Fare Voci giugno 2020

 

Siamo giunti a giugno, a metà anno 2020, con un rinnovato desiderio di conoscere sempre nuove voci dell’attuale panorama culturale ed artistico.

Ad iniziare dalla nuova poesia italiana, con il debutto di Gisella Genna e il suo sorprendente “Quarta stella”, lo scrivere di Marilina Giaquinta, firma di qualità, e la poesia haiku del greco Gregory Papastergiou.

E un debutto è anche il primo cd degli Autostoppisti del Magico Sentiero, “Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia”, disco di raro fascino.

Continuano le narrazioni al tempo del coronavirus, con la videoclip “lanimagalla” di Andrea Tomasin con il suo progetto Alles Fett / Klaus da Krous, e Roberto Ferrari con Marco Opla Pasian, che trovano il proprio dire in “Assolo”.

Ed è bello incontrare di nuovo la narrazione dell’autrice albanese Mimoza Hysa, con il suo racconto”LIVE”.

Le immagini sono di Mauro Bendandi, con le sue “Rarefazioni” e le sue “Cosedicasa”.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail: farevoci@gmail.com)

 

 

 

 

Immagini           ————————–

Lampadario rosso

Cosedicasa

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

 

Voce d’autore        ————————–

Sera che si scioglie tra le dita

Gisella Genna, “Quarta stella”

di Giovanni Fierro

 

È una piacevole sorpresa questo esordio di Gisella Genna, che con la raccolta poetica “Quarta stella” mette in evidenza quanto ci sia di buono nella nuova poesia italiana.
Perché questo lavoro unisce una ricerca attenta e senza riparo ad una scrittura che sa mostrare il proprio estro e la propria virtù.
“Quarta stella” è un cammino, all’interno di un desiderio di identificazione, di costruzione di un sé necessario e a cui fare affidamento.
Il valore di questo libro è anche nell’evidenza di come il Tempo ne sia protagonista, fenomeno e avvenimento che si misura con l’anima, legame intimo e silenzioso con il vivere.
E in questa ricerca la cifra d’autrice di Gisella Genna trova la sua forma e la sua intensità, nel dire “ignora/ ciò che non tornerà del tempo/ insieme; più del passato/ è vero il cielo, il suo cobalto”, quasi a nutrire e a riconoscere ciò che poi si potrà chiamare memoria.
Importante è anche la dimensione onirica, che qui è luogo dove trovare la possibilità di una lettura approfondita, perché comunque l’attrito è sempre presente, a ricordare che “il sonno non è stato caldo, mai”. E allora ogni apprendimento ha un suo peso specifico, una sua provenienza, unica: “avevo compreso la vita/ ero pronta al perdono”.
Gisella Genna si confronta anche con la natura, manifestazione universale a cui fare riferimento, in ogni preciso momento della propria crescita, il suo respiro da riconoscere: “Pianura del sentire, aduniamo/ fibra e filamento arborei/ è il gesto nuovo, il solido fiato”.
“Quarta stella” è un laboratorio aperto dove le pagine accolgono il vissuto che ne è testimone, che può domandarsi “Dove sono stata, dove sono andati/ i soli che ora tornano”, e che sanno che “Resta nella cucina un tavolo/ e tutto intorno polvere”.
E a lettura conclusa, si può solo dire che lo scrivere è questa presenza che si raccoglie con le proprie mani, parola per parola.

 

 

Dal libro:

Sono nata un venerdì, giorno pari dell’inverno
gli anni sgranati una vertebra alla volta.
Tolgo briciole dalla tavola della colonia antica
della casa bianca nel prato del bosco
dove andavamo insieme ai grandi;
la rosa di mia madre è testimonianza
sera che si scioglie tra le dita.

*

Abbiamo spogliato il nostro estuario
ogni delta e rumore piegato
– qualcosa risponde ancora:
è richiamo, conosce l’io comune
invoca calma, appartenenza;
sentieri volgono
al punto intatto, fondo.
Pianura del sentire, aduniamo
fibra e filamento arborei
è il gesto nuovo, il solido fiato.

*

Ciò che ho reso meno nero
incide cime, è tuono o assenza
e il rigore di un agguato:
il tempo non è stato vero.

*

Eri solo, costretto nel tuo tempo e mi guardavi: ora dove sei? Lo schermo è la realtà fatta di faccende e cose da portare avanti. La gente che si sveglia, le luci nelle case la mattina presto. Si fanno i conti con quello che dice la notte, con quanto lasciamo andare.

 

 

Intervista a Gisella Genna:

Il passato, come memoria e come serie di eventi già accaduti, è parte fondamentale del libro. Quasi una realtà da cui, a fatica, ci si può liberare. Allora ti chiedo, che tempo è questo? (“Resta nella cucina un tavolo/ e tutto intorno polvere.”)
In effetti la prima sezione del libro parte proprio dal tema della memoria, del ritorno a quelle che sono le origini, per poi lasciare spazio, nei testi delle sezioni successive, a un presente dilatato dove, in alcuni versi, attraverso alcune immagini-vertigini torna il vissuto di altri tempi: “La lente del tempo che mi sfiora”.

E in questa contemplazione del tempo che è messo alle spalle, che valore prende allora il futuro?
Il futuro, soprattutto in un momento storico come quello che stiamo vivendo ora, si staglia ancor di più in una dimensione non ancora scritta. Quando cado nel facile meccanismo mentale della proiezione, mi sento per lo più travolta da paure e incertezze.
Ma sento che è proprio ora che si può provare a mettere in pratica l’insegnamento che le filosofie e discipline orientali indicano nel distacco, nel non attaccamento, cercando di rimanere ancorati il più possibile al presente. Pratica ovviamente ostica e dolorosa ma per me necessaria.

Un respiro onirico nutre questo tuo scrivere, a cui dona una certa ‘sospensione’. Eppure, in un passaggio scrivi che “Il sonno non è stato caldo, mai”, quasi a dire che anche la dimensione del sogno ha avuto una sua fatica, una sua lotta….
Più in generale direi che vengono gettate delle ombre tra verso e verso a indicare come nella vita ci siano zone/momenti, penso ad esempio all’infanzia, in cui manca l’abbraccio. Momenti in cui la resa non è possibile.

Anche la natura è molto importante e presente in queste pagine. Non come uno specchio con il quale guardarsi e scoprirsi, ma piuttosto come un desiderio di appartenenza. Può essere così? E se lo è, che appartenenza è quella che esplori, che metti in versi?
La fascinazione che la natura ha su di me è molto potente: contemplarla mi mette in relazione col senso del sacro. In lei cerco un’appartenenza a una sfera superiore. Ho sempre in mente la frase di Tiziano Terzani che, nella sua lettera in risposta all’articolo scritto da Oriana Fallaci all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, scrisse: “Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia”.
Può apparire come una frase semplice ma racchiude in sé il senso di ricerca di appartenenza che intendo.

La quarta sezione ha un respiro decisamente più narrativo, anche nella forma. Come mai questa decisione?
Ho iniziato a scrivere componimenti in versi e parallelamente ho scritto anche qualche breve racconto (uno di questi è stato pubblicato sul blog ‘Una casa sull’albero’), ma più di recente ho sentito che la formula della piccola prosa era più adatta e interessante per cercare di dare voce a testi che volevo avessero la forma della “lettera a un tu ideale”.
Non avrei potuto traslarli in versi, occorreva che unissi i due linguaggi, quello poetico e quello più narrativo.

A fine lettura mi è parsa netta la sensazione che la forza motrice di “Quarta stella” sia l’identificazione, ma anche la costruzione, di un ‘centro’, di un nucleo che possa essere la propria identità, il proprio stare e il proprio riconoscersi in questo nostro presente. Cosa ne pensi di questo?
Tutto quello che mi muove nella vita, da un ventennio circa, è la ricerca interiore e credo che questo si rifletta inevitabilmente nella scrittura; in ‘Quarta stella’ sono presenti testi che rimandano a questa ricerca di un centro, di un senso, di una verità. Il titolo stesso è un riferimento al quarto chakra, il chakra del cuore, quello centrale e ponte tra terra e spirito.

Questo è il tuo esordio. Quali le sensazioni avute dopo la pubblicazione del libro?
Penso che oggi sia fondamentale comprendere quanto senso si annidi nello spazio poetico e quale chance di ricerca interiore permette il verso.
È un grande onore potere lambire questo spazio in cui tutti gli umani si ritrovano, spogliati e semplificati, privi di confini e universali.

 

 

L’autrice:
Gisella Genna è nata nel 1973 a Milano, dove vive. Giornalista professionista, si occupa di moda.
Sue poesie sono state pubblicate sui blog “Una casa sull’albero”, “Atelier” e “Interno Poesia”.

(Gisella Genna “Quarta stella”, pp.66, 10 euro, InternoPoesia 2020)

 

 

 

 

Immagini         —————————

Sogno rarefatto

Rarefazioni

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

Tempo presente       ————————–

lanimagalla

Cronache nel tempo del coronavirus

Clip audio/video di Alles Fett / Klaus da Krous

 

lanimagalla’ la si può vedere ed ascoltare qui

 

 


L’autore:
Alles Fett è un progetto musicale di Andrea Tomasin, nato a fianco della poesia, a supporto della poesia, per creare un nuovo modo di rappresentarla ed esporla utilizzando la musica elettronica, le percussioni, i fiati, il field recording e lo spoken word.
Il reading si trasforma in una performance dove la parola è sostenuta dai sintetizzatori, dalle drum machines e da un gruppo variabile di musicisti chiamati “I Selvaggi Affamati“.
In più occasioni le composizioni sono create in collaborazione con Klaus da Krous, eclettico e misterioso artista Berlinese.
Ed è proprio da un beat creato dal tedesco che nasce “lanimagalla“, clip audio/video partorita durante gli strani e lunghi mesi del lock down.

 

 

 

 

Immagini       —————————

Rosae IV

Rarefazioni

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

Voce d’autore      ———————–

Non sbagliare il respiro

Sette poesie

di Marilina Giaquinta

 

 

Non fu una resa:
in primavera
il cuore zittùto e lasco
e intorcigliuto com’un carrubo
s’allesta a vivere come può.

Fu il lento cedimento
del sogno che si posa
su tutte le cose
che non si possono dire.

*

Adesso – forse – capisci
quando ti chiedevo
“stammi vicino”,
adesso che stare lontani
è l’unico modo per riuscire
a non sbagliare il respiro.

*

E stiamo.

Come quando
uno sbadiglio
pieno del sonno
che non cede
si trattiene negli occhi
e li serra forte
e li ara
e lilampìa
lacrimandoli
e sussultandoli
mentre la linea seria
della bocca
rimane immobile
come la notte.

*

Dove sei stato ?
che non ti ho visto
varcare nessuna soglia
neanche quella
del cammino noto
nessuna duna di sabbia
sottile come ogni destino.

Dove sei stato ?
che passi tuoi
non ho seguito
sul solco di terra
che cela alla vista
ogni intento di cuore
che respira attraverso
il tuo andare distinto
e che resiste
a te che non possiede.

E mi sento invocare
un ultimo istante di tempo
in cui, comunque sia,
qualcuno di noi
in qualche modo
oscuro all’altro
riuscirà a stare bene,
senza andarsi a riparare
con una lenta necessità
(inosservata ogni ragione)
dentro un prestito di pace.

*

Volevamo un’immagine
qualcosa facile d’apprendere
una visione precisa
che ci facesse capire
cosa accade quando
pensiamo di amare :
perché noi pensiamo
all’esercizio dell’amore
descriviamo l’uso
che facciamo del sentimento
ma non sappiamo altro.

Non avremmo dovuto :
le richieste sono
forme inestese
di eccezioni possibili
mentre noi siamo
parole cercate nell’altro
siamo parole senza prova
siamo attesa credula
di significato.

Siamo inganno
separato dal senso,
siamo il rumore del mondo.

Siamo amore senza saperlo.

*

Tenete a cura
coltellara è ‘a vita !
che taglia e ferro è
e assimènza cori!
e abballa e attaranta
senza friddu gelato!
e ti compàti e ammonzella
puri se ti criri scampato!

La seratina scuro fa
e lo scuro allorda l’occhi
e tu ti senti lupa
di fame e sintimento
impagliazzato il senso
e tutto lo criàto
cerchi ‘naprianza
all’armo ammustazzato.

E quannupens’atia
penso alla mano manca
penso a ‘sto travaglio
di pozzo di pensiero
penso e a torna appenso
e non m’arricoglie pace
che sola m’arrestai
co’ tutto ‘sto lamento.

*

Deve essere
che non c’è mai
una volta per tutte,
deve essere
che la verità basti
senza una certa eleganza,
deve essere
che si sta così
comunque e sempre
come sul punto d’amare,
deve essere
che ogni pensare
non abbia mai un fine,
deve essere
che la proporzione
che il tempo recupera
alle cose
non mostri sciancatura
e che l’urto
nella memoria
non faccia mai male,
deve essere
che il dubbio
abbia una forma
e che somigli
a un oggetto qualunque
che sta noto e fermo,
deve essere
che il suo volto
mi giunga prima
del mio sguardo
e che mi chieda
se sto bene
e se deve vivere
ancora senza di me.

 

 

Marilina Giaquinta, tenete a cura

di Giovanni Fierro

Si rimane colpiti dallo scrivere di Marilina Giaquinta. Per la sua capacità di esprimere la chiarezza della poesia, in cui riesce a trovare il limpido dire di ogni immagine.
E a questa capacità espressiva aggiunge sempre una vitalità della parola, a cui dà pulsione cardiaca; anche con l’uso del dialetto, “un dialetto inventato, che non esiste come lo scrivo io…”, che però le permette di trovare ancora di più riverbero ed autenticità.
Con già alcune pubblicazioni al suo attivo, Marilina Giaquinta in questi mesi sta dando vita all’esperienza della pagina facebook ‘Il passo svelto dell’amore’, da cui è tratta questa sua selezione.
Queste sette sue poesie sono una bella geografia poetica dove orientarsi, dove addentrarsi con fiducia e con la sicurezza di trovare sorpresa, testimonianza di necessità, dove “deve essere/ che non c’è mai/ una volta per tutte”; e indicazioni che sono semplicemente un invito a vivere, anche la poesia, perché “è l’unico modo per riuscire/ a non sbagliare il respiro”.
Qui, in queste sue parole che inventano uno spazio di accoglienza ed ascolto, è il corpo la pagina da leggere e da scrivere; è la possibilità di dialogo, sempre cercato, verso un qualcuno a cui rivolgersi, con cui creare una vicinanza, “dentro un prestito di pace”.

 

 

L’autrice:
Marilina Giaquinta è nata e vive a Catania.
Nel 2014 è uscito il suo primo libro, la raccolta poetica “Il passo svelto dell’amore”.
Ha pubblicato le raccolte di racconti “L’amore non sta in piedi” (2015) e “Malanotte” (2017).
Ha scritto sulla rivista “Sicilia in Rosa” e ha condotto programmi radiofonici.
È presente in antologie poetiche, “Umana Troppo Umana” e di narrativa, “Lettere a Maria Occhipinti” e “Undici, undici racconti per undici opere d’arte”.
In questi anni è stata presente in diversi incontri poetici, tra cui Roma, Napoli, Genova, Milano e Torino.
Malanotte” è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice tedesca Launenweber di Colonia.
La sua raccolta poetica più recente è “Addimora”, uscita nel 2019 per Manni editore.

Il suo canale Youtube è qui

Il passo svelto dell’amore

 

 

 

 

Immagini       —————————

Belle epoque

Rarefazioni

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

Voce d’autore       ———————–

Per un momento

Gregory Papastergiou, otto haiku/senryu

di Salvatore Cutrupi

 

La poesia haiku in questo mese di giugno fa tappa in Grecia e precisamente ad Atene, dal poeta Gregory Papastergiou.
Incontriamo un haijin che possiede un pensiero poetico di ampio respiro, in cui la leggerezza e la semplicità delle parole diventano forza, fiato, potenza.
Nei suoi lavori, Papastergiou si limita a mostrare ciò che vede senza interporre riflessioni, considerazioni, stati d’animo personali o idee che potrebbero contaminare la purezza dell’immagine fissata.
In soli 3 versi e 17 sillabe riesce a mostrarci non soltanto la bellezza della natura, nelle sue varie declinazioni, ma ci offre anche tratti di vita quotidiana che parlano della condizione umana, soprattutto di quella più fragile.
L’autore ci regala parecchi spunti che hanno i segni della compassione e della tenerezza, ma anche il sapore dell’ironia, dell’umorismo e della satira, elementi caratteristici di quella forma poetica affine all’haiku che prende il nome di Senryu (letteralmente “salice del fiume”).
E così accanto al gelsomino giallo e all’eucalipto troviamo il cantante di professione che al mattino canta da solo, e le fantasie della folla nel mare Egeo quando arriva l’estate.
Leggendo i componimenti di Gregory Papastergiou si può notare come lui riesca a tessere un collegamento tra il “qui e ora” della filosofia Zen orientale, dedita alla purezza del pensiero e alla meditazione, e l’idea del movimento, dell’azione e della razionalità, presenti nella cultura occidentale.

 

Gregory Papastergiou, otto haiku/senryu:

blue sky
nex to the lemontree
a yellow jasmine

cielo blu
accanto all’albero di limone
un gelsomino giallo

*

last night
the eucalypts did not sit
for a moment

ieri sera
l’eucalipto non si è seduto
per un momento

*

almost summer
all fantasies crowd
in Aegean sea

quasi estate
tutte le fantasie della folla
nel mare Egeo

*

empty church
every icon reflects the warmth
of thousands kisses

chiesa vuota
ogni icona riflette il calore
di migliaia di baci

*

two petunias please
and roses… many roses!!!
reopened flowers shop

due petunie prego
e rose… tante rose!!!
negozio di fiori riaperto

*

singing alone
in the morning – and in the evening
for tourists

cantando da solo
al mattino – e alla sera
per i turisti

*

staring at me
a cat with purple hair –
carnival metro

mi fissa
un gatto con i peli viola –
metropolitana a carnevale

*

good news!
the florist’s son flirts
with their employee

buone notizie!
il figlio del fioraio flirta
con la loro dipendente

 

 

Intervista a Gregory Papastergiou:

I poeti tradizionali greci, in genere, nei loro componimenti, esaltano gli atti eroici, il ricordo delle divinità, l’importanza degli ideali che parlano di verità e giustizia, mentre la bellezza della natura resta in secondo piano e funge spesso solo da sfondo ai loro sentimenti. Come si avvicinano oggi i poeti greci moderni alla purezza, bellezza e semplicità della poetica haiku?
Bene, la verità è che la Grecia ha un grande background letterario dagli anni antichi ai giorni nostri, con i due premi Nobel per la letteratura conferiti a Odysseas Elytis e Giorgos Seferis.
In realtà Seferis aveva pubblicato un libro con i suoi haiku ed Elytis adorava scrivere poesie sulla bellezza del Mediterraneo, le isole, il Mar Egeo.
I nuovi poeti greci sono molto interessati all’haiku e ci sono molti gruppi che lo praticano. Inoltre, alcuni poeti prendono in prestito la forma 5-7-5 e scrivono poesie e micropoesia classiche.
Ma ora tutti in Grecia imparano di più sull’haiku e di questo ne siamo entusiasti.
L’ambasciata del Giappone organizza un concorso di haiku ogni anno e si possono vedere molte belle poesie.

Le caratteristiche e le regole fondamentali dell’haiku classico resistono allo scorrere del tempo. Tuttavia ci sono molti poeti moderni che omettono il riferimento stagionale (kigo), indispensabile nell’haiku tradizionale e si soffermano sulla quotidianità delle vicende umane. Quale è la tua posizione riguardo a questo mutamento?
Sì, questo è quello che io faccio di solito! Le questioni umane sono una grande fonte d’ispirazione per me. Mi piace scavare nella psicosintesi umana, alla ricerca di momenti che mostrano le molte stanze dell’animo umano. Ecco perché scrivo più senryu. L’haiku con kigo ha la sua bellezza classica di tutti i tempi, ed è molto richiesto per la pubblicazione in riviste e nei concorsi.
Scrivo haiku ma non così spesso come i senryu.

Molti studiosi sostengono che nelle poesie haiku non bisognerebbe enfatizzare le esperienze personali oppure usare metafore, allegorie, similitudini e simbolismi. Altri studiosi sostengono che senza queste figure l’haiku non sempre riesce a trasmettere l’intensità dello stato d’animo e la profondità di pensiero del poeta, come accade nelle poesie classiche. Quale la tua opinione su questo tema?
Penso che prima di tutto un haiku debba essere semplice. Puoi essere semplice anche se usi metafore e similitudini. Ma dico di no all’uso di allegorie e di simbolismi. Devi mostrare un’immagine chiara e realistica. Altrimenti, perdiamo la semplicità e la bellezza di un momento vissuto.

Perché, secondo te, è importante scrivere haiku in questo tempo pieno di paure e di tristezza?
Penso che scrivere l’haiku offra gioia e soddisfazione psichiche uniche. Le immagini della natura sono molto rilassanti e stimolanti. Gli haiku possono essere anche un diario della tua vita, con i momenti magici che ti hanno molto impressionato. E’ qualcosa di pratico. Mantengono la tua mente energica e fresca.
La cosa bella è che tutti possono scrivere un haiku. Si passa da cose più semplici e divertenti a poesie davvero serie, e ogni scrittore di livello può viverne la soddisfazione.

Parecchi tuoi haiku sono senza kigo e inoltre sono a sfondo ironico, satirico, umoristico; si può dire certamente che sono degli ottimi Senryu. A quale delle due forme poetiche ti senti più vicino e perché?
Grazie per le tue gentili parole. Come hai detto, mi piace scrivere poesie satiriche con uno strano senso dell’umorismo. La mia fonte d’ispirazione sono le esperienze quotidiane e le situazioni strane che incontro. L’umorismo e l’ironia sono aspetti della realtà divertenti e rilassanti.
E gli accadimenti umani sono certamente molto interessanti per essere esplorati!
Scrivo anche haiku di tanto in tanto, dopo una bella pioggia o accanto ad un lago. Non si può resistere alla bellezza della natura.
Haiku e Senryu penso che siano le due facce di una stessa moneta; e tutto ruota intorno a quel momento magico, alla fotografia di un singolo attimo.

 

 


L’autore:
Gregory Papastergiou vive in Grecia, ad Atene.
Ha lavorato in un’agenzia pubblicitaria come copywriter, ma durante la grande crisi finanziaria del 2010 ha cambiato lavoro e dopo aver intrapreso gli studi specifici oggi è un infermiere.
Si ricorda di avere scritto poesie da quando era un bambino, e soprattutto haiku in questi ultimi dieci anni.
È in costante contatto con poeti di tutto il mondo e condivide con loro idee e conoscenze.

 

 

 

 

Immagini       ————————–

Lampadario oro

Cosedicasa

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

Le altre note         ————————

“Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia”

Autostoppisti del Magico Sentiero, il cd

di Giovanni Fierro

 

Era un viaggio che andava fatto. C’era bisogno di esplorare nuove rotte, alcune da inventare ed altre già immaginate.
C’era però il bisogno di farlo con qualcosa di diverso, che non negasse il cammino fatto sin qui, ma che poteva trovare altre sfumature e diverse possibili forme.
Ed è quello che ha fatto il musicista Fabrizio Citossi (alla chitarra e autore delle composizioni), assieme all’inseparabile Franco Polentarutti, con il nuovo gruppo Autostoppisti del Magico Sentiero, formazione che annovera nomi di primissimo livello, come Giancarlo Schiaffini al trombone, Giovanni Maier al double bass, Federico Sbaiz al ghost piano, Martin O Loughlin al didgeridoo e lo scrittore Angelo Floramo alle letture dei testi.
Come prima cifra stilistica colpisce l’unità corale dell’ensemble, che dà ulteriore valore a queste cinque canzoni/composizioni che formano l’album. Album che ha tra gli spunti vitali anche il libro “Le vie dei canti” di Chatwin, che sono gli inserti letterari qui letti e declamati, assieme ad un testo scritto dallo stesso Citossi.
Mezzora di musica e storie che sanciscono un ulteriore passo in avanti – e diversi a lato – rispetto al precedente progetto, i blasonati Rive No Tocje, formazione che in studio e dal vivo aveva già dato tante soddisfazioni ai nostri.
Nota di merito anche al lavoro grafico di Annarita De Conti, che arricchisce ulteriormente l’immaginario di questo progetto.

Il cd
Il lavoro è composto da paesaggi sonori che della forma canzone mantengono solo la scarnificata spina dorsale della chitarra di Citossi, mai così blues. Paesaggi dove la sensibilità dell’espressione jazz trova nuovi orizzonti e preziose invenzioni. In un incontro tra questi due approcci musicali che ha permesso di costruire un tessuto nato per ospitare storie e visioni.
Trenta minuti nel tempo che ci vede tutti coinvolti, nelle geografie che si possono indovinare, in questa società che sempre di più si attorciglia e toglie il fiato.
“Mongolian river” è già un classico, ad aprire il nuovo percorso, con il visionario trombone di Schiaffini dilatato nel suo suonare, in cerca di lontananze e mormorio viscerale. Giovanni Maier pulsa leggero ma deciso al double bass, fa girare il sangue, e il didgeridoo di O Loughlin è un magnete di intonazione (qualità che lo conduce protagonista in tutto il disco), e Floramo che recita “All’interno di una televendita ho trovato la chiave giusta nel mazzo di opportunità che mi offre la vita” e “Steso all’ombra di un altare di pietra arenaria scrivendo versi obliqui colpisco una traversa pasoliniana ad effetto”. È un lamento, mai banale.
Con il successivo pezzo Schiaffini fa diventare il suo trombone ancora più delicato, e alza lo sguardo ben dentro le viscere dela la città, la chitarra di Citossi è una tessitura di memoria e oggi, Giovanni Maier fa diventare il ritmo viscoso, su note che ritornano sempre, quasi un girotondo per adulti, e il mantra a voce alta è il titolo stesso: “La città è un ovile sovrapposto ad un giardino”.
E poi arriva “Paleoword”, ingarbugliata, si contorce, costruisce nodi e li disfa, gli strumenti sono in libertà, ma nulla sfugge e tutto è trattenuto e mostrato, ben oltre al fior di pelle; un magma sonoro stratificato nel tempo è la voce di Franco Polentarutti che ipotizza vocalizzi e pronunce di lingue e linguaggi sconosciuti da custodire.
“Bilanciamento di inerzia e tra ordine contrapposti” ha il giusto piglio eclettico, si muove su più territori, il didgeridoo è un volano di suono, un attrito che misura i passi e le parole, le note e i rimandi, tutto si intreccia ancora di più.
A chiudere arriva “Stanzialità intesa come bene di consumo”, cammino all’interno di nevrosi e malattie della nostra società; tutti gli strumenti spingono nei loro suoni, li mostrano con forza e li portano al fiorire dell’intensità. E Floramo dà fiducia alle parole di Chatwin di cui abbiamo bisogno: “Gli orientali però mantengono vivo un concetto un tempo universale: che la vita errabonda ristabilisce l’armonia originaria che esisteva una volta tra l’uomo e l’universo”. Benvenuti.

 

Intervista a Fabrizio Citossi:

Da cosa nasce questo progetto e come si è sviluppato?
Questo è un progetto nato quasi per caso… qualche anno fa ricevetti in regalo da un amica il bel libro di Bruce Chatwin ‘Le vie dei canti’… me ne appassionai alle fantastiche avventure descritte dall’autore sin da subito, e quindi lo lessi e rilessi più volte, alcuni passaggi in particolare, cercando di trovare un filo conduttore tra le varie parti, poi lo abbandonai.
Nel frattempo avevo sviluppato e rifinito delle composizioni strumentali legate al blues, al jazz e all’improvvisazione più in generale. E senza che niente o nessuno influenzasse l’unione tra queste due cose, la lettura del libro e le nuove composizioni, è avvenuta invece autonomamente… come una sorta di processo compositivo basato sul caos… la casualità.

A differenza del percorso musicale precedente, qui la forma canzone praticamente non c’è. È stata una scelta di base per l’intero progetto?
La forma canzone che ha contraddistinto i nostri lavori precedenti era paradossalmente la cosa che meno in assoluto stavamo cercando… sin dall’inizio del nostro sodalizio artistico io e Franco abbiamo cercato di costruire un connubio non ovvio tra musica e parole… una sorta di limbo dove farle incontrare, senza che nessuna delle due prevalesse sull’altra. In questo caso credo che, dopo anni di tentativi, siamo riusciti nel nostro intento… riconosco in questo lavoro una sorta di equilibrio bizzarro ma efficace.
Credo che una sorta di pianificazione praticamente inesistente abbia favorito il processo di sintesi tra le parti, in modo spontaneo e allo stesso tempo complesso.

Mi sembra che ci sia un grande desiderio di raccontare la nostra società, pur usando visionarietà e azzardando possibili nuove realtà. È così?
C’è una vera e propria necessità di arrivare a trarre delle conclusioni, rispetto agli scenari sociali che ci si parano dinnanzi… diciamo che i passi tratti da Chatwin sembrano delle vere e proprie sentenze definitive sulla nascita della società stessa, sulle forme di assoggettamento e coercizione che ci hanno condotti a pascolare nell’attuale.
Siamo andati a cercare quanto di più semplice e diretto ci fosse a disposizione, per essere quanto più diretti possibile… “Mongolian River”, l’unico testo scritto dal sottoscritto, è invece una sorta di viaggio onirico alla ricerca di risposte nelle immensità desertiche della steppa.. come se il quesito stesso fosse il propellente, e una volta esaurita la ricerca stessa, pur non compiuta, in effetti diventasse superflua…

Questi paesaggi ospitano racconti e narrazioni. È l’invito per ognuno di noi ad essere così, a sviluppare l’ascolto del raccontare altrui?
Riconosco una sorta di necessità oggi ad aggrapparsi a racconti e narrazioni altrui per poi svilupparle… la mancanza di possibilità di fruire di avventure reali e soddisfacenti, che non siano acquistabili in quello che è il labirinto che la modernità ha costruito attorno a noi, e che ci permette di avventurarci solo all’interno della società e non fuori, perché un fuori non esiste più…
Questo ci porta inevitabilmente a fare i conti con la nostra immaginazione, e quella altrui, come unica forma di evasione.

L’anima blues è la spina dorsale di tutto il lavoro. Il tuo lavoro alla chitarra, quindi, ha scavato ulteriormente nella necessità d’espressione?
Il blues che rappresenta indubbiamente l’ossatura di questo disco è un blues sezionato, distrutto e ricomposto… non potremmo suonare in modo canonico questo genere perché non ne siamo capaci. Questa sorta di disabilità sonora ci permette però di avventurarci senza paura in territori poco battuti. A tratti il blues si liquefa e diventa improvvisazione a tutti gli effetti… l’ascolto continuo di musica jazz e l’apporto al disco di due mostri sacri del jazz europeo come Schiaffini e Maier ha determinato uno sbilanciamento netto verso quest’ultimo genere..

Tutto il disco è sempre un incontro, e mai un ingorgo, di suoni e timbri, di espressioni ed appartenenze. Come si è costruito in fase di registrazione?
La registrazione è avvenuta tramite successive sovra incisioni, distanti tra loro nel tempo. Ad esempio alle chitarre, che sono state registrate per prime l’inverno scorso, è seguita la voce nel periodo di Pasqua; mentre il contrabbasso è arrivato in studio a fine primavera… il trombone ha detto la sua all’inizio dell’estate, mentre didgeridoo, piano e sintetizzatore sono stati gli ultimi ad apparire, in autunno inoltrato.
Quindi grandi spazi e grandi respiri fra le parti… l’unico a non respirare ero io, che ovviamente sino a lavoro concluso dovevo fare da collante al tutto, con dosi massicce di ansia ansiogena e ansimante attesa.

Come si lavora a livello musicale, per dare ancora più importanza alle parole, qui pronunciate e non cantate, per sottolineare il loro significato e il loro narrare?
Fondamentale è stata la capacità di Angelo Floramo nel dare senso al tutto, rientrando sì all’ interno delle composizioni, ma facendole respirare tramite l’arte samurai di conferire potere alla parola, attraverso un respiro potente, una dizione perfetta che rivela la forza del verbo a prescindere dai significati…
È stato un vero onore poter assistere alle registrazioni vocali, che mi hanno fatto assaporare una maestria ed una eleganza veramente rare.
Le composizioni musicali sembravano calzare a pennello con le parti recitate, senza alcuna forzatura…. mi ripeto, ma il lavoro è uscito quasi casualmente così…

Chatwin e la Beat Generation, mi sembra, sono un punto di riferimento prezioso per questo lavoro. Perché’? cosa c’è in loro di così importante?
L’importanza della Beat Generation pervade l’intera opera di Rive No Tocje…. senza “Mexico city blues” non avremmo mai cominciato a sperimentare cose di questo tipo.
Più in generale, anche la lettura di testi storici, filosofici e religiosi ha contribuito a determinare e a forgiare il nostro stile. Per quanto mi riguarda, in puro stile beat mi piacerebbe poter musicare le ricette della nonna, se il farlo potesse in qualche modo contribuire a far viaggiare con la mente l’ascoltatore… in questo senso ritengo che a volte in cose banali si possono trovare delle verità fondamentali. Senza voler cadere nella retorica new age, ovviamente…

E i Rive No Tocje?
Rive No Tocje in effetti è un capitolo chiuso… ora, con una formazione che comprende Martin O Loughlin al didgeridoo, Marco Tomasin alla tromba e Marco Fumis alla batteria, ci stiamo avventurando come Autostoppisti del Magico Sentiero verso lidi inesplorati, che contaminano elettronica, jazz, urla, fender rhodes e Pasolini, in un tutt’uno stonato, impreciso curioso e musicalmente pericoloso (per noi)…
Il prossimo sarà un disco che definire sperimentale potrebbe risultare buonista… l’apporto di tante voci appartenenti ai più validi poeti friulani ed emiliani definirà un lavoro che, essendo ancora in fase di definizione, posso solo dire coraggioso ed inascoltabile ai più… grandi nomi del jazz italiano e dell’elettronica saranno ospiti di questo nuovo progetto, che vedrà la luce per la fine dell’anno.
Nel frattempo ci auguriamo di poter presentare dal vivo “Sovrapposizione di antropologia e zootecnia” e riuscire così a vendere qualche cd per riuscire a sbarcare il lunario….

 

https://autostoppistidelmagicosentiero.bandcamp.com/

www.newmodellabel.com

(le foto sono di Luca D’Agostino)

 

 

 

 

Immagini        —————————

Il sonno della contessa

Rarefazioni

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

Tempo presente       ———————–

Assolo, per un attimo

Cronache nel tempo del coronavirus

di Roberto Ferrari

 

signore, tu che ti nascondi
sotto le radici dei piedi
indagando le nuvole
e schizzando parallelo
al cielo d’aprile
dammi, se sei capace, se lo desideri
se lo ritieni opportuno
l’intelligenza di Bob Dylan
che sovrasta di tutte le misure
il mio cervellino piccino picciò
che racconta assenze
e presenze vane
che si raggomitola
senza decenza nel mistero
di sé stesso misterioso
dammi il sapore
del cavolo al vapore
rallegra la mia tavola
in vita e anche dopo
dammi il colore del camaleonte
sempre se puoi, se sei dell’idea
se non ti arrabbi
perché non vorrei farti arrabbiare,
signore mio e non solo mio
signore, raccogli la miseria
del mio racconto
e scusami, se chiedo
chiedere
è la sola cosa che rimane
dammi la passione di Allen Ginsberg
dammi solo un misero grammo
del suo prato di germogli
dammi parole
me ne bastano soltanto
sette miliardi e mezzo
una per ogni umano della terra
per i defunti
ti giuro,
ci sarà il silenzio radio
dammi, per favore, ti scongiuro
un solo fazzoletto
degli ossi di Eugenio Montale
signore, che il mondo adora
dammi, quando vorrai, se potrai
un posto dove
cullare la mia paura
non posso passare direttamente
alla cassa
lo sai bene,
ti chiedo tutto questo gratis
come nell’internet la posta elettrica
regala un mondo nuovo
a chi vuoi, magari a me
nascondi
solo per un attimo
che dura settanta volte l’eternità
la malattia, il dolore
e anche l’universo
mostra, signore
la tua carezza
dammi il desiderio di Jim Morrison
dammi un solo secondo
di Federico Tavan
anche soltanto la sua caffettiera
berrò liquidi neri
da oggi in poi
nella confusione deliziosa
della tua assoluta
assenza di rumori

 

 

Roberto Ferrari, Marco Opla Pasian, “Assolo”

di Giovanni Fierro

 

Il testo “Assolo, per un attimo” che si può leggere più in alto, è stato pubblicato dallo stesso Roberto Ferrari sul proprio profilo facebook.
E questa azione, oltre a far conoscere la qualità del suo scritto, è stato anche un qualcosa di importante, che in un tempo delicato come quello che stiamo passando, immersi in questa pandemia che tutto coinvolge ed assorbe, ha dato vicinanza e spunto artistico a molte persone.
Ma ad una persona in particolare, Marco Opla Pasian, caro amico di Ferrari, che su di un proprio quadernetto ha iniziato a trascrivere a mano le varie frasi della poesia, illustrandole con suoi disegni.
Di fatto ha creato un libro d’artista, in copia unica, il cui pdf ora lo si può scaricare sul sito dell’editore Qudu di Bologna. Il libretto è “Assolo”.

 

Intervista a Marco Opla Pasian:

Cosa ha significato vivere il testo di Roberto Ferrari in questo periodo così particolare?
Appena letto il testo di Roberto che ha condiviso su facebook, oltre a vederne la coraggiosa avventura di un racconto in mezzo la tempesta, ho sentito la tenacia di comandante (sarà che il Ferrari è il ‘Presidente’ dei Benandanti) che urla di tenere duro e attrezzarsi per le onde alte.
E allora sono uscito dalla cambusa della nave perché ho capito che c’era bisogno di riunirsi, anche se fisicamente distanti, avevamo bisogno di una pacca sulla spalla, di un ‘goto de vin’ da bere insieme.

E trasformare le sue parole in immagini?
Nei primi giorni di chiusura mi sono imposto di disegnare nei miei soliti piccoli quaderni, ma i paesaggi a biro che realizzavo mi parevano privi di orizzonti narrativi, disegni smarriti.
La poesia di Roberto è stata invece un lampo, mi ha suggerito di disegnare ancora e inserire in questi paesaggi delle nuove forme di vita, animali mai visti pronti a nuove emozioni ad inventarsi una vita, e le parole del testo si muovono nei disegni senza particolari riferimenti ma come colonna sonora pulsante, forte e trainante.

Cosa rimane adesso di tutto questo?
Anche se il quaderno con la poesia è un oggetto unico fatto a mano, ho voluto avesse la veste di un vero e proprio prodotto editoriale, con frontespizio, colophon e testi critici (di Patrizia Dughero, Paola Bistrot e Piero Simon Ostan) e con una distribuzione digitale a cura di QuduLibri.
Cosa rimane: un gesto collettivo, un tessere relazioni nonostante tutto, un dono, l’amicizia e tante altre cose che non ci serve dire.

Assolo” lo si può scaricare gratuitamente qui

 

 

gli autori:

Roberto Ferrari è nato a Gorizia e attualmente vive a Fossalta di Portogruaro (Venezia).
È tra i fondatori dell’Associazione Culturale Porto dei Benandanti di Portogruaro, con cui organizza e coordina la manifestazione poetica e letteraria “Notturni di Versi – Piccolo festival della poesia e delle arti notturne”.
Per la casa editrice Qudu libri di Bologna ha pubblicato nel 2014 la raccolta poetica “Alberi binari” e curato le due antologie poetiche “Non ti curar di me se il cuor ti manca 1” (2015) e “Non ti curar di me se il cuor ti manca 2” (2016).
La sua pubblicazione più recente è la plaquette “Vin, Sikh e Soldai”, uscita per Qudu nel 2018.

 

Marco Pasian (Marco Opla) è nato a Roma (’62) e si è laureato presso lo I.U.A.V. di Venezia, architetto libero professionista, si occupa di network culturali ed è attivo come concept-designer.
Vive e lavora a Portogruaro, Venezia. Esordisce come artista postale e musicista e nel 2000 assieme a Giorgio Chiarello fonda e dirige il gruppo di ricerca indipendente OPLA+ con cui realizza principalmente installazioni ambientali. Lavora spesso con immagini da Google Street View e con le poesie di autori amici.

 

 

 

 

Immagini          ————————–

Cintura

Cosedicasa

di Mauro Bendandi

 

 

 

 

Ti racconto         ————————–

LIVE

Una storia

di Mimoza Hysa

Il mio più grande cruccio di quella mattina era quello che proprio mia madre mi aveva tradito. Chi se lo aspetta il tradimento della propria madre. Non doveva fare quella idiozia quella mattina. Era fuori luogo. E pensare che spesso mi aveva aiutato e salvato nei momenti difficili. Ma eccola qui, oggi aveva perso tutti i punti. Come se non li avesse mai guadagnati.

Oggi il cellulare squillava in continuazione, dovevo correre trattenendo il fiato e contemporaneamente fingere di essere serena e riposata. Dunque, una contraddizione per la quale serviva un supporto. Una sottile mediazione che andava costruita. Il mio supporto era lei. Colei che aveva trovato il giorno, quando a me stava crollando il mondo addosso, di MORIRE!

L’ho trovata in cucina, adagiata sulla poltrona, con occhi chiusi. Sembrava che dormisse. L’ho strattonata perché non mi aveva stirato l’abito per l’edizione mattutina. Lei non si riprese. L’ho strattonata di nuovo con più forza e impazienza. Ma lei aveva scelto, ahimè, di morire! Con nessun preavviso! Aveva scelto di lasciarmi nei pasticci. Non avevo nemmeno il tempo di pensare a lungo. Quel giorno arrivava il presidente di un grande paese in uno studio come il nostro, dove al massimo era entrata gente come il proprietario panciuto e politici vicini di casa, compagni dalle scuole elementari e analisti. Le notizie che avrei dato, avrebbero sconfinato ben oltre il quartiere, la città, il paese…si sarebbero sparse nell’aria per poi raggiungere un cerchio più ampio e da tutti io sarei stata vista Realizzata!

Così ho fatto in fretta l’unica cosa che potevo fare in quel momento, prima che si svegliassero i miei figli, prima delle urla, prima che l’avvilimento salisse le scale, prima delle telefonate impazzite, prima che la notizia si diffondesse, come le notizie che io stessa avrei trasmesso.

E se la notizia si diffonde, non c’è più ritorno. È un ciclone che ti travolge. E io quel giorno l’avevo atteso da molto! L’ho avvolta velocemente con una coperta. Non l’aveva usata la notte. Aveva atteso l’alba lì. Non aveva dormito proprio. Ma io dovevo fermare il pensiero e il ragionamento per qualcosa che non trovava il suo tempo adesso. Spazzare via quel vortice melanconico che ti porta guai. In fondo, moriremo tutti un giorno. Da sempre avevo saputo scegliere quello che serviva e il momento adatto. Avevo saputo cogliere l’occasione. Ciò era considerato l’intelligenza del tempo. E io ero una donna moderna. L’occasione va presa per i capelli in questo mondo che ruota vertiginosamente. Per questo non potevo perderla. L’ho avvolta tutta, colei che in quel momento mi disturbava, che all’improvviso si era trasformata in un ostacolo, e ho aperto il divano lì vicino.

Non dovevo fare rumore, non dovevo far uscire la notizia più lontano di un metro dal pavimento e delle quattro mura della stanza e l’ho messa a dormire nel cassetto inferiore dove tenevo le trapunte. Lì sarebbe stata comoda e morbida e mi avrebbe aspettata. Lo aveva fatto per una vita intera, perché non avrebbe dovuto farlo anche oggi che era più che indispensabile?

Dopo essermi liberata dell’ostacolo, mi precipitai verso il ferro da stiro quando in cucina spuntò mia figlia piccola. E la nonna dov’è? È andata a incontrare il destino. Come il destino? Non è tempo di domande, le ho detto. Glielo dicevo ogni mattina prima di imbacuccarla, di riempirle la bocca di cibo, di farla pisciare, di lavarla, di appenderle lo zaino sulla schiena e quando sentivo il clacson dello scuolabus, di spingerla per le scale, ah, di darle anche il bacio: buon ritorno, buona giornata, in bocca al lupo e cose di questo genere…a memoria, nella mia vita a memoria, fino a quando avrei tolto anche quel disagio e l’occuparmene velocemente, con la scelta dell’abito da indossare. Di gettare tutte le opportunità dentro la macchina e di portare anche la testa con me, insieme al pettine, suonando il clacson con tutta la forza e, finalmente, schiantarmi sulla porta della sede televisiva. Lì si trovavano persone che avrebbero preso la mia testa e l’avrebbero resa degna delle luci, avrebbero sistemato il mio corpo con la selezione dell’ordine, l’avrebbero bombardato con parole che filavano giuste, che avrei dovuto pronunciare in una catena logica inarrestabile, e alla fine la mia macchina si sarebbe messa a funzionare, come doveva, dove doveva, e, perbacco, nessuna pecca sarebbe rimasta scoperta, in nessuna falla si poteva intrufolare l’anima. E oggi è un giorno in primo piano, dove la perfezione tuonerà dallo schermo, farà incollare gli occhi dei vagabondi, dei dormiglioni, degli impreparati, dei curiosi, degli ignoranti e degli esperti oltre il limite richiesto, perché è importante il limite, non devi esserne né inferiore e né superiore…non si deve lasciare aperta nessuna falla dove si può aggrappare il lurido tonfo della critica, soprattutto oggi, quando porgo la mano prima al ministro della difesa, e non posso stringerla a lungo, perché ci sono altri più importanti di lui che vengono nel mio studio dalla cima del mondo, con una luminosità estera, gente estera, mondo estero, che scavano la politica dentro la mia mente e il mio corpo, proprio dentro.

Non mi è rimasto neanche un briciolo di forza per riuscire a sentire al di fuori di tutto questo e di questo mio giorno…fino alle notizie di coda, fino a quando si chiuderanno tutti gli occhi curiosi e il mio occhio un po’ rugoso ai suoi lati, stanco di osservare lo getteranno nella macchina aziendale, mi appoggeranno la testa sul sedile posteriore per potere sonnecchiare e per non avere tempo di pensare al riposo, perché sarà il riposo a pensare a me.

Così tutto a casa è stato fatto grazie al denaro. Mia figlia ha scritto, ha studiato, ha cantato, ha pianto sotto i miei ordini dal cellulare e ora le sto facendo l’ultimo servizio che mi tocca, avvolgerla nella trapunta e lasciarmi andare di fronte a lei russando, perché ce l’ho fatta.
Nella tarda cena degli uomini di stato, di sfuggita ci sarà posto anche per la mia faccia nella memoria e negli occhi di tutti. Ci saranno rimasti angoli delle mie labbra nel fiume delle notizie. Il riposo come la fatica è indispensabile per potere appianare le rughettine incoscienti attorno agli occhi e il ripiegamento delle labbra. E quando nel buio furtivo della notte la mente si precipita a tornare indietro e di occuparsi di LEI, persona o memoria, è già domani…ma si svuota della notizia già durante la notte…con schiamazzi e chiamate al telefono che tutti si sono ribaltati dal letto, anche quelli del piano di sopra, anche quelli del piano di sotto, anche la montagna affianco e quella di fronte, e dai miei occhi gorgheggia tutto ciò che accadde, con lo stesso vortice del ciclone.

Io analizzo l’accaduto e lo metto in ordine: all’inizio la notizia di politica, nazionale ed estera, poi la cultura e per concludere lo sport. Io srotolo l’ammasso aggrovigliato che prende a sassate la nostra mente. E in questo ordine non c’entra la vicenda personale di mia madre. Per questo rifiuto categoricamente di pensare a lei, decido con risolutezza che lei deve attendere, perché è la persona a me più vicina e si può sacrificare anche dopo la sua morte, mi può capire, perché, in fondo, nessuno ha il diritto di interrompere il mio andare, questo lo posso esercitare soltanto io.

Io deciderò il tempo della sua morte e il giorno del suo funerale. Quando mia madre diventerà per me una notizia. Ma quel giorno non ci sono a casa nemmeno io. È invasa da poliziotti, da vigili del fuoco e medici. Questa volta tocca a me dare la notizia più strana e straordinaria, quella che a volte viene trasmessa prima della politica, prima della marcia dei ministri alle cerimonie e delle riunioni legislative parlamentari.

Così come l’ho già pensato, mia madre è diventata notizia, ora sì che può morire e io trasmetterò apertamente, con quattrocento possibilità di come qualcuno può morire, con quel tale nome, in un giorno che solo il medico legale lo potrà sapere e scoprire, di come marcì da qualche parte all’interno di un divano, con lo stupore di tutto il mondo e di come lo ha scoperto il traditore Gim, il bulldog ficcanaso del vicino, che non conosceva la notizia e il suo tempo, ed entrò furtivamente nella mia casa.

Tuttavia, questa volta altri, più importanti e più esperti di me si occuperanno di lei, mia madre, che voleva scavalcare sempre tutti e decidere da sola, all’improvviso e di punto in bianco, in un giorno fondamentale per me e così fuori luogo per lei, di MORIRE. Ora sì, ora è il suo turno e io posso occuparmi di lei LIVE.

(La traduzione in italiano del testo di Mimoza Hysa è di Griselda Doka)

 

 

L’autrice:
Mimoza Hysa, traduttrice, scrittrice e ricercatrice albanese, è nata a Tirana nel 1967.
Ha tradotto in lingua albanese oltre trenta opere di importanti autori di letteratura italiana, come Giacomo Leopardi, Dino Buzzati, Eugenio Montale, Antonio Tabucchi e Claudio Magris.
È autrice di quattro volumi in prosa: “Il tempo del vento“, romanzo, 2004, “La decisione”, racconti, 2007, “Storia senza nomi“, romanzo, 2008, e ultimamente il romanzo molto apprezzato dalla critica: “Le figlie del generale”, 2019.
È vincitrice di numerosi premi nazionali e internazionali come: premio “Kuteli” per il miglior racconto, assegnato dal giornale letterario “FjalA”, 2014; concorso “Europa, la nostra patria comune” con il romanzo “Il tempo del vento”, assegnato dal Ministero della Cultura dell’Albania, 2015; Il Premio Maggiore per il Traduttore straniero nel 2014, assegnato dal Ministero italiano per i beni e le attività culturali, Premio Traduttrice dell’anno 2018 per la traduzione delle opere di Montale, assegnato dall’Accademia Cult.

 

La traduttrice:
Griselda Doka è nata a Tërpan, Berat (Albania) nel 1984. È Dottore di Ricerca in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici presso l’Università degli Studi della Calabria dove collabora con la cattedra di Lingua e Traduzione albanese.
Ha ideato e condotto per tre edizioni il Concorso Internazionale della Poesia della Migrazione “Attraverso l’Italia”, patrocinato dal Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria e dal comune di Cosenza.
Operatrice culturale, oltre alla sua lingua madre, scrive anche in italiano.
La sua prima silloge “Soglie” è stata pubblicata da Aletti Editore e nel 2015 la raccolta bilingue “Solo brevi domande esiliate” (Fara Editore), che ha vinto il Premio della Critica al Poetry Awards a Napoli.
Nel 2018 è uscita la raccolta “Dimentica chi sono” (Fara Editore), vincitrice del concorso Fara Excelsior e del premio per la Pace “Leopold Senghor”.

 

 

 

 

Immagini         ————————–

Via Lattea

Cosedicasa

di Mauro Bendandi

 

 

Intervista a Mauro Bendandi:

di Giovanni Fierro

La prima impressione è che tutti i soggetti di questi dipinti siano intrisi di storie. E anche i titoli che hanno suggeriscono questo. Hanno la forza, poi, di catapultare il proprio narrare al di fuori di sé….
Esatto, vogliono proprio essere uno specchio dei vari ambienti in cui si trovano, in cui “vivono”.
Penso spesso a quante storie potrebbero raccontare lampadari, interruttori, candelabri e tanti altri oggetti che si trovano nelle nostre case. Il mio intento è quello di dare vita e far parlare questi oggetti.
Tanti oggetti che abbiamo in casa spesso ci rappresentano e con alcuni di essi spesso si instaura anche un “rapporto”, ci si affeziona.
Una parte di oggetti provengono dal quotidiano, proprio per dare la giusta importanza ad oggetti che ci accompagnano ogni giorno ma che ormai ignoriamo o consideriamo solo come servizio.
Il senso di storia, di racconto viene spesso rafforzato dalla trascrizione sull’opera di versi di poesie, testi di cantautori o anche miei pensieri, che possono avere un legame con l’oggetto, oppure possono essere un mio stato d’animo di quel determinato momento.
C’è poi un altro aspetto che è quello legato al design, l’altra mia grande passione; infatti dal semplice interruttore al sontuoso lampadario c’è sempre un voler esaltare il design e la bellezza di alcuni oggetti.

E i lampadari sono il punto di contatto tra le sezioni “Rarefazioni” e “Cosedicasa”…
Sì, i lampadari li vedo come una divinità, come qualcosa al di sopra delle parti, pronta a giudicare, una sorta di “grande fratello” che ci osserva sempre. In alcuni casi diventano poi i protagonisti assoluti della scena, spesso dei veri capolavori di design ed artigianato. Credo ci sia inoltre un qualcosa legato alla mia infanzia, quando con le scuole elementari ci portarono al Teatro Alighieri di Ravenna, dove al centro della sala troneggia un sontuoso lampadario in gocce di vetro e mi rimase molto impresso, anche perché fino a quel momento, io che venivo dalla campagna, avevo visto semplici lampadine o umili e funzionali lampadari.
I grandi lampadari in gocce di vetro, spesso ubicati in grandi dimore, che sono stati testimoni di grandi balli, grandi amori, ma anche di grandi tragedie e battaglie.
Possono essere però anche il segno di decadenza di una dinastia o di una popolazione.

E proprio i lampadari della serie “Rarefazioni” mi hanno colpito molto. Mi danno l’impressione che stiano per gocciolare…
Proprio così, si tratta di oggetti o vegetazioni che hanno vissuto una loro storia, che sono consunti e rilasciano il loro silente grido di dolore, che deve essere però da noi ascoltato, interpretato ed “investito” per creare sempre qualcosa di migliore.
Nelle opere “rosae” il segno di speranza e di futuro è rappresentato dai giovani boccioli che stanno prendendo il posto dei maestosi fiori ormai decaduti.

Un’altra sensazione forte, per chi guarda questi lavori, è di vivere un’immersione nel colore, proprio come i vari soggetti lo sono all’interno di ogni lavoro. Era un’idea già all’inizio del progetto?
Si questa è una cosa che hanno sempre notato in pochi, ma esiste proprio questo mio intento di partire sempre da un ammollo, per poi togliere o aggiungere o sostituire lo stesso o altri colori.
Anche qui gioca un ruolo fondamentale un ricordo di infanzia, quando vidi per la prima volta la scena del film “Il Dottor Zivago” in cui un’abitazione viene “rivestita” di ghiaccio, suscitando in me un senso di purezza e benessere. Scena e film che ho poi rivisto più volte creandomi ogni volta la stessa emozione.

Importante mi sembra che sia anche la scelta di ‘mettere in scena’ solo pochi colori….
Diciamo che questa è una fase; subito dopo l’accademia i miei quadri erano un’esplosione di colore, poi la mia tavolozza si è via via ripulita, fino ad arrivare in alcuni casi al monocromatismo.
Su questo aspetto non faccio ragionamenti, è il mio sentimento che mi porta a scegliere colori piuttosto che altri. Potrebbe succedere che una mattina mi sveglio e la mia tavolozza si riempie nuovamente di colori sfavillanti.

 

 

L’artista:
Mauro Bendandi ha frequentato il Liceo Artistico di Ravenna e nel 1996 si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove ha seguito le lezioni del corso di pittura tenuto da Massimo Pulini.
Da subito ha iniziato la sua attività espositiva in varie città italiane, sviluppando l’attenzione e la passione per i materiali, dipingendo su vari supporti fra cui legno, carta da parati, sacchi in polipropilene e lamiera, che finisce per essere il suo supporto preferito che ancora utilizza.
Da sempre è attratto dal design degli oggetti domestici, che negli anni più recenti sono diventati i soggetti principali dei suoi dipinti. A questi si sono aggiunti percorsi artistici legati al cioccolato e nell’ultimo periodo a soggetti floreali.
Sulla sua opera hanno scritto diversi critici e storici dell’arte.
Continua ad esporre i suoi lavori su tutto il territorio nazionale, partecipando anche a numerosi premi di pittura.

www.maurobendandi.com

 

I dipinti qui proposti:

Serie ‘Rarefazioni‘:

Rosae IV
olio su lamiera, 40×40, 2014
Il sonno della contessa
olio su lamiera, 40×40, 2013
Sogno rarefatto
olio su lamiera, 50×60, 2014
Belle epoque
olio su lamiera, 50×50, 2014

Serie ‘Cosedicasa‘:

Lampadario rosso
olio e foglia d’oro su lamiera, 100×160, 2007
Lampadario oro
olio e foglia d’oro su lamiera, 100×160, 2008
Cintura
olio su lamiera, 65×65, 2004
Via Lattea
olio su lamiera su legno, 62×30 (cadauno), 2012

 

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Vieri Peroncini
Alessandro Salvi, Livio Caruso, Guido Cupani, Antonello Bifulco.

 

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