Kent:
In Italia molti haijin (gli scrittori di haiku) rispettano le regole originarie dell’haiku, come la presenza del kigo (il riferimento ad una delle stagioni) e delle 17 sillabe nei tre versi che compongono il testo.
Succede la stessa cosa in Inghilterra, oppure si scrivono molti haiku moderni dove non c’è riferimento alle stagioni e dove i poeti parlano di più della vita di tutti i giorni, della sofferenza umana e del disagio sociale?
In Inghilterra, e nella maggior parte dei paesi di lingua inglese, gli haiku in genere sono composti da 12 sillabe che corrispondono alle 17 on (unità fonetiche) giapponesi.
I componimenti migliori sono quelli che oscillano tra le 8 e le 12 sillabe. L’haiku italiano può essere scritto in 5/7/5 sillabe perché la lingua lo consente, senza avere righe lunghe. Scrivo comunque haiku in sillabe inglesi 5/7/5, e a volte funziona!
Molti haijin, compreso me stesso, includono ancora il kigo negli haiku, ma le differenze tra haiku e senrū (testi che parlano delle debolezze umane) si sono ora unite, in accordo con gli editori che accettano entrambi come haiku.
L’haijin di lingua inglese adesso pensa di più alla ambientazione naturalistica piuttosto che al kigo contemplato dal saijiki (elenco giapponese delle parole stagionali).
Mi piace comunque scrivere l’haiku col kigo e lo faccio spesso.
Ad un haijin è stata fatta questa domanda che mi piace riproporre a te: come è iniziato il tuo rapporto con l’haiku? Sei stato tu a cercarlo o è stato lui a cercare te?
Penso che sia sempre stato in me, ho scritto poesie in forma abbreviata per oltre 50 anni e ho apprezzato la natura e il cambiamento delle stagioni per tutta la mia vita.
Ho incontrato l’haiku scoprendo un libro di Basho in una libreria locale e ho subito sentito un legame con questa forma di scrittura e ho voluto scoprire tutto quello che ho potuto sull’haiku.
Ho quindi studiato tutti i libri di haiku che ho potuto trovare, inclusi i poeti Beat in America come Allen Ginsburg e Jack Kerouac.
C’è qualche grande hijin giapponese del passato (Basho,Issa,Buson,Shiki o altri ) che ha influenzato il tuo modo di scrivere?
Di certo loro tutti per le loro rispettive qualità, anche se forse il mio punto di riferimento è stato Basho quando ho iniziato a scrivere hokku, e lo è abbastanza spesso anche ora. Santoka è un altro da me preferito ma ce ne sono molti! Mi piace scrivere l’haiku con molteplici interpretazioni e non dire molto, lasciando di più al lettore di rendere l’haiku tutto suo.
Questo haiku (a smell of earth/ from the old woopile/ …spring rain un odore di terra/ dalla vecchia catasta di legna/ …pioggia di primavera) mi ha colpito per la presenza sia del Wabi (bellezza delle cose semplici) che del Mono no Aware (la consapevolezza dello scorrere del tempo). Inoltre, c’è armonia tra le due immagini distinte (toriawase)…. Ti ricordi come è nato?
Stavo scrivendo un haiku per il concorso Triangolo d’oro Haiku 2020, di Washington DC, con il tema: “Non vedo l’ora che arrivi la primavera”.
Vivo in campagna e mi godo sempre l’odore delle stagioni e della terra umida, volevo anche scrivere il mio haiku affinché la gente della città lo apprezzasse! Il fatto che si tratti di una vecchia catasta di legna dimostra che l’inverno è finito e si è risvegliata una nuova primavera fresca. La pioggia primaverile nel kigo giapponese può significare euforia, un’esperienza molto piacevole.
Ci sono incontri periodici con letture di haiku tra voi poeti, nella città di Southampton dove tu vivi, o più in generale nella contea di Hampshire?
No, proprio no. Il luogo più vicino a me sarebbe Bristol o Londra. Purtroppo non ci sono molti poeti haiku nell’Hampshire. Forse un giorno inizierò io qualcosa!
L’autore:
Brendon Kent vive nel piccolo villaggio di campagna di Botley a Southampton, in Inghilterra.
Scrive poesia da più di cinquant’anni. Ha pubblicato i propri scritti su riviste di tutto il mondo, vincendo numerosi premi.
Kent è membro della British Haiku Society, ed è revisore inglese per le antologie dell’Associazione mondiale Haiku; è capo insegnante online di haiku internazionali presso l’Università di Haiku (Tokyo).
Ha pubblicato la collezione di haiku, senryu e tanka, intitolata “Moon on water“, edita da Alba Publishing nel giugno del 2018.
Kent sta attualmente lavorando ad una raccolta chiamata “Diary of a Virus”.
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Dal sottovuoto, 35 poeti affrontano in versi la quarantena
Cronache del coronavirus
di Giovanni Fierro
Giorni, settimane e mesi, inaspettatamente passati in un perimetro ben definito e limitato.
Quello comune e quotidiano della propria abitazione, quello nuovo di come affrontare un contagio a cui opporsi.
È quello che stiamo tutti vivendo, in questo periodo così particolare e delicato.
Isolamento, solitudine, smarrimento. Di certo sono questi i punti fermi di una cartina geografica che si è fatta sempre più indefinita e mutevole.
Raccontare questo momento e testimoniarlo è di sicuro la motivazione forte che sta alla base dell’antologia “Dal sottovuoto”, curata da Matteo Bianchi e che raccoglie gli scritti di alcune delle voci più importanti del panorama poetico italiano. Da Tiziano Scarpa ad Alberto Bertoni, da Franco Buffoni a Gian Mario Villalta, da Giancarlo Pontiggia a Maurizio Cucchi, solo per menzionare alcuni dei nomi più conosciuti, dei trentacinque autori qui coinvolti, per questo libro che fa vivere sulle proprie pagine queste “poesie assetate d’aria”.
Questa è l’occasione per proporre alcuni di testi pubblicati e l’intervista a Matteo Bianchi, che di questo progetto ne è il curatore e il coordinatore.
Dal libro:
Il verbo avere
di Valentino Ronchi
Di là la lezione di seconda elementare. E
lei bellissima, la guardo, gli occhialini
e la matita in bocca, davanti allo schermo
in ginocchio sulla sedia. Poi torno
alle faccende mie quotidiane, lavare
e scrivere, cucinare. Io sono meglio
come suddito che talvolta guardando
il mondo si sente un re, piuttosto che
reuccio viziato: voici l’intuition, qui
da questo piccolo cuore d’appartamento
a proposito del verbo avere che declinate
a turno: avere troppo, avere poco, avere
molto, avere tutto. In attesa di uscire
di nuovo assieme noi per il grande regno
di belle biciclette bianche e teli stesi sull’erba.
*
11/12 marzo 2020
di Lucianna Argentino
Dalla vita delle cose sottrae la discordia, ne perpetua il respiro libero di bambino che dice “rifacciamo” e ripete più e più volte il gioco. E la scrittura è la quinta operazione aritmetica, l’equazione che dà simmetria e bellezza, il rovescio semplice dell’inesplicabile trama della materia. Ed ora che il tempo è una frontiera nell’attesa decanta lo stupore, trattiene ciò che aduggia il canto opera l’espianto della parola dal silenzio perché riaccenda in noi il mondo che è e non accade.
*
Dal deserto rosso
13 marzo 2020
di Maria Borio
Sono un punto solo nel deserto rosso: oggi è questa la mia dimensione, un punto che non ha lunghezza, larghezza, profondità, caduto dalla parte più alta del cielo su una terra piena di silenzio e pura improvvisamente. Ti scrivo dalla zona rossa, ed è questa la verità: i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio senza entrata né uscita, e tutti sono come me, punti soli, senza illusione, nella prima primavera del millennio che al tempo sta cambiando la faccia. Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé? Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno hanno un unico colore, e impariamo a pensarci, e un bene, come mai, nuovo.
(…)
*
A blindness that touches perfection
(Isolation – Joy division)
di Fabrizio Lombardo
come prossimi al crollo, quasi innaturali
senza nessuna forma di saluto
le parole, distanziate dalle ordinanze, lasciate lontane
messe a dimora come bulbi invernali.
se guardi dalla finestra e gridi forte
noi siamo qui, ben vestiti, pronti per l’estinzione.
*
Chiudersi in casa
di Tiziano Scarpa
Chiudersi in casa, come una parola
costretta a stare dentro la sua strofa
senza abbrutirsi. Anima mia, mia scrofa,
non trasformare in fango la tua aiuola.
Confronto la finestra del computer
col cielo incarcerato dietro il vetro.
Il tempo perso fa un conteggio tetro
delle mie primavere non godute.
Cazzeggio in rete, fisso lo spavento.
La pandemia toglie dal mondo un velo:
la specie umana brama il fallimento.
Una rondine vola a bruciapelo
qui fuori. “Il mondo è tuo!” grido contento.
Passo il vetril per lucidarle il cielo.
Intervista a Matteo Bianchi:
Cosa emerge, come tratto comune, da tutti questi testi inclusi nell’antologia?
Sono tre, a mio sentore, i moventi che hanno spinto una scrittura a tratti forsennata e altrettanto cristallina dei componimenti raccolti in “Dal sottovuoto”.
La paura di essere braccati da un monstrum invisibile, persino inconcepibile, da un vero e proprio incubo kafkiano a occhi spalancati che manifestano Anna Maria Carpi e Franco Arminio; ma al contempo il timore del prossimo scontato da Paolo Ruffilli, non riuscendo più a prevedere le sue intenzioni e a comprenderne le motivazioni profonde dettate dallo spaesamento.
Il secondo è stato il bisogno esponenziale di verità come se fosse l’aria stessa, dell’ossigeno che stabilisce il nostro guscio vitale rispetto a chi e a cosa ci circonda. Mary Barbara Tolusso si focalizza tagliente e gelata come la bora triestina sulla mancanza imperante di verità nelle nostre relazioni e nel nostro modo di porci; mancanza che sarà sempre meno tollerata a causa dei rischi connessi alla menzogna.
Infine, pesa inesorabile il tradimento dell’essere umano nei confronti dell’ecosistema dove prospera: decenni di noncuranza e di consumismo, di inquinamento brutale e di ciniche razzie hanno provocato delle conseguenze che una penna accorta come quella di Gian Mario Villalta rileva, accettandole amaramente.
E la poesia, come arte d’espressione ma anche come strumento sociale di documentazione, in che modo si ridefinisce, per “l’uso” che ne è stato fatto?
Mai ho preteso che la poesia riuscisse a dare delle risposte cogenti, squadernasse il presente svelandone la trama. Tuttavia, l’ho sempre intesa quale strumento penetrante per porsi le domande con tempismo, domande calzanti per non subire il contesto nel quale viviamo: Sanguineti docet.
Inoltre non va trascurato il valore testimoniale delle poesie selezionate, ossia il tracciato di quanto rapidamente sia mutata la percezione dell’isolamento durante la quarantena.
Dalle prime avvisaglie sulle quali spesso si è sdrammatizzato all’aumento verticale delle vittime, sino al cosiddetto “lockdown” esercitato dal Governo italiano in più mandate. Inizialmente a molti è parso di riappropriarsi di una dimensione temporale ariosa, del loro spazio interiore insieme a tutte le ferie reiterate, distanti dalla calca delle metro e dalle follie della routine accelerata. Poi però questa bolla di sospensione si è trasformata in reclusione legalizzata, in senso di soffocamento. E adesso si teme il rientro, il ritorno alla “normalità” – ammesso possa avverarsi – che metterebbe a dura prova il nostro spirito di adattamento, ma anche la nostra tenuta di fronte alle avversità.
Che “attesa” è quella che, mi sembra, sia raccontata nel libro?
Riferendomi en passant a Foucault, si tratta di un luogo eterotopico, ossia di uno spazio temporale che ha un istante iniziale – e in questo frangente particolarmente traumatico e imprevedibile – ma non ha una soluzione conclusiva. Non si vede la fine; perciò non possiamo permetterci il distacco critico né termini di paragone con il passato.
Diversi autori, come Valentino Ronchi, Umberto Piersanti e Giovanna Frene, utilizzano l’immagine di una stanza oscurata, di un ballatoio senza vetri che diventa una caverna sino a ricordare una sofferta trincea. Proiettano la loro intima costrizione sul foglio, rappresentando una condizione ovattata, che ci obbliga a intuire l’altro da lontano, da dietro le finestre di Tommaso Giartosio, non potendo scorgerne i lineamenti negati dalla mascherina. I sensi sono limitati dall’impossibilità di toccarci, di vederci e di sentirci da vicino: non possiamo raccontarci la reciproca versione dei fatti.
Lo scrivere, che aiuto può dare a questo senso di smarrimento così, inevitabilmente, diffuso e condiviso?
Non c’è infingimento sostanziale in questi testi, non c’è l’abuso dell’ambiguo di chi si lascia trasportare dal proprio narcisismo. Dal sottovuoto avvalora in toto il potenziale disvelante e maieutico della parola poetica. Chi ha affrontato l’isolamento sulla pagina a volte ha dovuto vincere uno scoraggiamento sconosciuto, altre ha ritrovato una solitudine proficua che si era smorzata in mezzo al rumore abituale; in entrambi i casi i poeti hanno attinto a risorse assopite che neanche immaginavano di possedere.
E con la sua stilografica stretta in mano Heaney scriveva: “(…) Intingo e riempio / e ricomincio: dubbi / o non dubbi, lascia scorrere”. Il dato esperienziale sarà la chiave per ogni singola via d’uscita, pur non migliorando l’indole né redimendo alcuno. Coloro che si sono fermati dubitando del loro cammino, di certo avranno rafforzato alcune parti di loro stessi a scapito di altre sacrificabili. In particolare, il processo poetico li ha spronati a individuare il nucleo essenziale del loro percorso, i desideri non rimandabili, l’ordine discutibile delle priorità.
E riaffiora un verso de “La famiglia ha mal di gola”, di Sarajlić, quando sono “Tutti malati. Anche la mia poesia su di lei è malata”.
Mi sembra, anche, che via via ci sia netto il senso di una perdita di “protezione”, che permette a cose lasciate sotto la superficie di venire a galla, di mostrarsi in evidenza…
L’ordine dei testi che ho proposto all’editore voleva partire da lontano, simulando un’eco o un presentimento, per poi rapprendersi pagina dopo pagina come una colata di cemento sul terreno. Se Stefano Simoncelli si immedesima nel vissuto altrui per riscattare la verità del suo e salvarne l’essenza, Roberto Pazzi spera nel destino, in un disegno universale che includa una possibile quanto sciagurata fine del genere umano. Ciascuno di loro reagisce nei confronti della realtà a suo modo e suo malgrado, aggrappandosi a una minima prassi quotidiana acquisita da poco o, all’opposto, cercando qualche affrettata ragione nel proprio passato. C’è persino chi se la prende con brandelli della propria natura, alla maniera di Franco Buffoni e della sua “Sono una vecchia iena”.
Ma forse il libro desta l’attenzione sulla necessità di comunicare tra persona e persona, con se stessi, che ha bisogno di un maggior sviluppo, di una maggiore fiducia?
Ognuno dovrà costruire e assicurare la sua memoria. Per quanto “fede” e “fiducia” condividano la medesima radice etimologica, la seconda si fonda su argomenti certi o molto probabili, su una sicurezza almeno illusoria. “(…) che è dove la poesia combina / l’unione della fine con l’inizio / perché, caro Giancarlo, / altro non esiste / che questo in rapida sequenza sgocciolare / di lacrime da fine della storia / o da perdita irreparabile di un padre”. Il dialogo scaturito tra Alberto Bertoni, autore dei versi suddetti, e Giancarlo Pontiggia dimostra che non si è trattato solo di pubblicare un volume corale, bensì di non perdere un’occasione di scambio, dettata dalla necessità di incontrarsi come prima oltre i confini regionali e oltre qualsiasi misura di contenimento.
E ammette il poeta milanese: “qui, a un metro / dal nostro spavento: non così alta / la nostra mente, che non tremi, / non così alta, dico, a mezza voce, / e non uno che consuoni, / o risponda”. Non solo, ho invitato con convinzione poeti che appartenessero a quasi tre generazioni differenti, essendomi subito reso conto che la portata travolgente dei giorni accaduti avrebbe spazzato via qualsivoglia barriera generazionale stringendo tutti noi intorno a un pericolo e a un nemico che la società come l’abbiamo conosciuta sino allo scorso 9 marzo nemmeno aveva ipotizzato, se non nelle pellicole distopiche.
Il curatore:
Matteo Bianchi, 33 anni, si è specializzato in Filologia Moderna a Ca’ Foscari, sul lascito lirico di Corrado Govoni, sulla cui poetica ha poi curato l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice, 2020).
È libraio, giornalista pubblicista e collabora con varie testate del Gruppo Gedi, con “Left”, “Poesia” di Crocetti, “Leggere:tutti” e “l’immaginazione”.
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Fischi di merlo” (Edizioni del Leone, 2011), “L’amore è qualcos’altro” (con Alessio Casalicchio, Empirìa 2013), “La metà del letto” (Barbera, 2015), “Fortissimo” (Minerva, 2019) e la plaquette “Un’ombra in due” (L’Arca Felice, 2014).
È stato presentato su “Gradiva” (olschki, State University of New York) sia da Giancarlo Pontiggia sia da Francesco Scarabicchi.
Suoi contributi critici sono apparsi su “Il Ponte”, “Semicerchio”, “Letteraria”, “Il Segnale” e “Atelier”, di cui ha curato il monografico sulla poetica di Anna Maria Carpi.
È stato tradotto in inglese, francese, tedesco, olandese e spagnolo.
(autori vari “Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria” pp. 110, ebook euro 6,99 Samuele editore, 2020)
– Il 50% dei proventi del libro verranno donati in beneficenza alla Sanità o alla Protezione Civile.
(A fine maggio l’antologia sarà in libreria in cartaceo con cinque autori in più: Giovanna Rosadini, Valerio Magrelli, Italo Testa, Elio Pecora e Alessandro Moscè)
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Di ogni parola possibile
Max Ponte e Andrea Laiolo, “Le parole festive”
di Giovanni Fierro
È bene ritornare a ricordare su cosa la poesia si poggia, la sua radice più intima, la sua verità più viva.
Ed è bene farlo adesso, in questo nostro presente dove chiediamo alle parole di dire con ancora maggiore precisione ciò che siamo, ciò che viviamo.
E questa ricerca la si può riconoscere in “Le parole festive”, plaquette firmata da Max Ponte ed Andrea Laiolo.
In questo lavoro i due autori ci conducono all’interno dei giorni festivi, da quelli ‘comandati’ a tutti gli altri, portando l’attenzione del lettore al cuore di questo loro accadere, della loro attesa, della loro memoria.
Queste pagine sono anche un inno alla poesia, ‘gesto’ profondo e rivelatore cui abbandonarsi con fiducia, con il talento di saper rinunciare ad ogni protezione.
“Parlateci con i segni della Festa!”, esorta Andrea Laiolo, per poi mettere in risalto il “dove i passi rilasciano i miracoli”, ovvero luce e calore che diventano nutrimento; ben sapendo che tutto si misura con il tempo, anche quando “la grande chiarità dei tuoi occhi/ l’ho sognata attraverso molti secoli”.
Sì, ogni cosa è sacra, ogni attimo, ogni centimetro di pelle lo è. E allora tutto questo vivere ha un suo luogo specifico del dove accadere, e Max Ponte ce lo indica, con sicurezza: “Tutto sta/ in questa/ specie di/ fuoco sacro/ che sale/ dal nucleo/ incandescente/ del corpo”.
Dialogo, stupore, invenzione, responsabilità, ricorrenza. Sono i punti di riferimento contenuti ed esplorati in “Le parole festive”. Il motivo prezioso per cui Max Ponte ed Andrea Laiolo sottolineano che la poesia è “L’anello col domani”, il suo indissolubile legame, e che ogni poesia scritta ci avverte sempre che “Le schegge/ del fulgore picchiettano la notte”.
Sì, in questa cerimonia di rinnovo e primo fascino, “Le parole festive” sanno ritrovare le risorgive della scrittura.
Dalla plaquette:
di Max Ponte
Come se io fossi cipresso e tu un salice
Tu preghi e preghi
santi cristi madonne
ignoti beati gesù bambini
fra le madonne quelle
della neve
tu preghi e ti inginocchi
potevi farti buddista
e invece no ti rivolgi
al signore quello
delle nonne
tu preghi e ad un tratto
durante la messa è
come se piombassero
tutti a terra resto solo
io in piedi
tu preghi e lo fai
come un atto ingenuo
ineluttabile come se
io fossi cipresso e
tu un salice
*
di Andrea Laiolo
Divinità del cielo e della terra,
intonate voi tutte il canto ardente
della sera in mezzo a queste rullate,
a questi squilli di chiarine ardite.
Parlateci coi segni della Festa!
Sono bersaglio di feroce amore,
offerto oggetto al vostro desiderio.
*
di Max Ponte
Di un Natale
Di un Natale
di duecento anni fa
ed un inverno nel bosco
attraversate le alpi con
i regali in auto quando
eravamo fiamminghi
e tutta la vita dipinta
nei particolari minuti
e le carte rosse dei
pacchi le strenne e
la luce dei punti
interrogativi
*
di Andrea Laiolo
Compleanno della Musa
Quanto cammino compiuto nei secoli
per approdare ad una spiaggia azzurra
dove i passi rilasciano miracoli
perché l’onda increspata li rincorra.
Amica eterna, al di fuori di te
non ho chiaroveggenza, né possiedo
la gemmazione solare che in te,
che amo nel rinnovarsi del congedo.
Albero sei, che mi cinge celeste,
fonte sei, che mi percorre dorata.
Mi portano i tuoi occhi tra le feste
del mare, le tue ciocche all’assolata
sommità dell’amore inarrivabile.
Fugacemente ho congiunto i tuoi piedi
al mio labbro, in un regno inalterabile.
D’ogni rito cadranno i sacri arredi:
permarrà il rito del bacio scomparso
nel passaggio del tempo. Oggi rivivo
la tua bellezza risorgente, riarso
sempre, dacché alla tua vita fiorivo.
Intervista ad Andrea Laiolo e Max Ponte:
A leggere la vostra plaquette mi è venuto in mente Allen Ginsberg e il suo “tutto è sacro”. Ho visto in queste vostre pagine lo stesso invito, un invito a ‘santificare’ ogni momento, la propria attenzione, la propria sensibilità, il proprio stare al mondo…
Emerge anche l’invito a tenere viva e sveglia l’attenzione di ognuno, soprattutto per significati e date a cui oramai siamo abituati, e rischiamo di non vivere più. E, anzi, anche l’invito a viverli in un modo ben diverso. Sono testi che, ognuno a proprio modo, preparano la persona al proprio stupore. Può essere (anche) così?
Max Ponte: La poesia può “consacrare” vari momenti del quotidiano e tu stesso sei autore di poesie siffatte. La poesia abbraccia la realtà, è legata alla materia e allo spirito allo stesso tempo. Squarcia il velo steso dagli uomini per rivelare cosa c’è dietro, la poesia è epifania.
Nel 2018 nacque “Poesie per un compleanno”, un’antologia che curai con 47 autori presenti nel quale era presente Andrea Laiolo. Con Andrea abbiamo poi curato la riedizione de “La virtù sconosciuta” di Alfieri nel 2019 e quest’anno abbiamo inaugurato l’anno con “Le parole festive”, lanciato con una lettura a Torino al Salon d’Arte Endola. Le feste (compleanno, natale, capodanno, ferragosto) sono portatrici di “un’allegrezza di superficie” che caratterizza la nostra società estetizzata. Queste poesie vogliono indagare tali ricorrenze andando alla loro fonte e svelandone la gioia e la sofferenza.
Andrea Laiolo: Può e deve essere assolutamente così: prepararsi allo stupore – dici perfettamente – prepararsi e viverlo con intensità. Assuefarsi infatti equivale ad una perdita, perché è la cessazione del sentire, del percepire. Una festa deve essere anche una riscoperta, forse soprattutto questo.
E, cosa lieta e forse sorprendente, “Le parole festive” costruisce anche una intimità, una dimensione propria e personale, da custodire. Un ‘sentire’ che è da difendere, mi viene da dire. C’è anche questa dimensione così particolare e soggettiva? Un qualcosa che viene affidato a chi legge i testi qui contenuti….
MP: Il saper creare un rapporto stretto con il lettore, una relazione segreta, è il grande potere della poesia che ci abita ma che non possiamo possedere alla stregua di un oggetto. Se questa raccolta arriverà al lettore, e se altre arriveranno, saremo stati dei buoni interpreti dei segnali celesti.
AL: La dimensione soggettiva, come sai bene anche tu, in poesia è irrinunciabile; purché il percepire individuale costituisca la scintilla dell’appercezione universale. Il poeta deve parlare per tutti, se no resterebbe lettera sterile e autoriflessa.
Una plaquette a due firme, quale dialogo fra di voi si è costruito?
MP: Il libello è frutto di un dialogo che si è creato fra due poeti amici, diversi e con scritture che possono essere complementari. Andrea viene dai classici e io dalla poesia di ricerca, la collaborazione non può che arricchirci reciprocamente. Abbiamo in comune la stessa visione di un poeta che deve lavorare con limpidezza sulla sua opera ed essere “impegnato”, in quanto intellettuale calato nel proprio tempo.
AL: Il dialogo tra noi era, componendo questa plaquette, per così dire pregresso. Uno scambio su temi comuni, pur nella diversità dei nostri stili, è in corso da qualche anno. Volevamo non dare un quadro completo – questo non è possibile – ma tendere alla completezza della visione unendo lavori di ieri e lavori di oggi.
Al centro di tutto questo c’è la poesia. Sia come ‘essenza’, che come ‘strumento’ di espressione. Quale, quindi, la sua importanza nel nostro tempo presente?
MP: Il messaggio della poesia più autentica non è fatto per essere cestinato ma per restare. La poesia lavora nell’inconscio di chi la legge, smuove e genera. In poche parole, con la sua sintesi, arriva al lettore prima di qualsiasi altro scritto. Veloce, misteriosa, ha le caratteristiche del dono e dell’atto d’amore.
AL: Il concetto di sacro, trattandosi di festa, è stato centrale: la poesia, come essenza e come strumento, è “sacra”; la sacralità è trasversale all’elemento laico e a quello strettamente religioso. La nostra poesia vuole sempre trascendere il dato di fatto, per così dire, guardare oltre, dischiudere scenari, visioni, prospettive diverse rispetto al senso comune. Non diversamente da ciò che la poesia ha sempre inteso fare e sempre dovrà intendere di fare. Oggi come non mai.
Gli autori:
Max Ponte è nato ad Asti nel 1977. Ha studiato filosofia e letteratura a Torino e a Parigi.
Ha pubblicato le raccolte “Eyeliner” (Bastogi, 2010) e “56 poesie d’amore” (Granchiofarfalla, 2016).
I suoi testi sono stati tradotti in francese, spagnolo e rumeno.
Ha curato e cura diversi eventi culturali.
È ideatore e conduttore di “Poeticilibri”, rassegna di poesia contemporanea alla libreria Belgravia di Torino, e de “L’angelico Certame”, un nuovo format di gara poetica.
Andrea Laiolo è nato ad Asti nel 1971. In poesia ha pubblicato le raccolte “Punctus contra punctrum” (Le Edizioni dell’Orso, 2004, Premio Pannunzio per la Poesia 2005), “I sedici soffi del martello” (2007), “L’avvento della perfetta pantera” (2009), “L’aranceto nel marmo” (Joker, 2011), “La neve blu” (Achille e la Tartaruga, 2012), “La città della festa-icona senese” (Achille & La Tartaruga, 2016) e il poemetto “La bellezza. Carme nautico” (Edizioni Aurora Boreale, 2017).
È anche autore dei testi teatrali “Le Intronate, parlate per giullara sola” (con Donatella Lessio, 2008), “Donna a-gogna” (in ‘Teatro aperto’ 2012, autori vari) e “La duplice stanza del seno” (2013), riduzione e versione ritmica italiana di “Panthesilea” di H. von Kleist.
(Max Ponte ed Andrea Laiolo “Le parole festive”, plaquette in 150 copie numerate, Granchiofarfalla 2019)
Immagini ————————–
Anam
Nove fotografie
di Graziano Giovanatto
Voce d’autore ————————-
In viaggio con Tobia
Giampaolo De Pietro, “Dal cane corallo”
di Ilaria Battista
A volte, se siamo fortunati, un quadrupede ci sceglie come compagni e decide di portarci a spasso attraverso la vita.
Magari pensiamo di essere noi a tenere il guinzaglio ma, in verità, come intuisce Giampaolo De Pietro in questo suo nuovo libro “Dal cane corallo”, il passo lo decide qualcun altro, e quel qualcuno non siamo noi.
A volte, se siamo fortunati, un quadrupede decide di insegnarci parole nuove, e se siamo così intelligenti da ascoltare, scopriamo di parlare nuove lingue, i cui suoni prima ci erano del tutto sconosciuti, perché vedevamo il mondo a misura d’uomo, e non a misura di quadrupede.
A volte, se siamo fortunati, e se teniamo gli occhi bene aperti, possiamo assistere ad antichi rituali che coinvolgono il quadrupede, che sia il corteggiamento di un cespuglio o la rincorsa di un sacchetto gonfiato dal vento.
A volte, se siamo fortunati, il quadrupede ci insegna ad ascoltare il giusto, il dovuto, perché il quadrupede non spreca parole, non spreca fiato, anzi ce ne fa dono, non si fa domande inutili che vadano al di là del suo prossimo pasto e anche quando si rivolge al cielo per una preghiera, non chiede cose impossibili, che lo sa già che certe cose non si chiedono.
Non perché sia inutile chiedere, ma perchè in certi casi è più utile tacere.
A volte, se siamo fortunati, il quadrupede non occorre che sia in pelo e bava e ossa, puo’ essere anche di carta impastata di parole, il riflesso di un cane esistente e scodinzolante che arriva fino a noi.
Giampaolo De Pietro ha avuto la fortuna di essere scelto da Tobia, ha avuto la capacità di ascoltarlo, di accogliere le nuove parole che Tobia gli ha insegnato e noi siamo fortunati che abbia scelto di condividerle, così che anche noi, fortunati lettori, ci trovassimo a fare un pezzo di strada guidati da un cane col naso di velluto e un mantello giallo, battezzato Tobia, il cane corallo.
(il libro è illustrato dai disegni di Francesco Balsamo)
Dal libro:
Tobia
mi ha dato molto fiato
col fiuto esagerato
è un cane naso di velluto
Tobia
vestito di giallo
un cane col mantello
che sa far la corte ai cespugli
Tobia
è pure
una papera
un leoncino impaurito
un fenicottero
un fiore d’acanto
*
Quando rimprovero il cane
divento un tantino più uomo idiota
poi lui si affaccia alla fontana
con un salto e beve
alla mia salute e a quella
dell’anziano signore lì di fronte seduto
per il di lui favore
e consiglio
di ridurre il getto d’acqua (dice a me, il cane approva,
forse)
per agevolarlo a dissetarsi un poco meglio;
Tobia beve un altro sorso e mi dirige verso casa,
non prima di aver ringraziato con l’occhietto destro,
la coda a dondolo, me al guinzaglio
*
Santi e stelle cadenti vi chiedo in pubblico quattro
Piccole cose come favori da parte del mio cane: un po’
di coraggio in più, di tolleranza nei confronti della gatta vicina,
di qualche possibilità di andarsene a spasso da solo – dunque
qualcosa che ha a che fare con l’emancipazione – e, pure
nessun’altra puntura di vespa o fastidio o ronzio di ape,
e tanta salute e qualche biscotto
straordinario *** (una cagnolina disposta a darsi non so,
non si chiede forse a un santo e neppure a una stella in caduta)
*
Chissà se, poi,
e come, semmai,
gli animali
s’immaginano
la morte
coi loro occhi bui
dai loro brividi,
coi denti e le paure
gli sguardi penombrati
(forse sono liberi
da quest’altro
impiccio, forse non
lo hanno, lo fiutano,
lo difendono)
forse una protezione
del cuore li distacca
li avviluppa domando
le domande?
Chissà che salti
in alto e tuffi in largo
che vertigini e altri
colori e immaginazioni
chissà che acrobatici
sogni bianchi neri, rossi…
*
Tobia
Uno scherzo
In coda
O uno
scodinzolio
Intervista a Giampaolo De Pietro:
Partiamo dalla dedica che apre la raccolta, “Tu non sai quanto fiato mi dai”.
Può sembrare una frase semplice, ma secondo me racchiude tante verità della vita in comune bipede quadrupede.
Hai più fiato perché ti ritrovi a correre dietro al tuo maestro di avventure e diventi un atleta della rincorsa, ma hai più fiato anche perché scopri luoghi che prima non avevi mai riconosciuto, pur avendoli sempre visti, perché parli con altri bipedi accompagnatori di quadrupedi a cui prima non avresti regalato neanche un respiro di ciao; e secondo me soprattutto perché escono dalla tua bocca parole di cui non sospettavi l’esistenza, e lo fanno con una naturalezza, che è appunto un ordinario respirare.
Ti riconosci in questa descrizione o la tua idea di fiato era qualcosa di completamente diverso?
Hai detto naturalezza, quello che inseguo e che proprio per natura dovrebbe portarci a imitare un tantino il modo degli animali, quello del respiro che ci rende tutti esseri viventi. Il fatto di esserne – in forme diverse – consapevoli. Io ci proverò sempre! Tu non sai quanto fiato mi dai, quasi un cantato, più che una dedica, è un motivo.
Una delle immagini più poetiche che ricorrono nei tuoi versi è quella di Tobia che fa la corte ai cespugli.
Leggendoti disegno nella mente un cane molto compito, a se stesso molto presente, dai tratti eleganti, come un gentiluomo dei tempi passati che intrattiene con gli arbusti silenziose ed essenziali conversazioni a cui si addicono parole antiche.
Si intravede la scelta accurata che hai fatto delle parole che descrivono le emozioni condivise in questi passi compiuti a sei zampe. Sono versi nati spontaneamente o sono frutto di un’accurata revisione linguistica, di un continuo lavorarci accanto?
Un gentiluomo dei tempi passati: dici, di Tobia – sorrido, sai che ho sempre cercato di non trasformarlo, ma proprio come immagine in me (in mente o nei miei pensieri “figurati”), in una personificazione? Di una figura umana, s’intende – piuttosto, un giovanissimo antico bambino con la coda e il manto, le orecchie ipersensibili e il fiuto straordinario: dunque, una creatura meravigliosa, meravigliosamente attenta, naturalmente, alla vita, così dentro e pure fuori la circolarità dell’esserci (senza “problemi amletici”!), inesorabilmente, veramente! Non vuol dire che sia “più” o “meglio” di noi umani, ci tengo a considerare che tra i versi questa “sfida” non esiste né sussiste, perché io, cioè chi li ha scritti, non sento di avere il bisogno di rapportare noi e gli animali in questa pseudo-competizione, chi meglio chi peggio, chi più chi meno, no no.
Ah, sulle scelte linguistiche, neppure direi. Naturalezza, si scrivevano i versi, inizialmente, ovvero passeggiando dall’inizio (avevo sempre desiderato avere un cane amico, sin da bambino, finché non è arrivato lui, il cane corallo, grazie alla mia amica Marcella), prima erano parole-cucciole, poi parole che respiravano lunghe passeggiate. Io vivevo un periodo particolarmente difficile. E le parole non mi trovavano, né io potevo averne, di libere. Lui sì, non ne aveva, era il lessico giusto, il silenzio, il fiato che c’era e c’è. Ho cercato di fiutare i versi, di lasciarmi scrivere da loro, come sempre credo di dover imparare a fare. E ho avuto, come dici tu, un maestro, sono stato fortunato! Ho molto limato, alla fine, quando i testi hanno preso la direzione, nonché mia volontà di essere e diventare libro.
La preghiera che indirizzi ai santi e alle stelle cadenti a nome di Tobia è così intima che ad un certo punto mi sono chiesta chi dei due parlasse a nome dell’altro.
È Giampaolo che chiede a nome di Tobia un po’ di tolleranza in più, un po’ di coraggio e un po’ di dolcezza, o è Tobia che chiede tutto questo per Giampaolo usando la sua voce?
La preghiera mi ha fatto tanto sorridere, è nata spontanea, ed era anche commovente. Ogni preghiera secondo me dovrebbe sorridere e insieme commuovere. Care stelle cadenti… viste da me (i cani vedranno le stelle cadenti?), i santi (i cani li hanno conosciuti nel corso della storia, certo) li ho interpellati come per una chiacchierata un poco magica un poco stramba, nel chiedere loro alcune cose da parte del cane, che non aveva un suo modo di domandare (pregare è un po’ chiedere?!?), domandare una grazia? Scodinzolando, a piccoli ululati e con gli occhi e i salti, il cane corallo ci riusciva, i cani possono allora avere un modo molto naturale di pregare! Ma dico forse, mi leggesse qualche “serioso credente”, potrebbe prendermi alla lettera. Comunque, era un gioco, rispettosissimo, ed anche un mio modo, forse (c’era, fra le varie richieste) di voler proteggere India, la bellissima gatta nera dei vicini, dalla non proprio simpatia che Tobia, davvero un cane-dingo (sì, elegante e antico e pure molto selvaggio! E non amico dei gatti ahimè) dimostrava quando la incontrava.
Ai tuoi versi si accompagnano le immagini, un tutt’uno quasi necessario. Versi e immagini sono per te due mondi che scorrono paralleli e che possono esistere uno senza l’altro o due mondi che si contaminano uno con l’altro e che non potrebbero esistere separatamente?
I disegni di Francesco Balsamo sono arrivati in seguito, quasi un modo per stare tra la parola e il fiato, come un altro elemento necessitato per far sì che tutto potesse raggiungere la naturalezza desiderata. Credo che le immagini possano dire tanto, tutto talvolta, senza la parola. Che la parola possa immaginare al punto massimo e altro, non necessitando di immagine. E credo pure che insieme, senza “parlarsi addosso”, possano creare persino inventare e sostenere il peso impossibile della poesia. Forse non sono né verbo né soggetto, in tal caso, ma udito. (???) e… ci fosse anche il suono? Cinema, magari!
Ci pensi mai a come sarebbero le tue parole se Tobia non ti avesse scelto come compagno di viaggio?
C’è un panorama e insieme una cuccia una stanza così silenziosa e pacifica. Lì scodinzolo anche io. Lì imparo ciò che ho imparato e imparerò da un amico così. E da qui probabilmente scaturiranno altre scritture solitarie, altro respiro e viaggio verso. Altri abbecedari inediti, non proprio uman(oid)i. Ho ritrovato questo, tra i file-corallini, ad esempio:
(…)
[la erre di arma. Ancora.
La doppia di guerra.
La discendenza di rorido.
Nulla che accomuni opposte nature?
Qualche lettera mai giunta o
Raggiunta. Rabbia che abbuia, abbaia meglio il cane
Il cane rosso, il cane corallo.
In chiusura di libro c’è un testo di Robert Lax….
Si, dopo un commiato che apre un silenzio possibile, incontriamo Robert Lax, uno strepitoso (semplicemente) poeta americano che mi accompagna da quando l’ho scoperto – nei suoi versi c’è l’incontro tra un cane-stante e un uomo-visitatore, il cane gli chiede che facesse lì (se fosse, per l’appunto un “passante/visitatore”) e l’uomo risponde di sì, il cane allora gli chiede di prenderlo con sé. Ecco, cosa accade. Ci si adotta, e la domanda è a cerchio, un cerchio. Come il sole, come il tempo che spazia in (con, su, per, tra, fra – di, a, da) quest’immenso affetto.
L’autore:
Giampaolo De Pietro è nato a Catania nel 1978. Scrive e fotografa in versi.
Ha pubblicato i libri “Tre righe di sole” (Salarchi Immagini 2008), “La foglia è due metà” (Buonesiepi libri), “Abbonato al programma delle nuvole” (L’arcolaio 2013), “Se i fantasmi vengono dalle statue” (Collana isola 2015), “Telescopio di fame” (selezione di testi per un numero de Il Verri, 2016), “Debbo togliermi il vizio” (silloge per FUOCOfuochino 2018).
Sue poesie sono state tradotte in sloveno, francese, inglese, tedesco e portoghese.
(la fotoritratto a colori di Giampaolo De Pietro, in apertura di articolo, è di Riccardo Giacoppo)
L’illustratore:
Francesco Balsamo (Catania, 1969). Nel suo lavoro si affiancano disegno e scrittura in versi.
Ha pubblicato: “Appendere l’ombra a un chiodo” (“7 Poeti del Premio Montale”, Crocetti 2002); “Discorso dell’albero alle sue foglie” (premio Sandro Penna per l’inedito 2002, Stamperia dell’Arancio 2003); “Ortografia della neve” (Incerti editori 2010, vincitore del premio Maria Marino 2011); “Tre bei modi di sfruttare l’aria” (Forme Libere 2013); “Cresce a mazzetti il quadrifoglio” (Ponte del Sale 2015); la plaquette “A una scarpa solitaria” (FUOCOfuochino 2019).
Due i suoi libri di disegni: “Non copiare dagli occhi” (incerti editori 2012); “Album dei passaggi e dei culmini” (Galleria Lo Magno 2017).
(Giampaolo De Pietro “Dal cane corallo” pp. 61, euro 12,50 Arcipelago Itaca 2019)
Immagini ————————–
Anam
Nove fotografie
di Graziano Giovanatto
Intervista a Graziano Giovanatto:
di Giovanni Fierro
Nel tuo fare fotografia, la presenza umana è praticamente assente. Come mai?
Raramente inserisco la presenza umana nelle foto; quando è presente deve trasmettere un’emozione o dare al contesto una dinamicità dettata dall’azione. Ad esempio l’ansia dell’attesa o del trascorre del tempo, il muoversi verso una destinazione, la sensazione di compiacimento per ciò che i soggetti stanno realizzando.
In alcune foto di qualche tempo fa, pubblicate su Instagram, ho fotografato degli artisti mentre osservavano l’opera che stavano realizzando.
In questo caso il soggetto non è la persona ma l’emozione che in quel momento l’artista provava. Ho avuto cura di porre il viso del soggetto in secondo piano, se non proprio di escluderlo, mettendo nel presente la sua fisicità e lasciando a chi osserva la necessità di interpretare il contesto.
L’intento è di fare sperimentare a chi guarda, a proprio modo, la stessa emozione provata dalla persona presente nell’immagine.
In queste immagini, che siano in bianco e nero o a colori, c’è sempre una grande tua attenzione alle sfumature, alle gradazioni di tonalità. Mi sembra che sia questa la ‘cifra stilistica’ del tuo fare arte. Mi sbaglio?
A dire il vero non mi sono mai soffermato ad analizzare la mia “cifra stilistica”, ma pensandoci mi sembra che tu abbia ragione. In effetti la mia ricerca dei dettagli, accentuati dall’attenzione alla gradazione della luce e delle sfumature, specialmente nel bianco e nero o nel monocromatismo, mi permette di esaltare i particolari costringendo l’occhio dell’osservatore a procedere oltre il “vedere”, inoltrandosi così nell’“osservare”. Una azione che permette di comprendere e custodire aspetti e dettagli non immediatamente percepibili.
È evidente, anche in questa selezione di tuoi lavori qui proposti, che i soggetti catturati nelle foto di qualche anno fa mostravano la propria fragilità (i fiori dall’esile gambo, i fiori nella loro solitudine…), mentre i soggetti più recenti offrono protezione (l’incavo delle conchiglie) o sono un qualcosa dietro cui potersi nascondere (le tende). Cosa è cambiato in questo tuo percorso di ricerca? E il fotografare, ancora di più, è sempre uno ‘strumento’ per documentare il presente in cui si vive?
Viviamo nel cambiamento e io ne sono profondamente influenzato. Pur mantenendo uno stile personale, inconsciamente e progressivamente modifico nel tempo il modo di percepire ed interpretare il presente. Neli ultimi lavori pubblicati percepisco fortemente il cotesto attuale, l’isolamento; l’ansia per il tempo sospeso e la necessità di sicurezza sono ben rappresentate nelle foto delle conchiglie e dei gusci di lumaca. Una metafora inconscia sulla ricerca di sicurezza, dentro la protezione di un guscio (la casa) o nell’invisibilità posta dietro la velatura di una tenda.
A stare assieme alle tue immagini, si vive la loro capacità (ma forse è anche una condanna…) ad essere fatte di silenzio. Ma che silenzio è? Un silenzio che è la confessione di una tensione? È il silenzio di un qualcosa che non si può dire? O di cosa altro ancora?
Il “silenzio” è una mancanza che siamo condannati inconsciamente a colmare. Osservare una foto e incontrare quello che tu definisci “silenzio”, ti costringe in qualche modo a dargli un contenuto e a colmare questo vuoto con un tuo significato che affonda le sue radici nell’inconscio, nei ricordi e nelle emozioni, che quell’immagine ti hanno provocato.
Indurre a riempire questo vuoto e ciò che le mie opere, mi auspico, riescano a farti fare, un piccolo passo dentro un tuo viaggio interiore.
E comunque mi sembra proprio che ogni scatto abbia una sua sensualità, un calore che si stenta a non far vedere, che sfugge e cerca il suo respiro. Ma anche il nostro respiro. Può essere anche così?
Il loro raccontare ha anche a che fare con un senso di ‘sospensione’, con una attesa…
Uno scatto prima di tutto deve saperti conquistare, e questo aspetto di sensualità e calore che tu hai incontrato lo favorisce, portandoti per un istante in un tempo sospeso fra la realtà e immaginazione.
È quell’attimo prima di una partenza, infinitesimo ma comunque eterno. Qui, di fronte ad un’immagine la magia inizia e termina con te che la guardi.
Il fotografo:
Graziano Giovanatto vive in Friuli. È da sempre appassionato di fotografia. Il percorso di studi e la sua professione, di impronta scientifica, influenzano le sue opere.
Solo in tempi recenti ha iniziato a partecipare a mostre e collettive.
Più recentemente nel 2018 con due mostre personali, una nell’area espositiva dell’associazione “Gruppo Artistico Cormor” di Udine e quella a titolo ”Amicando Semper” nello spazio espositivo dell’Osteria storica “al Canarino” di Udine.
Nel 2019 ha partecipato alle collettive “Intrecci Poetici” nello spazio espositivo di via della Rosta a Udine e “Dal Bozzetto all’opera finita” nel Castello di San Pietro Di Ragogna, organizzata dalla scuola d’arte visiva Klavier. Ha partecipato anche al “Premio Arte Pellestrina 2019” di Venezia e al “Premio Arte Coseano XX edizione 2019” di Coseano (Ud), dove è risultato vincitore del premio “Idea prototipi”, ricevendo anche una segnalazione di merito per “Premio arte Coseano”.
Nello scorso novembre il suo lavoro è stato recensito da Ionel Bota, sul periodico “Arte”, rivista di cultura europea diretta da Daniela Marchetti.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Vieri Peroncini
Alessandro Salvi, Livio Caruso, Guido Cupani, Antonello Bifulco.