Fare Voci ottobre 2023

Sempre di più la parola è al centro di Fare Voci. Per dire e per testimoniare, per raccontare e per incontrare.
E questo numero di ottobre si apre con la poetessa ucraina Oksana Stomina, e il suo libro “Lettere non spedite”. Scritto in questo tempo dell’invasione russa, è un documento importante, per dire di questo adesso così tragico e pericoloso. Originaria di Mariupol, Stomina ci porta nel cuore della guerra, nel suo essere atto disumano, esecrabile e dannato. Ce lo racconta anche nell’intervista. A novembre sarà in Italia, per un giro di incontri e presentazioni.

Fare Voci continua con le poesie e le considerazioni sulla poesia di Alessandro Agostinelli, il suo “Le vive stagioni” è libro consigliato, per entrare nel vivo dello scrivere. Gli inediti sono quelli del poeta bisiaco Ivan Crico e della poetessa cubana Giselle Lucía Navarro.

Il ti racconto è tutto nelle pagine del romanzo “Amico mio” di Gianmarco Perale e nei due racconti inediti di Francesco Zorzenon.
I Margini. Di poesia ed altro sono quelli di Luigi Aliprandi, con le sue due raccolte “La sposa perfetta” e “Poesie del tempo ordinario”. E stiamo anche assieme alla poesia di Isabella Flego e il suo “Per ogni domani di cristallo”.
Le immagini sono le dieci opere di Luigi Pagano.

Buona lettura

Giovanni Fierro

(la nostra mail: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini         ——————————

Genesi

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Voce d’autore      —————————

Dunque, guerra. Guerra è quel che ora abbiamo

Oksana Stomina, “Lettere non spedite”

di Giovanni Fierro

Lettere non spedite” è un libro importante perché racconta e documenta quello che sta succedendo in Ucraina adesso.
Scritto da Oksana Stomina dopo l’invasione delle forze russe sul suolo ucraino, questa raccolta poetica è un atto d’accusa verso la violenza della guerra, verso l’indicibile cattiveria dell’essere umano, verso l’atto fuori da ogni ragione di Putin.
Lasciata la nativa Mariupol su convincimento del marito Dmytro Paskalov, dopo i bombardamenti e le corse nei rifugi, da metà marzo ’22 il suo scrivere è diventato ancor di più atto di resistenza, ancor più quando è stata messa all’angolo dalla notizia che proprio il marito, fra i difensori dell’acciaieria Azovstal, era stato catturato dai russi, e tenuto prigioniero in chissà quale luogo.
E allora le “Lettere non spedite” sono quelle che Oksana Stomina ha pensato, scritto e desiderato per lui, senza avere un indirizzo a cui spedirle, senza avere una certezza che questa sua attesa possa avere una fine.
In tutto questo vissuto doloroso e pericoloso, questi suoi testi sono uno scrivere dalla prima linea, fronte di guerra e fronte di umanità, il luogo esatto dove si trovano parole che hanno la spinta del coraggio per trovare la pagina, per dire che “il palazzo di fronte è stato colpito nel petto./ Ancora ieri ci viveva gente comune,/totalmente viva e diversa. Felice, ogni tanto”. È questa la cifra ancora più dolorosa: il quotidiano che si fa sofferenza, paura e condanna.
Oksana Stomina è autrice di questa cronaca, giorno per giorno. Grazie a lei abbiamo una testimonianza direttamente dalla linea del fuoco subito: “Non leggiamo più, manca la luce nella stanza nera/ Allora vado a letto presto, chiudo gli occhi e penso:/ taceranno le armi, torneremo a casa a primavera,/ quando avremo vinto questa guerra senza senso“.
Questa è poi la tenacia di non arrendersi, di non accettare né la possibile sconfitta né la perdita della propria umanità (a riguardo nell’intervista che segue lei lo racconta molto bene…). Perché la realtà ha un nuovo volto: “Dio, che questa tortura almeno ci sia risparmiata,/ di seppellire i nostri figli”.
Tutto il libro è allora un confronto fra le perdite e ciò che rimane, e che può aiutare a riconoscersi per come si era. Anche se sotto gli occhi i fatti dicono “come se uscissero dalle tombe,/ in un incubo troppo spaventoso/ i vivi emergono dai sotterranei/ e si scrollano la cenere dai piedi”.
E Mariupol? La città in cui è nata e che ha dovuto abbandonare? Eccola, “Cara mia casa, amata mia fortezza…/ Dove sei ora? Come stai senza di me?”; perché adesso quello della Stomina è un chiedersi di dove può essere la sua appartenenza, il suo stare in questo presente che l’ha spinta fuori da ogni normalità. La risposta non ammette fraintendimenti: “Sono ovunque e in nessun luogo”.
Le lettere non spedite continuano ad accumularsi, sono momenti di vicinanza dove la prossimità geografica è impossibile. Rimangono il sentire e l’amare, unici conduttori di energia che tengono accesa ogni possibile scintilla di speranza: “Ci scriviamo queste lettere. Pure e trasparenti./ Non parlano di cannoni, carri o posti di blocco, ma di albe color ciliegia,/ di un bel nido sotto i pini, di felicità e di vittoria./ Scriviamo d’amore. Può mai mancare?”.
Queste pagine sono anche un ritratto del volto della guerra, che la Stomina fa, dettaglio dentro il dettaglio, scrupolosamente, senza togliere alcuna verità, anzi: “Dunque, guerra. Guerra è quel che ora abbiamo./ Questa guerra è quel che in ogni muscolo sentiamo,/ la portiamo nel nostro zaino e nelle nostre tasche./ Per lei siamo i fari e i bersagli, nostro malgrado”. A cui sa aggiungere il giusto accento di sè: “Perdonami, Dio, se sono tutta di guerra”.

Il prossimo mese Oksana Stomina sarà in Italia per un tour di presentazioni di “Lettere non spedite”, occasione importante per incontrarla.

Queste le date di novembre 2023:
venerdì 3 Società Letteraria di Verona, sabato 4 Rassegna della Microeditoria, Chiari (Bs) – domenica 5 Associazione Postumia, Rocca Palatina, Gazoldo degli Ippoliti (Mn) – martedì 7 Human Right Night, Forlì – mercoledì 8 Libreria Coop, Bologna – giovedì 9 Accademia delle Belle Arti, Venezia – venerdì 10 rassegna Apertamente, Gorizia – domenica 12 Centro Culturale “Ucraina Più”, Milano – lunedì 13 Libreria Zabarella, Padova – mercoledì 15 Biblioteca Comunale, Castel Goffredo (Mn)

 

dal libro:

Fa paura

È spaventoso scriverne. Come farne poesia
o sulla cenere ardente costruirsi una via,
trattenendola nei palmi delle mani a grande scorta,
poi essere con lui, nella prigione, fatta morta
e insieme a loro, tra quelli che non smettono di cercare,
sotto l’assedio, nei rifugi, nelle trincee, nelle bare,
essere l’ultimo dottore all’hospital,
la madre che ha il figlio in “Azovstal”,
sepolta viva da una casa che si sgretola…
Per scriverne, non bastano le parole!
Per scriverne non basterà nemmeno il cuore.
Per scriverne, esiste solo il rancore!
Se io ne scrivo nasceranno brutti versi.
Sempre più brutti, e difficilmente saranno diversi…

(marzo 2022)

*

In nessun luogo

Sono ovunque e in nessun luogo. Testarda e incessante,
ovunque io fugga, ho la guerra alle costole, sempre presente.
Sussurra illusioni, graffia via la fiducia.
Ovunque mi trovi, io sono sempre a Kharkiv, a Bucha…

Dentro di me ormai solo zolfo e acciaio.
Il mio universo: i miei tristi pensieri. La mia casa: un bagaglio.
Il dovere: odiare sempre l’orda che ci divora.
Dove siano la felicità e mio marito, lo ignoro…

Invano nascondo il dolore a me stessa e a chi ho intorno.
Ovunque mi trovi, io – non ci sono e anelo il ritorno.

(8.07.2022, in nessun luogo)

*

Quando torneremo

Quando da lontano e dall’oscurità ritorneremo,
dai rifugi, dall’esilio, dagli orizzonti e dalle frontiere,
e quando finalmente dell’inverno ci sbarazzeremo
e tra le lacrime vedremo i profili delle miniere,

i gelsi e gli àmoli che si ergono sul lungomare,
la città natia, così triste da non poterlo dire,
estrarremo le chiavi che non abbiamo saputo buttare
e le alzeremo sopra le nostre teste ad ingrigire.

Le faremo tintinnare. Quel suono penetrante e feroce
echeggerà per il mondo, graffiando il cielo,
e cadrà, per restare per sempre nell’erba
come granito immacolato in compagnia dei caduti.

(agosto 2022)

*

Aspettare
Lettera non spedita

Sai, ragazzo, aspettare – è come vivere a metà,
guardare silenti l’orizzonte e tenerlo abbracciato,
superare l’abisso ogni giorno, errare nel campo di grano
e rileggere le liste. Come se fossi la madre di

mio marito. Tesa come un cordone ombelicale,
la tenerezza sorregge, ma non guarisce la fatica.
Perché aspettare, ragazzo, è sentirsi in colpa,
di non averti preso per mano e portato a casa.

Perché aspettare, caro, è rimandare le faccende,
gioie e desideri, sogni e speranze. Tale è
la punizione, come se non avessi più il diritto,
insieme a metà del sole e metà del cuore.

Perché aspettare, amore, è contare le mattine
e le notti senza te, attraversare le case altrui,
guardare dalle finestre, respirare attraverso le tende,
e sostenere le mura, che sorreggono il tetto.

(dicembre 2022)

rileggere le liste = elenchi di persone scelte per lo scambio di prigionieri

 

 

Intervista ad Oksana Stomina:

(A cura di Marina Sòrina, per le traduzioni. A lei un grazie sincero per la disponibilità e la professionalità)

Che cosa ha significato per lei scrivere questo libro?
In realtà non ho scritto questo libro. Sono una di quei strani poeti che scrivono poesie senza pensare alla pubblicazione e alle edizioni in volume. Scrivo semplicemente perché non posso farne a meno. È così che rifletto, che esterno le mie emozioni, che sublimo la mia tensione interiore e il mio dolore nella creatività.
E questo è il momento in cui noi, ucraini, abbiamo molto da sublimare. La guerra è il momento propizio per la poesia.
Se mi guardo attorno, noto che ora in Ucraina la poesia è scritta anche da chi non se ne interessava prima. Chi non scrive, legge le poesie altrui e le impara anche a memoria. Ogni tanto qualche amico – o anche persone che non conosco, – citano i versi delle mie poesie, e la cosa mi sorprende sempre meno, perché anch’io cito versi di altri poeti.
Quindi, non stavo scrivendo un libro. Scrivevo poesie e le “lanciavo nel cielo”. Sono stata molto fortunata che ci siano state persone che hanno ascoltato, sentito, tradotto, raccolto, pubblicato e quindi trasmesso queste poesie, ampliando la cerchia dei lettori. Questo è un grandissimo dono per me, ma è anche importante per il mio paese. Tutto quel che è stato scritto sulla guerra ora documenta la verità dei fatti, forma l’opinione pubblica degli europei e si oppone alla cinica propaganda russa. Tutte le mie poesie sulla guerra sono dei reportage rimati. Da questo punto di vista sono immensamente felice, perché ora possono agire anche per il pubblico italiano.
Sono profondamente grata a chi ha partecipato alla creazione del libro, visto che tra tutti i generi letterari la poesia è la meno attraente dal punto di vista commerciale. Capisco perfettamente che l’editore abbia sostenuto questa pubblicazione non tanto per motivi commerciali, quanto per una giusta causa.
L’Italia è un paese pacifico, lontano dalla tragedia ucraina. Ma il cuore umano è una sorta di radar sensibile: chi ha un cuore grande è capace di percepire il dolore altrui a grande distanza. Il cuore delle persone che hanno realizzato questo libro è forte, aperto e sensibile. Hanno uno spiccato senso della giustizia, la capacità di empatia e il desiderio di rendere questo mondo un posto migliore: tutto quello che apprezzo di più nelle persone.

La scrittura, in questo caso la poesia, che aiuto le sta dando a sopportare tutta questa realtà così devastante?
Certo che aiuta! Le poesie sono sentimenti incarnati in parole, suoni, rime, ritmo. Ho pianto sulla carta o sulla tastiera del mio portatile ciascuna delle mie poesie sulla guerra. Ho avuto la fortuna di ricevere in dono dalla natura questo meccanismo difensivo. Grazie alla poesia, rimetto in ordine l’anima e la mente, butto via i sentimenti futili, come la rabbia o l’aggressività, raccolgo e organizzo invece le cose più importanti: l’amore, la luce, la fede nel bene. Tutto quello che mi sostiene.
Ogni ucraino, a prescindere dai lutti personali, prova nell’animo un intenso dolore. Il miglior modo per riprendersi, per superare il dolore è parlarne, esprimerlo in parole. Lo facciamo in modo intuitivo.
Ad esempio, molti militari hanno cominciato a scrivere poesie, e ciò mi rende felice e orgogliosa. I nostri difensori scrivono poesie nelle trincee tra una battaglia e l’altra. A mio avviso, così facendo aiutano il mondo a bilanciarsi, opponendo alla guerra l’armonia delle parole. Il nostro popolo combatte l’aggressore con le armi; la poesia invece permette di combattere la guerra in quanto tale, la guerra dentro di sé, e non permette che lei ti divori, che distrugga il tuo spirito.

Tutto il libro è un cercare continuo la vicinanza. Di persone, di luoghi, di tempi… Si ritrova in questo?
Come potrei non essere d’accordo con questa sua percezione? La poesia non è un problema matematico che ha una risposta esatta. È una relazione tra l’autore e il lettore. E se il lettore l’ha “sentita” così, allora è così.
E in questo caso, la sua impressione e il mio messaggio coincidono davvero.
In generale, cerco l’intimità nella mia vita. È importante per me costruire relazioni sincere e aperte con le persone che mi circondano, immergermi negli eventi e condividere il destino della mia gente. Osservo molto attentamente quelli che incontro sul mio cammino, per riuscire a distinguere se sono presenze casuali o no. Grazie a questo approccio, ho trovato tanti veri amici e sono persone straordinarie, speciali, importanti per me, che ho scelto e che mi hanno scelto per far parte del loro “cerchio di forza”. E questo, in un certo senso, è l’intimità.

In queste poesie c’è poi anche la volontà di tenere tutto assieme (spaesamento, dolore, amore, città nativa, perdite …), ma come si fa? È possibile?
Non ho alcun desiderio di mantenere vivo il dolore, gli orrori e le perdite. È solo che, a prescindere dalla mia volontà, tutto questo è, purtroppo, parte integrante del mio presente e della vita delle persone che mi circondano. Voglio catturare gli eventi e le persone che mi circondano così come sono, per mostrare che la guerra non è fatta di numeri e di ferraglie, non è nemmeno una mera questione di numero di morti. La guerra è fatta di destini e vite distrutte.
Voglio spiegare a tutti coloro che ancora non lo capiscono che una vittima della guerra non è solo qualcuno che ha perso una casa, una gamba o, Dio non voglia, una persona cara. Ora in Ucraina, chiunque abbia un cuore sta provando un dolore insopportabile. Sia ogni singola tragedia individuale che la tragedia nazionale nel suo complesso, sono percepite in modo molto profondo e personale.
Mi sembra che la questione principale non sia come trasmettere o conservare un certo pensiero, evento o riflessione in poesia, ma chiarire perché bisogna farlo. Vi dirò il mio motivo per farlo: voglio rendere il mondo un posto migliore. Sogno che il mondo si muova nella direzione dell’umanità, e per riuscirci, dobbiamo, per così dire, “reclutare guerrieri della luce”: svegliare l’empatia nelle persone, sviluppare la capacità di compassione, farla diventare una tendenza.
Vorrei davvero che la gente smettesse di percepire la guerra come uno spettacolo televisivo, in modo che ci siano più persone che vogliono la pace rispetto a quelle che dalla guerra traggono profitto o clamore. Vorrei che ci sia una massa critica di persone oneste, che non giustificano la guerra e non sostengono gli assassini, e che questo sia finalmente sufficiente per guarire la società.
Può sembrare troppo ingenuo e romantico, ma voglio ricordarvi che tutti i cambiamenti positivi nel mondo sono stati iniziati da qualcuno partendo da zero. Non pensate che nulla dipenda da voi. Semplicemente, aggiungete la vostra voce e i vostri sforzi. Chissà, forse la vostra voce è l’unica che manca per ottenere il risultato desiderato?

E in tutto “Lettere non spedite” si vive un continuo senso di ‘attesa’. Che attesa è? Come la si può vivere, come la si può scrivere?
Naturalmente, nelle “Lettere non spedite” c’è l’attesa, perché sono poesie sull’attesa. Ora tutti i miei compatrioti sono diventati esperti in questo campo e possono raccontarvi tutto sull’attesa. Ogni ucraino aspetta qualcuno o qualcosa: il proprio ritorno in Ucraina o quello dei parenti e amici che sono stati costretti a fuggire e ad andare in terre lontane; il ritorno dei padri, mariti e figli dal fronte; l’arrivo delle informazioni sui parenti scomparsi; la liberazione della propria città e la vittoria.
Ognuno di questi tipi di attesa è un processo molto faticoso e difficile. Vivere più attese contemporaneamente è come tenere sulle spalle un peso insopportabile e cercare disperatamente di portarlo fino all’orizzonte.
Purtroppo, la mia esperienza di attesa è molto variegata. La mia città è occupata, i miei parenti vivono ora in diversi paesi, i miei amici rischiano ogni giorno la vita al fronte e mio marito è prigioniero del paese-aggressore da sedici mesi. “Lettere non spedite” non è una metafora, è la crudele realtà della mia vita. Sono lettere vere che scrivo al mio amato, senza poterle inviare al destinatario. Scrivo queste lettere e aspetto che mio marito torni a casa per poterle finalmente ricevere.
Come si fa a scriverne? Con onestà. Sono sempre a favore dell’onestà, per la scrittura che riflette ciò che si pensa e si sente. A volte mi permetto anche di modellare un futuro positivo, di dipingere un quadro che desidero. Mi sembra che tutti i poeti siano un po’ maghi, e la parola in rima ha un potere magico speciale.

In che cosa si deve, o si può, ‘trasformare’ il proprio dolore, se lo si vuole destinare alla lettura e all’attenzione di un’altra persona, di un lettore?
In realtà, non mi pongo il compito di condividere il mio dolore per scaricarlo su qualcun altro. È impossibile e non voglio farlo. Al contrario, quando le persone del pubblico iniziano a piangere ascoltando le mie poesie, mi sento in colpa. Vorrei saltare giù dal palco e abbracciare ognuna di loro.
Il mio obiettivo è condividere le mie conoscenze sulla guerra e sulle persone, su come la vita sia imprevedibile, su come il mondo sia fragile e su come tutto ciò che una persona ha costruito possa essere distrutto da un altro. E non c’è altro modo per trasmettere tutto questo che portarlo con sé. Non c’è altro modo per creare la fiducia che spalancare il proprio cuore. In questo caso, c’è sempre il rischio che qualcuno ci scagli contro delle pietre, ma mi sembra che sulla strada che porta ad un obiettivo nobile, i rischi siano giustificati. Inoltre, credo ostinatamente che le persone buone siano la maggioranza nel mondo.

 

L’autrice:
Oksana Stomina, nata a Mariupol, è poeta, scrittrice e attivista per i diritti umani. È inoltre organizzatrice di molti progetti sociali, letterari, legali e di beneficenza, vincitrice del premio letterario Yuri Kaplan e del premio letterario Slavic Traditions.
È fondatrice dell’organizzazione pubblica Yuri Kaplan. Autrice di diverse raccolte sulla guerra in Ucraina: “ATOmy del destino”, “Vicino alla guerra. Diari ucraini” (tradotto in inglese e lituano), “La guerra arriva senza invito” (tradotto in tedesco).
E anche autrice di guide interattive di Mariupol per bambini e adulti: “Una passeggiata con Marik” e “Un meraviglioso viaggio con Mik e Marichka”, oltre a raccolte di fiabe e poesie: “I segreti del vecchio muro”, “Lettera a un adulto”, “Poesie inaspettate”, “A proposito dei vivi”.

(Oksana Stomina “Lettere non spedite” pp. 105, 12 euro, Gilgamesh Edizioni 2023)

 

La traduttrice:
Marina Sòrina, nata a Kharkiv nel 1973 in Ucraina, in Italia dal 1995, è laureata in Lingue straniere presso l’Università di Verona. Nel 2009 ha conseguito un dottorato di ricerca in letterature comparate presso lo stesso Ateneo.
Dal 2014 fa parte del direttivo di “Malve di Ucraina” APS, l’associazione che riunisce la comunità ucraina veronese presso il Centro per le donne migranti “Casa di Ramia”.
In ambito letterario ha pubblicato i libri di narrativa “Voglio un marito italiano” (Punto d’incontro 2006) e “Storie dal pianeta Veronetta” (Tra le righe 2018).
Ha tradotto il libro di narrativa “Diario di un fallito” di Ėduard Limonov (Odradek 2004).
E anche le poesie di “Lettere non spedite” di Oksana Stomina e il libro di prose brevi “Le mie donne” di Iuliia Iliucha, di prossima uscita per Mezzelane edizioni (https://www.crackrivista.it/2023/09/13/crack-rivista-numero-16-iliukha/).
Vive a Verona.

Per approfondire:  https://www.heraldo.it/2022/12/24/parole-in-terra-bruciata-tre-poete-ucraine-dicono-la-guerra/

 

 

 

 

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Corpus

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Tempo presente       ————————–

Beche de pin, Aghi di pini

Poesie nel dialetto veneto arcaico di San Martino del Carso

Tre testi inediti

di Ivan Crico

Not a Samartin

Beche de pin
ta’l stupin guèdo
de can i omine uncòi.

No iè daur a pensà
a gnente, gnanca a murì
chìste fantat de cui sa
onde rivade.

Ta sta tenpestada
de patrone e sanc
barassade i oce
i cata sol che
fradei de l’altra
banda.

Oltra l’agar
de sta not
barassada de triste

saiète cialeren mai
la dì ch’al jà de rivà?

Notte a San Marino del Carso

Aghi di pini
nei vortici vuoti del vento
gli uomini oggi.

Non pensano
più a nulla, nemmeno
alla morte questi ragazzi
da chissà dove arrivati.

In questa oscura
tempesta di sangue gli occhi
non trovano altro
che fratelli dall’altra
parte.

Oltre il solco
di questa notte
graffiata da lampi
feroci

vedremo mai
il giorno che deve arrivare?

*

Momente

Signor, al jà de vignì ànca ‘l tènp
del dolè, mi lo so, ma ‘l ciaro
de ai so oce de frut ‘l farà de trożo
tal ciarandón del domàn. ‘L ricordasse

dei so dé pìssui che le me strènz
un bus su la sarnèla del vec’ pare
là che la ʃguàrʃina trista del sol
dei ane la jà lassà agar fonde. Onde

‘l finìs sto nostro grant olèrse ben?
Onde ‘l finìs al ride, ‘l vaì? Ièrba
verd che la ven fura ta le sclese
de piere de la val bruʃada: de gnou

se scontrarèn, cussì, anca noi, oltra
‘l scur? Come momente de savalon
sèn, drio spetà de no se sa de onde
ne quan che ‘l jà de ievàsse al vènt.

Momenti

Signore, arriverà anche il tempo
del dolore, lo so, ma la luce dei suoi occhi
di bambino aprirà un sentiero tra le spine
dei giorni futuri. Il ricordo delle sue

piccole dita che si stringono alle mie
sarà come un bacio sulla fronte del vecchio
padre dove l’aratro feroce del sole
degli anni ha lasciato solchi profondi. Dove

finirà tutto questo nostro grande amore?
Dove finiranno i sorrisi, il pianto? Erba
verde che cresce tra le schegge
di pietra della valle incendiata: di nuovo

ci incontreremo, così, anche noi, oltre
il buio? Come momenti di sabbia
siamo, in attesa che non si sa da dove
né quando si levi il vento.

*

Viglia

Zornade de dissenbre.
Oltra ai barcone verte
cialo arde ta i foghe alte
de la sera la Gesia.

Raʃìna, là fura, e l’aghe
la bussa guis’ciada del fredo ai orte
in pustot, i ciarandon, le piere
onde che ”ncora cu’i sasse
se messeda fregule de osse –
mai destudade le vose
de zovin sanc sensa pas.

Un fià de lusor che se tien
da mens che como neve
al tenp, in sedin sedin, uncoi
al covèrze de passion.

Vigilia

Giorni di dicembre. Oltre
le finestre aperte guardo
ardere nei fuochi alti
della sera la Chiesa.

Pioviggina, là fuori, e l’acqua
bacia sferzata dal gelo orti
abbandonati, la fitta boscaglia, le pietraie
dove ancora ai sassi

si mescolano le ossa sbriciolate
– mai spente le voci
senza pace di giovane sangue versato.

Un respiro di luce sigillata
nel ricordo che il tempo, come neve
silenziosa, adesso
vela di pietà.

 

L’autore:
Ivan Crico è nato a Gorizia nel 1968, ma fin dalla nascita ha vissuto a Pieris, presso le foci del fiume Isonzo. Dal 2006 vive nell’antico borgo rurale di Tapogliano. Si dedica allo studio della pittura fin da giovanissimo, laureandosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia ed esponendo presso importanti gallerie e sedi museali.
Scrive in lingua e nell’arcaico idioma veneto bisiàc. Sua la versione integrale in bisiàc de “Al cant dei Canti” (Il Cantico dei Cantici, 2018); su invito di Giorgio Agamben, la traduzione poetica dell’opera di Pier Paolo Pasolini “I Turcs tal Friùl” (2019).
Nel 2021 ha curato e tradotto la riedizione del “El critoleo del corpo fracassao” di Biagio Marin e “L’arte di andar per uccelli col vischio”, seguito da “Presumût unviâr” di Amedeo Giacomini.
In poesia ha pubblicato “ Piture” (1997), “Maitàni” (2003), “Ostane” (2006), “Segni della metamorfosi” (2007), “De arzent zu” (2008), “Seraie” (2018). Nel 2019 è uscita l’antologia dell’intera sua opera edita, “L’antro siel del mondo (1989-2018)”.
Nel 2009 ha ricevuto il maggior riconoscimento dedicato in Italia ai dialetti e alle lingue minoritarie, il Premio Nazionale Biagio Marin.

 

 

 

 

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Mom

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Ti racconto        —————————

In un gorgo senza respiro

Gianmarco Perale, “Amico mio”

di Roberto Lamantea

Che cos’è l’amicizia a tredici anni? Qual è il confine tra amicizia, gelosia, possessione? Quanto l’altro diventa lo specchio della nostra fragilità, insicurezza, bisogno di conforto, di rassicurazione sul proprio posto nel mondo?
L’adolescenza è insieme aurora, scoperta e ossessione, è il gorgo che può definire il nostro posto nel mondo per sempre o la rivelazione di una diversità che sarà il nostro timbro per tutta la vita. Ed è un tema difficile in letteratura: può avere accenti leopardiani, la nostalgia di una giovinezza passata nella prigione della differenza e della lontananza da un’ambìta, e forse inesistente, normalità; le inquietudini e la violenza del Törless di Musil; il rifiuto di una vita imposta dagli adulti come gabbia e il rifugio in un mondo fantastico come nel film “Creature del cielo” di Peter Jackson; la ribellione di Pinocchio; la vertigine del nonsenso nell’Alice.
Gianmarco Perale ha trentacinque anni ed è al suo secondo romanzo, dopo “Le cose di Benni” (Rizzoli 2021). In “Amico mio” (NNE 2023) i personaggi principali sono tre: Tom (Tommaso), il protagonista, tredici anni come gli altri, terza media; l’amico del cuore, Poni (Paride); Leo Fosco, il “cattivo” (o il rivale), che Tom picchia rompendogli il naso per difendere Poni, colpito da Leo con un righello.
La vicenda coinvolge la scuola, i ragazzi e i loro genitori sono convocati dal preside, che opta per trasferire Tom in un’altra classe. Tutto risolto? Certo che no. Salta fuori che Poni ha invitato Leo alla festa di compleanno, e questo scatena la gelosia di Tom. Il ragazzo viene inghiottito da un gorgo fatto di rivalità, possessione, fantasie contorte. Il finale è aperto, enigmatico, inquietante, a scriverlo è il lettore. Narrativa minimalista per una trama solo in apparenza semplice.
Per raccontare questo universo che via via si chiude su se stesso in un gorgo sempre più senza respiro Gianmarco Perale, come già in “Le cose di Benni”, si affida ai dialoghi. Una prosa tutta dialoghi, a segmenti minimi, brevi e veloci, con rapide pennellate d’ambiente, giusto per inquadrare la scena.
La scrittura come macchina da presa, frasi secche, una prosa parlata, senza saltare nulla nei passaggi, con minime liaisons visive ne fanno un romanzo che si legge veloce, con forte effetto presenza. La lezione della letteratura americana.
Sembra una tessitura semplice, ma perché la prosa, la trama, non si sfilaccino mai, non ceda mai la tensione (anzi, è in crescendo come nei film di Hitchcock) bisogna saper scrivere. E saper scrivere è il dono di Gianmarco Perale.

 

dal libro:

“E adesso?”.
Silenzio.
Ancora Poni: “Mi sta aiutando, adesso, secondo te?”.
“Sì”.
“Tenendomi qui?”
Alzando la voce ho detto: “Ti tengo qui, sì. Perché voglio che capisci”.
Non ha risposto. Siamo rimasti zitti per non so quanto tempo. Avrei voluto prendergli la mano e stringerla forte, e abbracciarlo tanto.
“Hai mai scritto una poesia?” ho chiesto.
“No”.
“Io te ne ho scritta una”.
Silenzio.
“Poni?”.
“Sì”.
“Io te ne ho scritta una”.
“Okay”.
“Vuoi sentirla?”.
C’ha messo un attimo, poi ha detto: “Okay”.
Mi sono alzato appoggiando la mano sul muro e sono andato in salotto. Dallo zaino ho tirato fuori un foglio accartocciato e sono tornato davanti alla porta. In piedi, dopo un paio di respiri, ho detto con voce calma e scandendo bene le parole: “Senza di te, un fiore non è più un fiore. Il cielo non è più il cielo. Niente è quello che è”.
Ho fissato la porta, aspettando che dicesse qualcosa.
Poi ho detto: “È finita”.
Silenzio ancora.
“Poni?”.
“Sì”.
“La volevi con le rime?”.
“No”.
“Sicuro?”.
“Questa va benissimo”.
Non ho risposto.
“Quando l’hai scritta?” ha chiesto.
“Tanto tempo fa. Ti piace?”.
“Molto”.
“Davvero?”.
“Sì”.

 

Intervista a Gianmarco Perale:

Anche “Amico mio”, come “Le cose di Benni”, ha al centro della trama il tema dell’amicizia, qui i legami forti e tormentati che si formano durante l’adolescenza. Mi vengono in mente Musil e Mann: innocenza e possessione insieme. Nel tuo libro l’amicizia è il centro della vita: sei d’accordo?
Sono d’accordo. Fin da piccolo ho indagato i rapporti, non riconoscendo (e spesso valicando) i confini che mi separavano dalle persone. Ho amato gente di cui ero ossessionato e ne ero ossessionato perché ne ero innamorato. Amavo gente che non conoscevo, con cui avevo parlato due, tre volte, e al contempo le temevo, e scappavo, mi isolavo e costruivo storie di amicizia e di matrimonio e di figli, di case fra i monti, fuochi, passioni, divorzi. Vite intere passate con quella persona ma che a quella persona non raccontavo mai. Tutto nella mia mente.
Amici che diventavano amori, e viceversa. Il non capire mai dove mi trovo nel mezzo di un rapporto, il mio accogliere la tempesta non sapendo in che punto mi trovi. Se quel rapporto si stia per rompere, riempire, accendere.
Vivere il presente è il mio incubo e il mio unico modo di vivere: rincorrere il desiderio di progettualità senza iniziare a progettare mai. Tentare di costruire, rimandare, dubitare, distruggere.
In amore, in amicizia. Tra Tom e Poni, come fra Benni e Drago, c’è un sentimento forte, ma ha così importanza per me autore identificarlo? Mi spaventa? Cosa mi spaventa? La traduzione di qualcosa di forte, forse, non depotenzia all’istante quella cosa nel momento in cui viene definita? E questo
depotenziamento che effetto ha su di me? Perché mi intristisce? È la domanda di una vita. Nella letteratura, nel mio vivere ogni giorno. Siamo amici o siamo amanti? O siamo entrambi? O siamo una cosa sola?

Anche lo stile ricorda il tuo primo romanzo: la trama si snoda attraverso dialoghi secchi, frasi brevi, rapidi sguardi agli ambienti dove si muovono i personaggi, visti con gli occhi del protagonista. Per “Le cose di Benni” avevi dichiarato il tuo amore per la narrativa americana…
La narrativa americana ha influenzato il mio stile, soprattutto i minimalisti, ma non solo. Wallace, Roth, Ellis, DeLillo, Franzen, McCarthy ecc., mi hanno mostrato approcci e stili differenti per raccontare ognuno le proprie follie. Le proprie ossessioni, perversioni, tormenti. Infiniti modi per fuggire e per tornare.
Il fuoco, il modo in cui dicono quello che dicono ha qualcosa che risuona nel mio mondo. Qualcosa nel loro mondo, un demone o un angelo, esiste e cresce nella stessa forma dentro il mio.

In “Amico mio” l’amicizia sfuma anche in una gelosia ossessiva e possessiva, sino a un finale enigmatico e inquietante. In Italia pochi scrittori hanno raccontato l’adolescenza, mi viene in mente Pasolini e il suo Gennariello: tu come vedi quel momento della vita?
Adulto? Mai” ha scritto Pasolini. L’adolescenza è l’intermezzo più vivo, passionale, frenetico che gli anni ci insegnano a rimpiangere con sempre meno frustrazione e sempre più eleganza (o rassegnazione?).
È un campo su cui è stato piantato meno di quello che in maturità si pensa di aver fatto. Quando scrivo di età passate, le mie, vive e si dimena in me il ragazzino o l’adolescente che non vuole rientrare al tramonto. Il me che la mamma chiama dal balcone, vagamente preoccupata, che non ha avvisato del ritardo. Che cena di fretta senza lavarsi le mani e poi corre di nuovo fuori chissà dove, chissà con quale nuovo amico, in quale imperdibile avventura e verso quale ossessionato nuovo amore.

Qual è il tuo metodo di lavoro? Parti dalla trama, da uno schema narrativo e dei personaggi, o ti affidi al ritmo della scrittura? Per costruire un romanzo sono più importanti l’architettura o l’improvvisazione?
La trama non ha mai importanza. Non so mai come finirà la mia storia fino alle ultimissime pagine, quando la fine appare inevitabile. Nessun colpo di scena. Tutto scorre e si esaurisce. Esiste una storia, dentro di me, che è sempre la stessa scritta per tutta la vita. A volte si esprime in un modo, a volte in altri. A volte la riconosco, altre no. Ogni tanto arrivano idee nuove, slanci, lampi.
E così afferro il lampo e cerco di colpire la mia vita. Cerco di capire che cosa significhi per me. Che urgenza ha quel lampo. Perché è arrivato, e come faccio a dar voce a un mio disagio, a una mia volontà, a una mia necessità. E così inizio a parlare, e a far parlare qualcuno.
Dopodiché quel qualcuno è abbastanza forte, abbastanza consapevole che è pronto per incontrare qualcun altro, forse, e quando questo accade fra i due avviene una connessione. Può darsi che questa connessione arrivi dopo pagine di dialogo sterile (ma in realtà non è sterile, perché prepara il terreno alla
connessione).
E poi mi domando: perché esiste questa connessione? Cosa vuole A da B, e B da A. Cosa voglio io da me stesso? Mi sto liberando di qualcosa? E loro? Si stanno liberando di qualcosa? Come faccio ad aiutarli a vivere? Come faccio ad aiutarmi a vivere? Come faccio, come faccio, come faccio ad aiutarmi a vivere?

 

L’autore:
Gianmarco Perale (1988) vive tra Milano e Mirano (Venezia). Ha frequentato la scuola di scrittura Belleville diretta da Walter Siti.
Il suo romanzo d’esordio, “Le cose di Benni” (Rizzoli 2021), è stato finalista al Premio POP, al Premio Severino Cesari e nella cinquina finale del Premio Flaiano under 35.
Ha lavorato con Walter Siti al podcast “Perché Pasolini?” realizzato da Chora Media. “Amico mio” è il suo secondo romanzo.

(Gianmarco Perale “Amico mio” pp. 208, 17 euro, NNE 2023)

 

 

 

 

Immagini       ——————————

Fatiche ferite

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Latinoamericana       —————————

Todos los días un anónimo me incendia las manos, Tutti i giorni un anonimo m’incendia le mani

Cinque poesie inedite in italiano

di Giselle Lucía Navarro

Cabeza/germen

La cabeza es la semilla
estructural de la aldea,
el gesto que da la tea
al bosque que no se ensilla.
La cabeza es la postilla
donde coagula el futuro.
La cabeza es el cianuro
con que la tribu se asfixia
o evoluciona o se vicia
contemplando el mismo muro.

Cultivar las torceduras
no detiene el crecimiento
pero acopla el firmamento
en medio de las fisuras.
La voz guarda quemaduras
profundas en la raíz.
Apuntalen la matriz
mientras la semilla hiberna.
Si la palabra es lucerna
podrá nacer un país.

Testa/germe

La testa è il seme
strutturale del villaggio,
il gesto che da la teda
al bosco che non si doma.
La testa è la postilla
dove coagula il futuro.
La testa è il cianuro
con cui la tribù si asfissia
o si evolve o si deprava
nel contemplare lo stesso muro.

Coltivare le torsioni
non ferma la crescita
ma collega il firmamento
in mezzo alle fessure.
La voce conserva bruciature
profonde nella radice.
Sostenete la matrice
mentre il seme iberna.
Se la parola è lucerna
potrà nascere un paese.

(dal libro “Sostener una casa”, inédito)

*

Manos de poeta

Todos los días un anónimo me incendia las manos,
cartas manchadas de poco valor.
Para un poeta son peligrosas las palabras falsas,
las amistades falsas,
las guerras falsas,
las vidas falsas.
Un poeta necesita inscribirse un dolor o un amor
si no tiene uno propio,
pero el dolor del poeta debe ser siempre real.
Las palabras del poeta
deben estar manchadas de valor.
Las palabras del poeta
no pueden ser incendios anónimos.

Todos los días un signo incendia mi mano.
Dicen que van a crucificarme.
Dicen que voy a ser la cabeza superior
de todas las cabezas.
Contemplo mis manos:
no tienen sangre
ni tierra
ni cicatrices,
ninguna de esas cosas que marcan valor.

Todos los días una palabra me pesa.
Un incendio se me acomoda en el estómago.
Siguen sin construirme la cruz o la corona.
El país es un estómago
que pesa sobre nuestras cabezas,
y seguimos sin saber
si los hombres que acaban de llegar
serán nuestros héroes
o nuestros futuros asesinos.

Mani di poeta

Tutti i giorni un anonimo m’incendia le mani,
lettere macchiate di poco valore.
Per un poeta sono pericolose le parole false,
le amicizie false,
le guerre false,
le vite false.
Un poeta necessita incidersi un dolore o un amore
se non ne ha uno proprio,
ma il dolore del poeta deve essere sempre reale.
Le parole del poeta
devono essere macchiate di valore.
Le parole del poeta
non possono essere incendi anonimi.

Ogni giorno un segno incendia la mia mano.
Dicono che mi crocifiggeranno.
Dicono che sarò la testa superiore
di tutte le teste.
Contemplo le mie mani:
non hanno sangue
né terra
né cicatrici,
nessuna di quelle cose che segnano il valore.

Ogni giorno una parola mi pesa.
Un incendio si sistema nello stomaco.
Continuano senza erigermi la croce o la corona.
Il paese è uno stomaco
che pesa sulle nostre teste,
e continuiamo senza sapere
se gli uomini che sono appena arrivati
saranno i nostri eroi
o i nostri futuri assassini.

(dal libro “Conversación con el fuego”, inédito)

*

Taxidermia

Una niña
debe preparar sus manos para sostener armas
y asegurarse que la pólvora
jamás bese el aire.

Las niñas deben crecer
del mismo modo que crecen las ciudades
ante los ojos del enemigo.
Es difícil conservar la inocencia
en la piel de los muertos,
pero la juventud
no puede ser taxidermia
del mundo que anochece.

He enumerado los partos
de mi generación de niñas,
el dolor cervical de sus silencios.
He sido todos los rostros castos
que miraron a mis ojos,
con la dureza de las muñecas
que quedaron sin cabeza
entre los círculos del porvenir.

No llevo marcas
porque la cicatriz domestica
lo que la memoria entiende.
Mi palabra tiene la pólvora
que le falta a mi sonrisa.
No llevaré sobre mi edad escudos
para apuntalar las durezas
que nos dejaron como herencia.
No sembraré el dolor como símbolo de madurez.

Mi cuerpo no es una estructura de combate.
No he nacido para gravitar en instrumento.
Mi corazón no es un arma.
La tristeza hizo a mi corazón “hermoso”,
pero ya es tiempo de las germinaciones.

Tassidermia

Una bambina
deve preparare le sue mani per sostenere le armi
e assicurarsi che la polvere da sparo
giammai baci l’aria.

Le bambine devono crescere
nello stesso modo che crescono le città
davanti agli occhi del nemico.
È difficile conservare l’innocenza
sulla pelle dei morti,
ma la gioventù
non può essere tassidermia
del mondo che imbrunisce.

Ho enumerato i parti
della mia generazione di bambine,
il dolore cervicale dei loro silenzi.
Sono stata tutti i volti casti
che mi hanno guardato negli occhi,
con la durezza delle bambole
che sono rimaste senza testa
tra i circoli del futuro.

Non ho segni
perché la cicatrice addomestica
quello che la memoria capisce.
La mia parola ha la polvere da sparo
che manca al mio sorriso.
Non alzerò sulla mia età gli scudi
per sostenere le asprezze
che ci hanno lasciato come eredità.
Non seminerò il dolore come simbolo di maturità.

Il mio corpo non è una struttura da combattimento.
Non sono nata per gravitare nello strumento.
Il mio cuore non è un’arma.
La tristezza ha reso il mio cuore “splendido”,
ma è già il tempo delle germinazioni.

(dal libro “Conversación con el fuego”, inédito)

Muchacho que lleva el sol tatuado sobre sus ojos

El cuerpo de nuestras casas parece el silogismo de la espera.
Te he visto pasar lentamente entre mis párpados
con la vigilia intangible de las flores
que no acceden a marchitarse.

Hay un misterio en el oficio de equilibrar el tiempo,
una extraña gravedad en el alba
que desfigura las semillas para darnos de comer.

Me niego a despertar antes de tiempo
aunque la luz ya ciegue.
El hambre que divide el corazón también protege,
cultiva el patio donde las manos
aprendieron a madurar.
Dulce es la tierra donde planté tu olor
para verlo germinar en la víspera.

Te espero debajo de los árboles antiguos,
en el mismo lugar donde nos descifraba el silencio,
con las mismas palabras construyendo la mirada,
el giro de los pasos sobre el agua
y el siseo interminable del verso en los oídos.

Te espero para hacer del país un universo merecible
y que el suelo familiar nos crezca
como un árbol necesario
al centro de la casa que aprendimos a levantar en la distancia,
con el rumor del bosque que vendrá
a marcarnos la lucidez.

Habré regresado al fin, después de tantos siglos,
cuando tus ojos atraviesen los míos
y pueda doblar la tempestad
y guardarla bajo la lengua
sin que sea un delito asfixiar al mundo con belleza.

Il ragazzo che ha il sole tatuato negli occhi

Il corpo delle nostre case sembra il sillogismo dell’attesa.
Ti ho visto passare lentamente tra le mie palpebre
con la veglia intangibile dei fiori
che non acconsentono a sfiorire.

C’è un mistero nell’arte di equilibrare il tempo,
una strana gravità nell’alba
che deforma i semi per darci da mangiare.

Rifiuto di svegliarmi prima del tempo
anche se la luce già acceca.
La fame che divide il cuore anche protegge,
coltiva il giardino dove le mani
hanno imparato a maturare.
Dolce è la terra dove ho piantato il tuo odore
per vederlo spuntare nella vigilia.

Ti aspetto sotto gli alberi antichi,
nello stesso luogo dove ci decifrava il silenzio,
con le stesse parole a costruire lo sguardo,
il giro dei passi sull’acqua
e lo zittio interminabile del verso nell’udito.

Ti aspetto per fare del paese un universo meritevole
e che la terra familiare cresca
come un albero necessario
nel centro della casa che abbiamo imparato a innalzare nella distanza,
con il rumore del bosco che verrà
a indicarci la lucidità.

Sarò tornata infine, dopo tanti secoli,
quando i tuoi occhi attraverseranno i miei
e potrò piegare la tempesta
e conservarla sotto la lingua
senza che sia un delitto asfissiare il mondo con la bellezza.

(dal libro “Conversación con el fuego”, inédito)

*

Vórtice

Las mujeres musulmanas aprendieron a cubrir su cabeza.
Solo los ojos podían exponerse al desastre de las calles.
Sus ojos, única brecha posible
entre el blindaje de la carne y el hiyab.

La tela es la circunstancia de estar muda.
Pareciese que el silencio es una marca del miedo.
Una mujer que calla no es una mujer que acepta,
sino una mujer que piensa.
A las mujeres, como a los hombres
se les debe indagar siempre a través de los ojos.

Las musulmanas
saben cómo cuidar la nitidez del kohl
alrededor del iris.
El acto de purificación
va en los colores y palabras duras.
En las madrugadas sus cabezas se encendían.
A veces fue necesario
evacuar los pensamientos
para llegar a equilibrar el sueño,
estampar desasosiegos
y disfrazar los versos en masnaví.

La verdad es sagrada,
por eso debe ser cubierta con metáfora.
No conviene que el cerebro inoculado la trastoque.
Los papeles deben ser cubiertos del esposo.
La cabeza es un órgano valioso
que debe ser protegido del hambre y los disparos.
Una mujer sabia es más peligrosa
que un arma en las manos de un loco.

Vortice

Le donne musulmane hanno imparato a coprirsi la testa.
Solamente gli occhi potevano esporre al disastro delle strade.
Gli occhi, l’unica breccia possibile
tra il blindaggio della carne e il hiyab.

La stoffa è la circostanza per stare mute.
Sembrerebbe il silenzio un marchio della paura.
Una donna che tace non è una donna che accetta,
ma una donna che pensa.
Le donne come gli uomini
si deve sempre analizzali attraverso gli occhi.

Le mussulmane
sanno come avere cura del nitore del kohl
intorno all’iride.
L’atto di purificazione
passa nei colori e nelle dure parole.
Nelle albe le loro teste s’incendiano.
A volte è stato necessario
svuotare i pensieri
per equilibrare il sonno,
stampare le inquietudini
e travestire i versi in masnaví.

La verità è sacra,
per questo deve essere coperta da una metafora.
Non conviene che il cervello inoculato l’alteri.
I documenti devono essere coperti dallo sposo.
La testa è un organo prezioso
che deve essere protetto dalla fame e dagli spari.
Una donna saggia è più pericolosa
di un’arma nelle mani di un pazzo.

(dal libro “Conversación con el fuego”, inédito)

(Traduzione dei testi a cura di Antonio Nazzaro)

 


L’autrice:
Giselle Lucía Navarro (Alquízar, Cuba, 1995) è scrittrice ed artista visiva. Si è laureata in disegno all’Universitá dell’Avana. Ha ottenuto diversi premi nei generi poesia, letteratura per bambini e saggistica, tra i quali “José Viera y Clavijo” per gli studi sociali e “Benito Pérez Galdós” per la saggistica. “Criogenia” ha ottenuto il premio David per la poesia assegnato dalla Uneac (Unione scrittori e artisti di Cuba).
Ha pubblicato “Contrapeso” (Colección Sur, 2019), “El circo de los asombros, ¿Qué nombre tiene tu casa?” (Gente Nueva, 2019), “La Comarca Silvestre” (Loynaz, 2021) e “La Habana me pide una misa” (Extramuros, 2022).
È docente e ricercatrice dell’Accademia di Etnografia dell’Associazione Canaria di Cuba. I suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, serbo, italiano e turco, e pubblicati in raccolte e riviste di diversi Paesi.
In Italia ha pubblicato la raccolta poetica “Criogenia” (Ensemble 2021).

 

 

 

 

Immagini       ——————————

Natura naturans

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————

La musica interna delle parole

Alessandro Agostinelli, “Le vive stagioni”

di Giovanni Fierro

Un laboratorio aperto, è questa la prima indicazione per entrare nelle pagine di “Le vive stagioni”, il nuovo libro di Alessandro Agostinelli.
L’occasione è giusta, per ritornare sull’importanza del fare poesia, sulle criticità che ne stanno anche minando la credibilità, sullo slancio creativo che è alla base di ciò che ogni autore scrive.
Questo libro è il tentativo di ragionare intorno a un modo di dire la poesia: ragionare intorno ad essa mentre si fa”, con chiarezza Agostinelli si muove dentro questo suo intento, alternando considerazioni e gesto poetico, in un affresco del nostro tempo che si fa acuto e partecipe, nella convinzione che “alla parola resta/ misericordia e amore/ appese in equilibrio,/ l’armonia intera del mondo”.
E in questa attestazione di fiducia Agostinelli innesta ulteriori considerazioni, come il dire che “le parole accadono perché la vita possa diventare esperienza e memoria e possa tenere passato e futuro insieme nel presente”, perché “spero in una poesia sempre in lotta con le sue più rozze riproduzioni”.
Vive di slanci ed illuminazioni “Le vive stagioni”, delicato e necessario testimone di ciò che accade ed è percezione umana, quel “vorrei che giugno non finisse mai/ restasse a lungo questo cielo curvo/ che impiega molte ore a prender sonno/ e colma la mia stanza di barlumi” che coglie il mistero e la magia di un attimo quando si apre al sempre.
Agostinelli in queste pagine prende posizione (che rimarca e sottolinea anche nell’intervista che segue…), indica e mostra; ricorda William Carlos Williams e il suo scrivere che “La poesia è quel che ci preme”. Giusto punto di partenza su cui costruire la propria voce, autentica e sempre in via di definizione ed appartenenza, dover poter essere “custodi di noi stessi,/ un prestito, brezza sottile/ di un giorno felice”.
“Le vive stagioni” è così anche un atto culturale, che si fa luogo d’incontro e di confronto, dove la scrittura di Agostinelli è domanda e accadimento, mai neutrale. Sa porsi nel nervo di ogni questione, di ogni espressione: “Dico che serve farsi vento, sabbia, acqua di fiume che scorre per non perdere di vista cosa siamo”; e ci ricorda che tanto è ancora da costruire: “Quanta poesia traccia dei possibili ‘noi’ attraverso un io?”.

 

Dal libro:

in tempo

ho qui con me dei lapis
amici dal liceo
proseguono a scrutare
i libri dalla punta
più corta di grafite.

tutto quel che conservano di mio
è andato temperato dentro al cesto,
più lì appunto più portano con loro
le nebbie e le schiarite dei miei sogni.

svanire dunque all’ora
è segno di sapienza?

*

europa

vorrei sì respirare un po’ d’europa
salire i fiordi della scandinavia
fino a navigare sul danubio
e salutar le cime delle alpi.

quindi vedrà il poeta tutto insieme
ciò che è visibile isolatamente
a due persone e anche più di quelle
perché parola è arma inattesa.

mediterraneo da tradizione
genererà le storie ancora buone
e tutto stretto il mondo si terrà.

*

marziale

la nostra tenerezza sottintesa
un appartato orto fino al mare
quei libri e quei quaderni nell’attesa
la mia vecchiaia la so immaginare.

ma fosse solo la convalescenza
di questo tempo ingordo pien di virus?
se fosse un’ansia questa marcescenza
dettata da chi ci comanda il tiro?

sarò albicocca per le tue paure
consolazione mistica e terrena
faremo insieme mille congetture.

*

pietra

si dà una pietra che sente
un sasso di neve, un gigante
anch’esso approdato al senziente
di sé in natura albergante.

il tempo misura l’ambiente
ed essi, di pietra o di bianco,
mantengono vita e presente
con le lor durate sul campo.

*

adriatico

sono a mio agio tra i serbi i bosniaci
e le loro mercedes, quel senso di
resistenza dell’uomo alle avversità
della vita, quel gesto di forza
un gioco violento che muove
dal cervelletto e gonfia il cuore
di pugni e di cicatrici.

mi sento vicino ai fratelli albanesi
che arrivano di là da quel colmo
lago salato della serenissima
per tutta la costa che ha visto
nel tempo distinguersi e unirsi
venezia e l’universo mondo
la sua gloria, le fondamenta
di un’anima eretta sulla foresta
di alberi delle dolomiti, come
l’immagine del primo amore.
[…]

 

 

Intervista ad Alessandro Agostinelli:

“Le Vive Stagioni” è un laboratorio di pensiero e di scrittura, in cui la poesia è il centro. Alla base di questo libro, c’è la volontà di fare un po’ di chiarezza, in quello che è il mondo della poesia contemporanea? E di delineare e raccontare anche il tuo percorso di autore?
Quando nel 1997 uscì il mio primo libro di poesie, Roberto Carifi lo recensì sulla rivista Poesia, notando in quel lavoro una profondità filosofica. In tutti questi anni credo di aver lavorato per rendere sempre più chiari e trasparenti i miei versi, ma di non aver semplificato i concetti di fondo della mia scrittura.
Il tentativo principale del mio ultimo libro di poesie è riflettere sulla scrittura poetica non isolatamente, ma cercando di rinnovare la tradizione e quindi di dedicarsi a tenere pulito l’orizzonte poetico. Non scrivo poesie per affermare verità, ma per porre questioni che ci inseguono da sempre e che riguardano le persone.
E credo che di fronte alla non-poesia ormai imperante nell’editoria, sia necessario alzare una barriera, una siepe di serietà. Peraltro credo che questo libro, i versi e le prose che contiene, siano di per sé evidenti, concreti e sempre validi avvertimenti contro il male della banalità, e in favore della musicalità del verso.

Il tuo lavoro di analisi e di scrittura, in queste pagine, quale aspetto coglie di più ed evidenzia, nel raccontare il rapporto della poesia con il nostro quotidiano, con il nostro vissuto?
Il tema principale di questo prosimetro è l’analisi in prosa della tutela della lingua come principio assoluto da cui rifondare una strategia di retoriche e prosodie possibili, che abbiano l’ampiezza della contemporaneità e le radici della classicità italiana. Non è un caso che il calco di questo libro sia “La Vita Nova” di Dante.
Gli argomenti affrontati in poesia sono invece le storie di ciò che mi preme portare nel futuro, come testimonianza di racconti imprescindibili per il domani di società e individui. Mi riferisco per esempio al concetto esteso di Europa come enciclopedia di ciò che forma la nostra identità attuale, dalla Russia alle estremità occidentali, al Mediterraneo come culla di civiltà.
Oppure all’idea della giovinezza come potenza umana, o alla necessaria custodia e cura della memoria dell’Olocausto. Ma ci sono anche interi passaggi poetici di forte ironia come quelli legati al dantismo da anniversario, alla democratizzazione del linguaggio, alle contraddizioni del Gruppo ’63.
E poi nelle poesie prosegue il mio interesse per la geografia, per le città, che rappresentano momenti di estasi e di felicità del vissuto di tutti noi.

Qual è il tuo giudizio sulla produzione e lo stato della poesia contemporanea? In generale, e in Italia nello specifico. Oltre che autore, sei anche direttore della collana Poesia di Edizioni ETS…
Oggi sono moltiplicati gli spazi di discussione individuale sulla poesia e di contro sono venuti meno i luoghi della discussione pubblica delle vecchie riviste letterarie. All’interno di questi circoli personalistici si tende a definire i percorsi della poesia nel solco della moda del momento (poesia consolatoria, poesia in prosa, poesia ultra-realistica, slam poetry, poesia da intelligenza artificiale, ecc.) e a farne titoli da pubblicistica web.
Se dovessi giudicare lo stato di salute della poesia italiana dai titoli di maggior vendita dovrei lamentare una deriva da bacio-perugina. Del resto il degrado di senso in una specie di semplificazione, edulcorazione e resa pop della letteratura, del cinema, della pubblicistica e del dibattito pubblico e politico, in una parola, la banalizzazione della cultura, non può non coinvolgere anche la poesia. Ù
Siamo in una ridotta infame, dove l’analisi e la struttura sono zimbello contemporaneo e dove l’emozione sovrasta ogni dato razionale.
Ma ho speranza: alcuni critici stanno preparando un libro di critica poetica che dovrebbe uscire nel 2024 e che ritengo sarà uno dei pochi titoli seri degli ultimi dieci anni, in cui sono usciti libri di critica inutili se non osceni. Spero in questa prossima pubblicazione che faccia un po’ di pulito sul pavimento contemporaneo pieno di immondizia.

La poesia è ancora libertà di espressione, o pensi che in qualche modo si stia adagiando su canoni espressivi cari e devoti a concorsi, rassegne, editori, critici?
La poesia potrebbe ancora essere uno spazio di libertà tout-court. Purtroppo se gli editori pubblicano “materiale poetico confortante”, vale a dire pseudo-poesie che stanno alla letteratura come il programma estivo della RAI Techetechetè sta alla televisione, cioè la rassicurazione del già visto, quindi del già letto, del già sentito dire, o meglio gli editori pubblicano poesia come ciucci rassicuranti e rilassanti per adulti, che possiamo aspettarci da quella che tu chiami “libertà di espressione”…
Sembra di essere, piuttosto, alla “libertà di banalizzazione”. E invece ci sarebbe tanto bisogno di una poesia che scuote, perché la poesia, come la filosofia, non deve confortare, ma bruciare, scavare, battagliare.
E chiaramente lo deve fare con i suoi mezzi specifici, che non sono andare a capo a caso.

Le poesie contenute nel tuo libro testimoniano una necessità di continuo movimento; sia per le forme espressive scelte, sia per le diverse ‘geografie’ che raccontano. Poesie che così sono dei luoghi di ‘forma’ e di ‘paesaggio’ che rappresentano da sempre la natura più profonda della tua poesia. Ti ci ritrovi in questo?
Sì, ti ringrazio di questo sintetico commento. La tua è un’analisi profonda e calzante del mio prosimetro.

Due nomi fondamentali che vivono in Le vive stagioni sono Dante e Leopardi. Cosa rimane oggi della loro poesia? Cosa li rende indispensabili?
La poesia di Dante e Leopardi non può essere comparata. Possono essere comparate, forse, le loro vicende letterarie, nel senso del lascito che dalla loro rispettiva contemporaneità, le accademie e le istituzioni culturali, insieme ai lettori e alla scuola, hanno trasmesso fino a noi.
Linguisticamente la loro ricchezza è stata talmente importante che le eredità sono incommensurabili. Ma anche riguardo ai temi vasti e profondi toccati da questi due scrittori, deve restare da parte nostra un infinito sentimento di riconoscenza. Oltre al fatto che è bello leggerli, sentire la musica delle loro parole.
Riguardo invece al fatto di essere ancora oggi indispensabili credo dipenda dal fatto che la poesia, se ben coltivata nelle nostre letture, serve più di ogni altra cosa a forgiare il nostro carattere, la nostra educazione sentimentale. E se – come credo – il percorso di un essere umano è quello di “enseñorarse”, come dicono gli spagnoli, allora ci sono sul serio poeti indispensabili.

Se ci fosse un manuale, quali sarebbero le prime tre cose di cui si deve nutrire lo scrivere poesie nel nostro oggi?
Per scrivere sul serio serve una passione che travalichi l’afflato emotivo narcisistico. Per questo non credo siano di aiuto manuali o scuole, tantomeno di scrittura poetica. Alla base ci dovrebbe comunque essere un buon corso di studi alle scuole superiori.
Poi, il primo dovere di uno scrittore è leggere. Pennac scrisse anni fa un libro che indicava come primo diritto del lettore quello di non leggere. È una sciocchezza assoluta: ogni cittadino ha diritto alla lettura. E noi dobbiamo raccomandare di leggere e dobbiamo istigare i giovani alla lettura. A maggior ragione non possiamo dirci scrittori o poeti se non si è prima di tutto lettori.
Il secondo suggerimento che mi sento di dare è che credo sia indispensabile, per chi scrive poesia, lavorare nella lingua. Non si possono trasmettere emozioni senza un incessante lavorio di perfezionamento del verso.
La terza cosa credo riguardi una certa capacità di attendere la maturità. Sono rari i grandi poeti che scrivono i migliori versi in gioventù. Il poeta è uno che sa aspettare. Il poeta è un tipo paziente.

Scrivi “poeti che tolgon paura” La poesia è anche il coraggio di affrontare la nostra società?
Non soltanto il coraggio di mettere in discussione la società attuale e di sfidare il pensiero dominante che sembra aver oltrepassato la dicotomia giovani/vecchi che, dalla conflittualità, generava lotta e nuove idee. Siamo in un presente grasso, dove l’individuo è solo di fronte al mercato, un bamboccio davanti alla vetrina del digitale dove tutto è possibile e dove il riconoscimento dei dati reali è sempre più problematico e difficile. La poesia non è solo questo dovere di guardare in faccia l’abisso mondano, ma anche di prendersi cura di ciò che ha di più caro: la lingua.
Ci sono poeti le cui opere sono preghiere, liturgie di cura per gli esseri umani. Vorrei che anche questo mio libro, questa mia riflessione sulla poesia potesse indicare una strada, accendere una luce.

 

L’autore:
Alessandro Agostinelli è nato in Maremma nel 1965 e vive a Firenze. Si è laureato in Lettere ed è dottore di ricerca in “Storia delle arti visive e dello spettacolo”.
Scrive per “L’Espresso”, Radio RAI, Radio 24 – Il Sole 24 Ore, Lonely Planet, e ha diretto alcuni documentari di viaggio e d’inchiesta.
I suoi libri più recenti sono il romanzo “Benedetti da Parker” (2017), la raccolta poetica edita in Spagna “En el rojo de Occidente” (2014) e il diario di viaggio “Honolulu Baby” (2012).
Per Samuele Editore ha pubblicato nel 2020 il volume “L’ospite perfetta. Sonetti italiani”, e la raccolta poetica “Il materiale fragile” nel 2021, per Italic Pequod.
Ha curato gli spettacoli teatrali “Confessione di Natale” da Robert Louis Stevenson (2015), “Confessione alla fidanzata” da Fernando Pessoa (2016), “Confessioni di vita e di morte” da Raymond Carver (2017-2018).
Dirige la collana Poesia di ETS.

(Alessandro Agostinelli “Le vive stagioni” pp. 52, 15 euro, L’arcolaio 2023)

 

 

 

 

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Nerofumo

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ————————

Mia sola sindone ingigliata di grazia

Luigi Aliprandi, “La sposa perfetta” e “Poesie del tempo ordinario”

di Roberto Lamantea

La nuova collana di poesia “La siepe” di Marietti – bel titolo leopardiano – ripubblica “La sposa perfetta”, il libro del 1998 proposto da Giovanni Raboni per Marsilio, premio Frascati; Samuele Editore di Alessandro Canzian stampa “Poesie del tempo ordinario”: è l’occasione per conoscere un poeta raffinato come l’abruzzese Luigi Aliprandi.
Venticinque anni tra un libro e l’altro e la conferma di una cifra stilistica raffinatissima, dolcemente ironica, cólta, per un poeta che vive appartato, senza clamori mediatici.
“La sposa perfetta” è un canzoniere musicato sul “tu”, quartine da sonetto e schemi rimici ABBA CDCD, dove l’alto della tradizione lirica – Petrarca e Dante soprattutto – si coniuga con il basso della lingua “povera”.
Ma il cuore di tutto, in entrambi i libri, è il canto, l’invocazione d’amore, un amore scheggiato dal riflesso nello specchio, l’amour en fuite del cinema francese (Truffaut), la resa: “paura di te, dell’ombra che ti muove/ del tuo essere qui essendo altrove”; “Unicamente scrivo per me, per la mia paura/ da quando l’esperienza mi assicura/ come la tua bellezza sia la mia sventura”; “Scrivo per lei, anche se non mi sente/ per la sua vita e per chi se la prende/ biografo di nulla, in una grammatica del niente”.
Gli accenti e lo sguardo malinconico e innamorato ricordano i sonetti di Patrizia Valduga, il chiaroscuro della sua invocazione, la filigrana della ferita, l’assenza attraverso la luce di un amore mai spento.
O una poesia di cristallo, luce e trasparenze, che rinvia al Pedro Salinas della “Voz a ti debida”: “cerca di essere (è il/ compito più arduo, e te lo chiedo)/ esattamente quella che sei, così distante/ dal cielo e dalla terra, così compenetrata/ in ciò che anche noi vediamo”; “Può il tuo corpo privarsi dell’ombra?/ Può reggere una luce diversa da quella del cielo?”; tema ripreso in questi altri versi: “[…] ti adoro/ per ciò che sei e quella che eri/ per ciò che sarai se tu già non fossi”.
È vero che le poesie vanno lette e rilette, velo dopo velo fino alla nudità del senso; è vero anche che i versi sono un labirinto e la lettura, come scriveva Emily Dickinson, un viaggio: “Poesie del tempo ordinario” rispetto al primo libro è il canto di un amore reso presente – l’esserci, finalmente – ma sempre da decifrare: “Sei su di me, sei sotto, mi sei/dentro, luce confitta fino in fondo/ al centro, è questo che volevo e questo è/ lo sento, e il resto non è storia/ il resto è avvento”.
L’amore finalmente reale, nei suoi frammenti di presenza: “Non ha senso. D’accordo./ Quasi niente ne ha./ Essere, al mattino, il tuo/ sorso d’acqua, lo sbadiglio/ la prima sigaretta”.
È bello scoprire questi piccoli libri, scoprire che la poesia è così viva.

 

 

da “La sposa perfetta”:

Cercavo in frammenti e ritagli
del sogno che viene a notte fonda
lo sguardo col quale scarti e tagli
il di più di bellezza che t’inonda

ma più ti sfuggiva questa scusa
ritorta contro te che te la squagli
dal tuo apparire, inappagata sonda
di tanta meraviglia che t’accusa

che io, testimone di sventura
(che resti attento o che mi confonda)
nel giorno risplendente alla rinfusa
trovavo il seme della mia paura,

paura di te, dell’ombra che ti muove
del tuo essere qui essendo altrove.

*

Me lo dici poi perché si prega?
Per una lode a Dio o per un favore?
E perché lo chiedo a te, strega
che hai evitato il rogo dell’amore?

È in te la grazia dell’incenso?
Hai un posto sul cesso o sull’altare?
C’è un nesso fra te e quella che penso?
La risposta, si sa, è nel domandare.

La soluzione gareggia in latitanza
con la parte di te di cui mi privi
e non è pensabile riuscirne a fare senza
neanche in questi amori intransitivi.

*

Non ce la faccio proprio a render chiaro
l’amore che ti porto, vita mia
un’ombra resta a questo giorno amaro

cui seguita una notte di malinconia
di te, del tuo splendore fatto assenza
e prego e chiedo a Dio che me la dia

la chiave che schiuda in mia presenza
la porta della gioia tua infinita
gioia del corpo e gloria dell’essenza

e rendermi vita dentro la tua vita.

 

 

da “Poesie del tempo ordinario”:

Alla ricerca della perfetta forma
che dica cose non ascoltate ancora
anzi non dica niente, sia la riforma
di segno e contenuto nell’aurora
del senso, fuori e dentro dalla norma
dica per sempre e lo dica ora –
È nel lenzuolo che di te si sazia
mia sola sindone ingigliata di grazia.

*

Non ha senso. D’accordo.
Quasi niente ne ha.
Essere, al mattino, il tuo
sorso d’acqua, lo sbadiglio
la prima sigaretta.

*

È la tua carne che amo
la sua polpa e la forma e la
figura, e ogni odore
molecola, giuntura.

 


L’autore:
Luigi Aliprandi è nato a Città S. Angelo (Pescara) nel 1968. Ha pubblicato nel 1998 da Marsilio, su invito di Giovanni Raboni, “La sposa perfetta”, ristampato nel 2023 da Marietti, premio Frascati 1998, e sempre quest’anno da Samuele Editore “Poesie del tempo ordinario”.

(Luigi Aliprandi “La sposa perfetta” pp. 64, 12 euro, Marietti 2023)
(Luigi Aliprandi “Poesie del tempo ordinario”, prefazione di Alberto Bertoni, pp. 88, 10 euro, Samuele Editore 2023)

 

 

 

 

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Fatiche ferite

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Ti racconto       —————————–

L’anno della luna

Un racconto inedit0

di Francesco Zorzenon

Lavoravamo sodo, allestivamo trame per la mondovisione, per far questo si segnava il calendario
e a volte si volava per davvero.
Erano stati giorni di chiodi e di martello, costruzione ed assemblaggio: avevamo incollato delle vecchie casse di mele, innalzato le sponde e rinforzato la base. Ci serviva il materiale per la spinta verso il cielo,
così si scese verso il fiume: all’immondezzaio.
Lì recuperammo i barattoli vuoti della lacca per capelli, il loro gas, una volta acceso, li faceva volare come razzi. Furono legati stretti all’esterno della nostra piccola astronave, e allestimmo una stazione di lancio tra le cunette di un campo incolto. Segnammo il calendario per la luna piena, così era più facile centrarla. L’ultimo pensiero fu l’equipaggiamento. Una pompa di bicicletta per avere ossigeno, del pane vecchio adatto all’umidità del viaggio, due fialette per dolci aromatizzate al rum, per farci coraggio nel buio dello
spazio.
Tutto era pronto ma non si partiva ancora, e di lì a poco il tempo diventò un nemico.
Fu così che la ragione avanzò di una tacca e quel sogno se ne andò. Uno schiocco dentro alla testa, un rumore che non avevano sentito gli altri, qualcosa che si era scollato e non sarebbe più tornato lì dov’era prima.
Mentre indugiavo sulla rampa, pensai che il legno era ancora buono per andar sul fiume, che ci sarebbero state nuove avventure.
A quei disegni sto mettendo le cornici e mi diverto ogni volta che mi guardo indietro. Dico che di tutto questo non c’è più niente che ritorni, ma senza questo, niente sarebbe mai arrivato.

 

 

 

 

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Il primo segno

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

La prima volta che sognai l’India

Un racconto inedit0

di Francesco Zorzenon

La prima volta che sognai l’India mi trovavo in India e mi dovevo ancora addormentare.
Camminavo sopra sputi colorati, osservavo mucche che giravano in stazione. Perdevo treni che non avevo mai aspettato e pensavo alla religione che giustificava tutto questo.
L’immutabile realtà di un paria, il fumo dell’incenso e l’eterno vagabondare.
E ancora altari e fiori e le preghiere, il fato che ti uccide mille volte e tu, dannato, che rinasci ancora.
Ora bucano una breccia- nel muro dai colori del mattone, li seguo con lo sguardo fuori dai tuguri della città vecchia.
Il cielo inizia sopra gli alberi, sotto c’è la bruma, e avanzano nell’aria le mezze figure mute.
È l’alba dei pensieri sulla strada che taglia le risaie, ognuno porta l’acqua, in quella strana processione.
Accucciati a pochi metri di distanza, con le camice che li coprono del tutto, come marmotte che si passano un segnale.
Ho sognato l’India che ero indiano dentro ad un corpo occidentale, ma ho sprecato la magia del credere,
e non ho imparato l’aspettare.

Francesco Zorzenon, perdere treni che non si aspettano

di Eno

Raccontare e raccontarsi partendo da nuove avventure forse le sue, forse quelle di altri, magari anche inventate.
Tira un’aria da avventure Salgariane senza pirati e galeoni nelle storie di Francesco Zorzenon.
Viaggiatore delle parole, delle fantasie e dei luoghi, quei luoghi che ha vissuto e quelle Lune che ha solo sognato perché “di tutto questo non c’è più niente che ritorni, ma senza questo, niente sarebbe mai arrivato“, la forza di vivere momenti indimenticabili in ogni suo scritto, la realtà di vivere da attivista dei sogni quando si può.

 

L’autore:
Francesco Zorzenon, classe ’61, una vita da operaio metalmeccanico turnista, ora pensionato.
Viaggiatore, maratoneta, scrittore di versi e brevi racconti sui social, attivista dove può.
Prete spretato di una teologia della liberazione che ancora non arriva, ma che inevitabilmente arriverà.
Non ha ancora pubblicazioni in questo mondo di libri, ma giura e spergiura che ce la farà.

 

 

 

 

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Ab-origine

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————

Ritrovo il tempo della vita

Isabella Flego, “Per ogni domani di cristallo”

di Anna Piccioni

Nel presentare la silloge “Per ogni domani di cristallo” di Isabella Flego lascerò parlare la sua poesia, inserendo versi e parole colti nella lettura, che meglio di qualsiasi commento seguono il pensiero della poetessa, il suo vissuto dall’adolescenza all’età matura, attraverso i ricordi infantili, le gioie del cuore e a tutto ciò fa da sfondo, la Natura con le sue stagioni, immutabile nella sua versatilità.
All’inizio si confrontano l’età dell’adolescenza, l’età dei sogni negli occhi, nel cuore e nella testa…la luce del giorno che senza peso mi scivolava tra le dita, richiama nella dolcezza dell’adolescenza nessun orizzonte volge alla fine/ tutto era mutevole: con la vecchiezza la pesantezza dei buoni propositi e dei sogni impossibili…lo scemar del giorno…il corpo non mente più…la giovinezza che breve tempo dura/ mi segue. E un passato assottigliato si confronta con un futuro nella foschia.
La poetessa crea vita con le parole, e questa vitalità si percepisce in ogni verso: le parole si evidenziano nella loro sostanza cristalline, senza strascichi di melanconia e di rimpianti. Si può incontrare la nostalgia di un passato distantema sono figlia del mondo/ della mia terra /nel volto e nell’anima…il presente non è sogno… ciò che ho sognato è qui ai bordi della vita…Sono il frutto maturo, quando pensieri rinnovati sorreggono i miei passi. Ormai depurata di passioni…bastante a me stessa…trovo una lingua che taglia e cuce/ nata e imparata nel dare e ricevere/ perché amo me stessa.
Altri versi sono un inno alla vita un battito d’ali passato dalla culla all’oscurità nel tempo che tutto invola; e insegna a indossare l’azzurro del cielo/ e petali di felicità.
Si respira nei versi della Flego una serenità, una pacatezza che è dovuta anche a suo marito:… il piacere di essere fioriti insieme/ nel giardino dell’amore/ dal cancello aperto… e poi tenendoci con la forza dell’amore/ scaliamo l’aspra salita del mondo/ e tu, agli squilli del presente/ alle sorprese,/ porgi te stesso/ per rendere a me/ il daffare del giorno/ facile e leggero…
Non possono mancare parole di denuncia sull’incuria dell’uomo nei confronti dell’ambiente, sulla distruzione incosciente della Natura che l’uomo senza dignità distrugge…con orecchio sordo ad ascoltare/ le tristi note di madre Natura… e c’è confronto tra il diverso “costruire” della Natura e l’uomo, l’inanimato, pure costruisce con mano regale, solo orgoglio e cupidigia.
L’uomo è un pericolo, porta guerra e distruzione: aver vissuta una guerra la cui fine portò sorriso e gioia nella pace, …eternizzando la promessa di pace/ e pane per l’Europa/ Oggi quella gioia è permeata di cupe paure/ Vorrei avere un velo sugli occhi/ per non rivedere il burrone del passato/ e la cera negli orecchi per non sentire/ lo spaventoso clangore delle armi/ e il gracidare di tante menti / gonfie come tamburi…Non c’è alcuna memoria per quello che è stato…l’uomo è preso da amnesie…vede pagine bianche / là dove la Storia / ha lasciato impronte di sangue
L’impegno decennale di Isabella Flego sulla condizione delle donne trova spazio in una lirica tutta dedicata alla Donna, paragonata a ogni divinità mettendone in risalto ogni particolare: Giunone, Didone, Cassandra, Minerva, Venere, Calliope, Antigone: la Donna riscatta la vergogna dei tempi infami
L’ultima parte della pubblicazione riprende un tema molto caro alla Flego: la miniera di Arsa, vicino ad Albona (nell’Istria croata). Suo padre minatore sfiorò la tragedia del 1940, e soprattutto la poetessa sa quanto fosse angosciosa ogni giorno l’attesa del rientro a casa: con l’orecchio sempre teso/ a quel suono simbolo/ e alla voce di mio padre/ poco rauca opaca/ di polvere e di aria artificiale….

 

Dal libro:

In attesa che il giorno si scolori

Vivo sopra il tempo
con la gioia di aver dato
Guardo il foglio della vita
non più bianco:
è ricco di parole vecchie
e continuo a riempirlo
Ho sogni negli occhi
nel cuore e nella testa
Penso al rinnovo delle stagioni
che includono ogni tempo della vita
al vento variopinto
del giardino e del tramonto
e mi tuffo in nostalgie del passato
quando riluceva al pari dell’erba
ornata dalla brina
In attesa che il giorno si scolori,
con la certezza nell’amore
la cui dimora è il cuore,
mi sento invadere dalla voglia di vivere
Ingurgito con vigore
mai sazia
la vita.

*

Un battito d’ali: la vita

Nel fiore dell’ibisco
appassito,
che ha bevuto luce e calore
donato bellezza
al bacio di un’ape offerto la bocca,
ritrovo il tempo della vita
un battito d’ali
passato
dalla culla all’oscurità
nel tempo che tutto invola.

*

Con nuovo furore

Le parole di pace
sulla scacchiera del mondo
nel sonno della civiltà
si addormentano
Il vento del passato le sfiora
e spazza ogni rimorso
Scopre l’anima del presente:
l’uomo preso d’amnesia
che aggira la narrazione e
nel brillio delle cicatrici
genera nuovo dolore
perché vede pagine bianche
là dove la Storia
ha lasciato l’impronta di sangue
insozzato con gusto macabro la terra
Nel furore di giorni di fumo
fioriscono disperazione e separazioni
che trascinano tante storie
e la moribonda lingua materna
fuori dalle frontiere.

*

Nel luogo del respiro

Non la miniera
ma il ricordo di essa
e il nero carbone
nei tuoi polmoni
ti hanno portato via
con un residuo in gola
insinuatosi, affamato di raggi
invisibili senza confini,
nel luogo del respiro
per spegnere ogni speranza.

*

L’alba arruffata

L’alba arruffata dai venti del sogno
si lascia pettinare dai raggi del sole
accompagna i passi delle ombre
nel loro andare prudente
con la speranza di una meta
verso il mondo vacillante.

 

 

Intervista ad Isabella Flego:

Nella sua lunga vita Isabella Flego ha fatto molte cose: insegnante, politica, scrittrice di romanzi e di poesia; Quando e come inizia la sua attività di scrittrice e poeta?
La mia attività nel mondo della scrittura ha inizio dopo il pensionamento. All’improvviso mi sono trovata nel silenzio. Il telefono non squillava e nessuno mi cercava più. Incontri di lavoro non ce ne n’erano. Mi sono sentita quasi inutile, ma non mi sono lasciata trascinare dal pessimismo e dall’inattività. Finalmente avevo tempo per me stessa e ho iniziato a rovistare tra i miei numerosi appunti, tra i quali c’era anche qualche verso e più di qualche bella frase di scrittori importanti.
Ho iniziato partecipando a un bando di concorso con una sola poesia, su mio padre minatore, e ho avuto la prima conferma che quella aveva un certo valore. E da lì in poi sono nate tante altre creazioni, che continuano a darmi qualche soddisfazione.
La scrittura per me è diventata la mia seconda occupazione: lavoro con le parole, le forgio e le plasmo dando un senso all’argomento e vita al tempo.

Cos’è l’associazione POEM di cui è presidente e quando nasce?
POEM è l’acronimo di Pari Opportunità za Enake Moznosti. È un’associazione di donne di confine, nata nel 2000, che hanno alzato lo sguardo per guardare oltre il quotidiano. Ognuna, con la propria identità e appartenenza è portatrice di valori. Nella differenza di lingua e cultura, abbiamo abbracciato la diversità, ci siamo confrontate, siamo cresciute e ci siamo rinnovate.
Condividiamo i nostri valori attraverso la creatività in diversi modi di espressione linguistica e culturale (prosa, poesia, pittura, fotografia e creazioni manuali). Il nostro modo di operare è un esempio di come evitare alle relazioni multiculturali di precipitare nella somma indifferente di identità. Ogni anno pubblichiamo un libro bilingue.

Mi parli del suo impegno per i diritti delle donne…
L’educazione avuta in famiglia mi ha portato sin dall’infanzia, con la guerra e la paura, e la fanciullezza, ad essere in mezzo alle problematiche della società: la miseria, le ingiustizie, i sacrifici e le limitazioni quasi in tutto erano all’ordine del giorno, ma quello che più di tutto ricordo è la fame. Ciononostante a casa si ritrovava ogni giorno la gioia di vivere e la soddisfazione nelle piccole cose.
Da studentessa avevo iniziato, con tanti altri miei coetanei, a bazzicare nell’organizzazione della gioventù. Con il lavoro ho incominciato a pensare alle problematiche delle donne ed esprimerle a voce, anche perché come mamma ho dovuto affrontare grossi problemi riguardanti gli orari di impiego e la custodia del figlio.
Mi ci sono ritrovata, nominata o eletta, in certi organismi e al Parlamento sloveno, nei quali ho sempre posto all’attenzione la figura della donna e le sue specificità, considerando la politica lo spazio entro il quale vanno risolte le lotte sociali, costruiti modelli di convivenza e di parità di genere, che mai si realizzerà.
La voce delle donne sa raggiungere distanze impensabili e oltrepassare i confini. Infatti mi sono trovata a collaborare e proporre incontri, per trattare le difficoltà che le donne incontrano quasi ovunque, con donne dall’Italia, dalla Croazia e dalla Slovenia; ci siamo ritrovate con gli stessi problemi: lavoro, maternità, cura degli anziani, e rappresentanza politica…
Famosi sono stati i nostri incontri di confine in occasione dell’otto marzo, Giornata Internazionale della Donna.
Dopo dieci anni anni POEM e io abbiamo deciso di lasciare l’attività socio-politica, quindi i soliti tanti discorsi quasi inutili, per intraprendere un percorso culturale, consapevoli che il femminile con la sua potenza favorisce l’apertura e un atteggiamento altruistico, anche attraverso pagine le scritte.

 

L’autrice:
Isabella Flego (1937) è nata in Istria, ad Arsia nell’ex Jugoslavia, ma si è poi trasferita a Capodistria, in Slovenia, dove vive tuttora.
Negli anni settanta ha trascorso cinque anni in Africa, nel Ghana, esperienza sulla quale ha scritto il volume “Memorie da sopra l’Equatore”.
Negli anni ha svolto un’intensa attività socio-politica ricoprendo anche la carica di Presidente della Comunità Autogestita Comunale della Nazionalità italiana di Capodistria.
Attualmente è Presidente dell’Associazione per le pari opportunita (POEM) e Coordinatrice per le Pari Opportunità del Comune città di Capodistria, Vicepresidente di COPED – CamminaTrieste, coordinamento nazionale pedoni per salvare le città e l’ambiente.
Ha scritto e pubblicato altre e premiate opere fra le quali “Girolamo Gravisi sparso in dotte carte”; “Il primo giorno”, libro contenente un racconto ed una serie di liriche sulla vita dei minatori e delle loro famiglie, basato sulle esperienze vissute della sua infanzia, in una famiglia di minatori. Diversi poi i racconti scritti per i ragazzi come “Tonina”, “Il sogno di Serena”, “Una pagina di diario”; e il volume di poesie e racconti “Il monopattino e la bambola di pezza”.

(Isabella Flego “Per ogni domani di cristallo” Comunità autogestita della nazionalità italiana di Capodistria 2023)

 

 

 

 

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Piccolo orizzonte

Dieci opere

di Luigi Pagano

 

 

Intervista a Luigi Pagano:

di Luigi Auriemma

Nella mostra, “Le fatiche di Ercole” al MANN (Museo archeologico nazionale Napoli), ti sei confrontato con la statua dell’Ercole Farnese, quale rapporto hai con l’arte classica?
La cultura e l’arte classica ci attraversano, siamo figli e figlie della Magna Grecia e in particolare noi campani ne siamo permeati. Tutto ciò è stato in seguito arricchito dagli studi in materia artistica che mi hanno coinvolto e interessato nel corso della mia formazione.
Il tema del mito di Ercole è stata una sfida che ho affrontato leggendolo come umano con tutti i segni del vissuto, fatto di fratture e ferite, che vivendo si accumulano, solo così, vivificandolo, ho potuto rapportami con lui e la sua storia.

In opere come “AB-ORIGINE” e il “PRIMO SEGNO” operi per sottrazioni, esfoliazione del segno e della materia, alla ricerca delle origini primordiali. Cosa è per te il concetto di origine e cosa è il segno originale?
Il primordiale, il segno primigenio è una costante in tutto il mio lavoro. Il sentire basico si innesta in modo naturale con il concetto di forma/formazione. Un approccio per osmosi che trova tracce originarie in forme naturali o del corpo, inteso sempre come pelle-pittura e portatore di segni in cui trovo l’alfa e l’omega del mio alfabeto. Un percorso che rappresenta origine e fine della visione.

Nel pensiero occidentale, dopo aver corroso l’identità di Dio, negli ultimi decenni si osserva anche ad uno svuotamento dell’Io. Quale è l’approccio nella tua ricerca artistica relativamente all’ego e al suo svuotamento?
Argomento complesso che risulta difficile riassumere in poche righe. La mia esperienza con le filosofie orientali, in particolare con lo shintoismo, hanno influito molto sul modo di sentire, di mettersi in ascolto.
Il farsi concavo, annullare l’ego per far fluire forme e immagini di una visione interiore mi hanno formato in questa ricerca. Diversi cicli di lavori sono stati prodotti in questo modo fin dagli inizi degli anni Ottanta, all’interno dei quali l’occhio ravvicinato, divenuto materia liquida, si fonde con la natura e altri gli elementi da cui affiora la forma, come se fosse nato da uno spazio altro.

Invece relativamente al corpus, che nelle sue varie sfaccettature è stato sempre oggetto di indagine nell’arte, come ti relazioni con esso?
Il corpus è concepito come l’altra parte della medaglia. Al vuoto, al bisogno di ascesi e di una ricerca trascendentale o spirituale si oppone in noi una parte carnale, tattile e a tratti sensuale.
Uno sguardo, il mio, molto ravvicinato: un blow up che indaga, non cita il corpo ma si fa insieme e diviene corpus, appunto. È anche l’avvicendarsi di un dialogo tra le forme, le quali se delle volte sono state pelle e paesaggio altre volte esse appaiono assorbite nella materia stessa fino a mutarsi in altri organismi. Trasmutazioni che avvengono di continuo per costruire un nuovo linguaggio, che si declina nelle forme che rappresento, questo per me è il corpus.

L’utilizzo di differenti e particolari tecniche deriva da una esigenza espressiva o dalla voglia di sperimentare e di appropriarsi di più tecniche?
La tecnica nasce con il farsi dell’opera e in essa si compie. Mi muovo tra i materiali con fare rabdomantico, cercando sempre nuove alchimie che possano far emergere una pittura che mi sorprenda ogni volta in modo diverso

Ci esponi quali sono i temi fondamentali di indagini del tuo fare arte?
Non cerco temi nel mio fare arte. Emergono tracce del vissuto e si strutturano anche al di là della mia volontà. Aspetto evocazioni e le percorro.

Progetti futuri?
Vivere.

 

L’artista:
Luigi Pagano è nato a Scafati nel 1963. Vive e lavora a Napoli
Si diploma in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, affianca all’attività artistica quella di docente in Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Napoli.
I suoi lavori sono presenti in importanti collezioni pubbliche e private italiane ed estere tra cui (in permanenza) Chiesa di San Lio a Venezia, il Museo Stauròs di San Gabriele, il Music und Theater di Monaco di Baviera, Collezione permanente Museo Frac a Baronissi, Museo di Arte Moderna di Hangzou in Cina, Museo del Novecento a Castel Sant’Elmo, Napoli. È tra i trenta artisti italiani che hanno illustrato i Lezionari della Chiesa Cattolica Italiana.
La sua ricerca pittorica fin dagli esordi dei primi anni ottanta è rivolta a una visione osmotica tra una natura rivelata e natura nascosta. Le sue pitture evocano spazi siderali e blow up di corpi prossimi, attraverso medium sempre nuovi e vicini ad una ricerca alchemica, dove le materie, attraverso processi di fuoco acqua e terra trovano una dimensione epifanica. Dai catrami degli anni ottanta, alle combustioni su lamiere degli anni novanta alle grandi tele recenti si sperimenta un percorso fluido dove la materia trova la sua forma fino ai cicli più recenti dei polittici dove spazi dilatati e materia muovono verso una visione altra della pittura”.

Mostre personali più recenti:
Trasmutazioni, Oberste Baubehörde im Bayerischen Staatsministerium des Innern, Monaco di Baviera, 2012, Materia-Verba, Galleria ingenito, Napoli 2013; Continuità della materia, galleria Pagea Art, Angri; Chine, Movimento Aperto, Napoli 2015; ancora Satori presso il Carpinelli Show Room di Salerno; Fatiche Ferite, Museo Archeologico di Napoli 2016; Polveri in superficie, gallera Pagea Art 2019

Selezione mostre collettive:
Dalla parola l’immagine, l’arte che legge la Bibbia, Museo della Porziuncola, Santa Maria degli Angeli, Assisi 2013; Rewind, Arte a Napoli 1980-1990, Castel Sant’Elmo, Napoli 2014; Imago mundi, Museo Madre Napoli 2015; Artlante Vesuviano Real Polverificio Borbonico di Scafati. Gianbattista Vico, pagine e immagini, Biblioteca universitaria di Napoli, 2018, Premio Cimitile, Complesso Basilicale di Cimitile 2018,
Diaspora del Mito. La sponda ionica, Museo Crac, Taranto; Da una trifora Area space 24 Napoli, 2019; Motus Animi, Palazzo di città, Capodrise 2020.

Instagram: laboratorio_pagano

(Il ritratto fotografico di Luigi Pagano è di Simona Maria Pagano)

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Livio Caruso.

 

 

 

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