Fare Voci luglio-agosto 2022

È un numero speciale!!!
Per la ricchezza delle voci proposte e per l’ampiezza degli sguardi condivisi.

Ad iniziare da Claudio Damiani, il cui nuovo libro “Prima di nascere” è lavoro destinato a rimanere nel tempo, punto di riferimento per la poesia che verrà.
Assieme anche alla poetessa albanese Luljeta Lleshanaku, tradotta e presentata da Julian Zhara.

Luigi Auriemma ci fa conoscere l’arte di Vincenzo Rusciano, il ti racconto è il primo romanzo di Monique Pistolato, “I piedi nella sabbia”.
La voce d’autore è quella di Roberto Cogo e del suo prezioso “Quando m’immersi. Trittico d’acqua”, e di Alberto Rizzi con “Mappe polesane”.

I margini di poesia ed altro ospitano Giulia Fuso e le poesie del suo “Le rimanenze”, Laura Mautone ci invita alla lettura di Massimo Recalcati, con le sue pagine di “Pasolini. Il fantasma dell’origine”, Massimiliano Bottazzo ci porta nella poesia di Emanuele Salvador.
Ed è bene affidarsi a Piero Dorfles con il suo raccontare “Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita”, ed incontrare anche Antonello Bifulco e Vieri Peroncini, con il loro libro scritto assieme: “A sud di nessun nord”.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è: farevoci@gmail.com)

 

 

 

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Escape

di Vincenzo Rusciano

 

 

Voce d’autore       ————————

E vi lascio fare, non dico niente

Claudio Damiani, “Prima di nascere”

di Giovanni Fierro

Si sta bene nella poesia di Claudio Damiani. E questa sua più recente raccolta, “Prima di nascere”, ne è ulteriore prova e testimonianza.
Perché il suo scrivere rinuncia alla distanza di sicurezza, e si pone sempre al centro di una appartenenza all’essere umano. Ancor di più con questi nuovi testi, che dicono dello stare nel nostro vivere, nella nostra esistenza, con le domande di sempre: cosa c’era prima, cosa ci sarà dopo, e adesso?
Perché “mi sembrava incredibile non essere esistito prima/ e mi sembrava incredibile pure di essere esistito”; Claudio Damiani mostra al lettore che il segreto del prima e del dopo non è mai un buio, anzi… al limite è un qualcosa di invisibile, ma che attraverso la scrittura e la poesia, diventa percepibile.
Ma se la vita nasce dalla vita/ che cos’è la nascita? e che cos’è la vita?” si domanda; e il rispondere è trovare una vicinanza con l’incanto, con la stessa precisione del fare cinema più recente di Terrence Malick e di un film come “The tree of life”. Entrambi vivono lo stesso luogo, dove esplorare quel respiro primordiale che è la vita stessa. Con la trasparenza, con il silenzio, con la certezza di essere al centro di un qualcosa di irripetibile.
Alimentando lo stupore dell’accadere della vita, “e poi goditi la sorpresa/ di essere sfuggito (lo so che è strano) alla morte”. Sorpresa che diventa certezza, nel momento in cui ci si riconosce nell’universo intero, come in ogni più piccola forma esistente.
“Prima di nascere” è il capire che vulnerabilità e verità hanno la stessa radice, sono esperienza, sono vissuto, sono la certezza di scrivere che “siamo la nostra morte e la nostra nascita, non possiamo non essere”. È un continuo nascere, scoprirsi e scoprire, appartenere e riconoscersi.
Ed è una raccolta di poesie che preservano e difendono il mistero del vivere; lo contestualizzano nel nostro presente, indicandolo e dandogli valore. Proprio quando si può confessare che “ero uscito sul terrazzo/ convinto dell’assurdità di esistere”.

 

Dal libro:

La polvere guardo nell’aria
e questa polvere sopra il tavolo
non la tolgo, la lascio,
voglio stare accanto a lei
e dei fili che sono per terra
non li levo, e le orme
delle scarpe, le lascio
e questa mosca anche lascio, morta,
e questa cosa che era caduta per terra
e non so più dov’è
non so più che era.
E mi deposito anch’io
mi lascio andare sul letto,
lascio che l’aria mi circondi
come un ciottolo che la corrente trascina,
e che niente mi salvi.

*

Il nostro essere come ogni essere,
uomo, animale, cosa
ha uno spazio e un tempo e in questo spaziotempo
tutto esiste e la sua esistenza è unica
non confondibile con altre esistenze
e al tempo stessa legata a tutti gli altri esseri
in un tutto unico che è la totalità divina
eterna e indivisibile,
quello che voglio dirti è che ogni essere è eterno
perché ogni istante, ogni atto del suo esistere
rimane incancellabile nella totalità dell’essere
come una traccia che non puoi nascondere,
infatti se ci pensi – è anche molto semplice –
quello che è stato non lo puoi cancellare,
è come se la nostra vita e tutto lo spaziotempo
è registrato e niente si può perdere,
neanche un atomo sfugge a questa necessità
neanche il più piccolo istante.

*

In fondo noi galleggiamo in un abisso
che è come un fuoco che ci tiene sospesi
e stranamente non ci brucia,
quel fuoco ci ha fatto nascere e ci farà morire,
noi non dobbiamo mai allontanarci da lui
anche se ci fa paura, anche se ci divora
ma al tempo stesso ci ama,
ci crea e ci distrugge come cera duttile,
noi crediamo di essere noi, di essere diversi,
ma in realtà siamo lui,
siamo le punte delle sue fiamme invisibili.

*

Ma se noi, come dice Severino, abbiamo lasciato un trapezio
e ancora non abbiamo preso l’altro
e siamo quindi nella sospensione sul vuoto,
se l’altro trapezio sta oscillando nello spazio
e ancora non ci ha raggiunto,
io ho messo al mondo tre figli che stanno in questa sospensione,
ho messo al mondo tre figli nel vuoto,
nel pericolo di precipitare,
ho messo al mondo tre figli senza sostegno?
E se il trapezio non arriva?
Se non è sincronizzato con noi?
Se il trapezio non esiste?
Se ci siamo staccati troppo presto?

 

Intervista a Claudio Damiani:

Quando ti sei accorto che i testi di “Prima di nascere” erano il tuo nuovo libro? E da cosa hanno trovato origine?
Dopo “Cieli celesti”, uscito nel 2016, ho cominciato a scrivere testi che prendevano due strade, quella che avrebbe portato a “Endimione”, uscito nel 2019, e l’altra a “Prima di nascere”, uscito quest’anno. Il primo è un sogno amoroso e conoscitivo insieme, tra mito (quello del pastore Endimione e della Luna) e realtà.
Il secondo nasce da una serie di domande e immagini angosciose che mi cominciarono a pullulare già da bambino, e che si sviluppano ritornando su se stesse e si confrontano con il pensiero filosofico e scientifico del nostro tempo.

Mi ha sorpreso trovare, ad inizio libro, citata subito la guerra… come se fosse il continuo big bang dell’esistenza….
Sì, da “Attorno al fuoco” del 2006 è un mio leitmotiv, una specie di rumore di fondo, o continuo big bang dell’esistenza come dici tu, qualcosa di costitutivo in noi e a cui siamo abituati, una guerra se vuoi eraclitea insita nell’essere, di cui noi siamo la carne da macello, la manovalanza.
In “Eroi”, del 2000, eravamo tutti eroi, come quelli omerici, in “Attorno al fuoco” tutti soldati, uomini e donne, vecchi e bambini.

Il libro è composto da tanti e diversi capitoli. Come a dire che c’è bisogno di tanti sguardi per contenere la vita, il vivere?
All’inizio pensavo di non fare sezioni, poi ho visto che erano necessarie, per i tanti sguardi come dici tu, le tante domande, i tanti punti di vista…

Il libro vive di molti dialoghi. E così, la presenza di un interlocutore con cui parlare mi sembra che stia a dire che la parola ha bisogno di un corpo, per accadere. Che solo così possa diventare esperienza, e poi memoria e ricordo. Cosa ne pensi di questo?
Sì, è da molti anni che mi vengono questi dialoghi, all’inizio con i figli piccoli, poi con persone anche immaginarie, con animali, con il Monte Soratte, una strada ecc. Talvolta sono in prosa, talvolta in versi, vengono così, e io li lascio venire.

E la lettura di queste tue nuove pagine, secondo me, mostra molto bene il come vulnerabilità e verità abbiano la stessa radice, siano frutti della stessa pianta…..
Sì, vorremmo sapere il senso della nostra vulnerabilità, e caducità, ma “abbiamo un po’ di tecnica / ma scienza niente”, come dico a un certo punto, e non è una citazione ma una poesia intera, forse la più breve del libro.
E con “scienza” intendo il significato originario antico di “sapienza”, “verità”. Ma c’è anche, insieme, il significato attuale, cioè la ricerca scientifica, e il concetto severiniano-heideggeriano che non, come si crede, la tecnica è una applicazione della scienza, ma il contrario.

“Prima di nascere” è un invito a nascere continuamente?
A questo non avevo pensato, ma lo trovo interessante. Rinasciamo nelle continue domande, e continui, azzardati, tentativi di risposta. Il tema della rinascita è comunque in un libro in prosa che sto scrivendo, tutto incentrato sull’infanzia.

Il libro, ma anche il tuo scrivere in generale, vive di una sorta di “coscienza ecologica”? Penso al testo di pagina 130, “Il motivo perché noi amiamo gli alberi/ e stiamo tanto bene nei boschi/ credo sia dovuto al fatto/ che abbiamo vissuto dentro di loro/ per qualche milione di anni”…
La coscienza ecologica non è qualcosa di facoltativo, ma di obbligatorio ormai. A un ritorno alla natura siamo costretti, finalmente.
Quando cominciai a scrivere, nei primi anni ’80, parlavo quasi solo di natura, allora quasi un tabu, in poesia. Si dubitava anche che la natura esistesse. Esisteva solo la storia, vista come qualcosa che si opponeva alla natura, e non, come oggi finalmente s’è capito, qualcosa che fa parte della natura, è dentro di lei, terza fase dell’evoluzione naturale (prima fisica, poi biologica, e infine tecnologica).

Il dire della tua poesia, qui più che nei libri precedenti, si amplia in un raccontare; crea ascolto, si fa abbraccio. È così?
Nel ‘900 la poesia è quasi solo lirica, me in altri tempi è stata anche narrativa, teatrale ecc., e non vedo perché non possa esserlo ancora. Oggi quando diciamo “narrativa” intendiamo solo i romanzi, ma narrativa può essere anche la poesia.
Si tende a confondere l’opposizione tra poesia e prosa con quella tra lirica e narrativa, ma è un errore: si tratta di due opposizioni completamente diverse.
Per quanto mi riguarda fin dai primi libri mi sono espresso anche narrativamente, e “dialetticamente”, cioè con dialoghi.

Queste pagine, in modo penso importante, ti mettono come autore al di là del confronto con la forma della scrittura. Qui, in “Prima di nascere”, il confronto è con il tempo. Non solo come ‘perché’ e come concetto, ma anche proprio come ‘forma’ da esplorare, espressione da indagare. Ti ritrovi in questo?
In una cosa che ho scritto recentemente dico che lo spazio non esiste, esiste solo il tempo, e noi scorriamo uno sull’altro. Ma perché sia così, e cosa questo comporti, chi lo sa?

Scrivi “sto sdraiato senza far niente/ ascoltando il silenzio dietro ai rumori”. È anche quello che deve fare la poesia?
Sì, credo che la poesia non sia tanto il dire di qualcuno, ma il silenzio di tutti. Quel silenzio che sta prima del dire e ci fa dire. È in profondità e non è facile afferrarlo. La poesia dovrebbe, secondo me, riuscirci, o almeno provarci.

 

L’autore:
Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall’infanzia.
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Fraturno” (1987), “La mia casa” (1994, Premio Dario Bellezza), “La miniera” (1997, Premio Metauro), “Eroi” (2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), “Attorno al fuoco” (2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), “Sognando Li Po” (2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), “Il fico sulla fortezza” (2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì, Premio Elena Violani Landi), “Ode al monte Soratte”, con nove disegni di Giuseppe Salvatori (2015), “Cieli celesti” (2016, Premio Tirinnanzi) e “Endimione” (2019, Premio Carducci).
È stato tra i fondatori della rivista letteraria “Braci” (1980-84) e nel 2013 di “Viva, una rivista in carne e ossa”.
Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui spagnolo, inglese, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane e straniere.
Nel 2010 è uscita l’antologia di sue poesie curata da Marco Lodoli, e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010, a titolo “Poesie” (Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum).

(Claudio Damiani “Prima di nascere” pp. 143, 18 euro, Fazi Editore 2022)

www.claudiodamiani.it

 

 

 

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Metal Novel

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Tempo presente        —————————————

Pas feste, të gjithë flenë më në fund, Dopo la festa, tutti dormono, finalmente

Tre testi

di Luljeta Lleshanaku

 

1 Janar, në të gdhirë

Pas feste, të gjithë flenë më në fund:
njerëzit, stacionet televizive, telefonat
dhe shifra e sapokorrektuar e vitit.

Midis natës së fundit dhe ditës së parë,
një copë qiell i dhëmbëzuar
si i pare nga goja e hapur e një balene.
Në barkun e saj dhe në barkun e kohës,
nuk ka arsye të vrasësh mendjen;
ti lëviz bashkë me atë; ajo e di se ҫ’rrugë merr,
dhe brenda saj tretsh ngadalë dhe pa dhimbje.

Dhe po të jesh me fat si profeti Jonah,
me siguri, dikur do të të teshtijë në ndonjë breg,
bashkë me dhjetra mbeturina të tjera inorganike.

Të gjithë flenë. Një gjumë i ëmbël hipotermik.
Por, ata të paktë që janë akoma zgjuar,
mund të dëgjojnë gërvimën e trishtuar të qerres
që vjedh gurët nga një rrënojë,
për një ngrehinë të re, vetëm pak metra më tutje.

All’alba del primo gennaio

Dopo la festa, tutti dormono, finalmente:
le persone, le stazioni televisive, i telefoni
e le cifre dell’anno appena cambiate.

Tra la notte dell’ultimo e il giorno del primo
un pezzo di cielo dentato
come osservato dalla bocca dischiusa di una balena.
Nella sua pancia e nella pancia del tempo
non c’è motivo di preoccuparsi;
ci si muove sincronizzati; lei sa la strada da percorrere
e lì dentro sarai digerito lentamente, senza soffrire.

Con un po’ di fortuna, come il profeta Giona
sverrai starnutito su qualche riva
assieme ad altri resti inorganici.

Tutti dormono. Un ipotermico sonno dolce.
Ma i pochi ancora svegli
possono sentire lo scricchiolio triste del carro
che trasporta i massi sottratti dalle macerie
per una nuova costruzione, solo un po’ più in là.

*

Ata po nxitojnë të vdesin

Ata po vdesin njëri mbas tjetrit;
të hedhësh dhè mbi ta, u bë krejt e zakonshme
si t’i hedhësh kripën gjellës.

Janë të gjithë në një brezi, të afërmit e mi
ose më mirë të një epoke,
e fëmijët e epokës janë si qentë e lidhur me një slitë,
në kërkim të arit:
duhet të vrapojnë, ose të rrëzohen njëherazi.

Epokat s’janë matematikë
por, krëhëra, krëhërara që rrafshojnë ҫdo rebelim floku,
epokat lënë pas vetëm silueta:
të zeza, gri, të bardha artktike.

Si affrettano a morire

Stanno morendo uno dopo l’altro;
buttare la terra sopra le bare
sta diventando un gesto abituale
come buttare il sale sul cibo in cottura.

Appartengono tutti a una generazione – i miei vicini
o meglio: a un’epoca
e i figli di quell’epoca sono come i cani
legati a una slitta, in cerca dell’oro:
devono correre forte o rischiano di capovolgerla.

Le epoche non sono matematica.
Le epoche sono delle spazzole,
spazzole che sciolgono i nodi dei capelli
epoche che lasciano dietro
ombre nere, grigie o le infinite sfumature
del bianco artico.

*

Gjëja që më pëlqente tek ai

Ishte mënyra se si i afrua shtratit të parën herë,
gati me përtesë, pa i hedhur sytë jashtë
ku mesdita e korrikut ngrinte leqe të pambukta shprese.
Fikjen e llambës me një prekje të vetme.
Dhe thyerjen e ҫarҫafit me atë siguri
sikur e bënte prej njëmijë vjetësh

Si një anije e madhe që po kthehej në port
me ngarkesën e saj të fundit; e gatshme për skrab.
E ҫ’rëndësi ka se ҫ’ndodhej në hangar
thasë kafeje, porcelan apo ethe tropikale!

La cosa che di lui mi piaceva

Era il modo in cui si è avvicinato al letto, la prima volta,
quasi pigramente, senza mai guardare fuori
dove il mezzogiorno di luglio levava
le insidie di cotone della speranza.
Spegneva la lampada sfiorandola appena
e spiegava le lenzuola con una tale sicurezza
come se lo facesse da mille anni.

Come una nave grande che ritorna nel porto
col suo ultimo carico; pronta per essere saccheggiata.
E che importanza può avere cosa ci sia nella stiva
se sacchi di caffè, porcellana o febbre tropicale!

(Le traduzioni in italiano sono di Julian Zhara)

 

Luljeta Lleshanaku, una presentazione

di Julian Zhara

La poesia di Luljeta Lleshanaku ha una cifra stilistica unica nel panorama poetico contemporaneo. Unisce una ricerca stilistica prosastica e narrativa ma curata alla perfezione, con una tensione verso l’accoglienza del lettore e una semplicità che nella poesia contemporanea ha un grande nome affine: Wislawa Szymborska e nella poesia italiana la possiamo accostare a un altro: Antonella Anedda.
Un certo esotismo balcanico nella sfera immaginifica fa da scenografia a una ricorrenza tematica dove a regnare è la condizione e percezione femminile del mondo circostante: dal lascito del patriarcato, ancora molto presente nella società albanese, alle conseguenze dell’amore.
Questo accade senza filtri ideologici ma attraverso una purezza dello sguardo, una penetrazione delle cose circondanti e l’interrogazione continua sul perché siamo qui e ora. Poco importa se a far scattare la poesia di Luljeta siano i vestiti nel guardaroba, una gita a Pompei o un ricordo d’infanzia: tutto nella sua poesia assume una sembianza metafisica e trascendentale e pare non ci sia argomento che non possa essere accolto dalla potenza del suo sguardo.
Sul versante stilistico lo stupore continuo si riversa non solo per la sorpresa di metafore e solitudini – mai banali, sempre spiazzanti ma anche per un uso dell’enjambement volto a sorprendere ancora di più: non indovineremo, finché non lo leggiamo, cosa ci riserva il verso successivo.
Da lettore e traduttore mi sono visto, stupendomi, profondamente innamorato della sua poesia e il compito di tradurla è traslato dalla mera dimensione letteraria a una più emotiva: come quello di parlare della persona amata agli altri.

 

L’autrice:
Luljeta Lleshanaku (1968) è nata a Elbasan, Albania. Si è laureata in Filologia e Letteratura all’Università di Tirana e più tardi prende una seconda laurea nel Warren Wilson College, negli USA.
Ha pubblicato otto libri in albanese: “Homo Antarcticus” (2015), “Pothuajse dje” (2012), “Femijet e Natyres” (2006), “Palca e Verdhë” (2000), “Antipastorale” (1999), “Gjysëm-kubizëm” (1997), “Këmbanat e se djelës” (1995) e “Sytë e somnambulës” (1994).
I suoi libri sono stati tradotti negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Austria, Francia, Polonia, Croazia, Spagna, Slovacchia e Macedonia.
Ha vinto il premio English PEN Award ed è stata finalista, nel 2019, al Premio Griffin, in Canada e al BTBA, negli USA.
Recensioni sulla poesia di Luljeta Lleshanaku sono apparse in varie riviste letterarie come The Guardian, BBC, The New York Times, oltre a interviste e speciali sulla TVSh (la prima televisione nazionale albanese).
Lavora a Tirana come direttrice all’Istituto per lo studio dei crimini e delle conseguenze del comunismo albanese a Tirana e docente presso l’Accademia Multimediale “Marubi”, sempre nella capitale albanese.

 

Il traduttore:
Julian Zhara è nato a Durazzo (Albania) nel 1986. Si è trasferito in Italia all’età di tredici anni e ha vissuto a Camposampiero (Padova) per otto anni.
Ha partecipato a vari eventi di poesia a Venezia, Trento e Padova. Si è laureato nel 2010 in EGArt presso Cà Foscari a Venezia con una tesi dal titolo “Inchiesta sullo stato della poesia in Italia”.
Nel 2016 gli viene assegnato il Premio Internazionale di Poesia Alfonso Gatto per i giovani, e cura la direzione artistica del festival di poesia Flussidiversi/9.
Sue poesie sono presenti in “La poesia italiana degli anni Duemila” (Carrocci, 2017) di Paolo Giovannetti.
Ha all’attivo le pubblicazioni “Liquori” (Ibiskos-Ulivieri, 2008), “In apnea” (Granviale, 2009) e nel 2018 ha pubblicato per Interlinea il volume “Vera deve morire”.
Vive, lavora e scrive a Venezia.

 

 

 

 

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Est

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Ti racconto        ————————

Il lievito misterioso e potente degli incontri

Monique Pistolato, “I piedi nella sabbia”

di Roberto Lamantea

Giovanni, medico del Pronto Soccorso; Matteo, nipote di Giovanni, bambino che ha vissuto un trauma terribile; Viola, giornalista free-lance alla ricerca dello scoop che potrebbe rendere più sicura la sua posizione al giornale. E una serie di comprimari, alcuni buffi, altri nevrotici, sullo sfondo di una città, Mestre, che si riscatta dai suoi grigi paesaggi per divenire il teatro di un’umanità che giorno per giorno cerca il filo di una breve felicità.
Sullo sfondo il G8 di Genova del 2001 con la sua “sospensione della democrazia” e lo tsunami del 2004 in Indonesia e Thailandia. “I piedi nella sabbia” è il primo romanzo di Monique Pistolato, scrittrice veneziana, nata a Parigi da genitori immigrati e tornata in laguna da bambina, autrice finora di racconti tessuti tra l’apologo morale e acquarelli da fiaba, con uno sguardo dolcissimo su un’umanità alla ricerca di un senso della vita.
Monique Pistolato scrive con un pennino sottile, a volte un pennello da acquarello giapponese, tesse trama e ordito seguendo – come nei racconti – i pensieri dei personaggi e fissando sulla carta sguardi e moti del cuore.
Se la trama – suggerita più che narrata, anche attraverso il frequente ricorso alla metonimia e alla sineddoche – conquista il lettore (impossibile non innamorarsi della vitalità di Viola, della forza con cui senza illusioni affronta le sue scelte, o dello sguardo amaro ma mai arreso di Giovanni), l’autrice veneziana si conferma raffinata, spesso ironica, pittrice d’immagini e situazioni: “Il bambino se ne stava appallottolato come un pezzo di carta da buttare via”; “I platani lungo la strada assomigliavano a un tunnel di corpi avvinghiati dal catrame”; “Scendeva una pioggerellina ad annaffiatoio”; sino a note liriche come “luce cedrina” o “occhi di erba appena nata”.
O tratteggia i personaggi con uno stile che ricorda Gogol’ o Bulgakov: “Nella sala d’aspetto [del veterinario] c’era una signora, a forma di vaso […]. Poi un uomo anziano, calvo e paffuto”. Il ritratto della madre di Giovanni ha la ruvida ironia del teatro di Goldoni.
Da segnalare la pagina delicatissima dell’addio a Bella, una cagnolina rimasta ferita in un incidente stradale; i quadretti con il gatto Pucci, raccolto dalla strada e adottato da Matteo; i siparietti delle trans, con il loro trucco esagerato, la loro esuberanza, la loro gioia di vivere, la loro bellezza.

 

Intervista a Monique Pistolato:

di R. Lamantea e G. Fierro

“I piedi nella sabbia” è il tuo primo romanzo. Com’è nata l’idea del libro, come sono affiorati trama e personaggi? E come è nato il titolo?
L’idea nasce dal desiderio di portare alla luce esistenze, altrimenti invisibili, che con le loro lotte, passioni, fragilità, si trovano a significare la Storia. Mi interessava esplorare come ciascuno affronta l’imponderabile e insieme il lievito misterioso e potente degli incontri/legami: indagare il manifestarsi dell’animo umano lì dove la sofferenza trasforma persone qualsiasi in esseri luminosi.
Il titolo è arrivato prima della stesura, quando la traccia era nella testa, con una sorta di veggenza: “I piedi nella sabbia” sono la sensazione di libertà, della pelle senza costrizioni, calore e possibilità di lasciare tracce. Allo stesso tempo, hanno un richiamo alla precarietà dei passi che una folata di vento o un’onda possono portare via… Attimi che vanno goduti con la certezza di una gioia da trattenere che non ritorna.

La narrazione lunga ti ha costretta a cambiare metodo di lavoro rispetto alla forma breve della novella o del racconto?
Quest’opera è frutto di una lunga gestazione, della convivenza interiore con i personaggi. La trama richiedeva spazio, respiro, una sfida anche per me. Lo stile è lo stesso l’articolazione è più complessa.

Ogni protagonista del libro vive, in qualche modo, ai margini della società, pur essendone partecipe. Cosa significa dare uno sguardo a queste singole esistenze?
Renderle sentimentalmente presenti per la loro unicità.

Nel libro affiora, in modo intenso ed anche doloroso, il passato. Nello specifico i fatti di Genova 2001 e lo tsunami del 2004. Quale il loro peso nella memoria, e in particolare nel narrare del libro?
Giovanni e Matteo se ne trovano coinvolti loro malgrado, la portata è quella di ferite che non trovano cicatrizzazione. Eppure, è il miracolo di ciò che germoglia nelle relazioni a custodire e a consegnare al mondo memoria e testimonianza.

Ognuno dei protagonisti ha qualcosa in sospeso, anche con se stesso. Scriverne è anche un modo per dare loro una possibilità in più?
Mettere a fuoco i loro passi è un tentativo di risarcimento.

Il paesaggio è sempre presente in questo tuo narrare. Trova sempre spazio per essere descritto e vissuto. È anche un modo per ‘mettere in scena’ l’atmosfera emotiva che vivono i singoli protagonisti?
Il paesaggio così come le stagioni e il clima, in cui si intrecciano le vicende, per me sono il contenitore emotivo della storia.

E nello specifico, nel tuo romanzo una città difficile come Mestre – vissuta a lungo come periferia di Venezia o dormitorio di Porto Marghera e in cerca di un suo riscatto sociale e urbanistico – si trasfigura: non nascondi il degrado (la stazione, via Piave) ma è abitata e vissuta dai personaggi con dolcezza. Si sente affetto per una città difficile. Sei d’accordo?
Sì, ogni luogo è significato, dipinto, dalle persone che lo abitano oltre l’urbanistica, la tangenziale e la nebbia. Le umanità che si incontrano nei bar, al mercato, al centro medico per un prelievo, le tartarughe al sole lungo gli argini… Mestre ha una bellezza introversa data da spazi verdi, il contatto con la laguna, i legami che si intrecciano sotto i suoi cieli.

I protagonisti si muovono continuamente fra ciò che hanno già vissuto (tagli, mancanze, dimenticanze, giri a vuoto…) e il nuovo desiderio di un cambiamento. Sembra che questo loro equilibrio si racconti molto bene con il loro stare tra terra ferma e mare… può essere così?
Per vivere in una città anfibia bisogna continuamente trovare nuovi baricentri. Si conoscono i tempi delle maree e le molestie dello scirocco o della bora: c’è il momento dell’attesa e quello in cui andare…

Nel tuo sito c’è scritto “scrittrice, coltivatrice di storie e di piante”…
Le storie come le piante richiedono ascolto, cure e attesa.
Radicamenti e fioriture avvengono grazie all’amore, alla costanza del lavoro nel tempo. Così scrivere e occuparmi di ficus, dracene e ibischi… sono per me attività linfatiche affini, care perché profumano la vita.

Il libro ha una dedica: a Paolo Veronesi…
È stato il mio editore di riferimento: il signor Ibis. Scomparso con uno strappo di radice, prematuramente, quando eravamo a bozza due. Una persona speciale che ho avuto la fortuna di incontrare, nel 2004, al premio Pavia. Mi ha riconosciuta nel terreno inconscio delle storie investendo nel mio lavoro, permettendomi di far crescere la scrittura e di maturare. Insieme abbiamo discusso, ragionato, immaginato libri e il mondo… i suoi no erano convinti, così come ciò che lo appassionava. Mi ha dato l’occasione, più volte, di sperimentare la narrazione intrecciata al fare di altri artisti ricordo “Sotto il cielo di tutti” che ha le illustrazioni di Piero Sandano e “La carta non è impaziente: lettura e scrittura piccole forme di eternità” con le foto di Mariateresa Crisigiovanni.
Dedicargli “I piedi nella sabbia” è imprimere il mio affetto e la riconoscenza nel filo misterioso di “un oltre”, dato da una narrazione, che non si interrompe.

 

L’imprevisto lo trattenne

Monique Pistolato “I piedi nella sabbia”

di Giovanni Fierro

“La mattina si era presentata nodosa, spago antracite”.
È questo l’inizio di ogni giornata, per chi dalla vita è stato offeso, e per chi decide di stare dalla parte più delicata e debole del mondo.
Monique Pistolato con questo suo primo romanzo, “I piedi nella sabbia”, porta il lettore dentro le situazioni più critiche dell’esistenza, lo accompagna nel vivo e nel livido della nostra società contemporanea.
Perché raccontare di Giovanni, medico del pronto soccorso, di Matteo, bambino rinchiuso in un silenzio di difesa, e di Viola, giornalista il cui corpo è laboratorio di chemioterapia, è portare in evidenza la tenacia e le difficoltà dello stare al mondo.
Ma è anche decidere da che parte stare. E Monique Pistolato lo fa senza indugio, sceglie e racconta, mostra ed esplora. In una cornice storica dove nel presente di ogni giorno affiorano in modo violento i fatti del G8 di Genova del 2001 e lo tsunami del 2004, riuscendo a portare il lettore dentro le storie dei protagonisti e dentro la Storia.
Ci sono legami a cui non si riesce a dare una lettura salvifica, “A volte pensava di essere stato adottato, non riusciva a rintracciare parti di sé in quella donna chiusa in un mondo appassito”, e constatazioni a cui ci si deve arrendere, “Un diploma di scuola d’arte non serve a rendere presentabile la morte”.
Ma c’è tutto il vigore e la meraviglia dell’incontro, del momento in cui si fa un passo verso l’altro; proprio quando si rinuncia al riparo e si sceglie di aprirsi, di mettersi nuovamente in gioco. Grazie a chi si incontra, a chi può dirci che vale ancora la pena scommettere su se stessi.
Ed in questa sopravvivenza che i tre protagonisti – Giovanni, Viola e Matteo – riescono a trovare la forza di iniziare a cucire quel qualcosa che si è strappato.
Una forma di resistenza, di cui “I piedi nella sabbia” mostra in ogni sua pagina il desiderio e la fatica.
Anche solo per riuscire ad abbandonare la stanza del vivere a cui si crede di essere condannati: “Fu come se un petardo di chiodi fosse esploso nella stanza: sentì buchi aprirsi nella testa”.
Di certo non è una via di fuga, semmai un lungo e delicato costruire, pronto all’imperfezione e capace di riconoscere il necessario.

 

L’autrice:
Monique Pistolato è nata nel 1965 alla periferia di Parigi da genitori italiani emigrati. Nel 1997 esordisce nella narrativa vincendo il premio Emilio Salgari. Riceve diversi riconoscimenti (oltre al Premio Salgari, Premio Arturo Loria, Premio Serra 1999, Premio Lune di Primavera 2003, Premio Ore Contate Pavia 2004, Premio Storie del Novecento 2005) e inizia a pubblicare in riviste, quotidiani e antologie.
Diverse sue storie hanno avuto una trasposizione teatrale. Si è formata come educatrice animatrice e specializzata in psicologia sociale.
Ha pubblicato: “BUM BUM. Il debutto sessuale in adolescenza” (2004, nuova edizione La Meridiana 2018 con il titolo “Bum Bum. Le prime volte dell’amore”), “Un’altra stanza in laguna” (Ibis 2005); “Un tempo necessario. Ragazzi e scelte di vita” (La Meridiana 2007), “Venezia guida alla città invisibile. Dieci itinerari insoliti e curiosi per calli e canali” (Ibis 2010, nuova edizione Ibis 2020 con il titolo “Venezia è anche un sogno, guida alla città invisibile. Dieci itinerari insoliti e curiosi per calli e canali”), “La carta non è impaziente. Lettura e scrittura: piccole forme di eternità” (Ibis 2012), “Cari libri. La lettura condivisa come laboratorio di umanità” (Paoline 2014) e “Sotto il cielo di tutti” (Ibis 2016).

www.moniquepistolato.it

(Monique Pistolato “I piedi nella sabbia” pp. 192 pagine, 16 euro, Ibis 2022)

 

 

 

 

Immagini        ———————————–

Metal Novel

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro       ————————-

Dove conosco già le cose

Giulia Fuso, “Le rimanenze”

di Roberto Lamantea

Nel suo primo libro lei si presenta così: “Sono nata a settembre del 1988 a Perugia, in un primo giorno di scuola eterno, città dove ho studiato e vivo tutt’ora. Amo le piante perché parlano molto poco e scrivo cose che non so bene cosa siano”.
Dopo “E dentro luccica” (2017) e “tu non dismetti mai le cose” (2018), Giulia Fuso pubblica da InternoLibri “Le rimanenze”, con postfazione di Francesca Genti.
Sono cinquanta testi che confermano l’originale sguardo dell’autrice umbra. Stanze e corpi sembrano rinascere attraverso la scrittura, l’anatomia della parola e diventare così un frammento dell’universo: “Vado in bambola/ per la bottiglia vuota,/ ho bevuto tutto l’etilico/ per mandarti messaggi/ che poi approdano/ su spiagge sceme/ dove periodicamente passa/ il retino per le vongole”.
È una scrittura “cinematografica”, dove l’inquadratura passa con una velocità da vertigine dal dettaglio – a volte microscopico – al campo lungo, per poi tornare alla fotografia di un oggetto: bottiglie/spiagge/retino. Come anche in questi versi: “Forse l’aria che sposto/ con la mano stracca/ ti è stata prima nel naso/ come una polka”. È un’école du regard che rinvia a un poeta amato da Giulia Fuso, il rumeno Mircea Cărtărescu.
Piante, animali, stagioni, bambine, oggetti inanimati contribuiscono a arredare un piccolo pantheon contemporaneo e portatile: le cose che si portano nel cuore, lontanissime e vicine, apparentemente alla portata, ma sempre sfuggenti, da inseguire stando fermi” scrive Francesca Genti, “tutto appare preciso nei testi di questa giovane poeta, eppure, come in un gioco enigmistico, ogni poesia contiene sviste e piccoli trabocchetti che rimandano a un altrove, per questo motivo, anche se le scelte lessicali di Giulia pescano nel pozzo profondo del quotidiano, l’effetto di spaesamento che provocano alla lettura rimanda a una tradizione di realismo magico di postura orfica rispetto a una musa solenne e beffarda”.
Se lo scrivere è figlio della necessità di fermare, diliscare l’evento per riuscire ad ottenerne il commestibile, il fruibile, tutto ciò che non viene eliminato, ciò che resta, le rimanenze appunto, non sono altro che la sostanza insindacabile di un avvenimento, la pura materia poetica” confida l’autrice in un’intervista a Grazia Calanna su lestroverso.it: “Com’è che tutto/ è parte interna dell’aglio/ anima verde amara/ per avere, a bocca cattiva/ la scusa della speranza”.

 

Dal libro:

So dire di ottobre
la struttura delle parole
l’odore della stanza quando taci
e dici con gli occhi le vocali che non riconosco
che non conosco, come non so
l’orario della tua fame e l’orario della tua sete
come non conosco il passo
le scarpe nel cassetto che tieni pulite
la memoria che usi per ricordarmi
avendomi, pur non avendomi mai avuto.

*

Non puoi insegnarmi il pieno
il colmo della ciotola asiatica
di aceto e riso compatto
se non sai l’ingombro
di un chicco in microgrammi:
lo scacci dalla tavola
come per un bisticcio
di circostanza incerta
tra tessuto e crescita.

*

Hai detto accanto al lobo
che il bombo vuole ingoiare
questo giugno di cotone;
mi hai chiamata cara
strappando connessioni
all’entomologia.

*

Non ho scritto perché
ho il nervo stanco
e non trasmette,
procedo all’accoppiamento
delle parole base
dei suoni noti, che conosco
dalla culla mi ninnano e sto
dove conosco già le cose.

 

L’autrice:
Giulia Fuso è nata a Perugia nel 1988 e vive nella città umbra. Ha pubblicato le raccolte poetiche “E dentro luccica” (Miraggi Edizioni 2017) e “tu non dismetti mai le cose” (Eretica Edizioni 2018). Alcuni suoi testi editi e inediti sono comparsi online e su riviste specializzate.

(Giulia Fuso “Le rimanenze”, pp. 72, 11 euro, Interno Libri 2021)

 

 

 

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Not so Bad #1

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Libroelibro        —————————-

Infinita fame d’amore

Massimo Recalcati, “Pasolini. Il fantasma dell’origine”

di Laura Mautone

In questo esile libretto si cela la trama dell´incontro tra Pasolini e lo psicanalista Massimo Recalcati. Un incontro impossibile, perché avvenuto sulla carta, “dopo aver incontrato da ragazzo il suo corpo ferocemente assassinato”, come recita la quarta di copertina. “[…] la sua morte appariva ai nostri occhi come un attentato alla nostra stessa libertà, alla libertà senza argini della nostra giovinezza. Il corpo straziato di Pasolini fu una scossa. […]”, dichiara Recalcati all´inizio del testo.
Probabilmente fu proprio la morte tragica del poeta ad indirizzare il giovane studente Recalcati a svolgere la sua tesi di maturità nel 1978 proprio su Pasolini, in particolare sul rapporto tra popolo e religione nella prima produzione poetica in friulano che Recalcati poteva leggere in originale, grazie alle origini della madre. Quindi il primo contatto con il poeta avvenne attraverso la comune lingua materna. È questo il fantasma dell´ origine? Potrebbe esserlo, visto che l´archetipo della madre è un pilastro fondativo della nostra personalità.
Attraverso agili, ma densi paragrafi Recalcati ricostruisce alcuni aspetti della personalità e dell´opera di Pier Paolo Pasolini: il suo essere sempre diviso, il suo essere contro, la sua capacità di guardare al di là della superficie e vedere oltre, oltre i “capelli lunghi”, oltre la protesta studentesca, oltre la “scomparsa delle lucciole”, oltre … “La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all´opposizione e l´ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda”, cita Pasolini, Il discorso dei “capelli”, in “Scritti corsari” (p.11).
Agli occhi di Pasolini, secondo Recalcati, quella “critica radicale e indiscriminata si è rivelata una rivolta sterile, incapace di essere generativa. […] Non esiste alcuna rivoluzione senza la trasformazione delle nostre istituzioni“. “Le Ceneri di Gramsci”, secondo il noto psicanalista, denunciano la sua difficoltà a riconoscersi come un soggetto preso dalla storia. L´idea che la natura e il popolo corrispondano al Bene, all´Origine incontaminata è, secondo Recalcati, “un fantasma regressivo“, che implica “un´idealizzazione, una sua mitizzazione acritica“.
Ne “La religione del mio tempo” mostra ancora la lacerazione tra il passato sacro e mitizzato e il presente consumistico e materialistico. “Il più bel tempo umano” è caratterizzato da un ineluttabile senso di perdita.
L´origine non è disgiunta dall´alienazione. Il tempo presente è il tempo di un nuovo fascismo del potere, l´omologazione che non è riuscita al fascismo è totalmente realizzata dalla mutazione antropologica del popolo nell´epoca della nascente società dei consumi. L´edonismo trionfa nella società dell´immagine, l´uomo è desacralizzato, il mondo è diventato mercato. Gli uomini “un groviglio di macchine che sbattono l´una contro l´altra”. Il totalitarismo degli oggetti è di tipo feticistico: si accumulano e si venerano, perdendo il senso dell´autenticità dell´Origine.
A differenza di molti altri questo volumetto ha il pregio di tentare una lettura psicanalitica, che non sveleremo, della poetica di Pasolini, di sollecitare la lettura delle opere, nel centenario della nascita del poeta, sempre più un´icona pop e sempre meno letto e di ipotizzare addirittura una via alternativa verso la rivoluzione: “portare la carità nelle istituzioni“.

 

Dal libro:

“[…] L´incatenamento all´amore materno impedisce l´accesso non tanto alla dimensione dell´eterosessualità, ma all´amore come luogo dell´eteros. Questo accesso è ostruito dal sequestro nel desiderio materno. L´amore per la madre appare come una “schiavitù” che impedisce l´amore per l´Altro. Di conseguenza la spinta compulsiva della pulsione domina i legami erotici e affettivi senza lasciare margine per un´altra scelta. L´Uno della madre è inaccessibile e, al tempo stesso, insostituibile e, dunque, sempre presente. Se il lutto della Cosa-Madre è per il poeta impossibile, restano allora solo “corpi senza anima” coi quali provare a saziare la sua “infinita fame/ d´amore”. Il corpo degradato a “carne” esprime qui tutto il dramma del poeta: più viene negato, rigettato, reso impossibile il lutto della Cosa- Madre, più si infiamma la ricerca compulsiva di “carne anonima”, con la consapevolezza dolorosa che questa stessa ricerca è destinata all´insoddisfazione perpetua. […]”

(Massimo Recalcati “Pasolini. Il fantasma dell´origine” pp. 64, 10 euro, Feltrinelli 2022)

 

 

 

 

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Untitled Munthe

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Voce d’autore          ———————————

Nuotare a fil di vento controcorrente

Roberto Cogo, “Quando m’immersi. Trittico d’acqua”

di Giovanni Fierro

In questo momento di pura siccità umana, è bene entrare nelle pagine di Roberto Cogo, e del suo “Quando m’immersi”, un ‘trittico d’acqua’ dove accorgersi della scoperta continua, della rinnovata voglia di rinominare se stessi, e del dare un senso ancora più preciso e necessario alle cose a agli accadimenti.
Stare nell’acqua, di fiume principalmente, è sì un impatto fisico, ma anche una esperienza sensoriale che si trasforma in pensieri e riflessioni.
Perché “una volta immerso iniziai a nuotare/ dapprima rapido seguendo il ritmo del respiro/ che pian piano s’andava placando// quel ruscello mi proiettò all’istante/ nel Kashmir, in Islanda, in Nuova Zelanda e altrove”. Il luogo esatto dove far confluire Tempo e tempi, a costruire una geografia nuova ed ampia, occasione di nuova esperienza e nuove prospettive.
E lo stupore è la pulsione che tutto porta al mondo; in questo scrivere di Roberto Cogo anima il suo senso e il suo significato, necessità continua ed energia fondamentale che tutto alimenta: “piscine naturali scavate nella roccia/ un corpo immerso per gradi assorbito in se stesso/ spugna umana intrisa, innervo d’acqua// sostanza senza tempo non più del tutto umana/ solo indicibile gioia, solo spontaneo incanto”. Il bisogno di cui dovremmo occuparcene ogni giorno.
E in questa sospensione, in queste acque che vivono la selvaticità si può stare bene, proprio adesso, “nella prassi assidua del nuoto contemplativo/ ora, allagati gli affanni, annegati i timori/ qui, senza più massa né peso”. Una sospensione che si fa anche contemplativa, che Roberto Cogo ci suggerisce di usare, per confrontarci con il nostro ‘ruolo’ nella società in cui ogni giorno siamo immersi
Questo suo trittico d’acqua sa molto bene che “bisogna essere nudi, nudi e trasparenti/ disposti a rifiorire al di là di ogni legge umana o/ naturale, a rinvigorire oltre ogni tabù o preclusione”, invito anche ad usare il proprio sguardo dove nessuno lo pone, sul microcosmo che ci circonda e che ci accoglie. Pulci d’acqua e foglioline, attenzioni e ascolto.
Per dire che esiste una solitudine che nasce da una scelta, il momento di cui ognuno di noi ha bisogno, per stare nel centro esatto e cosmico dello stare nel mondo. Visibile e non visibile.
L’unico posto irrinunciabile, “qui, né giusto né ingiusto, né male né bene”, dove riconoscere e vivere “istinto e intuizione come principi d’appartenenza”.

 

Dal libro:

piscine naturali scavate nella roccia
un corpo immerso per gradi assorbito in se stesso
spugna umana intrisa, innervo d’acqua

sostanza senza tempo non più del tutto umana
solo indicibile gioia, solo spontaneo incanto

senza storia né memoria nuotai ad occhi aperti
nel risveglio di tutto quel verde
tra ombre e riflessi di luce scivolata giù dall’alto

*

bisogna essere nudi, nudi e trasparenti
disposti a rifiorire al di là di ogni legge umana o
naturale, a rinvigorire oltre ogni tabù o preclusione

bisogna essere vivi, vivi e nudi ripuliti dalle scorie
che intorbidano il mondo delle relazioni

ogni cosa al suo posto, ogni essere al suo mondo
l’aria fresca e i cieli aperti, limpide solitudini
oltre l’ordinario, oltre le nuvole e i contrasti

*

le mani in tasca insperate—gli occhi a terra ad annusare i silenzi del cammino—-le parole accolsero lo scroscio del torrente a fondo valle—piombarono eleganti nel verde sonoro arricchite di grinze come cerchi d’argento—-così la luce rimosse ogni usata decisione

il vero e il giusto in ogni presenza—-non urli o schiamazzi—non atti affranti poi dispersi—il centro fu sospeso tra fanghiglia e casa—-non la spinta disperata dell’uomo—-solo luce e acqua—riflessi di un cielo pervaso dal transito delle nubi—-nient’altro che assenza

un tuffo nel gelo delle acque—nuotare a fil di vento controcorrente—-se il sogno muore ecco un altro riflesso in superficie—-nello stormire delle foglie dove frulla e ronza il popolo degli insetti—-si nasce e si muore mulinando bracciate—nel ritmo del respiro si rincorre l’aria

cervi volanti in un volo ubriaco tutto sbilanciato all’indietro—-sguardi immersi nel verde tra insetti e pesci—l’altra parte trasforma e s’allontana nella scia aperta sul fondo—-una biscia in fuga tra i sassi verso luoghi occultati nel cristallo—-fu uguale e diverso

 

Intervista a Roberto Cogo:

Da cosa nascono i testi di “Quando m’immersi”? Immagino che abbiano anche a che fare con il wild swimming che tu pratichi….
Quando m’immersi” è composto da tre sezioni scritte in fasi diverse della mia pratica del wild swimming. Una delle componenti fondamentali di questa pratica, oltre all’immersione e al nuoto, è la ricerca dei luoghi adatti a tale scopo. La conoscenza del proprio territorio, la sua esplorazione e l’ampliamento graduale del raggio d’azione sono processi lunghi e affascinanti che richiedono però curiosità, pazienza e dedizione.
La sezione centrale del libro, la più lontana nel tempo, s’impernia più delle altre due su questa ricerca. Qui le immersioni hanno maggiormente il sapore di un appagamento dopo le fatiche dell’esplorazione e della ricerca. Mi pare che una sensazione di sollievo e talvolta anche di una certa soddisfazione traspaiano dalle sue pagine.
Risalire una piccola valle solcata da un minuscolo ruscello senza nome può riservare delle sorprese inaspettate. Anche una pozza d’acqua raccoltasi sotto a una cascatella o in un dislivello del terreno può rappresentare per me un dono enorme e imprevisto.
Non sempre è possibile nuotare in tali luoghi, ma spogliarmi e immergermi in essi sono stati una necessità a cui ancora adesso non posso resistere. Il resto viene da sé: abbandono e senso di appartenenza.

Bisogna essere nudi, nudi e trasparenti” scrivi a pagina 38; e la nudità è una parola e un tema che ritorna spesso in questo tuo libro. Ma che nudità è?
La nudità di un neonato che entra nel mondo per farne parte totalmente. La nudità del principiante che affronta le sue prove libero da conoscenze e aspettative che ostacolerebbero la spontaneità della sua immersione nell’esperienza totale dell’evento. In questo caso, il conflitto e il senso di distacco, con le conseguenti insicurezze e frustrazioni, verrebbero sospesi o, nel migliore dei casi, superati.
Solo così la nostra natura profonda può emergere e non abbandonarsi ai capricci e alle pretese del nostro ego invasivo, tornando a far parte di un processo più ampio che coinvolge ogni forma di vita, quella materia-energia su cui il cosmo si forma e si definisce, in totale misteriosa autonomia.

In questo tuo scrivere l’acqua e la poesia si trovano e si incontrano, ognuna con la propria trasparenza. È solo una mia sensazione?
Una delle sezioni del libro fa proprio riferimento alla trasparenza, fin dal titolo. Il collegamento all’acqua è ovvio e ineludibile, mentre la sua applicazione alla poesia e alla scrittura in genere non è così immediata. Cosa significa trasparenza in termini di pensiero e parola? L’attraversare, il passare da…a indica sempre una relazione tra diversi stati e/o elementi e, insieme, una trasformazione.
Acqua e poesia sono solo suoni, parole, concetti quello che possiamo conoscere di entrambi sono la nostra relazione con essi. In altre parole, il risultato di una relazione porta sempre all’imprevisto, al nuovo, alla trasformazione, ma se tentiamo di spiegarla in termini logici o concettuali essa scompare. L’evento della scrittura, come quello dell’immersione nell’acqua, ha una vita propria che conserva gelosamente, ma che può rivelarsi a chi si pone nudo e trasparente come un bambino, o come un innamorato, pronto a farsi coinvolgere e disposto alla crescita come alla trasformazione.

La percezione è anche quella di vivere l’acqua come di un luogo dove il Tempo, e i tempi, vi possano confluire. Un contenitore sia sensoriale che di pensiero, dove tempo accaduto, tempo presente e tempo futuro di incontrano, si mescolano. E permettono un sentire e un vivere che si fa universale…
Vivere pienamente l’attimo presente è quanto possiamo fare per sciogliere il nodo della distanza e del distacco che ci imprigiona nella nevrosi di quello che è stato o nella paura di quello che non è ancora. Affrontare la vita tuffandoci nel suo flusso e scorrendo insieme ad essa diviene possibile soltanto a patto di non crearci assurde aspettative o intenzioni, senza applicare concetti, criteri e conoscenze alla ricerca di una logica che possa spiegarci la vita nella sua interezza.
Corpo e mente, io e mondo, morte e vita, buio e luce, natura e cultura, tutti gli opposti e le contrapposizioni che noi stessi ci creiamo convivono nel flusso vitale delle relazioni.
Quando m’immersi” parla di relazioni all’interno di uno o più contesti o ambienti con diversi contenuti in costante interazione e cambiamento.
In altre parole, il prete vi dice che un’altra vita vi attende, lassù da qualche parte, una nuova vita senza più dolori e pene, una vita eterna dove la morte è di fatto esclusa. Egli sa di mentire, poiché la morte, l’impermanenza di tutte le cose viventi non è mai esclusa.
Vita e morte si appartengono, condividono la stessa parabola nel ciclo senza fine né inizio di tutte le cose, in tutti gli universi possibili. Questo è un punto di consapevolezza imprescindibile per chi voglia vivere con pienezza il proprio passaggio in questa vita.

E contemporaneamente, questo tuo scrivere e questa tua esperienza hanno uno sguardo sulle cose minute, su di un microcosmo dove protagonisti sono pulci d’acqua, foglioline…. Cosa significa questo?
Significa che niente è escluso, che un vero rapporto con la realtà deve per forza di cose farsi strada in primo luogo nella nostra mente. Una mente che si fa aperta e ricettiva, in modo indiscriminato, a tutto quanto entri in relazione con essa.
Dalle cose più umili e minute a quelle più grandi e maestose. Dici bene, caro Giovanni, quando parli di esperienza, perché l’esperienza è tutto (Shakespeare), non in senso cumulativo, ma in senso olistico, organico, omni-comprensivo, così che l’esperienza si confonda con l’interrelazione.

Acqua e natura sono fondamentali in queste pagine. Di che ‘ecologia’ vive questo libro?
Il punto di vista ecologico implica una precisa posizione nell’ambiente. Induce alla scelta di vivere, giorno per giorno, minuto per minuto con costanza, premura e attenzione. Si tratta di trasformare ed evolvere con esso, lasciandoci invadere dagli stimoli che ogni elemento ci trasmette, nella consapevolezza profonda che noi siamo le nostre esperienze.
Una fitta rete di relazioni crea uno scambio continuo in perenne movimento nelle strutture più minuscole della materia, come in quelle indefinitamente grandi. Sentendomi da sempre cosa tra le cose, il mio interesse verso tutto ciò a cui appartengo non crea distinzioni, non pretende privilegi.
L’uomo non è il mio interesse principale, non mi sento rispettoso dell’ambiente solo in vista di una supposta salvezza dell’umanità.

Se c’è un battito cardiaco che anima tutto questo tuo scrivere, direi che lo ‘stupore’ è una necessità continua, l’energia fondamentale che tutto alimenta. È così?
Arte, poesia, musica e tutto quello che ci fa intraprendere e percorrere un processo di trasformazione e di consapevolezza nascono e prendono forma dall’energia che ci compone collegandoci al tutto. Da qui la scintilla dello stupore che ci stimola a rimetterci ancora in viaggio, al di là dello statico cinismo, della perenne insoddisfazione che la realtà degli uomini di continuo ci spara addosso, con la violenza delle sue scelte, con la sua ostinazione e ipocrisia. In altre parole, il nostro impegno sta nell’accettare anche il buio, la morte, il lato oscuro delle cose per illuminare maggiormente la totalità della vita.
Un fiume di energia che fluisce invitandoci ad entrare nella sua corrente per fluire con essa. Chissà che prima o poi gli uomini non imparino la vera umiltà, riconoscendo con Copernico che il loro mondo non è il fine né il centro dell’universo, con Darwin di fare parte del regno animale e con Freud che l’io umano non è padrone in casa propria.

 

L’autore:
Roberto Cogo è nato a Schio (Vicenza) nel 1963. Si è laureato in lingue e letterature anglo-americane all’Università Cà Foscari di Venezia con una tesi sulla letteratura di viaggio (Jack Kerouac e W. Least Heat-Moon).
Ha pubblicato diverse raccolte di poesie, le più recenti sono “Deora Dé – Fiori d’Irlanda/Flowers of Ireland” edito da Dot.com Press, del 2015, e “Zen garden. Haiku per un giorno” del 2017, autoprodotta.

robocogopoetryonline.jimdofree.com

(Roberto Cogo “Quando m’immersi. Trittico d’acqua” pp. 105, 12 euro, Qudu editore 2021)

 

 

 

 

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Skyline

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Tempo presente         ——————————

Chist cuarp che puarte a torzeon, Questo corpo che porto in giro

Sette testi

di Emanuele Salvador

Non è un haiku

Chist cuarp che puarte a torzeon
Coma una çhiamesuta liseir
A no me pậr gno
Fin che a no me dole

Questo corpo che porto in giro
Come una camicia leggera
Non mi sembra mio
Finché non duole

*

Un haiku nichilista

Soi sec coma un vuòss
cenza sintiment, ma vo
no steis bacilà

Sono secco come un osso
senza sentimenti, ma voi
non preoccupatevi

*

Un giorno sarò liberato
dalla creatura che sono
Un giorno sarò liberato anche da quello che sono stato
i miei errori e leggerezze avranno la stessa consistenza della sabbia
la mia giovinezza sarà passata invano
nessuno se ne ricorderà
Un giorno sarò liberato
dalla creatura che sono stato
e né i dolori né i piaceri passati
avranno un qualche significato
Un giorno sarò ricordi per vecchi
un peso per la terra
un angolo muto con occhi più verdi e vene più blu
Un giorno sarò liberato da desideri e passioni
da meccaniche e costrizioni
da orologi e tentazioni
Un giorno il mio nome ed il mio ricordo passeranno
leggeri sulla tua lingua
come un aroma d’aglio

*

Quando la ciotola del cane fu messa nel ripostiglio
e Penelope apparecchiò per tre
la storia finì

*

Trieste blues (à la Eliot)

Città senza portici,
sotto la pioggia battente
nessun riparo per il viandante

e il brivez non ha bubez
e la fontana non dà acqua
e non c’è aglio per i ceva

Da qui vedo il mare, ma non i marinai
città di vecchi e ragazzi
i bambini non giocano per le strade

e il brivez non ha bubez
e la fontana non dà acqua
e le babe no le baba

Motorette in riga come tessere di un domino
attendono il nascere della bora
per poggiarsi graziosamente una sull’altra
e stendersi in terra

e il brivez non ha bubez
e la fontana non dà acqua
e le zigale sono andate

*

Tondo, liscio e levigato,
scevro da ogni peccato,
se lo tiri fa male,
se lo tirano, uguale:
il clap non ha classi sociali,
religioni, imperativi morali
né filosofie, occidentali o orientali.
Schizza dal vulcano, rotola a valle,
pigro vien trascinato dall’onda del mare;
dotato di naturale eleganza
si trova a suo agio in ogni stanza.
non ha preferenze per montagna o mare
dove si trova il clap sa stare
(ma se c’è da rotolare
oh, egli non si fa pregare).
Convive, in pace, con i suoi simili
di ogni forma e colore,
sian scisti, basalti, pomici o calcari,
son gli uomini che ne fanno dei muri

*

Un haiku culinario

Al muset petàres
Se tu je ves dat al timp
Ma tu vậs de corsa

Il musetto sarebbe diventato appiccicoso
Se tu gli avessi dato tempo
Ma tu vai di corsa

 

Emanuele Salvador, finché non duole

di Massimiliano Bottazzo

È impegnativo leggere Emanuele Salvador perché induce alla distrazione, nello scarto tra la brevità del contenuto e la molteplicità evocativa che al contrario esprime.
Autore versatile, di generi anche molto diversi quali haiku, brevi prose poetiche, aforismi e componimenti poetici propriamente detti, ad una conoscenza personale non appare poi così complesso, piuttosto la sua parola è la realizzazione di ciò che è.
Una persona “laterale”, che osserva la vita di sguincio, che tuttavia tutto attentamente soppesa a cominciare dalle parole, quelle dette e scritte, dove il silenzio è già una scelta di campo, “un giorno il mio nome ed il mio ricordo passeranno/ leggeri sulla tua lingua/ come un aroma d’ aglio“.
Da quella prospettiva laterale, che ha deciso di abitare, di essere, vede altro, come l’occhio di un fotografo che, scelta la propria angolazione, coglie ciò che ai più scappa via: “quando la ciotola del cane fu messa nel ripostiglio/ e Penelope apparecchiò per tre/ la storia finì”.
Il pensiero e la poetica di Emanuele Salvador sembrano essere volti alla ricerca del luogo giusto in cui stare, in cui fermarsi, “questo corpo che porto in giro/ come una camicia leggera/ non mi sembra mio/ finché non duole”.

 

L’autore:
Emanuele Salvador, classe 1963, pordenonese, informatico per scelta in quanto non particolarmente amante dell’imprevidibilità, bramoso e ipocrita lettore.
A tutt’oggi il più alto seppur latente abitante della ridente frazione Molassa.

 

 

 

 

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Segnale poetico numerouno

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Tempo presente        —————————

Perché leggere ti cambia la vita

Piero Dorfles, “Il lavoro del lettore”

di Roberto Lamantea

Nel novembre 2020 Nicola Gardini, latinista e scrittore, ha pubblicato da Garzanti, nella collana “I piccoli grandi libri”, un volumetto delizioso, “Il libro è quella cosa, pensieri, aforismi, sui libri e la lettura”.
Chi come me – e, immagino, come lui – ha la casa piena di libri, conosce quel misto di ansia e attesa che si prova scorrendo con lo sguardo gli scaffali – o le torri – pieni di libri non letti.
E quando mai li leggerò?” mi chiedo a volte, calcolando come un ragioniere metafisico, e con i dovuti scongiuri, quanto mi resta da vivere. “E le file dei libri non letti crescono. Pensate! Costruirsi una biblioteca di libri non letti, o non ancora letti. Ha senso? Altroché. Davanti a tante file di libri so che la risposta c’è. La risposta mi guarda”. Chi ama i libri riempie la casa – tutte le stanze – con quegli oggetti cartacei. Gli scaffali non bastano: “Doppia fila? No. Doppia casa”; “Quanti libri ho…? Io mi domando: quanti libri non ho?”; “Ci sono libri che non ricordavamo di avere. A noi loro, però, non hanno mai smesso di pensare”. “I libri aspettano. Ci aspettano. Intanto ci leggono”.
È un amore speciale, quello per i libri: chiede di essere condiviso. Quelle lettere d’aria, di parole che amano altre parole, le hanno scritte in tanti: Virginia Woolf (Come leggere un libro, Passigli); Marcel Proust (Del piacere di leggere, Passigli); Stefan Zweig ha disegnato la figura di un libraio di Vienna che, in una Mitteleuropa che non c’è più, in un racconto bellissimo e struggente, sapeva trovare qualunque libro gli chiedessero: “Mendel dei libri” (Adelphi). Umberto Eco diceva che il libro è un oggetto definitivo, come la forchetta e la ruota.
Piero Dorfles, noto anche al pubblico televisivo per la trasmissione Per un pugno di libri, è un altro innamorato di quegli oggetti di carta. Qual è il refrain che càpita spesso di sentire da chi non legge? “Vorrei leggere, ma non ho tempo”. “Quando sento qualcuno che dice di non leggere perché non ha tempo, perché è difficile orientarsi tra i troppi libri che escono, e che comunque costano troppo, so per certo di avere davanti una persona che non sa leggere”.
È un po’ come chi non sa nuotare o andare in bicicletta. “Leggere” avverte Dorfles “è un lavoro, un mestiere, una competenza che si acquista solo con l’esercizio, e che si rischia di perdere se non la si coltiva”.
Il critico triestino lo scrive nell’introduzione al suo nuovo libro, “Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita”. Dorfles invita a leggere 73 libri, alcuni famosi – che tutti dicono di aver letto, magari a scuola, e non è vero – altri più rari. Li ha raggruppati in nove capitoli: dalla figura dell’inetto così cara a Svevo (ma troviamo anche Don Chisciotte), alle isole come luoghi geografici e metaforici, le “ziette” di tanta letteratura familiare, la guerra (con pagine toccanti su Lussu e Rigoni Stern) e raggelanti similitudini con quanto accade oggi in Ucraìna, è accaduto ieri in Bosnia, accade in mezzo pianeta; “Mielestrazio”, titolo curioso – arriva da Arancia meccanica di Burgess – per i libri con eccessi di zuccheri, dove sfidando le ire di chi li ha eletti a titoli culto Dorfles stronca libri celeberrimi: dal Piccolo principe di Saint-Exupéry (troppo zuccherato); Il vecchio e il mare di Hemingway; Piccole donne della Alcott (ma non del tutto, si legga che cosa scrive di Jo March…); Narciso e Boccadoro di Hesse (retorico, e ha ragione); La Storia di Elsa Morante, romanzo controverso fin dalla prima pubblicazione negli “Struzzi” einaudiani nel 1974… Naturalmente Dorfles ci invita, comunque, a leggerli, quei libri.
Altre sezioni sono dedicate a “Camminare, pensare, scrivere”, quella flânerie che dopo Thoreau è una vera e propria visione della vita – e a cui l’editore Ediciclo dedica una collana stupenda, “Piccola filosofia di viaggio” e al centro di Foliage. “Vagabondare in autunno” di Duccio Demetrio (Raffaello Cortina Editore) – dove apprendiamo che Hegel odiava la montagna e dove ritroviamo una novella come La passeggiata di Robert Walser e la Parigi di Benjamin: “la rivendicazione di una totale estraneità al mondo della competizione, ai tempi della produttività, alla corsa al successo. Quasi un progetto di rifiuto dei valori dominanti, la rivendicazione del diritto a una vita mite e limpida. Un dichiararsi estraneo ai processi economici e sociali”.

Gialli, delitti e misteri: l’indagine poliziesca che, oltre che il colpevole di un omicidio, rivela le dinamiche della natura umana (capofila il Poe della Lettera rubata, naturalmente); la figura di Faust, in uno dei paragrafi più intensi, da Marlowe, Goethe, Bulgakov a Mann.
Infine le distopie, la fantascienza: Verne che nel 1863 immagina la Parigi del XX secolo e praticamente azzecca tutto, fino a Solaris di Lem (da qui uno dei film più emozionanti di Tarkovskij), i robot, i sistemi totalitari, l’illusione dell’uomo di dominare il mondo attraverso la tecnica, dove Piero Dorfles ha un’unghiata geniale: “Nemmeno il più originale degli autori di fantascienza è stato in grado di immaginare che il futuro ci avrebbe regalato gli smartphone”.
Con un’avvertenza: “Quando la tecnologia arriva a clonare l’intelligenza umana, a costruire androidi, come raccontano le storie di Isaac Asimov, di Arthur C. Clarke e di Philip K. Dick, si aprono i problemi con cui – per ora solo in letteratura – si sono dovuti confrontare tutti i faust e i frankenstein che hanno superato quel limite. Se l’essere artificiale, il golem, l’homunculus hanno un’intelligenza umana, avranno anche le contraddizioni dell’uomo, e le leggi della robotica difficilmente ci salveranno dai problemi che produrranno”.
Ecco il valore della letteratura (dei libri): la coscienza, l’analisi, la riflessione su ciò che stiamo vivendo, abbiamo vissuto, sempre vivremo.
Ma è il finale il capitolo più emozionante del libro: Dorfles ricorda come nell’orrore di Auschwitz Primo Levi si rammaricasse di non ricordare per intero i versi del XXVI dell’Inferno di Dante, quello di Ulisse, quell’Ulisse che disobbedisce al divieto divino di oltrepassare le colonne d’Ercole perché non siamo fatti “a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza”.
Quell’Odisseo che nel poema di Omero è l’eroe umano di ogni tempo.
I libri, la lettura”, conclude Piero Dorfles, “non portano certezze, ma dubbi. Non felicità, ma conoscenza. Non spiegano il perché della vita, ma stimolano a porre domande e a essere consapevoli di sé. Non possono superare la difficoltà di trovare un senso al nostro essere, ma ci permettono di allontanare il rischio di perderci nel nulla e ci impongono di mettere al centro di tutto la vita. Di chiederci perché, appunto, siamo, oggi, qui”.

 

L’autore:
Piero Dorfles è nato a Trieste il 29 dicembre 1946. È nipote del critico d’arte Gillo Dorfles. Giornalista professionista dal 1975, è stato responsabile dei servizi culturali del Giornale Radio Rai ed è divenuto noto al grande pubblico grazie alla sua partecipazione al programma televisivo di RaiTre Per un pugno di libri accanto a Patrizio Roversi e in seguito Neri Marcorè, Veronica Pivetti, Geppi Cucciari. Ha curato, fino al 2007, la rubrica radiofonica Il baco del millennio per Rai Radio 1.
I suoi libri: “Atlante della radio e della televisione” 1993, “40 anni di TV”, con Carla Salvatore, 1993; “Carosello”, Il Mulino 1998; “Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura”, Garzanti 2010; “I cento libri che rendono più ricca la nostra vita”, Garzanti 2014; “Le palline di zucchero della Fata Turchina. Indagine su Pinocchio”, Garzanti 2018.

(Piero Dorfles “Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita” pp. 254, 16 euro, Bompiani Overlook 2021)

 

 

 

 

Immagini       ———————————–

Sponda

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Voce d’autore       ————————–

I margini di ciò che siamo

Antonello Bifulco e Vieri Peroncini, “A sud di nessun nord”

di Salvatore Cutrupi

A Sud Di Nessun Nord” è un libro edito da Qudulibri, scritto dai due poeti Antonello Bifulco e Vieri Peroncini, appassionati amministratori del gruppo facebook ”Nessun giorno sia senza poesia ODV”.
La silloge è un corpo unico e sia per l’estetica del linguaggio che per l’interiorità emotiva degli autori sembra sia stata scritta da una sola mano.
Nel poetare di Vieri e Bifulco c’è un fluire di immagini, di memorie e di affetti, ma ci sono anche riflessioni personali che rimandano ai misteri della spiritualità: “Ci sono dei punti d’incontro/ col meridiano della vita/ anche oltre l’orizzonte”.
La struttura del libro è composta da un’alternanza di poesie brevi, simili ad aforismi, e di poesie più lunghe che somigliano a brevi racconti. Si percepisce il desiderio dei due poeti di essere originali, di allontanarsi dalla banalità delle cose da dire, di uscire dai consueti parametri della struttura programmata.
La loro poetica non ha limiti tematici e tante volte tende a superare i confini del reale, del tempo, dell’ovvio per inoltrarsi sulla via delle dimensioni filosofiche: “Torneremo ad essere foglie sottili/ a coprire le labbra nelle pagine della notte”.
Uno dei temi che traspare dai loro versi è quello della solitudine, soprattutto interiore, dove si avverte il peso della delusione per i sogni non realizzati, per obiettivi di vita rimasti incompiuti: “Volevo essere tempesta e impeto/ E sono solo/ Un pelo di bassotto”.
Nel cammino della loro quotidianità c’è la ricerca del senso dell’esistenza, un desiderio e forse un bisogno di amare e di essere amati.
“A Sud di nessun Nord” c’è la semenza dei due poeti, la loro origine geografica, la loro cultura, l’impronta del loro popolo e soprattutto la loro l’amicizia fraterna: “noi che delle nostre guerre/ conosciamo ogni rumore/ che spergiuriamo ed invochiamo/ un cristo e la sua querela”.
(Il libro è arricchito dalla prefazione di Sergio Sichenze, dalla postfazione di Rocco Burtone e dalla copertina d’autore di Stefano Tartarotti).

 

dal libro:

I margini di ciò che siamo

Quello che siamo
domandatelo a quei secchi vuoti
abbandonati sotto il sole
mentre trattengono il fiato,

chiedetelo ai margini di ogni risata
ai pensieri che si organizzano
per rivoluzionare lo zen
delle vostre solitudini,

alle trombe che hanno smesso di suonare,
all’acrobata che verifica il trapezio
nel diritto e nel rovescio
di una moneta gettata al vento,

abbiamo deciso di vivere ai margini,
siamo come la musica che sbagliai tempi,
siamo i muri che si affacciano ai ponti
chiudendone il passo.

*

Ho le mani
piene di tagli
Scambio sempre
la lama per il manico

*

Penso

Penso
alla vita che ci lasciavamo alle spalle
piena solamente di noi
nelle stanze vuote
nelle vuote illusioni che la solitudine
fosse un puntino lontano,

penso
alla luna di questi giorni
chiusa dentro la stanza a misurare gli spazi,
a chiedersi quante stelle
potrà ancora vedere
soccombere nel suo mare,

penso
a quanti sorrisi improbabili
porteremo ancora all’altare
nella confusione dei tempi,
quante e quali geometrie d’amore
governeranno ancora questo mondo.

*

Se dovessi morire
Vendi il mio cavallo
La mia sella
E le mie pistole
E comprati un servizio da tè
Con tanti fiori
E bevi il tè ogni giorno

*

Codice a barre

Quando ero piccolo
Speravo sempre di tagliarmi
Graffiarmi, scorticarmi
Per potermi mettere un cerotto
(Mi giova? Si vede che mi giova?
Disse con ecolalia il cieco)

Ora sono cresciuto,
Porto sempre con me
Un coltello e faccio da me,
Creo il mio destino.

 

Intervista ad Antonello Bifulco e Vieri Peroncini:

Il vostro libro “A Sud Di Nessun Nord” è una sorta di dedica a Charles Bukowski che ha scritto un libro con questo stesso titolo, oppure ha un altro significato?
Antonello Bifulco: Non ricordo più quando ho letto la prima volta un libro di Bukowski, ricordo che le indicazioni scolastiche non me lo davano tra le migliori letterature poetiche da leggere, anzi, al Totocalcio della Scuola questi poeti erano visti come il buon Satana sul portale della Chiesa, lo davano perdente sempre, diseducativo, come certi insegnanti ai quali ho voluto porre delle distanze e non solo per Bukowski. Ho amato molto e tutt’ora ne porto dentro i segni della sua scrittura: “Cosa potrebbe fare un poeta senza tormento? Ne ha bisogno come della sua macchina per scrivere” così diceva nel suo “A sud di nessun nord”, ed io del tormento ne ho sempre fatto un luogo dove essere felice comunque, dove gettare le mie paure, malesseri e depressioni, felicemente tormentato amo dire a chi mi chiede “come stai”, il “come stai” andrebbe riferito alla storia personale per capire come si sta ora, e le storie personali non hanno mai il tempo d’esser raccontate.
Tutto questo per dirti che il nostro libro forse non ha niente a che vedere con quello di Charles, è stata un’involontaria citazione. Il libro è un momento, un passaggio, un viaggio in nessun luogo nella vita di due persone, poesie lanciate al niente da Vieri e me!
Vieri Peroncini: Diciamo che si tratta di un omaggio fatto con “casuale intelligenza”, nel senso che non ci avevamo pensato esplicitamente quando lo abbiamo deciso. Anzi, è da intendere probabilmente nel senso che i punti cardinali, come anche i confini, sono soltanto convenzioni che non hanno alcun riscontro, tantomeno positivo, nella realtà.
E purtuttavia, se dobbiamo fare una scelta emotiva, mettiamo comunque barra a sud, ché siamo tutti terroni di qualcun altro, e noi vogliamo esserlo: in direzione ostinata e contraria, per così dire. Sud è anche dissentire. Sud è anche essere vittime di saccheggio e genocidio. E quando cade il fallout, ci si dirige a sud, per cercare di sopravvivere.
Certo, poi la stima e la conoscenza di Bukowski, che entrambi apprezziamo e che personalmente ritengo uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, probabilmente hanno avuto un peso inconscio – file di memoria che funzionano in background, per così dire – nella scelta del titolo.

Leggendo il vostro libro non è facile capire quali poesie siano state scritte dall’uno e quali dall’altro di voi due. Questa sintonia di immagini, di pensiero, di sentimenti, è stato anche un fattore che ha influenzato la vostra decisione di scrivere il libro a quattro mani?
A.B.: C’è stato un momento in cui le nostre poesie venivano scritte per raccontarci qualcosa, per far sapere all’altro che andava bene, che andava male, o che non andava proprio. C’è nella storia di tutti noi la difficoltà di rapportarsi con l’altro, il desiderio di potersi fidare del prossimo senza doversene pentire poi girato il primo angolo.
La nostra amicizia nasce dal timore di non esser degni uno dell’altro, nasce dalla paura di rapportarsi con qualcuno capace di far di tutto per confermarci quale la pochezza del genere umano. Diciamo che il punto d’incontro è stata quella magia, quella sintonia che ci ha portato a progettare quel sodalizio che dura oramai da tre anni, quel Nessun Giorno Sia Senza Poesia che è diventato il luogo dei nostri incontri con la cultura, con le persone, con l’arte tutta, con quei Produttori di Cultura che certe scellerate politiche vorrebbero delegittimare poiché portatori sani del Libero Pensiero.
Non so se il libro è scritto a 2 o a 4 mani, so solo che vivere i pensieri dell’altro essendone completamente coinvolto facilita il tutto, poi cosa pensi realmente Vieri di me e viceversa non è importante, l’importante è che gli altri pensino di noi qualunque cosa gli convenga.
V.P.: In realtà, non saprei se il libro si può definire esattamente “scritto a quattro mani”. Non ci siamo dati una “mission”, né limiti di alcun tipo. Semplicemente, abbiamo scritto ognun motu proprio, e spinti dal desiderio di fare qualcosa assieme, in senso librario, abbiamo unito – e scremato poi – il materiale, finché ci è parso avere un senso e una forma di unità strutturale interna.
Ma così pare a noi, magari ci sbagliamo clamorosamente. Tuttavia, è ben vero che la sintonia è di fondo, nel senso di profonda: per incredibile che possa sembrare, Antonello ed io guardiamo il mondo attraverso lo stesso tipo di lenti, cosicché è ben naturale che riusciamo a portare avanti un bel po’ di progetti assieme, in primis Nessun Giorno sia Senza Poesia. Ecco, forse sarebbe stato anche giusto firmare il libro “NGSP”, perché in effetti è anche figlio di questa convivenza intellettual-poetica more uxorio che tanto produce: non sappiamo con quale costrutto, ma produce.
Le nostre mogli dicono che dovremmo convolare a giuste nozze, ma noi preferiamo restare così, una coppia di fatto.

In alcune vostre poesie si nota un turbamento, un’inquietudine, un senso di solitudine che sembra in contrasto con la vostra disponibilità al dialogo, al confronto, a socializzare con gli altri. Dove sta la verità?
A.B.: Non c’è una verità, c’è un vuoto lasciato fluire nelle nostre parole per cercare di capire cosa ci sta mordendo l’anima, c’è dell’ironia che si lascia tramortire da un “coltello” che crea il nostro destino senza che siano gli altri a farlo, c’è l’odore di putrefazione, di merda e di umano, c’è l’ambra che racchiude i nostri sensi dentro un lasso di tempo che non possiamo gestire, ci sono i calendari appesi al muro che sono solo lo specchio dei nostri giorni perduti, ci sono i poeti nella loro tensione narcisistica, ci sono Vieri ed Antonello che cercano di capire cosa cazzo ci stanno a fare in questo mondo, in questo spazio di tempo che si prolunga all’infinito come un elastico che prima o poi, nel più bello dei suoi punti di rottura, ci chiederà un conto salatissimo.
Nulla è eterno in questo mondo, nemmeno i nostri problemi. Il giorno più sprecato della vita è il giorno in cui non ridiamo”, “La vera felicità è qualcosa di molto vicino alla tristezza”, questa è la saggezza di un comico del calibro di Charlie Chaplin, lui che aveva della vita una visione disincantata, come quella che abbiamo noi, insieme a quella sana tristezza dopo ogni risata!
V.P.: Nel 1985 scrissi nel tema alla maturità che vedevo l’umanità come un virus per la Terra vista come un organismo ospite; nel 1999 mi stupii abbastanza nel sentire la stessa cosa detta dall’agente Smith in Matrix. Comunque, sono passati 37 e la mia disposizione nei confronti dell’umanità è molto cambiata. In peggio. Credo fermamente nella solitudine salvo eccezioni, e come Mark Twain non sono razzista perché penso che sia sufficiente essere umano per non poter essere nulla di peggio indipendentemente dal colore della pelle. Tuttavia, riconosco che ci sono delle eccezioni in “persone eccelse”, come diceva Battiato, che però esistono in percentuale talmente bassa da essere irrilevante, che producono il bello estetico culturale in toto, ma che non possono né potranno mai arginare l’orrore conradiano che è la cifra dell’esistenza umana. E poi, certo, ci sono alcune persone – pochissime – con cui condividere serenamente questo immenso vuoto: d’altronde, qualcosa bisogna pur fare, mentre aspettiamo l’annichilimento. Questo secondo me, almeno oggi che sono di buon umore.

Il fare poesia è per voi un rifugio, un vizio del pensiero oppure un cammino di scoperta?
A.B.: Probabilmente tutte e tre le cose! Ma più semplicemente un complemento di moto a luogo! Dove stiamo andando o dove vogliamo andare non lo sappiamo, l’importante è che il come sia spontaneo, il più possibile! Si può dire più possibile? Nel caso lo dico in inglese: as much as possible!
V.P.: Un moto spontaneo.

Come amministratori del gruppo Facebook “Nessun Giorno Sia Senza poesia” voi dedicate parecchio tempo a seguire le tematiche di varia natura che presentano gli iscritti. Secondo voi quale dovrebbe essere il ruolo del poeta oggi, nel mondo occidentale?
A.B.: Al poeta vengono richieste già un’infinità di cose, innanzi tutto di credersi Poeta! E oggi credersi un poeta è facile, basta scrivere Poesia! Sembra logico ma non lo è più. Con la nostra logica ed il nostro motto: Nessun Giorno Sia Senza Poesia, noi non cerchiamo Poeti, ma cerchiamo Poesia, non cerchiamo Produttori di Poesia, ma anime che sanno vedere la Poesia dentro se stessi e dentro gli altri, che cercano la poesia in ogni dove scrivendone i gesti, i colori, i suoni del vento quando si abbatte sulle foglie, che cercano Poesia perché la sentono e non perché devono imporla. Il poeta dovrebbe tornare a sognare con gli occhi aperti denunciandone chi, dei sogni, vuol farne scempio, dovrebbe muoversi dove la vita muore, nei meandri delle disillusioni, nei vicoli della miseria e delle libertà rubate, dovrebbe rifiutare l’odio del sottobosco politico che diventa veicolo di potere, dovrebbe smascherare le nefandezze d’una certa poesia corrotta e uscire dal cuore lacerato che produce nuovi Narciso, dovrebbe tornar ad esser Poeta. Semplicemente un Poeta!
V.P.: Il ruolo delle personalità creative dovrebbe, al massimo, essere quello di creare, spontaneamente e secondo le modalità proprie di ognuno. Penso che nell’arte, ivi compresa la poesia, non valga la proprietà commutativa: si può aver fatto politica creando arte, ma è pressoché utopistico creare arte volendo intenzionalmente produrre una comunicazione politica. Se un contenuto politico, o sociale, o umanistico, o psicologico, può esservi in un’opera d’arte, e certamente ciò accade pressoché sempre nelle grandi opere, dovrebbe risultare naturalmente dall’opera creata.
Non credo che intenzionalmente Picasso volesse realizzare uno dei più grandi manifesti umanistici di tutti i tempi contro la guerra dipingendo Guernica (gli esempi potrebbero essere infiniti), bensì che il big bang creativo sia stato un moto dell’animo che ha rielaborato l’orrore di un vissuto specifico secondo le modalità che gli erano proprie, e il tutto ha creato arte e ruolo dell’artista. Siate quel che siete (a meno che non siate fascisti) e lasciatevi modo di esserlo: se ha valore, dovrebbe emergere (non in senso edonista) dal vostro lavoro. Altrimenti, si produce arte burocratica o, peggio, irregimentata (anche irregimentata nel regime dei non irregimentati, ovvio).

 

Gli autori:

Antonello Bifulco, operatore sociale, ha pubblicato la raccolta poetica “Isole a nord est”.
Partecipa a reading ed incontri culturali.
Ha partecipato, vincendo, a diversi premi e concorsi letterari, in tutta Italia.
Assieme a Vieri Peroncini ha fondato la pagina facebook “Nessun Giorno Sia Senza Poesia”.
Sono organizzatori della rassegna “La biblioteca di Brojli”, incontri tra musica e parole, ad Aquileia (Ud).

 

Vieri Peroncini è autore di racconti, molti dei quali ancora inediti. Ha pubblicato il romanzo “Vita da soffione”. È laureato in lettere.
Assieme ad Antonello Bifulco ha fondato la pagina facebook “Nessun Giorno Sia Senza Poesia”.
Sono organizzatori della rassegna “La biblioteca di Brojli”, incontri tra musica e parole, ad Aquileia (Ud).

(Vieri Peroncini e Antonello Bifulco “A sud di nessun nord”, pp. 77, euro 12, Qudulibri febbraio 2022)

 

 

 

 

Immagini       ———————————–

Not so Bad #1

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

 

Voce d’autore        ————————————

Non fu sempre così

Alberto Rizzi, “Mappe polesane”

di Giovanni Fierro

Merita attenzione questa raccolta poetica di Alberto Rizzi. Perché “Mappe polesane”, questo il suo titolo, è un lavoro che diventa documento, uno scrivere che si fa testimonianza.
E il suo sguardo si concentra sul Polesine, lo spazio geografico che contiene la provincia di Rovigo, luogo che diventa così non solo il posto dove si vive, ma anche continuo confronto con i tempi e le responsabilità della nostra società.
Alberto Rizzi non fa sconti, nelle sue pagine racconta sia il paesaggio che il degrado, esplora l’ambiente e la presenza umana, con le sue rovine e le sue ambizioni, i suoi errori e i vuoti che ha lasciato. A Grignano, Torlonga a Loreo, Villamarzana, Porto Tolle….
Poi nel bludifólgore/ l’albero che al vento sbraccia e si contorce/ e lo spacco nella casa vicina/ benchiùso d’assi cheto e scuro/ tutto si fa virato di colore nuovo”, a dire di come si sta ora e di come si era.
E il tempo che sarà domani non ha di sicuro il talento del costruire: “Questa stagione grigiocièlo accentua immobilità/ imprigiona le idee/ di chiunque si sforzi d’averne/ in questo lembo pigro di terra”.
La poesia di Rizzi è un atto critico verso chi ha permesso questo svilimento, verso chi ha lasciato ferite aperte e mancanze. Dove in ogni preciso momento puoi accorgerti che “altro non v’è che un circostante vuoto/ un circospetto vento”.
Quella che anima tutto il libro è una natura che rimane, quasi sopravvive alla presenza pericolosa dell’uomo; che diventa anche uno specchio tramite il quale guardarsi meglio, vedersi per quello che si è diventati: “il sole tra il vento di quei muri/ anche centro di ogni noi/ ombra che ci cresce dentro/nuova come vetro/ finalmente”.
“Mappe polesane” è occasione di riflessione e contemplazione, dove il suono delle parole dell’autore è nuovo corpo nel corpo della poesia stessa, invocazione alla sua tensione, alla sua credibilità.
Per chiedersi, poesia dopo poesia, cosa può rimanere di un tempo che la nostra società ha stravolto e deturpato, incapace di conservare e immatura nel progettare. Forse solo ombre in un buio diffuso, nella responsabilità di chi ha preso le decisioni che hanno portato a questo oggi così amaro. Dove c’è bisogno anche del più piccolo riparo: “il suono complice dell’acque/ che mai confine fanno/ ma silenzio/ alli pensieri nostri/ onesti”.
Alberto Rizzi compie questo viaggio nel Polesine, di paese in paese, di strappo in strappo, di dimenticanza in dimenticanza. E lo fa con la determinazione di chi crede che la poesia è sempre strumento potente di comunicazione. Forza espressiva a cui affidare la propria voce.
Gli uccelli qui partono/ per lunghi e altri viaggi// i più degli umani qui restano/ credendo d’aspettare”.

 

Intervista ad Alberto Rizzi:

“Mappe polesane” nel suo svilupparsi in uno spazio ben definito e delimitato, è anche il costruire un senso di appartenenza?
No, è un’indagine. Ho cercato di pormi nella maniera più neutra possibile riguardo al mio senso di appartenenza al Polesine.
È chiaro che non posso non appartenere a questo luogo: anche se nacqui ad Arco di Trento (pur non potendo dimostrarlo legalmente) qui ho passato tutta la mia vita, eccetto qualche giorno subito dopo la nascita, l’anno di militare in Friuli e un anno a Venezia durante l’Università.
E anche se preferirei altri ambienti per abitarvi (quelli a mezza costa in collina, per intenderci), dal punto di vista ambientale ho accettato questi luoghi. Quello che me ne discosta, semmai, è il rifiuto della popolazione: per la sua miseria interiore.
Il lettore noterà, che se il rapporto col territorio è quello di un viaggiatore che percorre quasi casualmente la Provincia e si sofferma su luoghi anche per nulla importanti, catturato dalla propria curiosità e da ciò che essi offrono per meditare, gli abitanti sono evidenziati come i responsabili diretti del degrado che, pressoché in ogni campo, ha marcato il Polesine almeno dalla metà del secolo scorso.

Colpisce da subito il suono delle parole usate, la ricerca della scrittura che si muove fra richiami al dialetto e a parole che tanto devono al passato. Cosa c’è alla base di questa scelta, di questa scrittura che racconta ed evoca?
Se parliamo di singole espressioni, di parole che all’interno di una lirica appaiono improvvisamente storpiate, rese arcaiche o arcaicizzanti, più o meno dialettali, ecc., abbiamo come punto di partenza una ricerca sonora.
La poesia è prima si tutto sonorità, sonorità che si discosta per questa ricerca musicale (e non necessariamente rivolta all’armonia) dalla prosa; non solo quella parlata, spontanea, ma anche da quella “ben scritta”.
Con queste scelte voglio dare al lettore un segnale di importanza di quell’espressione stessa nel contesto della lirica; e farlo nel contempo riflettere sulla musicalità che appunto deve permeare ogni componimento poetico, come valore aggiunto.
Ho sempre paragonato le “forme chiuse” della poesia alle composizioni della musica classica e i testi in versi liberi al jazz: queste mie liriche dovrebbero esser quindi intese, specie se lette ad alta voce, alla stregua di brani jazz; nei quali l’inserimento improvviso di un fraseggio (anche dissonante), addirittura di suoni considerati per convenzione dei rumori, danno un’apertura diversa al componimento stesso.

Questo libro propone sulle proprie pagine momenti in cui immergersi nel paesaggio è anche momento di riflessione e contemplazione. Da cosa nasce questo desiderio, questo bisogno?
Mi verrebbe da dire che è a causa di quel paradosso, che informa tutto lo scrivere poetico (ma oso dire tutta la creatività artistica in generale): quello di Achille e della tartaruga…
Tutti noi sappiamo che, per quanto ricerchiamo attraverso lo scrivere poetico la perfezione nella resa di un concetto, tutti noi sappiamo che non ci riusciremo mai: proprio per quel problema di finitezza del linguaggio “materiale” nei confronti dei concetti stessi, astratti.
Ed è una conseguenza logica della nostra propria finitezza, fisica e sensoriale, nei confronti di ciò che va oltre la realtà tridimensionale.
Questa incapacità è insuperabile in questo piano d’esistenza, anche se il tentativo è sempre lodevole e va sempre fatto. Ma se finché restiamo al semplice oggetto, possiamo avere sufficienti termini a disposizione (ci sono molti tipi di letto e altrettanti termini per definirli, senza rimanere sul generico), quando passiamo a concetti complessi verremo sempre sconfitti a livello di precisione e completezza descrittiva; e dobbiamo accettare ciò, anche se – come ho appena detto – il tentativo deve essere fatto e con tutte le nostre forze.
Probabilmente, se riuscissimo a compiere il salto di qualità per superare lo scoglio della finitezza tridimensionale, ci ritroveremmo tra le mani un linguaggio difficilmente interpretabile a livello stesso di lettura, sonoro; e quindi il problema in sostanza rimarrebbe.
Me ne sto occupando in una raccolta che ho appena iniziato (“Il movimento del violinista”) e alla quale, non a caso e dopo solo una mezza dozzina di poesie scritte, mi vien voglia di darle come sottotitolo quello de “L’illeggibile”. Ma sto divagando…
Quello che intendevo dire come risposta alla tua domanda e citando quel celebre paradosso, è che per quanto io abbia cercato di essere “neutro”, oggettivo, la propria sensibilità, la propria soggettività rientrano dalla finestra.
Una delle definizioni che do della Poesia (e l’ho scritto anche nelle note di lettura della raccolta di cui stiamo parlando), è di essere una sorta di radar con il quale esplorare l’esistente; incluso l’esistente “a livello sottile”. Ora un radar è uno strumento “neutro”: ma davanti al suo monitor c’è sempre una persona, che deve interpretare quello che vede, qualche volta mettendoci del suo.
Di fronte ai paesaggi, ai luoghi incontrati e descritti in quest’opera, qualche volta l’Io prende il sopravvento e dice la sua; e anche questo, io ritengo, è un segno di quella finitezza, di quell’imperfezione che caratterizzano il nostro piano d’esistenza; ma non è il caso di farsene un problema.

Perché chi legge (ma anche chi lo ha scritto, mi viene da dire) si confronta con questi luoghi e, come in uno specchio, si confronta inevitabilmente con se stesso. Può essere così?
Ecco, vedi: io volevo concludere la precedente risposta proprio con questo concetto, ma vedo che me l’hai scritto tu qui come domanda… Sì, è così ed è inevitabile. Voglio dire che in qualunque processo artistico, l’opera fa da specchio al suo autore, ne riflette delle particolarità.
Anche questo è un paradosso notevole, perché ciò avviene indipendentemente dai desiderata dell’autore stesso, per quanto si voglia porre in posizione neutra rispetto a ciò che descrive. L’impossibilità di escludere se stesso dal lavoro che fa è un altro di quei paradossi, che l’autore conosce molto bene e che deve accettare senza problemi.
E naturalmente questo “effetto specchio”, sì, funziona anche verso il lettore; direi anzi che è indispensabile, perché l’opera trasmetta qualcosa. Se, da parte sua, ci può anche essere una certa curiosità attorno all’autore stesso, dobbiamo ricordarci che il lettore chiede all’autore, al testo di farlo venire a conoscenza di qualcosa di nuovo: su ciò che viene descritto e, di rimando, su se stesso.

I luoghi vissuti e raccontati vivono di un silenzio importante, ma che non tradisce alcun senso di solitudine. Mi sbaglio?
Domanda particolare, questa sulla solitudine (o meno) dei luoghi…
Devi sapere che io considero qualsiasi cosa un essere vivente, quindi anche l’insieme degli aspetti che formano un luogo e pure “le cose”, nella fattispecie i singoli edifici: in altre parole una casa, per quanto abbandonata, non è meno viva di un animale, di un vegetale. E allora, se è chiaro che la solitudine è una condizione esistenziale che informa qualsiasi individuo, pure i luoghi, gli edifici ne sono investiti. Quanto ai soggetti delle mie liriche, tale eventuale solitudine è vissuta in linea di massima con dignità, come una situazione naturale.
Così il mulino restaurato ma chiuso al pubblico, la fonderia abbandonata, l’edificio in rovina, (ma anche quello che si trova in uno spazio occasionalmente isolato dall’ambiente umano), accettano questa loro solitudine e pensano “ok, è così; ma qualcuno verrà prima o poi”; o anche “gli uomini sono andati, ma c’è una moltitudine di animali e piante a tenermi compagnia”; oppure – citando De Andrè – “quando si muore, si muore soli”.
Quanto al silenzio, è più un silenzio percepito come tale da noi umani e quindi anche da me come autore, che un silenzio reale. Ci siamo dimenticati (ma per fortuna ci sono esercizi appositi, per riappropriarsi di questa capacità di attenzione) di quanti suoni è popolato l’ambiente attorno a noi, quando non ci sono quelli da noi prodotti; anzi soprattutto quando essi non ci sono. Un altro guasto dell’antropocentrismo, presumo.

Però, leggendo i testi dedicati ad esempio al vecchio ospedale di Rovigo o alla grande fornace, si vive un intenso senso di abbandono, che va al di là del destino del solo edificio….
Il concetto che dici è esatto: perché nei luoghi, negli edifici si rispecchia l’agire degli uomini che li hanno vissuti.
Decisi di chiudere la raccolta col lato specificatamente “civile” del mio fare poesia, perché la raccolta fu scritta durante e subito dopo quel “Achtung Banditen – Poesie per le Nuove Resistenze” (autopubblicato), che fu il seguito di “Poesie incitanti all’odio sociale”, uscito nel 2008 per la Puntoacapo di Novi Ligure.
In queste due raccolte scrissi tutto quello che mi sentivo di dire sulla frattura nella società italiana (ma in sostanza occidentale), che ha terminato di consumarsi proprio con la recente “emergenza” sanitaria.
Il concetto che si debba abbandonare la massa al destino che s’è scelta, per non rischiare di esserne travolti, per quanto dolorosa sia questa decisione a livello umano, è presente nei miei lavori (non solo poetici) fin dalla metà degli Anni ’80.
Ma, come ho appena detto sopra, con quelle due opere decisi che ero stato abbastanza completo e chiaro; e che stava arrivando il momento, nel quale ciascuno doveva fare la propria scelta sul da che parte stare.
Ma, ripeto, uno dei temi principali del mio scrivere, per quanto lasciato fuori dalla porta, era destinato a rientrare dalla finestra… Né poteva essere altrimenti, parlando di luoghi in un territorio umanamente degradato, com’è da moltissimi decenni ormai il Polesine; almeno quello di Rovigo.
Pertanto accade che il degrado umano (inteso nella fattispecie come incuria, abbandono, ignoranza del valore che ha la salvaguardia di un territorio), finisce col rispecchiarsi nell’ambiente attorno. E sia come persona che come scrittore sono convinto che occorra tenerne conto.

 

Nella scrittura che anima il libro, spesso la luce del sole è una presenza importante, capace di portare l’attenzione su dettagli che così emergono dal contesto, sottolineandoli. Che valore e senso ha questo mettere in evidenza, usando la verità della luce?
Quello che hai detto: rinforzare l’attenzione del lettore su quel determinato particolare; per farlo meglio ricordare, comprendere.
Posso anche precisare che non c’è un discorso di “verità assoluta”: nel senso che uso la luce più in senso teatrale (cioè come parte di una scenografia), che come rivelatore di un presunto “è così”.
Si potrebbe obiettare che se sottolineo qualcosa, specie in quel modo, è perché lo ritengo “vero”: ma questo, se vogliamo leggere la cosa in tal modo, è soltanto un punto di vista mio personale, che non impegna il lettore. Potrei chiedermi, per esempio: in altre condizioni di luce (cioè in un altro momento della giornata, ma anche in un’altra stagione), cosa sarebbe emerso dall’indagine su quel soggetto? E la risposta, ovvia, sarebbe: qualcosa di differente.
Ma questo non è poi importante: le poesie di “Mappe polesane” nascono in maniera puntuale, cioè come da un flash ricevuto passando in quel determinato luogo. Ne è prova il fatto che la maggioranza sono luoghi poco significativi al grande pubblico, a livello turistico; anche non facilmente identificabili, per quanto l’impaginazione delle liriche stesse segua una logica geografica ben precisa; e che quindi può aiutare il “viaggiatore reale” a trovarli.
Non c’è quindi la volontà di trasmettere una “verità svelata tramite quel luogo”; ma semmai di proporre ciò che quel luogo mi ha raccontato di sé in quel particolare momento.

E poi questi testi contengono dei passaggi che si presentano come delle vere e proprie illuminazioni, folgorazioni come “Gli uccelli qui partono/ per lunghi e altri viaggi// i più degli umani qui restano/ credendo d’aspettare”. È questo il senso più profondo dello scrivere poesia?
Secondo me, sì, ma è un parere personale: molti altri autori si distinguono per un contenuto “senza alti e bassi”, ma non per questo meno profondo. Io ritengo invece che un testo poetico debba convergere su alcuni versi particolarmente significativi; non sempre, certo, ma è una possibilità da sfruttare appena se ne presenta l’occasione.
Un avviso di questo modo di procedere l’ho già dato nella prima risposta, dove ho spiegato come i termini particolari che uso, siano altrettante spie di un passaggio importante nel testo stesso.
E possiamo anche riandare al testo come fornitore di notizie, dettagli, conclusioni che al lettore dovrebbero essere quantomai utili; presunzione dell’autore, magari, però anche di questo ne abbiamo parlato: con le tue domande e le mie risposte su ciò che i vari luoghi hanno offerto alla mia osservazione.
Vorrei anche divagare un attimo da questa tua domanda, per osservare come tu abbia citato il passo conclusivo di una delle poesie, che considero più importanti all’interno di “Mappe polesane”; che non a caso viene tra le ultime, prima di quella “cartolina” ironica che è “Paesaggio estivo con bagnante rappreso”, la quale serve a sua volta da pausa di respiro prima della lunga provocazione “civile” de “Un Delta a misura d’uomo”.
Barene in Comune di Rosolina” presenta questo paesaggio quasi “trasparente” e apparentemente senza alcun significato, per il suo continuo alternarsi di terra e acqua al volgere delle maree.
Questo paesaggio minimo vede però la presenza contemporanea di tre elementi (terra – acqua – aria), al quale si aggiunge il fuoco del sole, ma anche lo spirito dell’osservatore, del viaggiatore; a patto che sia cosciente, però.
Cioè che sappia di come il vero viaggio sia cambiamento interiore, ovvero opera alchemica. E questo sempre: se dal viaggio non si ritorna cambiati dentro, non è servito fino in fondo. Per questo a un certo punto compare il verso “E compi l’Opera…”, ritenendo che anche questa sorta di catalogo di luoghi e ambienti apparentemente non collegati da filo logico alcuno (se non il far parte di una stessa Provincia che, racchiusa tra due fiumi, è di per sé un territorio specifico in quanto tale, prima che entità amministrativa), anche questo percorso abbia in sé le potenzialità per una crescita iniziatica, se si vuole osare l’uso di questa espressione così impegnativa.

Ma poi, in definitiva, in questo Polesine così meticolosamente raccontato cosa rimane del tempo passato, e cosa contiene del nostro tempo odierno?
Sai, il tempo è un continuum nel quale i termini passato, presente e futuro sono ingannevoli. E il fatto che vi siamo immersi, complica ancor di più la cosa.
Così di fatto c’è tutto: ci sono il passato il presente e il futuro, per come li concepiamo noi. Ma forse questa domanda sarebbe più giusto rivolgerla ai lettori, chiedere più o meno “sei riuscito a cogliere anche il passato e il futuro di questa terra?”.
Io posso dire che la raccolta è centrata su ciò che noi chiamiamo presente, che per forza di cose vi sono richiami dal passato, suoi riaffioramenti: prendi per esempio “Pianura e golena”; e che viene suggerito un futuro, ne vengono suggerite delle ipotesi; dopotutto nella poco sopra citata “Un Delta a misura d’uomo” c’è tanto la colpevolizzazione delle generazioni passate e presenti, quanto viene mostrata una soluzione futura, per quanto provocatoria. Tanto che il testo è costruito come la narrazione in un futuro prossimo di un testimone di quegli avvenimenti.
Ma è il lettore che dovrebbe cogliere queste scansioni temporali, non io.

 

L’autore:
Alberto Rizzi è nato ad Arco di Trento nel 1956. Lavora in campo poetico dall’inizio degli anni Novanta.
Ha pubblicato le raccolte “Opera Prima – Non voglio morire a Rovigo” (1994), “L’armadio cromatico” (2000), “Piccola trilogia nera” (2000), “Poesie incitanti all’odio sociale” (2008) e il romanzo “I pesci nel barile” (2013).
Inoltre ha al suo attivo altre e diverse raccolte poetiche autopubblicate, sia come samizdat che attraverso la piattaforma on line Youcanprint.
È presente in diverse antologie ed ospite di riviste on line quali Laboratori Poesia, In sala c’è Neobar, Margutte e LaRecherche.

(Alberto Rizzi “Mappe polesane” pp. 53, 10 euro, Youcanprint 2021)

 

 

 

 

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Metal Novel

di Vincenzo Rusciano

 

 

 

Intervista a Vincenzo Rusciano:

di Luigi Auriemma

Caro Vincenzo, nelle tue sculture fai uso di frammenti di statue, rappresentanti parti del corpo, o meglio del corpo dell’arte, e oggetti di uso comune che fanno parte del mondo quotidiano, il corpo del mondo che ti circonda. Da quale esigenza nasce l’utilizzo di tali frammenti e oggetti nel tuo modo di fare arte?
Le mie opere sono spesso in bilico tra forma e immagine, tra passato e presente, classicità e contemporaneità.
Nella mia idea il termine precarietà tende a declinare con una riconsiderazione del nostro patrimonio culturale, in relazione al rapporto che nel tempo abbiamo instaurato con questa ricchezza.
Abbondanza e frammentarietà in certi casi non sono scindibili, e presuppongono un inevitabile rispecchiamento tra condizione della società e stato dell’arte.
Una miscela particolare che si è venuta a creare nei secoli anche nella città di Napoli.

Il frammento, elemento rilevante nella tua arte, può essere inteso come parte di un “uno primigenio”, comune un po’ a tutte le religioni, deflagrato. Cristianamente riferito all’unicità di Dio esplosa. Questa esplosione può causare la dispersione di senso dell’opera?
Credo che la società, la storia contemporanea, purtroppo non genera e non trasmette sensi compiuti, dunque di riflesso anche l’arte, le opere, di per sé non ne hanno.
La storia che ci vede protagonisti è in effetti una sorta di polisindeto visivo in cui vari episodi tra loro apparentemente distanti vengono accostati senza effettivi legami semantici. Ma non credo causi la dispersione dell’opera, anzi, spesso così l’arte si appropria della sua forza evocatrice.

Come artista, in che misura ti poni rispettivamente alla spiritualità dell’essere e alla intelligibilità del mondo?
L’arte è uno strumento potente, di grande ricchezza, e riveste molteplici funzioni. La spiritualità resta, a tutt’oggi, una delle innumerevoli possibilità dell’arte.
Le opere d’arte possono essere qualsiasi cosa, possono parlare di tutto e devono anche continuare a farlo e a poterlo fare.
Mi costerna molto il fatto che oggi, in modo strano, ha preso piede una definizione alquanto limitata dell’arte contemporanea, che la riduce a mero “mi piace”, è “interessante”.
Un’opera può fare molto di più. Nel passato è successo di frequente. Uno dei miei artisti preferiti, Mark Rothko, ha fatto un’arte che può parlare di tutto.

L’utilizzo del frammento, per te, è una riflessione filosofica sul concetto di morte o è seme di una nuova possibile germinazione, quindi rinascita?
In generale, non credo nella distinzione assoluta tra vita e morte. Mi è molto presente l’idea di anima.
Ed il frammento è anima, è ciò che partecipa in maniera essenziale alla forza evocatrice dell’opera.

Molti filosofi e scrittori hanno indagato il tema del frammento. Quali sono i tuoi riferimenti culturali, filosofici e artistici che hanno formato il tuo pensiero?
Il frammento nel mio lavoro non vuole raccontare niente di più, in termini di riferimenti, di quello che vediamo nei limiti dell’opera.

Nelle tue opere utilizzi sia la matrice e sia la copia. A volte stratifichi più copie addensandole in un unico agglomerato. Quale è il motivo e quale espressione artistica hanno queste stratificazioni e da quale esigenza espressiva deriva l’utilizzazione della copia come pieno e la matrice come vuoto?
Sento molto il concetto di stratificazione. Sociale, culturale, ancor prima che geologica, artistica e architettonica.
La fusione di centinaia di civiltà, fino ad arrivare anche al contemporaneo. Stratificazioni, matrici, pieni, che forse non avverto mai del tutto sovrapposti ma desiderosi di mescolarsi, di aggiungere ciascuna un tassello a quel che già c’era.

Nelle tue opere si osservano delle strutture in ferro sottile che ricordano gabbie. Viene da pensare che è come se volessi ridefinire lo spazio circostante, oppure, diversamente, come sottolineare che all’interno della gabbia è lo spazio della scultura; diverso dallo spazio del mondo. Quale di queste due ipotesi si avvicina al tuo fare artistico?
Sono visioni sullo stato di certe cose, in cui tutto fluttua in una condizione di precarietà generale (anche di condizione sociale) ma dove forse tutto sommato è conservata una certa forza evocativa.

 

L’artista:
Vincenzo Rusciano è nato a Napoli nel 1973. Docente all’Accademia di Belle Arti di Brera e di Napoli. Galleria di riferimento: Galleria Nicola Pedana, Caserta.
Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private, italiane ed estere, tra cui: Madre – Museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli; MAC – Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, Lissone (MB); Museo della scultura contemporanea, Gubbio; Collezione Ernesto Esposito, Napoli; Collezione Ettore Rossetta, Napoli; Collezione Galerie Ernst Hilger, Vienna; Collezione Claudia Gianferrari, MilanoRoma; Collezione Angela e Massimo Lauro, Napoli – Città della Pieve (PG).
Tra le recenti mostre personali: Metal Novel, Chiesa di San Giuseppe delle Scalze a Pontecorvo, Napoli, sotto il Matronato della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee (2022); Skyline, Galleria Nicola Pedana, Caserta (2018); Nero Moto Perpetuo, Museo Civico di Santa Maria dei Servi, Città della Pieve (PG), organizzata da “Il Giardino dei Lauri” – Collezione Angela e Massimo Lauro (2017); MAC: certain regard, MAC – Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, Lissone (MB), curata da Alberto Zanchetta (2016); Not so Bad in Capri, Villa San Michele Foundation, Anacapri, curata da Maurizio Siniscalco (2016); Not so Bad, Annarumma Gallery, Napoli (2016).

Le tre foto che ritraggono Vincenzo Rusciano sono di Danilo Donzelli.

 

Immagini       ———————————–

Skyline

di Vincenzo Rusciano

 

Le opere di Vincenzo Rusciano qui proposte:

Metal Novel
Installazione presso la Chiesa di San Giuseppe delle Scalze, Napoli 2022
Chiesa di San Giuseppe delle Scalze, Napoli, 2022.
Courtesy Galleria Nicola Pedana. Foto di Danilo Donzelli.

Untitled Munthe
2016
Mixed media cm 60×30. Foto di Agostino Rampino.

Not so Bad #1
2016
Foto di Danilo Donzelli

Segnale poetico numerouno
Segnale poetico composto da una serigrafia di Vincenzo Rusciano, versi di Valerio Magrelli avvolti dalla pianta Napoli la gentile coperta da un velo bianco.
In cinquanta esemplari. Il Filo di Partenope editore.

Escape
2011
Legno, plastica, corda, tela, bitume, cm 90x130x252

Est
2022, libro realizzato a mano con penna e serigrafia in 1 esemplare numerato e firmato.
Courtesy Galleria Nicola Pedana.

Sponda
Installazione presso la Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, Napoli 2014

Skyline
Installazione alla Galleria Nicola Pedana, Caserta
Foto di Danilo Donzelli

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.

 

 

 

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