Fare Voci aprile 2020

Viviamo strani giorni” canta Franco Battiato.
E proprio in questi ‘strani giorni’ siamo immersi.
Così il nuovo numero di Fare Voci ha i suoi giorni nel quotidiano di questo vivere nel tempo del coronavirus.
Ad iniziare da Kateřina Sidonová, artista della Repubblica Ceca, e dalla sua prima opera qui proposta….

E il tempo presente è la testimonianza di questo stare in ogni giorno, firmato da Monique Pistolato a Venezia, e da Ilaria Battista a Bruxelles.

La voce d’autore ad aprile è quella di Gianni Montieri e della sua nuova raccolta poetica “Le cose imperfette”; è nei tre inediti di Clery Celeste e nel libro in dialetto “Seràie” di Ivan Crico; è nel progetto “Arsenale” di Jessica Vesprini.

Il ti racconto trova la narrazione di Ilaria Seclì e del suo libro di racconti “L’impero che si tace”, e i due testi di Gabriele Via “Perchè io sono un bambino?” e “Io sono”.

Buona lettura

Giovanni Fierro

(la nostra mail: farevoci@gmail.com)

 

 

 

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Sign of the time

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————

La cosa uguale già cambiata

Gianni Montieri, “Le cose imperfette”

di Giovanni Fierro

 

Una distanza che a riconoscerla già diventa breve. Una assenza che porta il giusto sguardo al desiderio che tutto anima, che tutto poi innesca e che a ogni cosa ne disegna il profilo, ne colora l’essenza.
“Le cose imperfette” che non scivolano via, che permettono l’attrito del vivere, che sanno di potersi consumare e di essere fallaci. “Le cose imperfette” che sono il mondo. Uniche.
Le cose imperfette” è il nuovo libro di poesie di Gianni Montieri, voce autorevole del panorama culturale italiano.
Tre momenti, tre capitoli, nei quali il libro si dona, si dà completamente in modo generoso e spontaneo. Con rara qualità espressiva e di scrittura.
Di schiena guardi il mare grigio/ dell’inverno uruguaiano, del giorno corto”, perché la prima intonazione di questo lavoro parte dal periodo che Anna, la moglie di Montieri, ha trascorso in Brasile nel 2013 (i testi sono stati scritti nell’arco di tempo che passa tra quell’anno e il 2019). Una intonazione che ha aperto un varco, che ha mescolato nostalgia personale e quotidiano accadere del mondo. Una coniugazione che ha dato la stura allo scrivere i testi che sono poi diventati il libro.
Il primo passo è stato quasi un lenire, un asciugare la distanza. Iniziando da questo lato della lontananza, dove l’autore pone il proprio autoritratto: “Pulviscolo anch’io/ molecola che gira vorticosamente”.
Un varco, si diceva, dove la cronaca ha trovato attenzione con il proprio dolore, “Annegati a poche bracciate dalla riva/ erano in sei, morti in faccia a Catania” e disperazione, “Un corpo morto s’abbraccia/ a una madre”. E per chi resta e se ne accorge, allora il testimoniare tutto ciò è dire di stare dalla parte sana, dalla parte de “Le cose imperfette”.
Questo nuovo libro di Gianni Montieri è anche un atto di devozione verso quegli autori che sono punto di riferimento e continuo confronto, inesauribile motivo di crescita e anima della scrittura. E così la vicinanza è necessaria, intima, con “sul tavolo Millimetri/ di De Angelis che mi sgomenta”.
Parole, luoghi, persone, sono queste la bussola di orientamento per la mappa di questo libro, che sa difendersi quando “l’afa preme nel silenzio”, e non è solo una temperatura; e ancor di più quando “qualcosa si scuce/ un difetto della trama”, e questa vocazione alla fragilità dice di ogni possibile tessuto.
Gianni Montieri in tutto questo si muove con il suo fare poesia, con il suo sguardo che conosce la pazienza di soffermarsi dove il mondo ha bisogno di essere testimoniato, mai preso in prestito e sempre respirato a pieni polmoni. Un mondo che diventa anche una serie di piccoli mondi, di momenti da fermare in una cartolina: “Grado una finestra aperta/ da cui vedere i cani tornare”, e inviarla a ciascuno di noi. Magari con una dedica.
È un tempo che si apre in altri mille tempi, tutti da riconoscere e da custodire, tempi che si fanno luogo e anche monito, perché “Roma spariva ed era sentenza”.
E luogo speciale per Gianni Montieri è Venezia, casa. Luogo di calore ed alta marea, città indifesa e affascinante, dove il pericolo “è l’acqua/ attratta verso l’alto dalla luna/ bloccata in laguna dallo scirocco”.
Autorevole ed inevitabile, arriva dove può fare più male, sa corrodere e consumare. Come la poesia. Anche questa casa di Gianni Montieri.
“Le cose imperfette” è un andare nella verità della poesia, che ritorna, sempre. Con il coraggio e la forza di sapere che tutto questo è un fare che è sempre di fronte a “La morte che ci accompagna/ senza vanto, senza fortuna”. È il suo peso specifico, il suo assoluto. Siamo noi. “Impressiona tutto questo non finire”.

 

 

Dal libro:

Ci sono cose da imparare dal cane
dall’estate che non si presenta
passetti laterali, cambi di direzione
di colpo correre in semicerchio
fiutare l’erba, l’aria, in qualche vento
che soffi da ovest sentire la pioggia
del Sudamerica. Per il tuo odore
basta un asciugamano, una tazza
strofinare la faccia sul divano.

*

Capiterà, è possibile, di parlare
della deriva di questo paese
il ridicolo che copre la bellezza
la decenza venuta a mancare
i principi (che bella parola questa)
della Costituzione, di Enrico
Berlinguer, del suo viso asciutto
di che cosa direbbe, penseremo
ai versi di Pasolini o di Raboni
alla loro dignità, a tutto questo
non essere all’altezza, al vivere
in pena poco più che rasoterra.

*

Qualcuno ha scritto di lasciar perdere
l’ovvio, la cosa mi interessa
ma avrei delle riserve, una domanda:
lasciare l’ovvio per cosa?
Rispondo che è così bello l’ovvio
di certe sere, la cosa scontata
la tua finestra sulla corte illuminata
la cosa uguale già cambiata.

*

Abbiamo tirato su i tappeti
tranne uno – baluardo di trincea –
tutte le prese, i cavi, le prolunghe
il pc è al sicuro, i libri chissà
andiamo a dormire spostando
il domani più in là. Alta marea
eccezionale codice rosso
notte di sms silenziosi
paiono partiti dalla luna
la mattina, verrà il pomeriggio
poi la sera con noi tutti
al pronto soccorso in emergenza
senza controllo davanti alla morte
chissà a San Michele cosa fanno
se la rosa sulla tomba di Stravinskij
si sposta quando spinge lo scirocco
se Brodskij tiene gli stivali pronti
tra lapide e vaso di fiori.

 

 

Intervista a Gianni Montieri:

Ne “Le cose imperfette” penso tu abbia fatto una magia, hai trasformato una mappa di mancanze in una geografia di vicinanze…
Può darsi che sia così, ero partito per cercare di colmare una sola mancanza, quella di mia moglie che si trovava in Brasile per lavoro, ma mi sono accorto da subito che quel tentativo di accorciare la distanza non riguardasse solo due persone ma tutto quello che capitava. Sono immediatamente entrati nel libro gli estranei incrociati ogni giorno, la musica che ascoltavo, i libri che stavo leggendo, i migranti, i vicini di casa, e, via via, mia madre, mia sorella, le mie città, personaggi pubblici o amici cari. Pensando al “Mi manca chiunque” di David Foster Wallace sono andato avanti cercando di avvicinarmi agli altri con la scrittura, perciò sì, è venuta fuori una geografia di vicinanze, non so se sia una magia, ma mi pare un risultato abbastanza vicino alle mie intenzioni.

È anche un rendere omaggio ad autori che, immagino, ti abbiano ‘nutrito’…
I poeti e gli scrittori che amo sono sempre con me, giorno dopo giorno, la cosa che faccio più spesso è leggere. Li metto in relazione tra di loro e, nel libro, le loro parole diventano correlativo oggettivo dei miei stati d’animo. Giudici, Raboni, De Angelis, Pasolini, Foster Wallace, McCarthy sono il mio conforto. Ciò che per un credente è la preghiera per me è la letteratura.

Tutto il libro si muove in profondità, offrendo e vivendo un continuo sguardo sulla nostra società contemporanea, che non ne esce molto bene. È così?
Di sicuro non ne usciamo benissimo, soprattutto non ne esco bene io, nel senso che mi domando per tutto il libro (ma anche nei precedenti) – molto semplicemente – se io sia una brava persona o meno, se accorgermi delle cose, se prestare l’attenzione che presto basti o no. Osservando il presente, ciò che mi accade, registro un complesso, quotidiano, senso di colpa contro il quale combatto, leggo, rifletto, scrivo, ma non mi risolvo, non mi perdono.

Queste pagine sono anche una intimità diffusa, che vive di intense sensazioni emotive, e che sulla pagina trovano delicate variazioni narrative. Il tuo scrivere è sempre armonioso, mai brusco. Cosa pensi, quindi, che ci sia alla base del tuo scrivere? Quale la sua radice, la sua provenienza?
Credo che alla base della mia scrittura ci siano molte cose. Molto in profondità risiede la passione per la parola scritta che ha fatto di me un grandissimo lettore, influenzabile e influenzato dai grandi poeti e scrittori che amo e che ho amato, sono molti e perciò in me si confondono. Poi c’è un grande senso del minuscolo, del microcosmo, del come da un piccolo punto si possa osservare tutto e provare a contenerlo, immaginandolo quando gli occhi non arrivano. L’intimo diffuso, le variazioni narrative, dipendono – credo – dal mio tentativo di ridurre tutto al linguaggio semplice ma comunque evocativo, lavoro che richiede molta attenzione, si rischia di scrivere banalità, bisogna sperimentare cambiando spesso le parole e vedere quante cose stanno insieme sporgendosi da una finestra quotidiana. Infine, la scrittura arriva dai posti dove vengo, da quelli dove sono stato e da quelli dove andrò, credo (e spero) che sia (e che resti) mobile, che continui ad andare non dimenticandosi niente.

Ci sono nomi e cognomi, luoghi ed azioni. In ogni pagina si vive una evocazione, una chiamata alla vita. È, in qualche modo, un fare e costruire memoria?
Sì, direi di sì. Non penso che esista un futuro senza una memoria condivisa, conservata, preservata. Non riesco a immaginare il mondo che deve venire se mi dimentico dei migranti, dei poveri, di Stefano Cucchi, di quando ero ragazzo, delle cose che ho imparato, di quelle che non ho imparato.

“Le cose imperfette” sono, mi sembra, anche le cose che ‘stanno’, che rimangono. L’imperfezione come attestato di autenticità, di battito cardiaco (che può essere fallace, imperfetto…). Mi sembra sia una forte testimonianza di fiducia nell’essere umano, comunque e nonostante… può essere così?
Vorrei che fosse come dici tu, che siano di più quelle che restano, in fondo una sezione si intitola “Le persone rimaste”, un ipotetico titolo del libro aveva a che fare con la parola rimanenze. Le cose imperfette lo sono tutte, noi così siamo, conosco più umani in cui aver fiducia che umani da dimenticare. Chi è autentico è anche falso perché le debolezze, le mancanze lo faranno vacillare. Le cose imperfette siamo noi, anche io e te, siamo noi che, più che altro, tremiamo.

Pur spaziando nel tempo, nei luoghi, queste pagine hanno il respiro di un unico presente. Che presente è? È Gianni Montieri? O un altro presente ancora?
Non lo so, è già un altro presente, ogni istante è un presente diverso, chi avrebbe immaginato questi giorni, tutti noi richiusi in casa cercando di scamparla? Che poi è la cosa che facciamo sempre, ma non sospettavamo che fosse questo il modo. Vorrei che queste poesie riuscissero, almeno in parte, a decifrare il nostro tempo, ad aiutarmi a farlo.

C’è molta letteratura in questo tuo libro (e poesia e poeti). E la sensazione che si ha, è che la letteratura non sia solo un filtro per leggere la realtà, ma realtà lei stessa. Mi sbaglio?
La letteratura fa parte di me, esattamente come un viaggio in treno o uno yogurt scaduto. È lente, è filtro, è compagna di giochi, è osservatrice ed è osservata, è invenzione e sgomento, stupore è conforto. No, non ti sbagli.

La terza parte è dedicata alla marea, alla marea a Venezia. La sensazione è che quella marea sia anche la poesia stessa. Pericolosa, a volte inevitabile, con il suo fascino che riesce anche ad arrivare dove può fare più male, che sa corrodere e consumare, in primis chi la scrive… e, come scrivi tu nelle note di chiusura, di come la marea, una volta ritirata, abbia “lasciato una scia di occhi, volti, mani e parole che le poesie hanno raccolto”…
Quelle poesie sono state scritte dopo la marea eccezionale dell’ottobre 2018, marea che, rispetto ai disastri del 2019, ora pare niente di che. Volevo raccontare della paura ma anche della vicinanza tra le persone e poi di come la città si muovesse e cambiasse a seconda del vento e della marea che saliva e poi si ritraeva. Quando l’acqua scende, e se ne va dalle calli, lascia qualcosa, a volte evidente come un rifiuto, un pezzo di mobile, altre impercettibile, come il silenzio, il vuoto, gli stati d’animo. Lo vedi negli occhi delle persone quando si incontrano di nuovo, c’è una luce e una specie di peso, un dolore. Tutte queste immagini contengono la poesia, fanno, anzi, quello che la poesia fa o dovrebbe fare.

 

L’autore:
Gianni Montieri è nato a Giugliano, provincia di Napoli nel 1971. Dopo aver vissuto per molti anni a Milano, adesso vive a Venezia.
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Futuro semplice” (2010) e “Avremo cura” (2014).
Suoi testi sono stati ospitati dalle riviste Argo e Versodove.
Alcune sue poesie sono incluse nel volume collettivo “La disarmata” (2014).
È tra i fondatori del laboratorio di scrittura Squero della parola.
Scrive su minima&moralia, Doppiozero, Huffington Post, Rivista Undici, Il Napolista e Doppiozero.
È redattore della rivista bilingue The FLR e fa parte del comitato scientifico del Festival dei matti.

(Gianni Montieri “Le cose imperfette” pp. 89, 10 euro, LiberAria editrice 2019)

 

 

 

 

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Mr eye

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Voce d’autore       ——————–

Una qualche forma di luce

Tre inediti

di Clery Celeste

All’ora di luce che mi concedi
rispondo che parte solo da te
il tutto che viene e straripa.
Io resto fedele a me stessa
alla stasi propria del sangue rappreso
alla ferita verticale che cammina
e che sono sempre io.

*

Sono cucita dall’interno
con le braccia che si piegano
per prendere i lembi.
Mi portate in giro esposta
come qualcosa di raro
e allo stesso tempo spaventoso.
Spaventoso e ancora vivo.

*

Hai ragione quando dici che passo
il fuoco nelle mani, che rischio
di bruciare quel che trovo
ma cosa posso farci
se io prendo fuoco intera
se almeno nel dolore riesco a essere
una qualche forma di luce.

 

 

L’autrice:
Clery Celeste (Forlì, 1991) è laureata con lode in Tecniche di radiologia medica presso l’Università di Bologna.
Da gennaio 2015 fa parte della redazione di Atelier Poesia sezione on-line, da gennaio 2018 ne è la direttrice editoriale. Da maggio 2019 collabora con Pangea.
È stata vincitrice di numerosi premi: “Tropea Onde Mediterranee”, “Agostino Venanzio Reali”, “E. Cantone”, “Pro Loco Fiume Veneto”, “Biennale internazionale dei Giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo”.
La traccia delle vene” (LietoColle editore – Pordenonelegge, 2014) è la sua opera prima (nel 2015 è stata vincitrice del premio Elena Violani Landi, premio giovani Maconi, menzione speciale premio Carducci, premio Solstizio).
Nel 2019 esce per Edizioni Gattili “La vita distesa”, piccolo libro d’arte a edizione numerata e limitata con un suo inedito.

 

 

 

 

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Little fish

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Tempo presente        —————————

Bellezze dai soggiorni obbligati

Cronache nel tempo del coronavirus, Venezia

di Monique Pistolato

Del soggiorno obbligato, in un altro tempo, ho fatto palestra non mi spaventa.
Conosco il perimetro vigilato, gli sguardi dal vetro, notte e giorno uguali e gli operai della scienza che provano tesserti reti di salvataggio.
I nodi e le cuciture interne, le riparazioni dei sarti bianchi come i rammendi nel rovescio degli abiti.
La ragazza che visse due volte potrebbe essere il titolo, ma io nell’interno ho inciso Chi ha subito un danno è più forte perché sa di poter sopravvivere.
Così ora, catapultata nella fantascienza, con la comodità di una dolce casa, provo a raccontarvi le lievità del tempo ritrovato, attimi di bellezza nonostante. Anticorpi di storie.

Dal diario del confino. Ritagli.
Tende scostate, una lama di luce, merli e pettirossi trafficano incuranti di ogni editto. Esoconcerto a tutto volume. Peso la farina, intiepidisco l’acqua, preparo il lievito, l’olio e il sale, poi inizio a lavorarli.
All’inizio sembra sempre che i componenti non vogliano stare insieme in una ribellione che pasticcia le dita, ma poi lentamente, con il lavoro delle mani, tutto si amalgama e prende forma: il panetto è pronto per il suo riposo. Una croce per benedirlo, qualche ora di sonno al riparo da luce e correnti e… stasera pizza.
Far lievitare le cose con pazienza e attendere… è una buona lezione anche per questi giorni.

*

Sole albicocca, l’aria frizzante rende tutto nitido, ecco le magie del tempo. Tre rintocchi dal pavimento di sotto che significano “affacciati”.
La signora Veronesi, dalle sue gengive a canotto, grida dal balcone: “hai visto che regalo questo splendido cielo?”.
Per noi tutti è nonna Celestina, oggi copie novant’anni e vive sola.
Rincara. “Ho passato la guerra, la fame, superato l’asiatica, mi godrò il mio compleanno, nonostante…“. Guardo la begonia arancio, l’unico dono che ho potuto acquistarle al supermercato. Scendo di sotto, gliela porgo e lei sembra felice come una bambina. A distanza di sicurezza, ci gustiamo un piccolo dolce al cucchiaio. Io e lei. Lei ed io guardando fuori.
Passerà.

L’unità C del computer segnala ingombri. Il fardello non è dato dalla scrittura ma da centinaia di scatti accumulati negli anni con le mancate promesse di rivedere, scartare e stampare. Pigrizia e i tanti “farò”. Già penso, la memoria virtuale è come un grande acquario pronto all’esondazione. Allora, con i raggi tiepidi dalle finestre, inizia il lavoro archeologico: rivedere le cartelle foto di città, incontri, mari, compleanni, nipotini neonati calvi diventati ragazzi. Storie fatte per immagini, fili che si riannodano. Promesso, momenti che avranno un corpo di carta da custodire per il tempo futuro.

*

Il condominio è un formicaio in piena attività, si socializza il daffare. La signora Zucconi dal giardino di sotto, con la sua voce da tenore, lancia un s.o.s. verso il cielo: “tateeee ho bisogno di un aiuto per i miei capelli“. Lei vive sola, ha l’artrosi alle mani e la sua testa di dama nobile è sempre stata trattata dal parrucchiere. Lara che fa la ragioniera si affaccia e le urla di portare pazienza non si può uscire e lei non ha abilità. La Zucconi rincara “non voglio uscire, ma ho necessità di qualcuno che mi faccia uno shampoo con urgenza“. Così mi offro visto che sono già il suo fattorino.
Studio un tutorial piega a bigodini e scendo. Contenta, spiega che il suo cuscino sta diventando una sindone e il disordine del corpo le mette malinconia. Shampoo alla mano procedo. Tra chiacchiere, mollette e phon, ci metto due ore. Lei studia ogni gesto guardinga. Sudo, mi impegno, uso il pettine come una praticante in erba. Alla fine, il suo volto altero sorride allo specchio. Ce l’abbiamo fatta. Con l’idea che con amore e attenzione si fanno cose impensabili, penso che un parrucchiere ha più chance di uno scrittore. Ritorno al mio soggiorno obbligato con tanti grazie, una zuppa e dei fagioli all’uccelletto.

Aprile è entrato e noi siamo in sosta con il fiato sospeso.
Ora gli sguardi che attendono una buona novella possono concedersi l’osservazione lenta: violette, margherite, fiori di tarassaco, nontiscordardime dipingono centrini verdi.
Su un albero, dai germogli accennati, un nido intrecciato con legni, paglia e pezzi di nailon, risalta come architettura spaziale, penso che anche la natura si attrezza, avanza quando noi arretriamo.
Un cenerino zampetta lungo l’argine del canale preparandosi alla pesca mentre degli anatroccoli giocano.
In questa fantascienza l’aria profuma, i boccioli si aprono e un riccio si fida ad attraversare la strada. Sapremo preservare un pezzo di cuore verde? Altrimenti saranno edere, gramigna, corvi a riprendersi tutto. Ma per oggi godiamo degli amici che stanno preparando l’arrivo delle rondini: loro sono in volo senza paura.

*

Esco con i miei due sacchi di umido e plastica, primo pomeriggio, tutto appare immobile. Esplosione di profumi dai giardini e tanti bucati al vento. Deposito i rifiuti, poi tiro su le maniche della camicia e maglione e mi metto ferma verso il sole. Vitamina D per le ossa, qualche minuto d’aria. Guardo i condomini: una cartolina di città senza umanoidi all’orizzonte. Sto ferma come una lucertola che beneficia del calore, quando quella sosta in verticale sembra farmi perdere l’equilibrio, allora spalanco gli occhi e, dall’alto di un palazzo, arrivano un mare di bolle di sapone grandi e piccole. Si moltiplicano, corrono, rotolano. Si propagano con l’arcobaleno dentro. I raggi ne fanno prestigi. È una meraviglia che porta ricordi bambini, l’aria diventa argento. Una mamma si affaccia al balcone, un ragazzino dal terrazzo chiama il fratello…
…Blu
Le mille bolle blu
Blu, le vedo intorno a me
Blu, le mille bolle blu
Che volano, mi chiamano, mi cercano
E volano, volano…
Nel ciel…
(Mina)

 

 

L’autrice:
Monique Pistolato, nasce a Parigi figlia di genitori emigrati.
Nel 1997 esordisce al premio Emilio Salgari, iniziando la sua attività di scrittrice. Molti suoi racconti hanno avuto una trasposizione teatrale (Coppa Vittorio Pregel).
Tra i suoi libri: “Un’altra stanza in laguna”, ibis, 2005; “Venezia. Guida alla città invisibile. Dieci itinerari insoliti e curiosi per calli e canali”, ibis, 2010; “La carta non è impaziente. Lettura e scrittura: piccole forme di eternità”, ibis, 2012; “Cari libri. La lettura condivisa come laboratorio di umanità”, Paoline, 2014; “Sotto il cielo di tutti”, ibis, 2016; “Bum Bum. Le prime volte dell’amore”, La meridiana, 2019.
Vive e lavora a Venezia.

 

 

 

 

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In the botanical garden

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Voce d’autore         —————————

Seràie

Le reti di Ivan Crico calate sul fondo del mondo

di Pericle Camuffo

 

Parlando con gli amici poeti, spesso mi sono lamentato del loro disertare un coinvolgimento più profondo e critico con ciò che accade nel mondo, una netta presa di posizione in senso sociale, civile se non proprio politico, che si confronti senza sconti e se senza proporre intimistiche vie di fuga, con la realtà nella quale vivono, nella quale viviamo.
Il libro di Ivan Crico, “Seràie”, al quale è stato assegnato il Premio nazionale di poesia in dialetto “Città di Ischitella – Pietro Giannone” nel 2018, è, in questo senso, una bella sorpresa.
E lo è, a maggior ragione, perché scritto da un poeta, uno dei maggiori in dialetto in Italia, che usa un idioma, l’antico “bisiàc” del monfalconese, pressoché estinto.
“Seràie” è, insomma, un azzardo, ma necessario, come mi ha recentemente scritto lo stesso Crico: “Il libro, come dicevo, è nato da un’urgenza interiore senza secondi fini, per me stesso soltanto. Poi ho accettato il rischio di farlo conoscere mettendo a repentaglio tutto quello che avevo costruito fin qui. Si differenzia molto da ciò che avevo scritto finora e che mi assicurava, rimanendo in quell’alveo, sempre una sicura benevola accoglienza. Ma non dobbiamo in arte cercare certezze, né una coerenza che pochissimo ha a che fare con la ricerca e moltissimo, invece, con le leggi del mercato che ci vogliono sempre riconoscibili ed inquadrabili. In più il nostro tempo oggi ci chiama ad opporci a questa barbarie imperante, in cui tanto si parla per non parlare in realtà, in modo profondo, di niente. Di fronte a tanta finzione però ci sono voci vere, disperatamente piene di vita, a cui almeno noi artisti dobbiamo cercare di dare risalto, illuminarle in qualche modo, sottrarle all’oblio che attanaglia tutto ciò che è scomodo, disturbante. Sperando di riuscire a far questo facendo poesia”.
La scelta, maturata fin dal 1989, di ridare voce e vita ad un dialetto morente si sovrappone perfettamente alle motivazioni intime di questo libro: “dare voce a chi non ne ha, non ne ha mai avuta o non ne ha più”.
In questo senso, il libro diventa il luogo in cui si allestisce una cerimonia sacra, un canto corale in cui lingua e storia si amalgamano l’una nell’altra in un processo che ne riattiva la realtà, l’energia densa della loro vita.
Il risultato del percorso di Crico lungo questa particolare e personale linea di ricerca sono le 19 storie che compongono il volume, “pescate” dall’autore nel “mar grando” della rete, come precisa nella breve nota che apre la raccolta: “Da anni, nel mare sconfinato del web, vado anch’io a mio modo a pescare, isolandole dal resto, tutte le notizie che riguardano storie di persone che in modi diametralmente diversi – con motivazioni dal punto di vista morale anche opposte – hanno scelto di sacrificare la propria vita per amore dei figli, dei propri concittadini, di chi con esse divide la pena dei diritti negati o un credo, per salvare una specie animale o una foresta. Questo anche per cercare di sottrarle ad una rapida sparizione sotto stratificazioni di materiali di ogni genere, complice un linguaggio, quasi sempre, non memorabile”.
E sono, le storie che Crico ci sbatte in faccia, vite vere di persone vere con nome e cognome, un campionario di quanto sia diversificata, pervasiva, specializzata ed efficace la violenza che la nostra specie sta gettando su se stessa e sul mondo.
Ma perderemmo molto del senso del libro se ci limitassimo a questa constatazione. Perché, al di là degli stupri, dello sfruttamento anche sessuale degli immigrati, della guerra, della ferocia di bracconieri e terroristi, dell’omofobia becera e fascista la cifra del libro non è la violenza bensì l’amore: per gli altri (Orio e Ronald, vigili del fuoco tra il rogo delle torre gemelle; Mohammed Wasim Moaz, ultimo pediatra dell’ospedale di Aleppo; Jean – Kévin Augustin, calciatore francese originario della Costa d’Avorio; Liviu Librescu, docente all’Università della Virgina), per i propri figli (Erabor, prostituta nigeriana, o Elena, prostituta italiana; la ragazza romena che lavora “Nell’inferno/ opaco delle serre” siciliane), per l’arte (Khaled Al Assad, direttore del sito archeologico di Palmira decapitato e appeso ad un palo dai carnefici dell’Isis), per le altre specie viventi (Jairo, difensore delle tartarughe), per la natura (José Claudio e Maria do Espirito Santo, protettori della foresta pluviale). E tutte queste persone declinano l’amore attraverso il sacrificio di se stesse, che non è eroismo da propaganda ma atto controculturale, di ribellione contro quella cultura dell’odio e dell’io imperante e fagocitante che da anni ci viene imposta come unico filtro attraverso il quale leggere, giudicare e praticare la realtà.
È questa la potenza umana e sociale, addirittura politica, che fa di “Seràie” un libro necessario. Ora più che mai. Ed è un libro di speranza, di religiosa speranza perché, come confessa la giovane ragazza nella splendida ‘A Orlando’, “per ogni male esisterà un cura”, che è cura di sé e per sé, del proprio spazio d’esistenza, ma specialmente cura per quest’umanità sempre più malata che sta inesorabilmente correndo, se ciò che affermano movimenti come Extinction Rebellion è vero, verso la proprio estinzione.

 

 

Dal libro:

Erabor

I.

Son rivada fina culì cu’i me sclagni
canucini de putela, al muset garbo
de ua scunduda – sensa mai ver
vidù ‘na lanpa de sol – de un fissun
de foie. De ‘na vila de ledan e ploc’
sec del sud de la Nigeria, vinduda
de me pare par vignir tèndar (iero
la più forta) i fioi dei siori. Veéli

disést. Strolegamenti de bot e spirti
de aqua i m’à ‘ncadenà ta’l sfalt
de ste strade foreste; e le note
pa’la strada le iera senpre dute
brutone, dute massa negre
e ‘ndiassade, anca de istà. Co mi
ghe féuo contra i me onzeva, mituda
in desnoc’ ta’l solar de piera, par note

intreghe. I ossi par fora. Ta la pela, fii
de la corente, àssidi. No so se i mii
i saveva in che spessie de negro
sprafondo i me vevà sburtà; al fifiu
sintìuo drento, sol, par quel che i varìe
podest, se no varìo tirà bastansa
vadagno, farghe de mal. Me basteva
quest par no lassarme murir.

(…)

Erabor I.
Sono arrivata fin qui con le mie magre/ gambe da ragazzina, la faccia acerba di uva/ nascosta – senza ancora aver visto mai/ la luce – da troppe foglie. Da un villaggio di fango/ del sud della Nigeria, venduta da mio padre/ per fare (ero la più forte) la baby-sitter ai figli / dei ricchi. A parole. Riti e spiriti/ d’acqua mi incatenarono presto all’asfalto/ di queste strade straniere; e le notti/ in strada erano sempre tutte brutte, troppo nere// e fredde, anche d’estate. Quando/ mi ribellavo/ venivo picchiata, costretta a restare/ in ginocchio sul pavimento in pietra per notti/ intere. Le ossa sporgenti. Sulla pelle, acidi/ e cavi elettrici. Non so se i miei/ sapessero a quale inferno/ mi avevano consegnato; so soltanto la paura/ di ciò che avrebbero potuto, se non avessi/ guadagnato abbastanza, subire. Questo mi bastava/ per non lasciarmi morire.
(…)

*

Augustin, zugador de balon

La val ‘na nutissia de ‘na colona
la vita de quel che l’à salvà doi putei
par negar po drioman. Epur no iera
la prima volta, savéu, che ta i sfolgi
i me veva nomà. Nassù ta ‘na tera
oltra al perlìn de sto mar, ta la Costa

de Avorio, iero rivà cunpena menar
– grassie ai me gol – la me squadra fina
ta la promossion. Cu’i amissi mercure
me catéuo ta la spiasa de Lido
de Classe, co ò vidù, infra le ondade
scaturide, sti puteleti iutidi del mar.
M’ò butà de bot menandoli, descunì,
in salvo ta la scuriera. I pie, i me pie

usadi a schivar ogne trai ta le piere
i me se ‘nbredea, vago a fundi, vanti
dei oci no ‘l cau de la porta passada
cato ma un scur grandon che ‘l se verze
e ‘l me iutisse. No xe bastadi tre quarti
de ora de rispirassion, sensa padìn,
per farme tornar in sì. Sta strania vita

senpre de atac, mort par far al tersìn.

Augustin, calciatore
Vale una notizia a una colonna la vita/ di chi salvò due bambini per poi annegare./ Eppure non era la prima volta che sui giornali/ si parlava di me. Nato in una terra oltre il blu/ di questo mare, nella Costa d’Avorio, avevo/ appena portato, grazie ai miei goal, la nostra/ squadra alla promozione. Con gli amici// mercoledì mi trovavo sulla spiaggia di Lido/ di Classe, quando vidi, tra le onde furiose,/ due bambini scomparire. Mi gettai in mare/ portandoli, stremato, in salvo sugli scogli.// I piedi, i miei piedi abituati a schivare ogni/ ostacolo tra le rocce in una buca s’incastrano,/ affondo, davanti agli occhi non il traguardo/ della porta violata trova ma un buio immenso/ che si spalanca, mi inghiotte. Non sono bastati/ quarantacinque minuti di respirazione/ artificiale per portarmi in vita. Questa strana// vita da attaccante, morto per fare il difensore.

*

A Orlando

Al xe drio rivar. Mi drio
par murir. Ta i sbari e i sighi
e le canson mitude uncora
a sbregabalon. Al xe drio rivar.
E ‘l ride intant che ‘l sbara, intant
che ‘l scossena i corpi ta’l solar
par essar segur de no lassar
gnissun signo

de vita drio de sì, sal
bianc e tirìbil ta ‘l spagnar
sparnissà de le nostre vite
zòvene. Un rapar infra de ti
me ben e sti ‘ndiassadi rèfui
de amor nibì, noma che sto culì
pos èssar, sto culì ta i sbari

e i sighi e la musica sensa
voler colona de sto scur bal
suturno ma che no ‘l snegrisse
gnente de ti, de mi, parvìa che se ti
te xe vìu – s’anca mi son drio
par murir – par ogne mal
so che ‘sistarà ‘na cura.

A Orlando
Sta arrivando. Sto per morire. Tra gli spari/ e le grida e la musica ancora ad alto/ volume. Sta arrivando. E ride/ mentre spara, mentre scuote/ i corpi sul pavimento per accertarsi/ di non lasciare alcuna traccia// di vita dietro di sé, come un bianco/ tremendo sale sparso sull’erba/ delle nostre giovani vite. Uno scudo/ tra te amore e queste raffiche/ di amore negato, questo soltanto/ posso essere, questo tra gli spari/ e le grida e la musica involontaria/ colonna di questa danza/ macabra ma che non oscura/ nulla di te, di me, perché se tu sei/ vivo – anche se sto per morire -/ per ogni male esisterà una cura.

*

Liviu Librescu

Co quel zorno de la mità
de avril la se ga vert de l’aula
de colp la porta, nunsiada
dei sbari drio vignir dei anditi,
go sigà ai me scolari de saltar
zò dei balconi.

Quel trist unbriun,
che no ‘l iera sta bon de rivarme
guantar, des al me torneva nansi
cu’la sacuma de un zovin rivà
de levant sta volta, tant più de mi
‘ncora, sensa ‘na vila sova. Armà
cun pistole pronte a spanissarlo
como ‘na negra seminion – quel scur

grandonon de speransie, amor –
drento più corpi che se pol. Un fin
rapar la me persona, ma bastansa
par far ora ai me mui de verzar
le cluche e butarse zò, ‘ncontra
de le luse vivarose del zardin,
de la vita. Drento de mi bianchi

larghi nevegadi go vidù, ‘l zal
caldo de le òcrie de la Tera
Promituda e i culori dei oci
dei me putei: e son ‘ndà lora
incòntraghe del me distin.

Livio Librescu
Quando quel giorno/ di metà aprile la porta/ della mia aula si spalancò, dal forte/ rumore preceduta dagli spari/ nel corridoio, urlai ai miei allievi/ di saltare fuori dalle finestre.// Quel buio feroce,/ da cui ero riuscito sempre/ a sfuggire, ora mi si ripresentava/ davanti con le fattezze di un giovane/ orientale. Privo, molto più di me/ privo, di una patria. Armato/ con due pistole pronte a spargerlo/ come una nera semina – quell’assoluto// buio di speranze, amore – nel maggior/ numero di corpi possibile. Un fragile/ argine la mia persona, ma sufficiente/ a permettere ai miei studenti/ di trovare il tempo per aprire/ le maniglie e saltare di sotto,/ verso la luce del giardino,/ la vita. Rividi dentro di me// bianchi campi innevati, il giallo/ caldo delle ocre della Terra/ Promessa e i colori degli occhi/ dei miei ragazzi: e andai/ incontro al mio destino.

 

 

Gli autori:

Ivan Crico è nato a Gorizia il 1° novembre 1968, ma fin dalla nascita ha vissuto a Pieris, presso le foci del fiume Isonzo. Dal 2006 vive nell’antico borgo rurale di Tapogliano.
Si dedica allo studio della pittura fin da giovanissimo, laureandosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Scrive in lingua e nel nativo ed arcaico idioma veneto bisiàc.
Nel 1997 ha pubblicato “Piture”, a cura di Giovanni Tesio e nel 2003 “Maitàni” (“Segnali di mare”), con prefazione di Antonella Anedda.
Nel 2006 è uscita la sua plaquette “Ostane” (“Germogli di rovo”) e nel 2007 la raccolta “Segni della Metamorfosi”.
Ha pubblicato anche “De arzent zu” nel 2008, nell’antico idioma scomparso tergestino, con cui ha ricevuto il premio nazionale di poesia Biagio Marin.
Da notare la sua versione integrale in bisiàc de “Al cant dei Canti” (“Il Cantico dei Cantici”) edito nel 2018 e la traduzione poetica dell’opera di Pier Paolo Pasolini “I Turcs tal Friùl”, realizzata nel 2019.
Nel 2009 ha visto edita l’antologia dei suoi scritti, “L’antro siel del mondo” (“L’altro cielo del mondo”), per la Collana Giallo Oro edita da Lietocolle e Fondazione Pordenonelegge.it.

 

Pericle Camuffo è nato a Grado (Gorizia) nel 1967. Si è laureato in Lettere all’Università di Trieste, con una tesi sul rapporto tra la filosofia e la poesia in Biagio Marin.
Ha pubblicato per le edizioni della Laguna il romanzo “Figli delle stelle“, avventura on the road di un gruppo d’amici sulle infinite strade dell’Australia, e per La Bottega del Caffè Letterario di Roma “Cose dell’altro mondo“, libro che racconta un viaggio in Nuova Zelanda.
Per Stampa Alternativa ha pubblicato i libri “Walkabout. Ventimila chilometri sulle strade dell’Australia“, nel 2004, e “United business of Benetton: sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia”.
Con Nicoletta Buttignon ha curato e tradotto in italiano l’antologia di poesia aborigena “Inside Black Australia” (Qudu 2014).
A breve uscirà la sua nuova raccolta di racconti “Compro oro. Pago in contanti”, per Qudu editore.

 

 

 

 

Immagini       —————————-

Two in tulips

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Ti racconto        ———————-

Storie di tutti i giorni con scusa

STP h: 16.25. Taranto-Lecce, 14-07-2011

L’impero che si tace – tre di tre

di Ilaria Seclì

Taccuino arabo mentre tutti dormono sfiniti.
Bocche aperte, mento all’aria. Giovani, anziani, berretti in testa, zaini sulle ginocchia.
L’unico sveglio guarda stupito di vedere una donna sul pullman dei pendolari. Operai. 40° C fuori, dentro un’aria non a sufficienza condizionata.
Qui in quest’asma di vento, il governo delle cose è una corriera blu e trenta bocche aperte al sonno.
Uno apre a fatica gli occhi, piano, resine fossili, vischi millenari trattengono le palpebre. Sta per arrivare, in piedi dalle 5, conta le fermate dormendo, si sveglia che non sa se continuare a imprecare, maledire la vita, lavoro, mancate fortune, o benedire il ritorno a casa, quest’altro giorno.
Piano escono dal sonno, penzolano senza cadere, fili sul burrone, il labirinto di sempre, l’unica storia che storia non è.
Si accorgono e guardano sorpresi. Richiamano, indicano ad altri occhi. S’interrogano stanchi e svogliati, questa ragazza che scrive, abbronzata, ilare, canotta a fiori bianchi e azzurri, aria da forestiera spensierata.
La guardano gli occhi di Cristo.
Alla radio Storie di tutti i giorni, Riccardo Fogli.
Tutto si accorda, qui. Gli ulivi, il paesaggio brullo, le masserie in vendita al divo inglese o americano, ma resterebbero volentieri così, sbeccate, vuote, orologi fermi alla vita, indifferenti alla meccanica globale. Al passo di niente.
Meglio le corriere, il trenino della sud-est, il contadino che brucia le stoppie, canzoni di decenni fa, l’autista, le scritte sullo schienale, “scusa se ti chiamo ancora amore ma è + forte di me… “. Gli operai pendolari.
La ragazza li guarda. Si vergogna di stare bene in viaggio.

 

Ilaria Seclì, di questo raccontare

di Giovani Fierro

I tre racconti ospitati in questi tre mesi, su queste nostre pagine, hanno ben dimostrato la capacità narrativa di Ilaria Seclì, e del suo libro “L’impero che si tace”.
Un libro che contiene tante storie, brevi nella loro durata sulla pagina, ma il cui respiro ben si estende nel tempo dell’attenzione di chi le legge.
Bella e varia è anche la geografia di questi luoghi, ai quali la Seclì affida i protagonisti e anche se stessa.
Cividale del Friuli, Trieste, Parigi, il sud d’Italia, queste storie hanno varie destinazioni e anche diverse provenienze.
Mosse dal desiderio di ‘andare’, come nella migliore tradizione della Beat generation, o da quello di ‘ricordare’, a costruire la memoria di ognuno di noi, e dell’autrice in primis.
È anche un elogio dell’incontro, “L’impero che si tace”; voluto o occasionale, ma sempre possibilità di crescita, di scoperta degli altri e di sé.
Sono pagine di uno svelamento continuo, dove la poesia è strumento di espressione che Ilaria Seclì usa in modo magistrale, ma anche dinamica nel relazionarsi con il mondo, di riconoscerlo, di farlo vivere nelle sue evidenze e nei suoi tratti più nascosti.
Andate in pace (Cividale del Friuli)”, “Luigi e la questione dei fondali” e “Storie di tutti i giorni con scusa”, il racconto presente in questo numero, sono la dimostrazione di tutto ciò.
Una scrittura che sa trovare il particolare e lo sa ‘aprire’ nel suo accadere, per farlo vivere e parlare per ogni lettore che in queste sue storie può trovare il fascino della narrazione, quella che sa fare di ogni pagina scritta un evento a cui partecipare. Un invito prezioso.

 

Intervista ad Ilaria Seclì:

“L’impero che si tace” ha da subito una connotazione, non solo stilistica, molto forte. Perché, mi sembra, il primo scritto già racchiude l’intero respiro del libro. È così?
Sì, il primo testo è lo scrigno in cui è riposto il senso del libro.
È la scena iniziale dell’impero, il primo respiro, riportato su un taccuino violaceo e blu con scritte dorate arabe.
Non conoscevo ancora il destino del “lento zoccolo di cavallo”, ignoravo avesse scalpitato a lungo, galoppato fino a quasi 100 pagine percorrendo tanti luoghi, reali e dello spirito. Ero a Udine, c’era neve, tanta, steli secchi di gelsomini nel giardino attiguo alla casa, e silenzio. Allontanando lo sguardo, le montagne.

Cosa lega tra di loro tutti questi ‘piccoli’ racconti?
L’Impero è la radiografia del mondo muto, ciò che vive nascosto ai vivi.
Cose e insetti, attrezzi agricoli, cancelli arrugginiti e finestre di borghi abbandonati, giardini e vicoli nascosti. Boschi, ombre, mondo fatto piccolo. Rivelazioni, boule de neige.
Il macro, il rumoroso, azzittito da traiettorie di formiche, candore e silenzio di neve, suoni e colori del mondo vegetale, fili d’erba, gesti minuti e invisibili:
l’andate in pace di un prete rivolto ad una chiesa vuota, il francescano che spala neve a piedi scalzi lungo un viale di Milano.
L’impercettibile, il minuscolo, il silenzioso come braccio d’Aleph, ricongiunge cielo e terra, natura e umanità, ristabilendo una intemporale cosmica armonia. Tutto è ridotto all’essenziale: uomo e vita, sacralità originaria. Creato e creatura. Tutto ciò che dal silenzio viene generato, svelato, custodito. “Arrivare all’assoluto silenzio. Le cose del cielo ci appaiono lì dove un silenzio le avvolge”. Questo lega ogni pagina del libro, ogni “racconto”.

Tutto il libro, ogni frase scritta, ha in sé musica e ritmo ed è veramente ‘da suonare’, anche a voce alta. È solo una mia impressione?
Musicalità e ritmo secondo me sono elementi costitutivi della scrittura poetica, memoria arcana e arcaica di suoni stratificati nel tempo come l’ipnotica e salmodiante voce di nonna Lucia mentre recita il rosario cui assistevo da piccola.
Per quanto riguarda “L’impero che si tace” avranno contribuito anche la malia, l’affatturamento, il mistero della spoglia e severa bellezza delle terre visitate, il Friuli in primis. Non sfarzo, chiacchiere, sguaiataggine, ma sensuali silenzi che cullano suoni e ritmi di versi animali, fronde d’alberi, corsi d’acqua. Musica e ritmo della natura.

Il nord est in questo tuo libro è molto presente. Come mai?
Per vicende private ho avuto la fortuna di conoscere e esplorare il Friuli Venezia Giulia, immergermi in quella terra magnifica ostinata a non ammiccare al turismo di massa, né alle pratiche di movide riminesche – gallipoline.
Montagne, sentieri, silenzio. Poche parole. Attenzione e cura verso la propria storia e quella dei figli illustri. Si bada a ciò che conta.
Ne è nato un profondo amore. Desidero ritornarci. Viverci, forse. Chissà.

Il tuo è un lavoro anche sul tempo. In queste pagine ci sono tradizioni, ricordi, momenti che sono passati. Pur costruendo un presente dove poter stare, dove essere capaci di mettere radice, in qualche modo.
È un aspetto che già dall’inizio faceva parte del progetto del libro?
Ho registrato esperienze che si davano come solenni, assolute, perfette.
In quegli anni avevo l’esatta percezione di vivere situazioni e luoghi che mi aspettavano da sempre. “Sono nata per questo momento, pensavo”, scrivo in Lettera, riportando le impressioni di una passeggiata nel bosco. Un’ esperienza destinale che diventa nucleo di un racconto animato da cose invisibili, mute, plumbee.
Il dato autobiografico, esperienziale cede il posto alla voce delle cose. La cosalità, gli umori del tempo, degli animali, delle montagne, del bosco, dei minerali alla fine imperano, annullando la presenza di un io, animano un canto che ha vita propria, autonoma rispetto a chi scrive. Gli anni dell’Impero segnano vicende storie incontri rivelazioni unici, l’acme delle esperienze vissute, la vetta più alta del massiccio roccioso fin lì camminato. Poi, dopo, l’ordinario. No, Giovanni, nulla era previsto.
Il libro si è fatto solo, quasi fuori dalla mia volontà. Ciò che vedevo, cui assistevo, tacendo si faceva scrivere.

Ovunque, in questo tuo raccontare, c’è l’impronta della poesia. Che diventa strumento per ‘sentire’ e raccontare meglio, con maggiori particolari ed evocazioni, tutto ciò che vai via via narrando. È così?
Come poteva tradursi la nuova armonia delle cose estranea al dominio dell’uomo, quell’inedita complicità tra creato e creature se non con la parola poetica che cerca sempre, come direbbe Rilke, di nominare l’immane, l’inaudito, l’accadere dell’inizio, la prossimità all’originario? Solo poesia accorda udienza all’invisibile, a ciò che (per i più) tace.
L’impero è anche questo: un tentativo, da parte delle cose mute, di imporsi sul totalitarismo del linguaggio mercificato, quello spolpato di ogni richiamo e riferimento al sacro, al mistero, alla spiritualità. Quel senso che si fa strada, come direbbe Luzi, e che non è in luce, non è evidente, la densa nebbia che lo sguardo scorge oltre il bordo del reale, non potrebbe darsi fuori dal linguaggio poetico.

La seconda parte, “Amnistie”, ha un continuo sapore onirico, molto visionario. In questa sezione ci sente trascinati via, immersi in qualcosa che sorprende e stordisce. In queste pagine, dove porti il lettore?
Nella seconda parte del libro, “Amnistie”, si registrano – senza essere raccontati – i fatti della vita mentre vive, la vita quando accade. Sgovernata, sgrammaticata, furiosa.
È la strada e non prende fiato, camminata da sparuti superstiti umani: i senza padroni, i combattenti, gli ubriachi, gli ebbri, i folli. Les analphabètes, direbbe Artaud. Un circo, una giostra di umani che mordono la vita e non si sa dove possano approdare. Vivono. Erano tempi, un decennio fa o poco più, in cui ancora ci si incontrava, si animavano strade e racconti.

A fine lettura, dell’intero libro, ho avuto la netta sensazione che ciò che hai scritto sia ‘un qualcosa che è rimasto’. Ma di che cosa?
Un fatto stato ma lontano, un fatto incorniciato, dato al muro. Sacro.
Sì, un’esperienza apicale, magica, iniziatica oserei dire.
Il mondo capovolto dalle forze mute e invisibili s’impone all’attenzione devota di uno sguardo che ha familiarità con l’ignoto, con tutto ciò che rende sacra l’esperienza del vivere costantemente minacciata dalle forze di “mammona”, dal potere indiscusso della merce, del profitto. Potere concesso all’infelicità. Lontano dalla creaturalità, dall’armonia col creato, dal divino che siamo e ci dovrebbe muovere, non c’è felicità.

 

 

L’autrice:
Ilaria Seclì, salentina nata a Ginevra, ha pubblicato “D’indolenti dipendenze” (Besa, 2005), “Chiuderanno gli occhi, diario a due voci con Federico Federici”, (Quaderni di Cantarena, 2007), “Del pesce e dell’acquario” (LietoColle, 2009), “La sposa nera” (I libri dell’Arca, Joker, 2016). Vive a Lecce.

Gestisce il blog http://leragionidellacqua. wordpress.com/

 

 

 

 

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A woman

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Voce d’autore          —————————-

È bene imparare ciò che non si è detto

Jessica Vesprini, “Arsenale”

di Giovanni Fierro

La poesia come possibilità. Di certo è anche questo il senso di “Arsenale”, progetto artistico che nasce dallo scrivere di Jessica Vesprini.
Perché “Arsenale” è in primis il dialogare fra la sua poesia e le immagini in bianco e nero del fotografo Claudio Colotti, che prende forma grazie alla grafica di Claudio Ruggeri e diventa performance live e video con l’apporto teatrale di Luís Marreiros.
Ma il primo passo di “Arsenale” è Jessica Vesprini, qui giunta al suo secondo libro, la cui scrittura è un’attenta partecipazione alla società, uno sguardo che si mette in gioco in ogni suo passaggio.
Siamo il sogno torbido di chi è stato morso”. Il ‘noi’ della Vesprini ha una carica emotiva che fa circolare il sangue di ogni esistere, ne riconosce le difficoltà, il come siamo “Carichi del peso delle attese,/ svuotati dei significati”, e di come possiamo solo domandarci “Ci frantumerà questo tempo?”. Arriva al corto circuito della questione.
In “Arsenale”, il libro, ci sono i vuoti degli spazi fotografati da Claudio Colotti, luoghi una volta vissuti ed abitati, ora abbandonati e lasciati in balia di una memoria.
Vuoti in cui i testi fanno del corpo l’accadere della carne e del pensiero, che possono permettersi il “Forse la verità/ è solo nella quiete/ di un luogo autentico”.
Queste pagine sono anche degli avvertimenti, per le mancanze che abbiamo creato e che ci stanno inghiottendo; dove possiamo solo constatare che “Cosa importa/ se le parole si suicidano,/ succede anche all’amore”. Siamo in un punto di non ritorno, dove il monito o la guarigione stanno in una semplice frase: “Diventa una cura/ per il corpo che brucia”.
In questa ricerca, che trova i propri passi incontro al termine della notte (che possiamo ancora vivere? che stiamo già vivendo?), c’è quel qualcosa che indica il come le viscere siano capaci di dire molto di più di ciò che siamo capace di pensare.
Il muoversi di Jessica Vesprini è già innescato e riconosciuto, “Dalle punte dei seni/ al profondo delle viscere/ ti ho cercato”. Mette seme in ogni pagina del libro.
Perché in “Arsenale” sembra proprio essere contenuto ciò che rimane, la risultanza delle nostre ore.
In questa geometria da ricostruire, si può riconoscere anche ciò che si spreca.
Quale futuro allora? Jessica Vesprini ci accompagna in questo stare al mondo attorcigliato dai rovi delle nostre responsabilità, con una intimità che ricorda ogni secondo che si sta consumando.
Il suo trovare le parole appartiene alla poesia più necessaria, quella che sa fare le domande, anche quando le parole finiscono con un punto, che vorrebbe chiudere ogni dubbio.
L’andare a capo è sempre più pericoloso.

 

 

Dal libro:

Impatto

Carichi del peso delle attese,
svuotati dei significati,
afferriamo solo l’aria
della nostra cedevolezza meschina.
Il prematuro sfarsi di certi sogni,
come risvegli violenti,
corpi umidi contaminati da muffe,
respiri abbozzati, inespressi,
insensibili al mutamento del cielo ferroso
al trasmigrare delle coscienze.
Detenere ogni controllo è la vera ossessione.
Compulsivi, galleggianti,
con la noia rinnovata
di ogni vecchia cosa.
Consumiamo amori qualsiasi,
irresistibili, orrendi, veloci.
Che rimane di umano?
L’impatto inevitabile,
il farsi male, per poi curarsi amorevolmente.
Forse non siamo altro che nuvole,
così vicini alla bellezza,
così gonfi d’inconsistenza.

*

Immortalità

Dalle punte dei seni
al profondo delle viscere
ti ho cercato.
Al di là di questi confini terreni
siamo entità acquoree
che si mescolano nel delirio
di questo fiume fatto di sangue.
Si gioca all’immortalità,
scivolando si cadaveri ammassati,
spargendo fiotti d’amore
sulle sponde di argilla secca.
Non è così
che si muore nel mare?
Veloci.

*

Mimetismo

Come lotta il corpo
nella sua separazione;
si sfilaccia tra l’assurdità della vita
e folate di gioia, come frustate.
Sente l’accecamento
di quella verità corruttibile,
ciò che segue è mimetismo,
denudamento, distrazione.
Indubbiamente è quieto delirio resistere.
Cosa importa
se le parole si suicidano,
succede anche all’amore.
Se si dimentica la strada
o se si è in fuga,
si lascia sempre una traccia di sé.
È bene imparare ciò che non si è detto.

*

Toccare

A volte mi rammarico
di essere anche un corpo,
che si ferisce, si rompe,
si riga, cambia colore.
Quanto è breve
questa nostra capacità di toccare?
Per quanto tempo
ci potremo accarezzare?
Mescolare le lingue?
Ma vale la pena,
vedersi avvizzire e finire i giorni
per lasciarsi abbracciare.

 

Intervista a Jessica Vesprini:

Da cosa nasce il progetto ‘Arsenale’? da cosa prende vita questo dialogo tra te e il fotografo Claudio Colotti?
Negli ultimi tre anni, tempo in cui mi sono immersa in questo progetto, ho vissuto in prima persona cambiamenti importanti, ma soprattutto ho iniziato un percorso di proiezione al di fuori di me.
Questo importante processo mi ha permesso anche di mettermi in discussione, e sentire maggiormente il divenire nel contesto sociale attraverso me, certo, ma come mezzo interpretativo e non più come soggetto principale. Quindi avevo già iniziato a scrivere la mia silloge poetica ma sentivo il bisogno di un linguaggio aggiuntivo che mettesse in scena l’antitesi dei miei testi… o solamente l’altra lettura.
Ho chiesto a Claudio Colotti, fotoreporter e giornalista, di far parte del progetto che nel frattempo aveva un nome: “Arsenale”. Claudio, inizialmente era scettico, perché la sua natura è quella di raccontare cronaca, volti, immagini; chiedevo a lui un intervento più artistico e soprattutto di fotografare qualcosa che non si può vedere: il sentire.
Siamo usciti in esplorazione insieme per diversi mesi, fotografando luoghi abbandonati e fatiscenti, in cui in un passato molto recente c’è stata grande concentrazione sociale: scuole, hotel, stabilimenti industriali, manicomi. Uno specchio della società, il consumo, il vuoto, la mancanza di attenzione e l’invisibilità. Esperienza importante, forte, di cui ringrazierò sempre Claudio che si è dovuto far carico anche della mia sicurezza personale oltre che della sua. Luoghi difficili, non sicuri, e soprattutto abitati in parte da emarginati o vere e proprie comunità. Tutto questo mi ha riportato a scrivere e a rimettere mano addirittura a quanto era già stato scritto.

Il primo impatto con questi tuoi nuovi scritti è di trovarsi di fronte ad una lotta serrata, fra ciò che si vive in modo viscerale (sentimenti, corpo, desideri…) e ciò che invece ha bisogno di una mediazione fatta dal pensiero, dalla ragione; per cercare, forse, un possibile equilibrio….
La molteplicità identitaria è fatta appunto dalla presa di coscienza di questi elementi, ne è maturato in me, uno stile ossimorico, ma al contempo reale, senza troppi infingimenti.

Il tuo sguardo sulla nostra società contemporanea è schietto e critico. E mi sembra che tutto ‘Arsenale’ voglia stare dentro questo nostro tempo attuale, complicato e delicato… è così?
Questo è il nostro tempo, quello in cui viviamo, mi sembra onesto raccontare ciò di cui in parte siamo responsabili.

E non fai sconti nemmeno a te stessa. Sei tu in primis il luogo dell’accadere, della possibile memoria e della possibile rivincita. Un continuo laboratorio di segni e sintomi, di slanci e pause… Mi sbaglio?
Il mio modo di arrivare all’essenza delle cose tramite il ricordo, la rimembranza, è di fatto dettato dalle mie letture, con un mio stile cerco di essere diretta, con un io narrante e un tu, che dia l’idea di compartecipazione, questo altro al quale sempre mi rivolgo è anche l’ammissione di necessità sociale di presenza, il desiderio di una natura/mondo non indifferente.
Quindi debolezza o salvezza, come dicevamo prima? Ognuno ne tragga la sua lettura.

Perché in questi tuoi testi si vive sempre una sorta di esperienza anche sensoriale. Si ha la percezione che ciò che anima i tuoi scritti ha bisogno di essere totale, senza controllo, senza mediazioni… un qualcosa di assoluto. È in qualche modo il vivere stesso, il fare poesia mi viene anche da pensare. Può essere una lettura adeguata? E cos’altro c’è o può esserci?
Non posso immaginare uno scrivere che non passi attraverso sensazioni reali e sensorialità. Esistiamo, perché dentro a un corpo e attraverso i nostri sensi ci è permesso di essere. L’esaltazione di questo essere lo si ha attraverso l’esperienza, il vivere.

Mi sembra anche che questi tuoi scritti siano delle evocazioni, da leggere a voce alta, per nutrirsi anche della loro pronuncia, del loro diventare ‘carne’. Come se la pagina non bastasse….
In tutto il progetto si è cercato di raccontare il vero, il reale, lasciando da parte la ricerca estetica e contraffatta, sia nelle immagini che nella grammatica poetica. C’è molto di fisico, anche nella grande assenza degli scatti, tra la polvere e la staticità dei luoghi c’è traccia e passaggio e i due linguaggi insieme, viaggiano su questo filo diretto tra parola e cosa, immagini passate e quelle presenti.
La lettura di “Arsenale” invita ad entrare fisicamente e sentire.

Il progetto “Arsenale” è poi diventato anche una performance e anche video….
Tornando appunto alla tua domanda di prima e rispondendo a questa, hai notato anche tu che questo progetto è molto fisico, richiede lettura a voce alta e corpo.
Proprio per questo, durante le presentazioni, oltre all’esposizione dei 25 scatti presenti nel libro, mi avvalgo della collaborazione di Luís Marreiros, attore/performer portoghese, che interagisce con i miei versi esibendosi in una forma di recitazione corporea, ispirata al Butó giapponese, ma espressa in uno stile assolutamente personale.
Luís per sua natura è dotato di grande espressività e il suo corpo stesso è dannatamente poetico nella sua unicità. L’esperienza che ne scaturisce è fortemente emotiva, soprattutto per noi interpreti. Da questa collaborazione, e grande intesa artistica, è nata l’idea di queste clip, girate da Gabriele Censi, che trovate nel mio canale YouTube e sulla mia pagina facebook, e altri progetti teatrali che speriamo riprendano presto.

 

Il video di “Appuntamento a un tavolo di un bar” lo si può ascoltare e vedere qui.

 

 

L’autrice:
Jessica Vesprini vive nel fermano, nella campagna delle Marche. Ha pubblicato la sua prima raccolta poetica “De-Sidus” a gennaio del 2017.
Alcuni suoi altri componimenti, sia in poesia che in prosa, sono stati pubblicati su “UT“, periodico d’arte e fatti culturali, e su “Euterpe“, rivista di poesia e critica letteraria.
Suoi testi sono stati pubblicati nelle antologie “Adriatico” – Euterpe e “Marche, omaggio in versi“- Bertoni editore. È presente un intervento critico sulla sua poesia, nel volume “La giovane poesia marchigiana“, di Lorenzo Spurio.
Con la collaborazione di musicisti, artisti visivi, altri scrittori e attori, ha ideato e realizzato letture spettacolo, andate in scena in diversi festival e manifestazioni culturali.
La sua ultima silloge poetica, “Arsenale “ è nata dal lavoro di ricerca e collaborazione con il fotoreporter Claudio Colotti ed è edita dall’Associazione MarcheBestWay, con il contributo grafico di Riccardo Ruggeri.
Il progetto artistico si arricchisce nelle presentazioni sceniche della collaborazione con l’attore portoghese Luís Marreiros.

 

Il fotografo:
Claudio Colotti è di Pollenza (Mc), giornalista, da diversi anni coltiva l’attività di fotografo sociale.
Il suo primo libro fotografico è “MAI+ Il sisma nel centro Italia tra volti e macerie”, pubblicato dall’associazione MarcheBestWay.
Nel 2018 ha dato alle stampe “MicroPolis. La città di provincia al tempo del Melting Pot”, studio sul mutamento del tessuto sociale dei piccoli agglomerati urbani.
Come fotogiornalista ha visto i suoi reportage pubblicati sul Venerdì di Repubblica, The Post Internazionale, SenzaFiltro, Melting Pot Europa, Whitness Journal e Global Project.

(Jessica Vesprini, Claudio Colotti “Arsenale” pp. 52, 18 euro, Associazione MarcheBestWay 2019)

Il libro “Arsenale” lo si può acquistare qui.

 

 

 

 

Immagini        —————————-

Little hell

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

 

 

Tempo presente        ———————————-

Chronicae belgicae

Cronache del coronavirus, Bruxelles

di Ilaria Battista

 

Prima settimana 7-14 marzo
Bruxelles, musei chiusi, biblioteca chiusa, mostra di Bruegel che volevo vedere domani chiusa.
Caffè chiusi, a cominciare da quello in cui volevo andare ieri, ma mi son detta ci posso benissimo andare domani, friggitorie e cioccolaterie aperte, ma siamo in Belgio quindi patatine e cioccolata sono considerati beni di prima necessità, Grand Place semi deserta, strade deserte. Giardini sbarrati, ruota panoramica ferma. Pioggia, vento, freddo.
Aveva ragione Charles Aznavour:
Il me semble que la misère
Serait moins pénible au soleil

Seconda settimana 15-21 marzo
I fiori se ne fregano del coronavirus, e per fortuna, il concetto di Niente assembramenti No gruppi di persone riunite State ad 1 metro l’uno dall’altro NON è ancora del tutto chiaro; ho capito perché Magritte disegnava nuvole, i dinosauri sono spariti dalla Galerie du Roi ma questo lo sapevamo, è colpa loro che non hanno bevuto cioccolata belga, Rue de Rollebeek sembra Diagon Alley.
Sono comparse le scritte Qui si accettano solo pagamenti elettronici e i primi cartelli di sconto del 20 %.
E i food shop per far capire che sono aperti devono scriverlo a tutta vetrina.
Per 30 secondi circa mi è entrato un vero raggio dalla finestra, di quelli che scaldano e fanno anche l’ombra. Mi sono precipitata a tirar su la tenda, che mi vedessero fino al giardino pubblico. Ho sorriso. Per 30 secondi. Poi ho ritirato giù la tenda.

Che il lock down qui a Bruxelles sia iniziato in un giorno di sole e in una gioiosa promessa di colori sembra quasi un’ingiustizia. Con la pioggia sarebbe stato tutto più semplice.
Le attività all’aria aperte sono concesse, in luoghi vicino a casa, e io sto pensando a come definire “luogo vicino a casa” il Parc de Bruxelles 1,2 km da qui, invece che il giardino che vedo dalla finestra, 10 metri ma con tutta la simpatia non stanno nemmeno nella stessa galassia botanica.

Terza settimana 22-29 marzo
Siamo un mese indietro rispetto l’Italia, gli ammalati aumentano in modo esponenziale, e purtroppo anche i morti.
Oggi primo giorno di primavera c’erano 9 gradi e tirava vento, così la primavera me la sono comprata e portata a casa, sotto forma di tulipani.
Le gemme continuano a germogliare, ma perfino gli uccelli sono più silenziosi.
Non c’era nessuno in fila per le patatine e per i waffle. Ho sempre detto che se la waffleria fosse rimasta senza clienti, allora sì che la situazione sarebbe stata grave.
Oggi hanno chiuso prima.

Ma dopo, cosa ne sarà di noi dopo?
Sulle panchine dei giardini hanno messo gli stessi rotoli che si mettono sui luoghi dei reati.
Perché qui si facevano cose che adesso sono un reato.
Vedi quella sedia davanti alla Cattedrale, ecco lì due si parlavano vicini e si toccavano le mani. E lì su quella panchina sotto la biblioteca? Un gruppo di amici rideva e scherzava e bevevano dalla stessa lattina di birra.
E lì davanti alla statua? Si stava seduti a raccontarsi la giornata e a guardare crescere i fiori.

Anche qui hanno esteso la quarantena.
Ieri un amico diceva “Ma avreste mai pensato di vivere così?” Nessuno ha risposto.
Mica siamo Stephen King. E pensare che L’ombra dello scorpione era uno dei miei libri preferiti.
Prima.
Oggi pomeriggio sono andata su in terrazza e mi sono seduta al sole.
E intorno a me c’era chi si sedeva davanti alle finestre aperte, chi su terrazzini improvvisati, chi su terrazze vere e proprie, chi metteva la testa fuori dagli abbaini per parlare al telefono guardando il sole.
E così mentre guardavo Bruxelles dall’alto, tra un tetto e l’altro, mi sono detta che forse dobbiamo solo cambiare punto di vista, forse è solo questione di prospettiva.

Quarta settimana 30 marzo – 5 aprile
Questa cosa dei paesi nordici di non avere le persiane, e spesso neanche le tende fa sì che uno abbia un canale in diretta sulla vita dei vicini.
Osservo spesso il mio dirimpettaio. Oggi è uscito dal portone e ha attraversato la strada con un piatto di crêpes in mano.
Si è fermato sul marciapiede di fronte, nel tratto inondato dal sole e si è messo a mangiare le crepes.
All’inizio mi sono chiesta Ma che cavolo fa e poi ho capito. Vive.
Vive in quarantena chiuso in un bilocale dove non vede mai il sole, e prova a inventarsi momenti belli, piacevoli, divertenti, per quanto possibile.

Quinta settimana 6-12 aprile
Siamo costantemente sopra i 20° da giorni. Sembra di stare in piena estate.
E quando guardo le vetrine impolverate che proteggono manichini abbandonati, mi ritrovo a pensare “Eh sì è vero, una volta c’erano altri negozi aperti oltre ai supermercati“.
Una volta, circa tre settimane fa.

Vigilia di Pasqua
Sono andata in bagno per sistemarmi la mascherina prima di uscire e mi sono detta “No basta, per oggi basta così”. Mi sono tolta la mascherina che portavo dalla mattina e ho recuperato il rossetto, il Tom Ford delle grandi occasioni.
Non ce la facevo più a respirare dentro la maschera.
E dal momento che qui si può, sia uscire che farlo senza maschera, invece di munirmi di maschera mi sono munita di rossetto.
p.s. La gelateria australiana era aperta, e la voglia di normalità era tale che mi sono messa in fila anche io e me lo sono preso sto gelato. Non sono stata l’unica. Nel giro di 100 metri mi hanno fermato in tre per chiedermi dove l’avessi comperato. Tutti alla ricerca di un briciolo di normalità, di un come prima a cui aggrapparsi.

L’autrice:
Ilaria Battista è nata e cresciuta a Gorizia. Da sempre in cerca delle parole giuste, si e’ riappropriata del piacere di scrivere frequentando i corsi di scrittura creativa dall’Unitre di Cormons (Go).
Scrive, fotografa finestre illuminate e prova a immaginare la vita di improbabili inquilini.
Ha esposto le sue fotografie in varie mostre in Friuli Venezia Giulia e ha partecipato a numerose letture pubbliche.
Attualmente si trova a Bruxelles per fare delle ricerche in ambito giuridico.

 

 

 

 

Ti racconto       ————————–

Perchè io sono un bambino?/ Io sono.

Due testi

di Gabriele Via

 

Perché io sono un bambino?

Perché io sono un bambino?
Ho la barba, non sono più agile,
mia figlia è già donna,
i miei genitori sono in cielo,
ho conosciuto più di mezzo secolo di lune:
perché mai sono ancora un bambino?

Perché, quando ti metti in viaggio,
alla prima sosta per riposare i piedi
o rifornirti di acqua, hai ancora
tutta la riserva della tua temperante
conoscenza pratica del mondo e della vita.
Rinfranchi così il corpo,
controlli i tuoi strumenti,
consideri la mappa,
e calcoli il percorso per la dimora di sosta
che dovrai incontrare entro sera.
Così potrai lavarti, nutrirti e riposare,
in vista del successivo giorno
quando il tuo viaggio, appunto, proseguirà.

E se mai conserverai in te
la custodia prudente
della gioia, della felicità
dell’entusiasmo che -dici a te stesso-
proverai allora quando giungerai
a destinazione. Perché così si fa un viaggio.

Ma il bambino, viaggiando
poiché è sempre per mano al genitore,
guarda con gli occhi estatici dell’arrivo
già la prima fontana che incontra;
e rovescia la meraviglia del miracolo
nella contemplazione della farfalla
disturbata dal tuo polveroso passo
che dunque si alza dalla pietraia
e tinge di accecante indaco e cadmio
lo sguardo mobile che subito la perde
tra frumento e papaveri
o nelle indefinite ciglia mobili
delle miti avene
sull’orizzonte glauco del mezzogiorno.

Perché il bambino guarda il mondo e vede Dio;
e questo, amico un asinello
un angelo o un cane, sono io.

*

Io sono.

Io sono.
Perché io sono?
Perché non solo io?
Perché?
Io sono.
Io solo,
sono solo,
perché?

Dove trova spazio il sì, dove il no?

Io

Solo senza essere il sono io
che l’io non può non essere
solo qui
in un accidente di pagina
che chiaramente confonde
soddisfacendo esigenze analitiche
senza soggetto
all’arrembaggio illecito di oggetto
nella rete dei sì, nell’abisso dei no,
senza il respiro tornante di perché.

Dietro ogni ricamo narrato
dietro il discorso predicato
questa trama questo ordito

Faticosamente irriducibile
molecola spaccata
d’acqua resa
arido alfabeto formulato.

L’occhio del secondo giorno sul mondo
spaventato dalla vita
cerca il se stesso che dice se stesso
su nervi fragili di foglie rintracciato

Ma tu, anch’io tu,
piacere di contatto nutriente
sguardo, tocco, bacio, bevo
tu io
essere che sono, solo perché siamo.

La vita frontiera analitica della verità.

 

L’autore:
Gabriele Via è nato a Bologna nel 1968. Poeta, filosofo, cercatore.
Si esprime e ricerca in versi, in narrazioni, con la voce, e con la fotografia.
Ha pubblicato con Roberto Roversi, Roberto Pazzi, Elio Pecora, Nicola Muschitiello.
Ha pubblicato diversi titoli di poesia, un romanzo e figura in numerose antologie.
Dal 2014 ha creato una pagina Facebook in cui propone la poesia come terapia.

 

 

 

 

 

Immagini      —————————-

I feel strange

Otto lavori

di Kateřina Sidonová

 

 

Intervista a Kateřina Sidonová:

di Giovanni Fierro

In questi tue opere la donna è sempre la protagonista. Cosa c’è alla base di questa tua scelta?
Disegno e dipingo principalmente donne perché per me è più facile. Ho problemi con le figure e i volti maschili. Non riesco proprio a disegnare gli uomini. Almeno non nel modo che vorrei. Hanno sempre un qualcosa di strano. Ecco il perché.

I tuoi lavori si nutrono principalmente di colori brillanti (gli arancioni, i rossi, i gialli…), come mai?
Mi piacciono i colori vivaci. Mi piace l’arancione, il giallo più scuro e il rosso. E mi piace il blu. Mi piace essere circondata da questi colori.

In questo tuo fare arte c’è sempre un qualcuno o un qualcosa che è in movimento. E questo fa sì che i tuoi quadri non stiano mai fermi. Che tipo di movimento è? Un respiro? Una frazione di tempo? un pensiero? Un desiderio?…
Mi è stato detto che le mie immagini assomigliano a delle istantanee. Istantanee del momento. Proprio come un film che è stato stoppato, che è stato fermato. Ma alcuni lavori sono più decorativi, seguono un certo schema.

E proprio nel guardare questi tuoi lavori, qualcosa ‘succede’ subito, immediatamente (una sensazione, una emozione); poi, in seconda battuta, qualcos’altro arriva all’attenzione di chi guarda. È come se i tuoi quadri lavorassero in due tempi, in due fasi. Questa dinamica è un qualcosa che volevi già dall’inizio, dal momento in cui inizi a dipingerli?
Wow! Io non so cosa succede quando guardi i miei quadri. Ma questo mi stupisce, ne sono veramente contenta.
Le immagini che dipingo, allo stesso tempo mi piacciono e non mi piacciono. Non ci penso. E cerco anche di non pensarci mentre le sto creando. Spesso non so neanche cosa disegnerò quando inizio un nuovo lavoro. Semplicemente inizio a disegnare e il tutto viene fuori in modo abbastanza spontaneo. Non so cosa le mie immagini racconteranno o significheranno.
Quando mi prefiggo un tema ben preciso, poi l’immagine che ottengo è terribile, e finisce nel cestino.
Scrivevo storie e anche testi più lunghi, ma non mi hanno mai soddisfatto, perché sentivo che non ne stavo scrivendo la parte più importante, sentivo che la parte cruciale si perdeva, non la catturavo.
E neanche potevo sapere qual era questa parte così importante, proprio perché non ero capace di tradurla in parole, potevo solo ‘sentirla’.
Quando ho iniziato a disegnare mi sono accorta che stavo molto meglio, che stavo facendo uscire qualcosa da me che non poteva essere detta, e neanche scritta.

Ogni tuo dipinto mi ricorda un mosaico….
Sì, perché assemblo oggetti, ogni disegno è fatto da tanti e tanti componenti.

La tela, la carta su cui disegni, è sempre piena di soggetti e colori. Ci sono pochi spazi vuoti…
Amo le immagini dove non c’è quasi niente, o solo poche cose, hanno un grande impatto.
Ma i miei lavori sono pieni di cose e di persone. Nessun spazio vuoto. Non so perché.
Forse, visto che non so fare le cose semplici, faccio l’opposto. O forse perché quando ero una ragazzina avevo libri con le immagini dei quadri di Bosch, Botticelli, Escher, El Greco, e con mia madre le guardavamo e ne parlavamo.
La mia opera preferita era il ‘Purgatorio’ di Bosch, perché ci sono così tante storie nascoste lì dentro.

Tanti protagonisti dei tuoi lavori guardano fuori dal quadro, verso chi li sta osservando. Che mondo stanno vedendo? E quali sono i loro pensieri? Se è possibile saperlo….
Loro appartengono al nostro mondo. Vivono nei loro mondi all’interno del nostro.
Ad esempio, in uno di questi miei lavori ci sono delle piccole persone con i loro strani e bacati animali; vivono nel loro mondo fatto di funghi, ed è un mondo che esiste dentro il nostro mondo, solo che non siamo capaci di vederlo.
Ma poi non ci penso molto. Non ho una filosofia precisa quando si tratta delle mie opere, e sono una persona piuttosto realistica, con i piedi per terra.

Difatti le tue opere mi ricordano un qualcosa di onirico, ma con le radici ben piantate in profondità, nel terreno…
Oh sì, perfetto. È proprio ciò che stavo spiegando prima. Sì, sono realistica, ma sogno molto.

 

L’artista:
Kateřina Sidonová è nata nel 1964 a Praga, Repubblica Ceca.
Ha studiato educazione nell’ambito della disabilità infantile, e lavorato con bambini rom.
Dopo essere diventata madre di tre figli, ha iniziato a lavorare come traduttrice dall’inglese (narrativa e film). Ora è traduttrice freelance.
Ha pubblicato quattro libri, le fiabe di “Figlio dell’Albero”, l’autobiografica romanzata “Sono Katerina”, il romanzo “Jakub” e “Un giorno in classe 4.D”.
Ha esordito con la sua prima mostra personale sei anni fa, a Praga. A cui hanno fatto seguito altre diverse esposizioni, anche in altre città della Repubblica Ceca.
Collabora con la casa editrice polacca “Dowody na istnienie”, lavorando ad immagini utilizzate per le copertine dei libri da loro pubblicati (traduzioni in polacco di autori cechi, finora una decina).
Nel 2019 ha anche illustrato il libro “Rytec kamejà” dell’autore ceco Ivan Fala.

(Le opere di Kateřina Sidonová qui presentate sono ad inchiostro, su carta e su tela, e nei formati 30×57, 40×60 e 29×42 cm)

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Vieri Peroncini
Alessandro Salvi, Livio Caruso, Guido Cupani, Antonello Bifulco.

 

 

 

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