Con novembre entriamo ancora di più nella mappa di segni e significati che l’espressione artistica ed umana ci mette tra le mani, pronti a trasformarla in una esperienza di intensità.
Ad iniziare dal ritorno poetico di Gisella Genna, la sua nuova raccolta “Rarefazione” è un ulteriore dimostrazione della sua identità d’autrice sempre più definita e piena.
E poi c’è il condividere i sei testi inediti in italiano di Alex Pausides, figura cardine del panorama latinoamericano e la scoperta dei racconti brevi del polacco Kornel Filipowicz, con il volume “Il gatto nell’erba bagnata”. Di questo libro ne parliamo con il curatore Andrea Ceccherelli, presidente del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna.
La voce d’autore è anche quella di Roberto Cescon, con “Natura” porta la poesia alla sua origine, alla sua radice; e con molto piacere ospitiamo il gradito ritorno di Kateřina Sidonová, artista di Praga. Suoi sono i dieci dipinti proposti.
I Margini. Di poesia ed altro sono quelli di Chandra Candiani e Cristina Annino, e gli inediti sono anche il racconto “Gli incastri” di Emiliano Sabadello e le sette poesie di Matteo Straccia. “Scarlatto” è l’intrigante romanzo di Cinzia Platania.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
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Tři Grácie II / Three Gratiae II
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Voce d’autore ————————–
Accade nel bosco la pazienza
Gisella Genna, “Rarefazione”
di Roberto Lamantea
È un respiro blu la poesia di Gisella Genna. Il nuovo libro dell’autrice milanese, “Rarefazione” (peQuod), il secondo dopo “Quarta stella” (Interno Poesia 2020), ha testi brevi, da due a sette versi, e qualche pagina, sempre di poche righe, in prosa lirica. “È tutto un galleggiare – fra lievi onde – di memoria, affioramenti, misure alari e acquatiche, bagliori, levitazioni, iridescenze, venature, fino a quando il blu ‘costante’ diventa tutto quanto sta lassù, sul crinale, e capiamo che allora è vero, la poesia porta a un nuovo inizio” scrive Elio Grasso nella prefazione (dal titolo emblematico: “Improvvisamente, la poesia”).
È una danza blu, perché azzurro è il colore del cielo, dell’acqua, della lontananza; poco importa se sia lontananza dello spazio o dello sguardo. È un respiro accennato, quasi timido: è un respiro sospeso, perché non sai se è realtà o memoria, sogno, attesa, o ricordo. Lo sguardo di Gisella Genna sul paesaggio e sul mondo è uno sguardo di amore tessuto di silenzio, è blu, come la lontananza. “Le azzurre, lontane montagne boscose risonavano come corni” è una stupenda sinestesia di Robert Walser.
“Come la più antica felce/ respiro, muovendomi,/ edera su pietra a porgere/ il velo smeraldino a est, altrove”; “baratro bianco, bianco niente/ leggera si rivela la distesa// di aria e luce”. Acquarelli d’aria: “Si alza questa preghiera di terra/ oggi mi vesto/ di vento –//ubiquità della cenere”. “Seduti a guardare il fuoco, fuori infuria il blu. È pace di legno. Solo voci di alberi e vetri”.
I versi di Gisella Genna nascono nel confine tra sogno e attesa, nella mineralizzazione – lucentezza – del silenzio: rarefazione, titolo perfetto. Anche perché è poesia di cose: legno, erba, aria: “Il minimo soffio di vento,// tutta quella presenza/ come cadendo da una nebbia”. Qui tutto è così puro, è la nervatura di una foglia controluce, sono il verde e l’azzurro, i colori del cielo, del bosco, dell’acqua, del silenzio.
Ci sono poesie da leggere respirando piano: Trakl, Dickinson, o la musica di Webern. In Gisella forse un ricordo del primo Ungaretti. La purezza della scrittura è già in “Quarta stella” ma là le cose disegnate sulla pagina sono spesso quelle dei ricordi, affioramenti, graffi del tempo; qui Gisella Genna è più prossima a un’astrazione interiore: la sua intonazione è insieme dolcissima e metafisica, il paesaggio è vicino e sembra infinito; è uno stile unico nella poesia italiana, in molti autori gli accenti lirici affiorano come venature filtrando dal vocabolario e dalla sintassi del parlato, tra l’appunto di diario e la fotografia del quotidiano (altrimenti bisogna essere Vivian Lamarque per trasformare in lirica purissima anche lo sferragliare di un tram affollato): “Appare in limine di glicine aprile –/ già snatura.// Cedevole scende, ripiegando/ con te// più forte dileguando, altro destino”.
Dal libro:
È linea di confine il larice
– il contorno cade, nell’estate
singolare, declina il suono
in rovescio di laghi.
Accade nel bosco la pazienza,
pietas nel pensare
cosa sono dunque gli uomini.
*
Sciame oscuro che trapassi
l’arnia dolce del tempo,
o fuoco fatuo ascendi nell’indaco
serbando la fine a primavera.
E non sei ancora sbocciato.
*
Attraverso il deserto
delle vite coralline
– roseo limbo d’aria –
vedi, noi togliamo le vesti
fino a scomparire.
*
Seduti a guardare il fuoco, fuori infuria il blu. È pace di legno. Solo voci di alberi e vetri.
Intervista a Gisella Genna:
Versi brevi, frammenti di immagini, una scrittura intensa, quasi sospesa:
“Rarefazione” è un titolo perfetto. Come nascono in te immagini, suoni e versi?
Arrivano momenti – che chiamo piccoli lampi – in cui sento affiorare parole che seguo in un ascolto silenzioso. A volte si manifestano vagamente, per poi definirsi. Possono esserci versi che nascono da un dato specifico, come l’emergere di un ricordo, oppure attraverso un processo astratto, e possono passare giorni prima che il testo sia completo per lingua e ritmo.
In un’intervista hai dichiarato tre grandi amori letterari: l’Eliot dei Quattro quartetti, Sereni e Paul Celan, l’autore della Todesfuge (Fuga di morte): leggendoti mi viene in mente anche l’Ungaretti di “Commiato” (dal Porto sepolto), quello della “parola scavata in noi come un abisso”. A chi volesse accostarsi alla poesia quali autori suggeriresti?
Agli autori già citati aggiungerei Dickinson, Rilke, Mandel’štam, Achmatova, Cvetaeva, Stevens, Bonnefoy, Ungaretti, Montale e Fortini, che ritengo imprescindibili.
Che cos’è la poesia per te?
Non credo che la poesia sia definibile con esattezza. Posso solo dire che la sua essenza è rivelatrice di senso. Amo una certa forma oscura, di non immediata comprensione, che apra dei varchi, che fori il conosciuto come una lancia.
In una società tutta proiettata all’esterno, al consumo immediato delle cose e delle relazioni, ma anche tra scenari continui di guerre e di violenza, viene da pensare che la letteratura non di evasione non abbia più senso.
Siamo anche il Paese d’Europa che legge di meno: in questo contesto qual è il posto di chi scrive versi? L’intellettuale è ancora una sentinella critica della società?
Sono convinta dell’importanza della letteratura, delle arti, di quelle voci che possano portare a un allargamento di visione, e credo che in questi anni cruciali se ne senta ancora più il bisogno. Attraverso la scrittura e la lettura è possibile trovare un centro, un incanto anche nello smarrimento che viviamo in questo tempo. Mi piace pensare alla forza dell’arte, alla sua spinta propulsiva capace di resistere all’avvicendarsi delle epoche. Mi viene in mente il quadro di Vermeer, La lattaia, citato da Wisława Szymborska in una delle sue poesie più conosciute. Qui la parola celebra l’opera ed entrambe si stagliano in un assoluto atemporale: “Finché quella donna del Rijksmuseum/ nel silenzio dipinto e in raccoglimento/ giorno dopo giorno versa/ il latte dalla brocca nella scodella,/ il Mondo non merita/ la fine del mondo”. (Da “La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009)”, Adelphi, trad. di Pietro Marchesani).
L’autrice:
Gisella Genna è nata nel 1973 a Milano, dove vive e lavora. Giornalista e docente, si occupa di moda. A marzo 2020 ha pubblicato la sua prima raccolta di versi, “Quarta stella” (Interno Poesia), terza classificata al Premio Città di Como e finalista al Premio Europa in Versi 2021.
Sue poesie sono state pubblicate su blog letterari e riviste online e cartacee. Ha curato la rubrica “Il tempo della poesia” per Tortuga Magazine.
(Gisella Genna “Rarefazione” pp. 64, 13 euro, peQuod 2023)
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Obraz její duše / Picture of her soul
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Latinoamericana ——————————
Su mano es una brújula en el caos La sua mano è una bussola nel caos
Sei testi inediti in italiano
di Alex Pausides
Consagración de la reina
para Lesbia
Irás a fiesta de los sabios
y probarás los manjares sagrados
Los ojos humildes
te asomarás al río blanco del misterio
A un golpe del tambor recitaré en tu oido
bendecida por la buena suerte serás
una cruda tela banca al cuello
bajo los grandes árboles místicos
largo doloroso iluminado camino hacia ti misma
Consacrazione della regina
per Lesbia
Andrai alla festa dei savi
e proverai le leccornie sacre
Gli occhi umili
ti affaccerai sul bianco fiume del mistero
Al battere del tamburo reciterò nel tuo orecchio
benedetta dalla buona sorte sarai
una grezza tela bianca al collo
sotto i grandi alberi mistici
Lungo doloroso illuminato cammino verso te stessa
Da “Expulsión del paraíso” (inedito)
*
Discurso de Ulises
No estamos en la tierra de nadie
Ni tendrás que atarme al mástil con los oídos tapados
La música encantada no es ciertamente el enemigo
Y nadie teme al susurro que se cierne
Mi esquife prorrumpe en medio de las aguas nada impolutas
Pero Itaca es más que una visión del mediodía
Itaca es algo más que un riesgo al horizonte
Discorso di Ulisse
Non siamo nella terra di nessuno
Né dovrai legarmi all’albero con le orecchie tappate
La musica incantata non è di certo il nemico
E nessuno teme il sussurro sospeso
La mia nave erompe in mezzo alle acque immacolate
Ma Itaca è qualcosa di più di una visione del mezzogiorno
Itaca è qualcosa di più di un pericolo all’orizzonte
*
Brújula
Su mano es una brújula en el caos
El velamen se alza y la suerte es un dedal en el vacío
No hay capitán que desoiga la voz de esas sirenas
La distancia promete islas ancladas en la palma de la mano
Bussola
La sua mano è una bussola nel caos
Il velame s’alza e la sorte è un ditale nel vuoto
Non c’è capitano che non ascolti la voce di quelle sirene
La distanza promette isole ancorate al palmo della mano
*
Oráculo
Te miré en el cielo de las islas
en la inminencia del diluvio y el azoro de Ícaro solitario
Un milenio estuvo el viajero ante el mar de la gelatina
pero las aguas eran un espejo mudo ante el escándalo
La hierba cubre el espacio
donde deben reinar el orden la transparencia
Pero las estrellas aullaban su desquiciada armonía
y la gente trocaba la intimidad en un campo de fútbol
Multitudes enteras entraban abruptamente
al reino tentador de la soledad
Oracolo
Ti ho visto nel cielo delle isole
nell’imminenza del diluvio e il turbamento dell’Icaro solitario
Un millennio stette il viaggiatore davanti al mare di gelatina
ma le acque erano uno specchio muto di fronte allo scandalo
L’erba copre lo spazio
dove devono regnare l’ordine e la trasparenza
Ma le stelle ululavano la loro sconvolta armonia
e la gente scambiava l’intimità in un campo di calcio
Moltitudini intere entravano bruscamente
nel regno tentatore della solitudine
Da “Habitante del viento” (1995)
*
Quiero echarme en la tierra fresca
El cuerpo no tenga intermediarios
Desnudo entre flores y animales
El humus fertilice una semilla un árbol una flor un fruto
Que coman los insectos o tome un niño distraído
Quiero estar a solas con la tierra
Nada impida la última frescura
Mi única absoluta y definitiva pertenencia
Voglio stendermi sulla terra fresca
Il corpo non abbia intermediari
Nudo tra fiori e animali
L’humus fertilizzi un seme un albero un fiore un frutto
Che mangino gli insetti o prenda un bambino distratto
Voglio stare da solo con la terra
Nulla freni l’ultima frescura
La mia unica assoluta e definitiva appartenenza
*
Nocturno
Mar que bajo mis pies tu furia riegas
No está soñando todo en las dormidas islas
Notturno
Mare che sotto i miei piedi la tua furia spargi
Non sta sognando tutto nelle addormentate isole
Da “Arte antiguo” (inedito)
(Traduzione dei testi a cura di Antonio Nazzaro)
L’autore:
Alex Pausides è nato a Manzanillo, Cuba, il 24 marzo del 1950. Poeta ed editore. È stato direttore del mensile culturale “El Caimán Barbudo”, un’importante pubblicazione del movimento poetico cubano nata nella prima generazione nel contesto della rivoluzione cubana. Vicepresidente dell’Associazione Hermanos Saíz degli Scrittori e Artisti giovani cubani.
Dal 2014 al 2019 è stato presidente dell’associazione degli Scrittori di Cuba. Presidente e fondatore del Festival Internazionale di Poesia dell’Avana. Fondatore della Collana SurEditores. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, italiano, russo, tedesco, svedese, ceco, romeno, portoghese, vietnamita, greco e in persiano. Ha vinto i premi: Premio de la Crítica nel 2006, la Decorazione “Vladimir Maiakovski” dell’Unione degli Scrittori Russi, nel 2008, il Premio”Samuel Feijoo” della Società Economica degli Amici del Paese, nel 2009, e la Medaglia Mihai Eminescu, della Fundacion Eminescu della Romania.
Le sue opere più recenti: “La extensión de la inocencia”, Ediciones Mucuglifo, Mérida, Venezuela, 2007; “Elogio de la utopía”, seconda edizione, Tarará Edizione, Milán, 2008; “Caligrafías”, Ediciones Unión, 2009; “Habitante del viento”, terza edizione, per la Fundación Casa de Poesía y la Universidad Nacional de Costa Rica, nel 2010, y quarta edizione, per Abrace Editores, Montevideo, Uruguay, 2014; “Arte oriental“, Coleccion Centro, Guadalajara, Messico, 2016 y Arte arcaico, La Habana, 2017.
Della sua poesia il poeta dice: “Ho iniziato negli anni Settanta con una poesia più vicina alla parola, all’emozione. Nel tempo è diventata una poesia cruda, più economica in termini verbali, più concettuale. Ora sto scrivendo molte poesie brevi, una poesia più riflessiva. Il passare del tempo implica un cambiamento nella tua visione del mondo”.
Quest’anno gli è stato conferito il Premio Mundus Artius. L’onorificenza datagli dal Journal of International Letters and The Arts, che per la prima volta ha premiato un autore cubano.
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Tři Grácie I / Three Gratiae I
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Voce d’autore —————————
Di altri sei stato il sangue, il respiro
Roberto Cescon, “Natura”
di Giovanni Fierro
Roberto Cescon con questa sua nuova raccolta poetica continua il necessario bisogno di definire la poesia. E lo fa partendo dalla parola, dal suo manifestarsi come segno, dal suo misurarsi come suono.
“Natura”, questo il titolo del suo libro, è la ricerca di un assoluto con cui confrontarsi. Ma Cescon in questo suo impegno fa la cosa più bella: si muove dentro la percezione, nell’unico possibile spazio dove la parola diventa poesia e la poesia ha l’opportunità di esistere.
“Sto aspettando da un silenzio che è tuo,/ è stato mio, sarà tuo” è il luogo dove tutto questo accade, l’esatto indirizzo dove accorgerti che “Potresti dire che tutto accade/ nel tempo in viviamo, ma è lo spazio/ delle tue parole che fa diventare tempo/ lo spazio tuo e egli altri”.
Fin dalla poesia iniziale (la prima della selezione che più sotto proponiamo) Roberto Cescon porta al centro del suo scrivere questo continuo avvicinarsi alla parola come ad un qualcosa che non è spiegazione né racconto, ma bensì la verità che si fa esperienza mentre la si pronuncia, mentre la si scrive.
Perché poi tutto questo racchiude e rivela anche la semplice condizione umana: “Che è tutto un aggiustarsi/ tra quanto cedere e quanto prenderci/ per non stare troppo male, né peggio”.
E forte è l’impegnarsi nel cercare quel qualcosa che ha vibrato prima della scrittura, e le indicazioni e citazioni che rimandano alle incisioni rupestri di migliaia di anni fa è un indicare linee e punti, curve e forme, immagini e colori che sono state la parola prima della parola, che hanno custodito sulle pareti di una caverna l’intonazione del mondo e di ogni gesto che ha iniziato l’essere umano a stesso.
“Natura” è costruire questo presente che riconosce nel passato, anche quello più lontano, le tracce necessarie per avvicinarci al futuro, anche quello più vicino. Perché adesso, e come sempre, “Dalla voce/ qualcosa preme verso fuori/ dopo adesso che è già stato/ ogni volta in questa voce/ sta per compiersi nel segno”.
Roberto Cescon in queste sue pagine trova così la misura più vicina, e più confidenziale, per affrontare ogni possibile fragilità (non solo di segno e di significato…) che è il territorio più immediato per incontrarsi: “Lei accade nella sua mente/ che io vedo solo da fuori”, a cui affidare quel “Ma amarsi è un disaccordo/ oltre il toccarsi che ripete/ ogni passo, l’ultimo possibile” che porta ulteriore svelamento all’intero “Natura”.
La dimensione del futuro fa parte di questo suo nuovo scrivere, e ha la sincerità di una realtà che torna, che sembra così garantire un passato a cui ognuno di noi può appartenere.
Uno spazio, un altro in questo libro che apre orizzonti e chiude le facili vie di fuga, dove il presente lo si può guardare come “questo bosco, per esempio: sei sicuro/ che quel prato sia fuori dalla mente/ del cervo? O la mente di quel cervo/ non sia anche dentro l’erba?”.
E forse Roberto Cescon ha trovato la domanda senza punto interrogativo più appropriata, “Potresti dire che tutto accade/ nel tempo in cui viviamo, ma è lo spazio/ delle tue parole che fa diventare tempo/ lo spazio tuo e degli altri”. Il momento dove tutto è più chiaro, a cui accorgersi di appartenere.
Dal libro:
Da qualche parte il canto di due uccelli
lassù, chissà se due, indistinguibili
per me che non so distinguerli
tra i rami radi prima della primavera
e quei suoni nei miei passi
che seguono un futuro che proviene
da altri passi, in un tempo
come ora che mi tocca e non si muove
e l’improvviso frusciare delle foglie
per una biscia o altro che non indovino
come quest’odore nella voce
affiorano i pensieri
non così diversi da quei rami
o dai cinghiali nel bosco
invisibili e presenti
così è scritto all’imbocco del sentiero
e la mia lingua viene da lì
e lì finisce, mai del tutto
in un flusso antichissimo che dai muscoli
proviene e ci fa stare
in quei corpi, nei possibili futuri.
*
Dal trampolino tuffarmi
vorrei, da una vita, ma pensare
troppo presto
spinge l’acqua alla deriva.
Così rimando il folle desiderio
di stare a galla, il mare sopra me.
*
Adesso, non c’è più prima
prima, potevi tutto
per dire chi sei, adesso però
sei solo questa voce, nei segni.
Adesso sai che non ci riuscirai
mai non smetterai mai.
*
Limonite, manganese, a pezzi, impastati con acqua, diventano pigmenti. Poi affili una punta di selce, come quando tagli carne o legno. Accordi occhio e mano, agisci nello sguardo per creare una forma, l’hai vista prima, fuori, ora diventa punti e linee.
*
Stasera la mente, come da millenni
si protende mentre si disperde
questa luce e ogni volta lo svanire
non riesci a pensare che sia l’ultima,
lo vedi accadere per gli altri
ma non puoi crederlo per te
e chissà in questa sera, la vita là fuori
viene da prima delle forme
e non da te che la prolunghi nei futuri
decine e milioni di anni prima
un baleno se pensi
al tempo vasto che non vedi
di pietre che si fanno ossa
e poi sabbia e corpi e foglie.
Di altri sei stato il sangue, il respiro
e le voci già state
si accordano ai viventi in questi segni
e tu allora, e questa vita,
sei immortale, come la morte.
Intervista a Roberto Cescon:
Mi sembra che l’inizio di “Natura” sia un invito a vivere la poesia, e le poesie, come realtà in sé, un qualcosa che succede e che è pura percezione. Non è spiegazione, né racconto, ma un qualcosa che si fa esperienza mentre la si sta leggendo. È così?
L’idea è quella. In fondo la percezione è il nostro agire nello spazio, che comprendiamo tramite la lingua. Noi pensiamo tramite la lingua: il pensiero, innervato nella lingua, ha un suono, che è presente già nel momento in cui si formano la sintassi e il lessico. È perciò il suono a consentire l’accadere della lingua, cioè del pensiero, nella nostra mente. E quando percepiamo, non esiste distinzione tra ciò che è fuori e ciò che è dentro. In un certo senso vedere è sognare l’immagine attesa del mondo o, secondo l’intuizione già di Taine (“la percezione esterna è un sogno interno”), una sorta di allucinazione comprovata.
Come il mondo è quello che accade nella mente di un essere umano a partire dalla relazione del suo corpo con l’ambiente, così nello spazio mentale del testo non c’è fuori e dentro, prima e dopo, vivi e morti, ma tutto si tiene nella lingua.
La poesia si compie nel suono e nel senso, ma la sua intenzione proviene da prima del senso e nel senso si propaga. In tal senso la poesia non conduce a un altrove, ma a un prima, che anima le parole ogni volta in cui vengono pronunciate. Anzi, ciò che chiamiamo prima è attorno e da sempre: è la vita che accade e ci invade, mentre ne prendiamo coscienza solo nei momenti rituali, tra i quali c’è l’atto poetico.
Perché poi questo tuo nuovo scrivere, nelle pagine successive, diventa la ricerca di ciò che era prima della scrittura; penso ai testi dedicati alle incisioni rupestri. Quasi a trovare il perché dell’unione di gesto, immagine, parola e pronuncia. Che bisogno, o desiderio, ha alimentato questa parte del tuo nuovo libro?
L’unione di gesto, immagine, parola e pronuncia è il nodo della poesia. Il gesto di una voce che vede cose dentro e fuori di sé, in un tempo indistinguibile; la materia come soglia del mondo immaginato; le sequenze di linee, i colori, sembrano muoversi come la sintassi; noi che guardiamo le forme in movimento inneschiamo il linguaggio.
L’impulso di quelle forme scaturisce dal modo con cui l’essere umano incarna il mondo, grazie alla propensione biologica e cognitiva dell’organismo. L’impulso dell’opera non è da ricercare nella genesi dell’opera (ad esempio un evento nella vita dell’artista o la volontà in sé di creare l’opera), ma nella sua origine, vale a dire in quella propensione a comprendere l’ambiente, da parte del corpo, tramite la lingua, in una relazione tenuta insieme dal gesto che trasforma la materia non solo sonora.
Molto presente nei testi del libro è il tema del futuro. Ma come realtà che torna, che sembra garantire un passato a cui comunque si appartiene, tutti quanti. Ma quindi, che futuro è? Se può esserlo in questo modo…
Per l’uomo è impossibile l’adagio oraziano di cogliere l’attimo: non solo siamo in ritardo, non possiamo sentire le cose mentre accadono e il presente è sempre “ricordato“, ma anche il tempo in cui si verifica l’interazione con il nostro mondo è perduto, sfugge alla coscienza, che ne prende atto quando la risposta neurale è già avvenuta.
D’altra parte, il dilemma è “sapere senza essere e essere senza sapere”: l’intuizione di esserci si allontana quando ne siamo coscienti, mentre ci turba, fino a commuoverci, il suo essere già stato.
Il presente è piuttosto un campo di relazioni che coinvolge la memoria dell’esperienza (il passato) e la proiezione dell’istante in avanti (il futuro). Questo modo di concepire il tempo è una dimensione della coscienza, che deriva dalla capacità di riconoscere relazioni causali e i mutamenti delle cose nello spazio.
Il futuro è legato al nostro inevitabile protenderci in avanti, come tutti i viventi, attraverso i segni, che sono innescati dagli organismi e s’incarnano nella relazione tra essi (e nell’incontro ciascun organismo diviene qualcosa di nuovo).
Questo perché un segno proviene dal passato, che è dentro l’organismo, e dal presente si protende già nel futuro, un futuro possibile, che vive adesso. Si potrebbe dire che è la propensione al futuro ad animare i segni, promuovendo lo stesso presente. D’altra parte ogni organismo incarna tutti quelli passati in continuità con se stesso, diventando parte di un corso che lo proietta nel futuro, oltre se stesso, essendo venuto alla vita grazie agli organismi in relazione con lui e i suoi segni.
E tema importante è anche quello dello spazio, che ritorna più volte. Ma come luogo di collocazione del proprio stare al mondo, luogo fisico dove il proprio corpo ha bisogno di riconoscersi, di avvertire la propria presenza. Prima per sé (anche questa è una percezione…) e poi con gli altri. Ti ritrovi in questo?
Ogni volta che accade, la lingua diviene discorso, sempre legato a una irripetibile situazione e a un dialogo con l’altro, presente o distante nel tempo e nello spazio. Nel discorso lo sguardo di un corpo sul mondo prende forma in un “gesto semantico”, il quale ha a che fare col senso, incarnato nel combinarsi delle forme e delle immagini di un testo, senza però esaurirsi mai completamente, poiché abita nella tensione tra la lo sprigionarsi del senso e il fondo indicibile della lingua, dove giace la temporalità dell’essere umano.
L’articolarsi della voce nello spazio sonoro è il modo in cui il linguaggio accade nel tempo ma, nell’accadere, esso evoca un altro tempo, dove siamo entrati in contatto con la parte più viva di noi.
Quel tempo però resta fuori e, non accadendo, ci prolunga e ci supera, situandosi tra noi e l’altro. Così i nostri contorni si dissolvono in questo limite, che potremmo chiamare nowhere: un luogo che, mentre si fa presente, esce dal presente per essere presente a sé. Ecco, nowhere è il limite di sé nella relazione con l’altro, relazione che può altresì costituire il fondamento dell’organismo. Dove comincio io? Dove tu che mi ascolti? Quanto ti cambia il mio segno?
“Natura” ha poi la forza di invitare ognuno alla poesia, e ancor di più di esortare a chi scrive ad abbandonarsi ad essa, a non avere distanza con il suo accadere, con il suo essere manifestazione di un qualcosa che c’è, ed è prezioso, assoluto. Mi sbaglio?
La poesia è come un rito: nell’atto dell’ascolto e della lettura prendiamo coscienza di questo impulso grazie alla lingua, intesa come gesto corporeo che sollecita l’altro sul piano emotivo e acustico ogni volta che si ripete, rendendo presente nella mente dell’altro una scena o un evento, con la sensazione di trovarsi nello stesso luogo, il luogo dove sentirsi vivi.
La poesia ha a che fare con un’esigenza cognitiva della specie, perché nel leggerla si compie un rito fossile, in cui la voce di un uomo entra nel corpo di un altro tramite il suono del pensiero e da questa materia sonora e linguistica, che accompagna il dispiegarsi di scene e eventi, chi ascolta prende coscienza del suo sentirsi vivo, per poi tornare alla sua normalità.
Nell’ascolto è tutto il corpo a protendersi per l’inclinazione naturale a imitare il movimento e il ritmo. La risonanza e l’intensità che si provano durante la lettura di un testo poetico risentono dell’emotività e della propensione mimetica dell’organismo. Quest’ultima non è tanto la capacità di “imitare” la realtà con le immagini, quanto quella di percepire le cose (che è sempre un agire, anche quando si osserva). Leggere una poesia è muoversi nello spazio per percepirlo tramite la materia sonora cosciente, da cui infatti scaturisce il senso e la sua componente emotiva. Muoversi lungo i versi per percepire il pensiero sonoro incarna l’agire dell’essere umano.
Nei testi che compongono “Natura” viene menzionato il poeta Mario Benedetti, figura importante e di riferimento per la realtà poetica italiana, basti pensa alla sua raccolta “Umana gloria”. In che modo pensi che il suo fare poesia sia presente nella scena poetica contemporanea? Cosa ha lasciato il suo scrivere, cosa ha innescato?
I testi di “Umana gloria” lasciano storditi e commossi per l’impatto simultaneo di diversi fenomeni formali: la paratassi, la permeabilità di figure e di piani temporali, la propagazione fonica, le slogature sintattiche, gli accordi degli accenti tonici nel verso lungo, il cui incedere fluido inciampa tra cesure, iterazioni lessicali indefinite e infantili.
Nell’accadere di questi fenomeni, a un certo punto non sappiamo più in quale tempo ci troviamo né da quale tempo la voce stia parlando, se a essa pare di essere stata viva in un tempo altro, a causa del suo dirsi già nel momento in cui era vissuto tramite la lingua. Il nostro consistere fragile è compreso nella lingua, inevitabilmente distante dalla vita, per raccontare l’esperienza di sentirci dentro la vita. Siamo insituabili e percepiamo in modo colloidale lo spazio e il tempo in cui viviamo. Queste, e altre cose, pare dirci Benedetti.
L’autore:
Roberto Cescon (Pordenone, 1978) dopo la maturità scientifica al Liceo Scientifico Vendramini, si laurea in lettere a Venezia nel 2002, specializzandosi per l’insegnamento nella scuola secondaria nel 2004.
Ha pubblicato “Vicinolontano” (Campanotto 2000), “Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuali sulla poesia di Franco Buffoni” (Pieraldo 2005), “Disabile chi? La vulnerabilità del corpo che tace” (Mimesis 2020), “Di tutti e di nessuno. Una poetica della specie?” (Industria&Letteratura 2022) e le raccolte poetiche “La gravità della soglia” (Samuele 2010), “La direzione delle cose” (Ladolfi 2014) e “Distacco del vitreo” (Amos Edizioni 2018).
Collabora all’organizzazione del festival letterario Pordenonelegge.
(Roberto Cescon “Natura” pp. 96, 14 euro, Stampa2009 2023)
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Dobré ráno / Good morning
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Ti racconto ————————
Gli incastri
Un racconto inedito
di Emiliano Sabadello
Da un frammento ritrovato su un altro pianeta.
Ci sono storie che hanno una morale, che si riferiscono ad un universo concettuale esterno, e ci sono storie che non hanno una morale e che si riferiscono ad un universo concettuale interno. Queste ultime, che sono un cerchio giottesco, sono le più difficili da capire, in quanto presuppongono che il lettore diventi parte di esse.
L’interno è sempre più difficile dell’esterno.
Anche per chi scrive.
Ma quando ho storie da raccontare, cose da tirare fuori, mi fanno così male le gambe, quando cammino, quando sono in quiete, quando vorrei dormire, che sono costretto a scrivere.
In un vecchio film, il protagonista dice che i lettori non dovrebbero mai conoscere i propri idoli (scrittori). Ma anche il contrario è vero: lo scrittore non dovrebbe mai venire a sapere chi è che legge i suoi libri, perché con ogni probabilità, al di là della fiction, sono persone molto diverse da lui. È per questo che uno scrittore giusto con se stesso si dispiace di aver raccontato la sua storia a tanta gente. È per questo che questo racconto contraddittorio, per il suo carattere interno ma universale, è così difficile e doloroso. Ma non si può fare altrimenti.
Autunno. Cadono le foglie e con esse tutto il resto. Il corpo umano sta smaltendo il caldo dell’estate, aiutato dalla pioggia intermittente di questi giorni. Le giornate cominciano ad accorciarsi, anche nella testa delle persone. Le case cominciano ad essere vissute di più e non soffrono di quel senso di abbandono tipico dell’ultimo periodo estivo. Nel complesso, molte cose ricominciano.
Volo. Nel cielo, sono rimaste soltanto le rondini ritardatarie, o forse sono soltanto quelle pigre o ancora forse sono le più malinconiche del gruppo, quelle solitarie. È sera e il volo degli uccelli è sospeso. Il fuoco del primo camino rumoreggia blandamente, come un cuore in un ballo. Bum-bum, bum-bum, bum-bum. E il volo asincrono di uccelli in partenza per la migrazione viene sostituito da un cha-cha-cha e da un mambo, gambe volanti per cuori non ballerini.
Musica. La musica è ciò che c’è intorno, a cui bisogna accordarsi. È, in effetti, l’unione del movimento e della difficoltà, per chi è fermo. Tutto è ritmo e tempo. Un’entrata in palcoscenico poco fortunata si dimentica presto, ma una fuori tempo… semplicemente non può essere perdonata. È come uno strumento stonato o, ancora peggio, uno strumento ubriaco, che prende la sua strada e si dimentica degli altri.
Prematuro. Ma come si fa ad essere sempre, sempre, a tempo?
Giallo. È il colore del sole e di tutto ciò che è luce. È il colore della scia di un fermaglio per capelli, in contrasto, una scia che permane anche quando la notte è già passata.
Non del tutto compiuto. E intanto, giorno dopo notte, notte dopo giorno, quasi un’alternanza manichea, l’autunno diventa qualcos’altro, di più radicato ma ancora non del tutto compiuto. La pioggia diventerà neve, ma tra un attimo. Prendiamocene ancora uno, congeliamolo quasi, godiamoci l’ultima sospensione. Le risposte, come anche i ricordi malinconici, molto spesso si trovano nel passaggio, nell’incompletezza. Che, per quanto riguarda l’essere umano, fa rima con salvezza.
Ragno. “Uccido speranze come fossero ragni”.
Alluvione. Continua a piovere. Non fa altro. Una pioggia dura, reale, che bagna le esistenze ed intirizzisce le ossa. La pioggia, da tempo annunciata, è arrivata. E manca poco a che ci sommerga tutti.
Capelli sciolti. Ma cercheremo di continuare a ridere, a piangere, a sentire il nostro cuore cadere e scoppiare quando lei, sudata e felice, si è tolta il suo fermaglio giallo e ha sciolto i suoi capelli.
Allontanamento. Come barche trasportate dalla pioggia atterrata, ci allontaniamo, in un tempo che non è più nostro.
Ritratto. Più ci si allontana e più i contorni diventano righe e poi puntini, come in una realtà immaginata da un pittore francese delle ultime ore del diciannovesimo secolo. Soffriamo, sanguiniamo, ma riusciamo ancora e vedere del pennello i tratti.
Combattimento. Le armi che ci siamo fabbricati da soli sono tutto. La nostra immaginazione può creare realtà. D’altronde, qualche tratto riunito, in lontananza può sembrare una barchetta messa in acqua da un gatto e lo straccio che ha per vela può ricordare una danza. Da dove inizia la perdita può anche finire il ritrovarsi.
Odissea. Ma qualcosa in mezzo ci deve essere, qualcosa di lungo e di anelato: cercarsi. Il resto è ancora tutto da scrivere.
È un racconto ancora una volta sperimentale. A tratti ipertestuale. Se non siete proprio soddisfatti della sua lettura lineare, provate a cercare al suo interno i salti e i risultanti incastri. Sempre che ci siano.
L’autore:
Emiliano Sabadello (Roma, 1974), è docente di ruolo di Filosofia e Storia al liceo classico Claudio Eliano di Palestrina, dopo aver insegnato per alcuni anni letteratura italiana e storia.
Ha all’attivo diverse pubblicazioni fra narrativa, saggistica e satira, tra le quali ci sono: “Pennywise”, un saggio su “It” di Stephen King, “Il male maggiore. Stephen King e la violenza contro le donne”, “Il denaro e le sue forme. Teorie del denaro in Marx”, “In un mondo che crolla. L’originario, la terra e ciò che resta dello Stato-Nazione. Heidegger e Pasolini”.
Ha curato un’edizione di alcuni racconti di H.G.Wells, “Racconti della prima fantascienza”.
Ha partecipato a volumi collettivi quali “Spinoza. Un libro serissimo” e “Almanacco Luttazzi della nuova satira italiana 2010”.
Collabora con le riviste letterarie Il corsaronero, La nota del traduttore, Morel – Voci dall’isola e Grado Zero.
(L’immagine è di Manuela Marsili, “Senza titolo” del 1997)
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Radioaktivní vejce / Radioactive egg
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Margini. Di poesia ed altro ————————
Nevicano gli anni
Chandra Candiani, “Pane del bosco 2020-2023”
di Roberto Lamantea
È l’incanto del silenzio a tessere i nuovi versi di Chandra Candiani – “Pane del bosco 2020-2023”, Einaudi – quel silenzio a cui l’autrice milanese ha dedicato nel 2018 “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” (Einaudi) – un silenzio tramato di echi minimi, fate e foglie, di un puma e un lupo invisibili che ci proteggono, guardiani ai nostri fianchi. È una poesia che fa proprio l’”incanto fonico” di Mariangela Gualtieri e Amelia Rosselli, con cui ascoltiamo le voci del bosco, cortecce e foglie, ruscelli e vento.
Ed eccolo, il bosco, antica divinità ferita e rinata, metafora, casa e labirinto: il bosco, dice Candiani, ci invita ad accogliere il tempo, non a fuggirlo come vorrebbe la nostra (in)civiltà della plastica e delle apparenze. “È il bosco della vita nuda. Anche la mente si spoglia, si perde la storia personale, si sentono più forte le urla del mondo che anziché essere lontano, da questa periferia dell’essere, si avverte più intimo e insieme estraneo. È il bosco della caduta delle illusioni e dell’entrata in una comunità di alberi dove l’umano ha una misura molto diversa, minuscola, relativa. Qui si familiarizza con la solitudine e anche con la morte”, ha detto Chandra in un’intervista a “La Lettura” (3 settembre 2023). Il bosco non è una fuga dal mondo, è entrare nel cuore del mondo. E nel canto delle foglie e dei ruscelli, nella musica del cielo, l’urlo della storia è ancora più assordante.
Se Chandra – il dio-luna della religione induista, “luna” in sanscrito, Candiani ha abbandonato il nome di battesimo, Livia, già con “Il silenzio è cosa viva” (Einaudi 2018) e “Sogni del fiume” (Einaudi 2022) – vive il bosco non come teatro della sua poesia ma come casa, luogo vivo, reale e quotidiano, è anche perché ha lasciato Milano, dove è nata nel 1952, per andare a vivere in un alpeggio piemontese in mezzo a un bosco. È una scrittura di luce, scrive con la luce, Chandra Candiani, anche quando il teatro del bosco è la notte; è un bosco sempre pieno di voci, di canti, di racconti: “Vado al bosco per perdonare le parole/ come nella stanza di un bambino che dorme […] Funambole parole sono rimaste impigliate/ nella mia mente di vetro e spugna,/ affondate o trasparenti”. È la natura trasformata – rivelata – dalla nostra assenza negli anni del Covid: “Il mondo senza di noi/ è bellissimo”. Ed è il bosco a donare a Chandra versi fulminanti: “Nel ruscello/ l’acqua si è fermata a pensare”. Il bosco canta, ma non sappiamo ascoltarlo, “se niente si decifra di questo passare/ sorgere transitare svanire, allora meglio/ non far sapere che gli uccelli scrivono/ infaticabili, scrivono nell’aria sui rami/ in cielo sulle rocce e nei fiumi/ i silenzi del mondo le parole perdute/ i destini che scorrono tra le dita”. “Gli alberi chiamano:/ andare/ il perché non lo so/ ma gli alberi chiamano./ Ho i piedi nel fango/ la saldezza scivola/ nella flessibilità./ Qualcuno mi tiene/ come si tiene la piuma/ di un pettirosso”. “Essere amata da un bosco/ è una lunga strada/ per stare al mondo”, confida, è “decapitare i pensieri […] rinascere vegetale/ un battito un fruscio/ il tempo che si fa vento”: “Senti il vento quando ascolta?” è la formula “perché nasca la compassione”: è, finalmente, l’ascolto dell’altro. La natura ti ascolta e tu nel silenzio senti il suo canto.
Con “Pane del bosco” Chandra Candiani ci dona uno dei libri di poesia più belli di sempre. Chandra ci cambia lo sguardo.
Dal libro:
Acqua che non è l’acqua
terra che non è suolo
albero che non è legno
vento che non è aria,
accendi e spegni
spegni e accendi
fino alla vista
del bosco aperto
e gli addii si assestano
tra osso e osso.
*
Nevicano gli anni
la schiena trascina bauli
di fiocchi di neve
eppure ogni giornata
è un capolavoro in sé compiuto
e tace. Molte cose la poesia
ignora di me. Molte cose
io ignoro della poesia.
Come stranieri venuti
da luoghi lontani
reciprocamente ci stupiamo
dei nostri modi di stare al mondo.
*
Tu sei a casa
seduto alla scrivania
e sei il mio capriolo.
Nel bosco c’è la neve
e sotto la neve cammino
e sotto la neve il tempo
si incanta.
Per i tuoi grandi occhi di legno,
quercia rossa, per il tuo muschio
sul petto e le pantofole di neve
sulle radici,
pur così alta e così magistrale,
so che dormi
e vengo senza rumore di domande
a farmi per te carezza.
*
Vai nel bosco e lasciati amare
l’anima si rompe per nulla
c’è bellezza e addio in ogni cosa.
Conta sul nulla.
*
Quel che ho da dire
è polpa per le gazze
buccia per le capre
succo per le salamandre.
L’angelo ha le ali chiuse
intorno al corpo,
non servono che a custodire
un po’ di se stesso.
Guarda in basso
scruta l’erba,
la terra urla la sete.
Vado a cancellarmi.
*
Adesso plàcati acqua plàcati
compresa è la tua furia
dissetata la terra riarsa
non tu hai rotto gli argini
ma noi infranto la custodia
smantellata la tua memoria.
Le parole sono come i tuoi pesci
le tue onde, plachiamoci acqua
abbiamo la stessa anima.
L’autrice:
Livia Chandra Candiani è nata a Milano nel 1952. È di origini russe: la nonna è nata a San Pietroburgo. Ha vissuto a Minsk e a Parigi per trasferirsi infine con la famiglia a Milano. All’Università studia Filosofia. Alla soglia dei 30 anni viaggia in India, scopre il buddhismo e la meditazione e nel 1986 assume il nome di Chandra, che in sanscrito significa luna. Ha tradotto testi buddhisti.
I suoi libri: “Una poesia” (Pulcinoelefante 1996), “Ritratto” (Pulcinoelefante 1998), “Sonatina per gatto” (Pulcinoelefante 2004), “Io con vestito leggero” (Campanotto 2005), “La nave di nebbia. Ninnenanne per il mondo” (Vivarium 2005), “La porta” (Vivarium 2006), “Bevendo il tè con i morti” (Viennepierre 2007, Interlinea 2015), “La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore” (Einaudi 2014), “Fatti vivo” (Einaudi 2017), “Vista dalla luna” (Salani 2019), “Le domande della sete” (Einaudi 2020).
Suoi testi sono apparsi tra le altre nelle antologie “Poesia degli anni settanta” a cura di Antonio Porta (Feltrinelli 1979), “La pratica del desiderio. I giovani poeti negli anni ottanta” a cura di Isabella Vincentini (Sciascia 1986), “Sette poeti del premio Montale” (Crocetti 2002), “Nuovi poeti italiani 6” a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi 2012).
Tra le fiabe “Fiabe vegetali” (Aelia Laelia 1984), “Sogni del fiume” (Einaudi 2022). Tra i saggi “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” (Einaudi 2018), “Questo immenso non sapere” (Einaudi 2021).
(Chandra Candiani “Pane del bosco 2020-2023” pp. 148, 12.50 euro, Einaudi 2023)
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Kapela / The band
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Ti racconto —————————-
Risposi all’istante, prima ancora di pensare
Kornel Filipowicz, “Il gatto nell’erba bagnata”
di Giovanni Fierro
Diciotto brevi racconti per conoscere l’arte narrativa di Kornel Filipowicz. È questo il contenuto del volume “Il gatto nell’erba bagnata”, curato da Andrea Ceccherelli, che propone testi che vanno dal 1954 al 1994, e che permettono al lettore italiano di conoscere per la prima volta lo scrivere di Filipowicz.
La scrittura di Filipowicz si ferma sempre un attimo prima del giudicare, porta il lettore in ogni più piccola piega del quotidiano, gli fa esplorare anche le parti apparentemente meno importanti dello stare al mondo, e lo conduce invece dove il respiro è l’accadere che si manifesta, l’inattesa sorpresa di essere nel punto preciso di non ritorno, come quando racconta che “le persone intimamente legate, in quei tempi difficili, potevano opporre al destino solo la decisione di condividerlo, di andare ovunque insieme: in prigione, oltre il filo spinato, davanti al plotone di esecuzione”.
Il suo vissuto (deportazione, lager…) emerge sempre nella trama delle sue storie; lo sottolinea, dice di come “si era creato un vuoto che non poteva essere riempito da ciò che ormai era passato, mentre ciò che doveva arrivare era rimasto bloccato da qualche parte, lontano, e non veniva avanti”.
Sorprendono questi diciotto racconti, perché sanno creare delle atmosfere che a volte sono una sospensione, altre un’attesa, altre ancora un’incisione destinata a rimanere: “E quelle ansie che il giorno non annullasse la notte, e che la notte non facesse ombra al giorno”.
Scrive bene Ceccherelli nelle finali note di lettura, “Nei suoi racconti la realtà ordinaria brilla in tutta la sua straordinaria, e insieme normalissima, problematicità” e di come Filipowicz usi “lo sguardo preciso e acuto del microbiologo; e i suoi racconti sono il quaderno in cui raccoglie e sviluppa le sue osservazioni”.
Come quando l’autore scrive della sua Polonia, soggiogata dal controllo sovietico: “Nutrivamo per la nostra patria un sentimento che potremmo definire di grande amore. Arrivò però il momento che, evidentemente, non poteva non arrivare: lui iniziò a idealizzare l’oggetto del nostro sentimento, io invece a criticarlo e a disprezzarlo”.
Gli animali sono un ulteriore importante presenza nel suo scrivere, creature e battito cardiaco con cui confrontarsi continuamente, anche imparare. Cani e gatti sono interlocutori con cui condividere storie e comprensione, come Kali a cui “gli invidiavo la sua natura animale, che avverte il dolore come male, e la paura solo davanti a ciò che è incomprensibile”.
Ma Filipowics è abile a catturare anche le parti meno esposte e più nascoste dell’esperienza umana, trova spunto e significato anche osservando che “La stanza si stava riempiendo di oscurità e di polvere, che si posava pian piano sui mobili e su tutti gli oggetti cancellandone i contorni”.
Non ha paura ad affrontare e descrivere nessun smarrimento, anzi, a volte lo pone al centro dell’esperienza quotidiana e lo sa indicare, “Il nostro personale rapporto con i tedeschi consisteva, in effetti, in un diniego silenzioso. Coltivavamo l’odio la sera, a porte chiuse e tende tirate, nelle conversazioni e mediante piccoli fogli di carta stampati in corpo 6”.
Eppure, in tutto questo riemergere di un vissuto difficoltoso, a volte drammatico, riesce a trovare quei rari momenti in cui tutto sembra andare per il verso giusto, il luogo dove la serenità è un attimo che si apre assieme all’orizzonte, quando “Sul lago verso cui ero diretto stava scendendo l’oscurità, i prati erano immersi nella nebbia. Ma le nubi scure, allungate, si sollevarono ancora una volta quel giorno come un sipario, rivelando un azzurro inverosimile, tanto era chiaro e limpido, e mostrando un ultimo lembo di sole, arrestatosi per un attimo al confine fra il cielo e la terra”.
Bene ha fatto Andrea Ceccherelli a realizzare questa raccolta di racconti, perché ci permette di conoscere Kornel Filipowicz, e scoprire di come “la domanda che presiede tutta la sua opera è: “che cosa c’è dentro l’uomo?”, come suona il titolo di una raccolta del 1971”, e di come “Dalla provincia al mondo è l’itinerario che i racconti di Filipowicz tracciano. È un outsider di provincia. La provincia è il punto di osservazione che gli permette di essere universale”.
Dal libro:
Non dissi niente. Dopo un attimo Elżbieta chiese: “Caro, dimmi: è ancora possibile aggiustare le cose tra noi?”.
“Non credo”.
Risposi all’istante, prima ancora di pensare.
Quelle parole evidentemente erano già pronte in me, aspettavano solo l’occasione giusta per sprigionarsi. Pur avendole pronunciate io, ovvero la mia gola e la mia bocca, non me ne sentivo pienamente responsabile. Era come se venissero da un’altra persona che da qualche tempo abitava in me. Chi aveva predisposto le parole “non credo” era spietato e crudele, io ero solo un freddo esecutore.
*
Murder era paziente. La pazienza era la sua caratteristica principale. Murder non aveva mai l’impressione di perdere tempo; impressione che accompagna gli uomini, anche i più pazienti, quando si trovano per esempio ad aspettare l’arrivo di un treno in ritardo, o a dover fare cose noiose e monotone. […]
Immobilità, attesa, staticità per Murder erano uguali a moto, corsa, fuga, caccia, lotta. Non significavano perciò una perdita di tempo. Erano semplicemente dei modi un po’ diversi, ma altrettanto preziosi, di esistere nel tempo e nello spazio.
*
Dietro i blocchi, la città finiva tutto d’un tratto e si apriva un’ampia distesa di campi e boschi in lontananza. In mezzo alla piazza, circondato da una siepe, c’era un orribile monumento grigio in calcestruzzo, pareva quasi prefabbricato, in onore dei soldati dell’Armata rossa. Pensai che, con monumenti del genere, il socialismo non incoraggiava certo l’eroismo nella lotta per la patria e per l’idea.
Intervista ad Andrea Ceccherelli:
(curatore della raccolta di racconti “Il gatto nell’erba bagnata” di Kornel Filipowicz)
Cosa c’è alla base della scelta di questi racconti? E cosa li lega uno all’altro?
Questo è il primo libro di Filipowicz uscito in italiano. Pensando a quale potesse essere il modo migliore di presentarlo, abbiamo deciso di proporre non una raccolta già esistente in polacco, e nemmeno una scelta apposita incentrata su un unico tema, ma una scelta rappresentativa di più tematiche ricorrenti nella prosa di Filipowicz: ci sono gli animali, c’è la natura, lo scavo dei sentimenti, ci sono i riflessi dell’esperienza della guerra. Ciò che tiene insieme questa molteplicità di storie è lo stile di Filipowicz, la sua capacità di creare un’atmosfera quasi dal nulla, o da un quasi nulla, di raccontare storie semplici, prese dalla vita normale, di tutti i giorni, di farci immergere nel grigiore della quotidianità e… farla brillare. C’è qualcosa in questa sua capacità che lo avvicina ai grandi maestri moderni dell’arte del racconto, da Čechov a Carver.
Ha scritto anche prose più lunghe, micro-romanzi molto belli, ma i racconti di questa raccolta sono esattamente la sua misura: sono 18 racconti per un totale di 250 pagine, quindi 10-15 pagine ciascuno. È possibile leggerne uno, o più di uno, e poi riporre il libro e riprenderlo a distanza di tempo, non si perde il filo. Non raccomandabile è invece iniziare un racconto e interromperlo per poi riprenderlo anche a breve distanza: non sono racconti d’azione, ma d’atmosfera, e l’atmosfera una volta dissolta non si ricrea.
Filipowicz si ferma sempre un attimo prima del giudicare. La sua fiducia nella narrazione è totale, vi si abbandona e chiede al lettore altrettanto… Crea situazioni dove l’accadere si manifesta, nella sua pura nudità. È forse questo il punto focale del suo scrivere?
Filipowicz è innanzitutto un maestro della descrizione. Narrare per lui significa descrivere, ma non dobbiamo pensare a qualcosa di statico; Filipowicz descrive l’accadere del mondo – esterno e interno all’uomo, un mondo che è in continuo movimento e proprio questo movimento deve essere osservato e narrato a partire da ciò che per un istante, solo per un istante, resta immutato. I dettagli visivi e percettivi, molto fini, di cui abbondano i suoi racconti non si esauriscono in se stessi, ma rimandano a significati ulteriori – che Filipowicz non esplicita. È anche un maestro del differimento: siamo sempre in attesa di qualcosa che ci pare stia per accadere.
La sua è una prosa suggestiva, in senso etimologico, ossia che suggerisce, e dunque chiede al lettore una compartecipazione alla costruzione del senso. Il grande filosofo e teorico della letteratura polacco Roman Ingarden parlava di punti di indeterminatezza presenti in ogni opera letteraria, che il lettore deve riempire con la sua immaginazione. La narrazione diventa così, in qualche modo, aperta, partecipata, tramite quest’attività di concretizzazione da parte del lettore.
“Il gatto nell’erba bagnata” è una raccolta di racconti. Eppure, sembra di leggere vari capitoli di uno stesso romanzo. È possibile questa sensazione?
Credo che dipenda da quella unità di stile di cui dicevo all’inizio e anche dal fatto che tutti i racconti di Filipowicz derivano dalla sua esperienza personale, dalla sua biografia: non mi riferisco agli avvenimenti grandi, storici, che ha vissuto in prima persona, ma a ciò che ogni giorno, eccezionale oi qualunque, Filipowicz ha visto, udito, sentito, pensato. Diceva che nei suoi racconti c’era un 75% di materiale autentico, rielaborato in un processo che si svolgeva in tre fasi: sintetizzazione, ovvero riduzione all’essenziale ed eliminazione del superfluo; intensificazione, ovvero messa a fuoco e potenziamento dell’essenziale; dinamizzazione, ovvero creazione di una fabula che metta in movimento persone, cose e avvenimenti.
Una bella lezione di scrittura, che molti narratori polacchi della generazione più giovane di lui hanno accolto; negli anni Settanta e Ottanta era considerato un maestro da molti scrittori, che andavano da lui “in pellegrinaggio” a chiedere un giudizio su ciò che scrivevano. Era molto generoso con i giovani.
Non escludo, d’altra parte, che uno dei motivi di questa sensazione di unitarietà possa stare nel fatto che, pur volendo proporre una raccolta rappresentativa, dunque varia, ho comunque scelto i racconti più confacenti al mio gusto, che a me piacevano di più, che mi sembravano più riusciti, a volte nel complesso, a volte per un dettaglio. Uno dei racconti che mi ha colpito maggiormente è per esempio Mio padre tace, che parla di una partita di calcio, ma in realtà è un piccolo studio su come, nell’animo di un ragazzino, scaturisce il sentimento antisemita. Drammaticamente attuale. Come molto attuali per la loro saggezza sono le poche, essenziali parole del padre del bambino con cui, dopo un lungo silenzio, si chiude il racconto.
Per Kornel Filipowicz l’esperienza della guerra e del campo di concentramento, oltre ai racconti che li evocano chiaramente, entra anche nella tensione del suo narrare. Penso al racconto “Il gatto nell’erba bagnata” ad esempio, con quel suo finale che è allo stesso tempo spiazzante e drammatico, capace di una tensione che si rivela spietata. E che testimonia di quanto ogni vita sia appesa, a volte, solo alla volontà altrui e alla sua crudeltà. Quella sua esperienza, in che modo ha quindi segnato il suo percorso d’autore?
Ha colto un elemento molto importante. La crudeltà è in effetti una componente ricorrente in questi racconti, e quel che più sorprende è che si manifesta in genere in maniera assolutamente inaspettata, come nel finale della Ragazza con la bambola, ovvero il bisogno di tristezza e solitudine. È una crudeltà, quasi un cinismo, che emerge dagli avvenimenti, ma anche dalle parole, e proprio quando ci si aspetterebbe qualcosa di, come dire, patetico, sentimentale, buono.
Qui l’arte di Filipowicz si diverte a portarci fino a un certo punto, creare una certa attesa e poi rovesciare tutto. È un modo per evitare il pathos. Filipowicz non sopportava il pathos ed è anche per questo che le esperienze drammatiche vissute in tempo di guerra – prigione, lager, lavori forzati – non gli hanno ispirato racconti tragici, pieni di azione, di emozioni forti, di thrilling. Tutt’altro.
Antifrasticamente, proprio il racconto ambientato nel lager che ha come protagonista un capo è forse il più affermativo, ottimistico – ironicamente, certo, ma l’ironia è una sorta di doppio fondo di significati meno evidenti che il lettore deve cercare.
Il libro è anche un laboratorio di traduzioni, ogni racconto è tradotto da una firma diversa dall’altra. Cosa è emerso da tutti questi differenti lavori, quale il tratto che li contraddistingue, e quale invece il tratto comune, l’identità condivisa?
Ognuno dei diciotto traduttori ha impresso al proprio lavoro un tratto individuale, come è normale; la difformità di scelte è stata poi ricondotta a una matrice uniforme durante il processo di revisione. Il libro è il frutto di un progetto di traduzione durato alcuni anni, che ha coinvolto numerosi studenti dell’università di Bologna, a partire dalla prima tesi di laurea su Filipowicz che ho seguito una decina di anni fa.
Nel frattempo alcuni dei traduttori, da studenti sono divenuti dottorandi, altri lavorano già all’università. Le traduzioni erano lavori fatti per l’esame di Lingua Polacca della laurea magistrale, dunque erano sostanzialmente corrette (ho scelto le migliori) dal punto di vista linguistico, ma richiedevano una revisione ai fini della pubblicazione, perché una traduzione corretta non è automaticamente una bella traduzione; per tradurre bene non basta evitare gli errori, occorre una certa sensibilità.
Quindi ho chiesto dapprima ai traduttori di mandarmi una versione aggiornata, perché anche la loro sensibilità era cambiata nel frattempo, si era affinata; quindi ho effettuato un lavoro di revisione e uniformazione stilistica.
Filipowicz è stato a lungo legato sentimentalmente a Wislawa Szymborska. La poesia di lei, in qualche modo, è ‘entrata’ nel suo scrivere? E per caso è successo il contrario? O invece i due mondi espressivi non hanno minimamente assorbito l’altrui espressione?
Io credo che sia accaduto piuttosto il contrario. Occorrerebbe verificare attentamente questa mia affermazione, ma ho l’impressione che certi temi, soprattutto relativi alla natura, ma non solo, anche per esempio ai sogni, diventino frequenti nella poesia di Wisława Szymborska soprattutto a partire dagli anni ‘70.
Teniamo presente che Kornel era più grande di lei di dieci anni, aveva anche una maggiore esperienza del mondo, per questo poteva esercitare un ascendente su di lei. Ma non si tratta solo di assorbire, influenzare, recepire. Io credo che nel loro modo di guardare le cose, di vedere il mondo, ci fossero molti tratti comuni già prima di incontrarsi.
La loro memoria però funzionava in modo diverso, la stessa Szymborska diceva alle sue biografe Bikont e Szczęsna (in “Cianfrusaglie del passato”, ed. Adelphi) che quella di lui era molto più dettagliata, precisa, capace di ricostruire esattamente l’ambientazione di un fatto e l’aspetto di ogni elemento, e commentava: “Oggi la prosa si riduce spesso a un monologo interiore, che non obbliga a una descrizione del mondo. Non è roba per me. Io apprezzo la prosa che mostra un pezzetto di mondo, una prosa che vede, sente, fiuta, tocca”.
In che modo il cinema, e i suoi amati Bunuel e Fellini, ma anche il Neorealismo italiano, trovano spazio e voce nello scrivere di Filipowicz?
Filipowicz amava il neorealismo, che probabilmente sentiva affine per un certo modo di guardare alla realtà, e per la realtà stessa che il cinema neorealista sceglie di rappresentare – semplice, marginale, quotidiana, intrisa di sentimenti autentici e di drammaticità. Per un ventennio, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, lavora anche come sceneggiatore, collaborando con il regista Stanisław Różewicz, fratello del famoso poeta Tadeusz, suo grande amico, che dopo la sua morte nel 1990 gli ha dedicato una poesia intitolata “Conversazione con un Amico” di cui voglio citare un pezzo nella traduzione di Barbara Adamska-Verdiani (nella raccolta “Bassorilievo”, ed. Scheiwiller):
da qualche mese
il mio Amico
Kornel Filipowicz
è nell’altro mondo
mentre io sono sempre in questo
non credo nella vita dell’aldilà
cerco di comprendere
questo tuo passaggio
attraverso la soglia dell’altro mondo
leggo un tuo libro
cerco di ricordarmi
come è finita
la nostra conversazione
taci e ne vai
giustificato dalla morte
[…]
tacciamo a lungo
abbiamo imparato quest’arte
lungo una conoscenza
durata 44 anni
suonano alla porta
è Wisława ha portato
aringa affumicata
(due aringhe affumicate…
una per la gatta Micia
e l’altra per Kornel)
Possiamo finire questa nostra conversazione con questa commovente suggestione: quando, nella poesia Il gatto in un appartamento vuoto, ispirata al ricordo del suo amato Kornel, Szymborska scriveva “anche la mano che mette il pesce nel piattino non è quella di prima”, non immaginava la scena, l’aveva vissuta.
L’autore:
Kornel Filipowicz (1913-1990) nasce a Ternopil’, oggi in Ucraina, ma cresce a Cieszyn, cittadina al confine fra Polonia e Moravia, dove la famiglia si stabilisce al termine della Prima guerra mondiale.
Conseguita la maturità matematico-naturalistica, a vent’anni si trasferisce a Cracovia per studiare biologia; lì esordisce nel 1934 come narratore e frequenta gli ambienti della gioventù socialista.
Allo scoppio della guerra viene fatto prigioniero, ma riesce a fuggire. Nel 1944 viene catturato dalla Gestapo e deportato nei lager di Gross-Rosen e Oranienburg. Dopo la liberazione si stabilisce a Cracovia, dove si dedica in modo esclusivo all’attività di scrittura.
Negli anni Settanta e Ottanta diviene un importante punto di riferimento nell’ambiente letterario di Cracovia, soprattutto come animatore della vita culturale clandestina contro il regime comunista.
È autore di racconti e romanzi brevi. Le sue opere sono tradotte in una dozzina di lingue europee.
Il curatore:
Andrea Ceccherelli è professore ordinario di Lingua e letteratura polacca e presidente del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. I suoi principali campi di ricerca sono la letteratura polacca del XVI-XVII e XX secolo, i contatti letterari polacco-italiani, la traduzione e l’autotraduzione.
È autore di una monografia in polacco sulla raccolta di Vite dei Santi del gesuita Piotr Skarga (2003) e dei capitoli su Rinascimento e Modernismo nella “Storia della letteratura polacca” Einaudi, tradotta in polacco per Ossolineum, nonché coautore di “Szymborska. Un alfabeto del mondo” (Donzelli, 2016).
È traduttore di letteratura polacca contemporanea (Cz. Miłosz, Z. Herbert, J. Twardowski, A. Świrszczyńska, J. Czapski, W. Szymborska, K. Filipowicz, A. Zagajewski).
(Kornel Filipowicz “Il gatto nell’erba bagnata” a cura di Andrea Ceccherelli, pp. 284, 18 euro, Marietti1820 2023)
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Pijáci kávy / Coffee drinkers
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Margini. Di poesia ed altro ——————–
È un dolere cortese, di carta
Cristina Annino, “L’udito cronico”
di Roberto Lamantea
Ci sono delle voci “a margine” nella poesia italiana del Novecento e dei primi decenni Duemila che, se non fosse per la piccola editoria, rimarrebbero esiliate in archivi e scaffali universitari: voci “esuli”, riscoperte grazie a letture e studi appassionati, a piccoli editori e direttori di collane colti e raffinati.
Voci “esuli”, anche se in vita hanno avuto ruoli di primo piano nella ricerca letteraria: Beppe Salvia, riscoperto grazie a Interno Poesia; Piera Oppezzo, che ha debuttato nella bianca Einaudi, anche lei ritrovata grazie alla passione dell’editore di Latiano Andrea Cati; il friulano Mario Benedetti, rilanciato da un’antologia garzantiana. Sorte analoga tocca all’aretina Cristina Annino (Cristina Fratini, 1941-2022), protagonista a Firenze del cenacolo del Caffè Paszkowski con Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, pubblicata sempre da piccoli editori, riconosciuta, anche premiata, ma sempre lasciata ai margini del mainstream. È un altro piccolo editore, Graphe.it di Perugia, a riscoprirla grazie ad Antonio Bux che nella collana “Le mancuspie” ristampa “L’udito cronico”, la raccolta compresa nella collettanea “Nuovi poeti italiani 3″ del 1984 a cura di Walter Siti e finora mai apparsa in volume.
Il timbro della Annino non può essere paragonato a nessun altro. Apparente prosa all’acido muriatico, la sua scrittura accosta, in modo naturale, la lingua colloquiale a tracce d’intonazione lirica, ma sempre vola “basso”, acida, corrosiva, amarissima, e vira nel surrealismo e nell’espressionismo (come, nelle linee e prospettive dei paesaggi urbani, Milano su tutti, faceva Piera Oppezzo), si è parlato di poesia materica, poesia pseudo-dadaista ma anche poesia civile: “Poiché VU è una donna strana,/ perfettamente cattiva,/ io voto/ per l’inferno di lei, nell’intento/ di qualche valore”; “Le case sono scimmie d’acqua pomeridiane”; “[…] C’è gente/ che si sdraia negli altri/ uccidendoli di parole: VU ed io/ siamo una sagoma riconoscibile/ da dietro. Siamo l’essere e la morte” (da “L’essere e la morte”); “Glorita/ ride con la valigia dei reni”; “[…] i piedi, dal gran ridere, sono/ vivai d’iride. Nessuna/ lampadina esce dalla parete; solo/ selz” (“I due sicari”). Espressionismo: “Quando il suo coltellino, nell’animo,/ dà tagli, VU becca la droga come un uccello./ Ha dentro di sé mobili e stanze; si muove/ senza agilità, eppure/ da ogni cosa è distante. Viene/ qui e vomita. Essenza dolorosa:/ le schizza dalla testa l’anima, pianta/ ignota, come capelli; al centro/ gli occhi, uno solo, è un forellino di mota”.
A volte sono versi-schiaffi, un’irrisione alla lirica, ma la lirica c’è sempre, in filigrana, la vedi in trasparenza. Le poesie della Annino – che spesso scrive di sé al maschile – a volte sono pugnalate, come un Pavese ancora più diretto: “Ugo Wais tornato da lei/ non migliorò./ Era giovane e magro a vedersi,/ senz’anima quasi senza odore,/ non si spiega altrimenti/ la sua solitudine. Dicevano/ che Wais aveva un suo modo/ di piegarsi e morire ad ogni/ saluto, ad ogni lettura di giornale,/ che una bianca mancanza di tutto/gli usciva dagli occhi/ allontanando la gente. Ognuno/ cessò così di vederlo, facilmente./ Il dolore ha questa/ terribile anonimità” (“Disposizione benevola verso il suicidio”).
In “Allarme dell’artista”, uno dei testi più aspri del libro, Cristina Annino porta l’espressionismo a una temperatura incandescente: “Ho mal di denti e mi duole la vista,/ Dio mio, marcisco sul mio piede come un cactus; […] Io sto male in pace”; fino agli ultimi due versi che hanno il sapore di una confessione sconsolata: “Io scrivo cose che nessuno/ sente, oltre me”.
I versi della Annino a volte sono scritti con un pugnale e un inchiostro amarissimo ma la sua scrittura rivela sempre una cura raffinata nell’intonazione e nei suoni, come in questo endecasillabo giocato sull’allitterazione in “m”: “salmone in amore sul mento muove”.
Già, bisognerebbe un po’ ridisegnarla, la storia della poesia italiana tra secondo Novecento e primo Duemila (un azzardo, certo, queste trasformazioni le stiamo ancora vivendo), andando finalmente al di là dei poeti maggiori e cercando le voci spesso escluse da antologie, compendi e tesi di laurea.
Dal libro:
Caos
Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
“biondo, marziale cieco cielo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale”.
Poi mi rivolto, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.
*
Ricordo di macelleria
Fumo albicocca; che altro?
Il mento della piazza a goccia
sotto la torre. Si può
restare così minutamente,
in lenta faccia narcotica
tutto il tempo? Fatto
sta che il paese è fiato
orrendo nell’alba.
Si uccide volentieri,
volentieri ci si lamenta.
Al presente riconduco la stanza:
liquido buio la segatura buia;
la madre con sua madre sa di zinco
e di carta, lieve massa cardiaca.
Se avrò voglia di entrare,
spingo il polmone destro;
al neon si fa viola la porta.
Ogni cosa rivedo, in alto,
ossido di bromo.
Ed è morta.
*
Allarme dell’artista
Ho mal di denti e mi duole la vista;
Dio mio, marcisco sul mio piede come un cactus;
e spino, spino, il cane che mi viene
vicino, si muove a zampe in su, allarmato.
Gioco
col mio male; l’infernale malessere
cittadino è oltre il baratro delle persiane.
Sale qui in tessere di gas, polvere e buccia
di strade.
Io sto male in pace.
Ma quassù, non crediate, c’è il cane che si lamenta,
il pelo gli cresce, il tempo
pone la sua palla di pietra
come uno sparo a un centimetro da me.
È un dolere cortese, di carta. Inattivo,
il tempo si liscia la barba
giovane e, oscenamente, rizza le gambe.
Io scrivo cose che nessuno
sente, oltre me.
L’autrice:
Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini) è nata ad Arezzo nel 1941, dopo gli studi in Lettere moderne a Firenze, dove si laureò con una tesi sulle prose di César Vallejo, ha frequentato, sempre nel capoluogo toscano, il Caffè Paszkowski, dove entrò in contatto con il Gruppo 70, fondato nel 1963 da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti.
Esordì nel 1969 pubblicando, con le edizioni Téchne, “Non me lo dire, non posso crederci”. Nel 1989 si trasferì a Roma e iniziò a dipingere, tenendo mostre collettive e personali in Italia e all’estero.
Tra le altre sue raccolte poetiche si segnalano “Ritratto di un amico paziente” (1977), “Il cane dei miracoli” ( 1980), “Madrid” (1987, ex aequo Premio Pozzale Luigi Russo; poi edizione del 2017), “Casa d’aquila” (2008), “Magnificat” (2010, premio Lorenzo Montano), “Chanson turca” (2012), “Anatomie in fuga” (2016), “Le perle di Loch Ness” (2019) e il postumo “Avatar” (2022).
È stata anche autrice di due romanzi: “Boiter” (1979) e “Connivenza amorosa” (2017). È morta nel 2022.
(Cristina Annino “L’udito cronico” pp. 48, 12 euro, Graphe.it edizioni 2023)
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Dětství / Childhood
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Tempo presente —————————
I giorni disciplinati in fila indiana
Sette testi inediti
di Matteo Straccia
Ferme le stanze
Ferme le stanze
inondate di sole,
respiro i miei ricordi,
il tempo è alla catena,
è verità
il corpo.
*
Il passato
Non è il passato
una spiga di lavanda
che si mette nel cassetto
tra vestiti freschi di bucato
per dare un buon profumo
per mascherare il tanfo
del giorno che si ripete
senza significato.
*
Il gabbiano
Il gabbiano
non filosofeggia sull’educazione dei figli
non esprime giudizi sulla storia
non deve scegliere il gusto del gelato
o il giusto investimento finanziario
non combatte contro i segni dell’età.
A chi è onnivoro
la discarica regala la felicità.
*
I giorni
Stanno, giovani cipressi
che si ripetono alla stessa maniera,
i giorni disciplinati in fila indiana
ai lati di un’unica notte che scorre,
verso un’alba straniera.
*
Fu appena una scarna scintilla
“Quando la battaglia sarà vinta e persa”
(Macbeth)
Fu appena una scarna scintilla
e la giovane fiamma divampò
vorace nell’aria d’un tratto
densa di caligine.
La luce
si levò rapinosa e l’occhio
fallace la credette eterna.
Avvolse nel turbine la vita
che durava soltanto
cancellò il mondo attorno
in un volo di cenere bianca
e la menzogna d’ogni contorno.
Fu il tempo d’una promessa
che lasciò annerita la terra
e più muto l’orto offeso
poi si perse il fuoco in un pugno
di braci ormai straniere
un brivido corse la schiena
lasciandomi perso tra memorie
già non più vere
in un’aria tersa di gelo.
Improvvisa la notte in un morso
inghiottì il cielo.
*
Il volo del gabbiano
Non conduce a niente
il volo del gabbiano,
non è simbolo, croce, profezia,
non dice il male del mondo
né quello della mia schiena,
ma tutto impicciolisce a un punto
se lo guardo volar via.
*
Siesta
Dietro le imposte il sole splende
con ardore di verità definitiva
propizio al giusto come al reo.
Io preferisco, ad entrambi estraneo,
appisolarmi nelle mie bende d’ombra
– sarà forse l’abbondanza del pasto -,
andare alla deriva
tra spoglie isole di sillabe altrui,
consegnarmi alla viva fiamma dell’assenza,
a una mite eternità d’indifferenza.
L’autore:
Matteo Straccia è nato a Torino, ha vissuto a lungo a Milano dove si è laureato in Lettere Moderne.
Vive attualmente a Varedo dove insegna lettere alla Scuola secondaria di primo grado M.G. Agnesi.
Ha pubblicato negli ultimi anni quattro libri di poesia: “That’s all folks”, “Camminare sul filo”, “La nave in bottiglia”, “Teatro d’ombre”.
Ha inoltre pubblicato alcune poesie su riviste letterarie e ha un nuovo libro è in attesa di pubblicazione.
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Rodinné foto / A family shot
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Ti racconto ————————–
Come l’attore che ripete sempre la stessa scena
Cinzia Platania, “Scarlatto”
di Anna Piccioni
Fino a metà libro la storia di “Scarlatto“, di Cinzia Platania, costringe il lettore ad andare avanti superando i sentimenti contrastanti e a volte i fastidi che il protagonista provoca.
Una lettura pesante perché il personaggio eccede in tutto, disaffettivo, opportunista, pieno di sé, e che gode della propria immagine, egoista ed egocentrico; adorato, venerato, ammirato per la sua bravura come pianista, esteta, poeta, ma incapace di contraccambiare.
Anche nell’abbigliamento mostra la sua eccentricità: velluti, sete, lini: il mondo che lo circonda è volgarmente banale e lui lo disprezza. Gli altri personaggi entrano in scena come cornice.
Le sue performance pubbliche richiedono uno scenario perfetto addirittura maniacale “Come l’attore che ripete sempre la stessa scena che gli altri si aspettano […] la metodicità gli dà sicurezza, ma è una sicurezza effimera” (pag.81).
La sua vita è una recita continua e lui ama esibirsi su quel palcoscenico. Impazzisce per il periodo liberty, è un personaggio estremo che imita fino nei minimi particolari l’eroe decadente anche bevendo La fata verde, l’assenzio ovviamente, in calici di cristallo di Boemia: La vita va vissuta come un’opera d’arte , come Oscar Wilde o Gabriele D’Annunzio, al punto tale che si crede discendente del barone Revoltella, ed infatti si fa chiamare Guido Brezigar Revoltella tralasciando sempre Brezigar, cognome troppo proletario.
Ma Brezigar è il cognome della famiglia che lo ha adottato all’età di quattro anni quando già avevano tre figli.
Guido è infelice e malinconico, alla ricerca continua forse della sua identità e per questo si è costruito il personaggio Guido Revoltella. Il mistero della sua identità potrebbe racchiudersi in un disegno che usa fare spesso quando è sopra pensiero, potrebbe rappresentare due gemelli nel grembo materno:
Non so quanto il suo comportamento estremo e il suo abbigliamento ricercato siano espressione di una ricerca dell’altro da sé, o espressione di un qualcosa di incompiuto.
Sposa una donna molto ricca, Sara, “una forza della natura […] silenziosa mecenate che è arrivata a far carte false per favorire il suo amore” (pag.83) che Guido non ama; tuttavia provvede a tutte le sue spese, soddisfacendo ogni suo capriccio; ma convive ormai da tre anni con la sua mante, Elvia, che rappresenta al femminile lo stesso suo atteggiamento narcisista.
Dalla loro unione è nato Fabrizio, per il quale Guido non manifesta interesse; forse non può dare al figlio l’affetto paterno per due ragioni: a causa dell’abbandono subito nell’infanzia e perché forse dovrebbe togliersi qualcosa e perdere la sua “perfezione”, per puro egoismo.
A metà del romanzo la narrazione introduce un nuovo personaggio. Nella sala d’attesa dello psicanalista, il dottor Effe che da molto tempo cura Guido, lui incontra Marco Flavio di Roma che rimane folgorato dalla somiglianza di Guido con il fratello Gabriel, che da sei anni sta cercando, assieme al padre.
Le ricerche di Gabriel hanno portato Marco Flavio e il padre fino a Trieste. Si stringe una forte amicizia tra i due, tanto che Guido lo accompagna nella ricerca, perché si sente legato a lui, e forse anche per scoprire se lo stesso Gabriel possa essere quella parte di sé che sta cercando.
Il viaggio li porterà in Bosnia, al villaggio di Blagje e al suo monastero derviscio di BlagagTekka, di origine cinquecentesca. La descrizione dei luoghi, la spiritualità che emanano conciliano il lettore e lo incuriosiscono invitandolo a proseguire.
Marco Flavio ritrova il fratello Gabriel, che dopo tante esperienze mistiche e sataniche, ha trovato la pace nella Comunità dei Risorti vicino a Medjugorje. Se Guido si riconcilia con l’altro se stesso e scende dal suo mondo artificioso, è tutto da scoprire nel proseguo della lettura….
Intervista a Cinzia Platania:
Se la lettura di “Scarlatto” per me è stata conflittuale, chiedo alla sua autrice Cinzia Platania come è stato il suo rapporto con il personaggio di Guido…
La stesura del romanzo non è stata lineare. È nata prima l’idea che è rimasta soggiacente per tanti anni, nella cantina dello scrittore. Io funziono così: non penso, ho visioni. Ho una prima idea guida, una specie di locomotiva cui si attaccano da sé i vari vagoncini. Mi lascio poi condurre.
Non è “colpa mia”, Guido mi si è presentato ed ha chiesto di narrare di lui. Ho ascoltato soltanto la sua sofferenza. Ho visto cose che ho poi raccontato. Nella mia fantasia, s’intende….
Gli ho chiesto di attendere, ed ho scritto altri tre libri dettati da personaggi-idea più pressanti di Guido. Poi dopo un po’ di anni è venuto il suo turno e l’ho premiato bene. O no? Perché gli voglio bene, povero diavolo.
Ha incontrato nella realtà qualcuno così narcisista, egoista da cui ha tratto ispirazione?
Ho incontrato molte persone, come tutti noi. E quando dico persone intendo pure quelle che non respirano più. Ognuno di noi è il frutto di tanti incontri.
Io sono una osservatrice. E ascolto e medito. Secondo me basta il vivere. La vita stessa è già ricca di spunti, quindi direi di no: nessun personaggio in carne ed ossa. Ho perciò fatto amicizia con Montale, Ungaretti, Wilde, Calvino, Svevo, Cechov e Baudelaire… Guido è un collage di pezzi di umanità coerentemente assemblati secondo una storia e secondo un gusto decadente ispirato al dandy.
Il romanzo passa dall’estetismo all’esoterico al satanismo fino al misticismo: questo mi fa pensare che la stesura del romanzo ha comportato un approfondimento specifico, oppure tutto rientra nella sua sfera di interessi?
Guido mi interessa! Come ho detto scrivo immersa in un flow che mi trasporta. Il che non vuol dire che l’aprirmi a questa azione non comporti alcun rischio, né tantomeno posso dire che non abbia un costo. Un investimento di tempo, risorse. Studio, anche.
Bisogna immergersi in se stessi con sincerità e aprire cassetti virtuali di esperienze di vita, letture, meditazioni e fatti in cui è custodita ogni cosa. Poi una volta messo insieme il personaggio principale bisogna essere disposti a soffrire con esso, altrimenti se non senti i personaggi con cui interagisce come puoi dar loro voce?
E per capirli ho studiato, fosse anche il mero informarmi meglio per non scrivere castronerie! Non mi interesso che di esseri umani e di tutto quanto loro concerne.
I luoghi descritti, il monastero di Blagaj Tekka in particolare, Medjugorje, sono stati visitati da lei?
Ho sempre fatto ritiri spirituali dall’età di undici anni. Sono stata a Medjugorie e anche altrove; soprattutto il luogo per eccellenza dove sono stata è nell’unico in cui sia possibile un autentico incontro col divino, che per me ha un nome, un volto, di cui ho fatto e faccio continua esperienza.
Certo, il luogo geografico può fare la differenza. Ma perfino tra le mura di un monastero il vero tabernacolo sacro sta sempre e solo in noi stessi. Lì abita Lui. Ecco dove: nel cuore.
Quindi bisogna andare in luoghi di silenzio e poi avere il coraggio di ascoltare e rispondere, anche. Se no cosa vai a cercare, risposte dalle pareti?
“Scarlatto”, il rosso sangue, è un romanzo oppure è uno scavo nei meandri dell’animo umano in tutte le sue sfaccettature: identità, il doppio, la pazzia, la creatività?
“Scarlatto” è una radiografia dell’animo umano messa in una busta di pergamena.
Più che uno scavo nei meandri è una visita speleologica condotta senza fretta nell’inconscio. Vi ho trovato cristalli incastonati che dal livello strada non tanto brillano.
L’autrice:
Cinzia Platania è nata a Castelfranco Veneto nel 1972, ha vissuto per vent’anni a Catania e ora vive a Trieste.
Artista, poetessa e cantautrice, è arteterapeuta formata alla scuola ArtTeA, laureata in Scienze dell’educazione.
Partecipa stabilmente a laboratori sulla poesia e a manifestazioni e reading, in particolar modo con l’associazione Poesia e Solidarietà.
Ha pubblicato i romanzi (di cui ha curato le copertine): “IO E ME. Trieste” (2016), “L’Altare sacrilego. Piazza Armerina” (2017), “La perdita dell’aggettivo possessivo” (2018), “Mnemotecniche sovversive contro l’alieno” (2023).
È presente nelle antologie “Breviario d’amore” (2017) e “Corti di mare” (2018).
Ha pubblicato la raccolta “Poesie per ingannare il tempo” nel 2018, contenente suoi disegni a china.
(Cinzia Platania “Scarlatto” pp. 275, 16 euro, Talos edizioni 2020)
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Potápěčka / Frogwoman
Dieci dipinti
di Kateřina Sidonová
Intervista a Kateřina Sidonová:
Le donne continuano ad essere le protagoniste dei tuoi lavori. Quale pensi sia la realtà quotidiana che le donne si trovano ad affrontare nella nostra società contemporanea? Perché dipingi i loro sguardi, e a volte sono sognanti, a volte sembrano davvero allucinati…
La maggior parte dei miei disegni e dipinti è più o meno autobiografica, anche se non so cosa significhino. Non ho un argomento specifico quando inizio un nuovo lavoro. Comincio con una figura e poi aggiungo sempre più figure che interagiscono in qualche modo tra di loro. Non so mai quale sarà il risultato finale.
Quando ero più giovane non pensavo che le donne fossero diverse dagli uomini. I miei eroi d’infanzia sono sempre stati uomini. Sono sempre stato un principe, non una principessa, e non giocavo con le bambole. Forse è stato perché ho sempre amato moltissimo mio padre. I miei genitori divorziarono quando avevo dodici anni, e così ho vissuto con mia madre, mia nonna, mia sorella e un cane di nome Zuzanka.
E quando sono stata una adolescente ero ben consapevole di essere una ragazza, e ho iniziato a interessarmi alla moda e ai ragazzi e ho sognato un grande amore che sarebbe durato per sempre.
Al liceo andavo in una classe dove c’erano solo tre maschi e trentacinque femmine…
Solo dopo aver dato alla luce tre figli ho capito che le donne sono molto diverse dagli uomini. La vita mi ha insegnato che quando ci sono dei problemi è bello avere delle donne accanto. Avere donne come amiche, perché puoi sempre contare su di loro per essere aiutata, per avere sostegno, per tirarti su di morale.
Ma questo non significa che non mi piacciono e non ami gli uomini. In effetti sembra proprio che io abbia davvero trovato l’amore che durerà per sempre.
Tornando alle mie immagini: penso che le donne nelle mie foto siano me. E cerco di esprimere qualcosa che non può essere detto a parole, è una sorta di sentimento, è una tensione che viene fuori solo quando non cerco di capirla o di analizzarla. La faccio uscire fuori in immagini.
E uno dei motivi per cui non disegno uomini molto spesso è che mi sento molto più a mio agio nel disegnare corpi femminili, ho sempre avuto difficoltà a disegnare uomini.
E in che modo tutto questo entra nei tuoi quadri?
Non ho mai sentito di dover lottare per i miei diritti e la mia posizione nel mondo perché sono una donna. Non mi sono mai sentita oppressa dagli uomini. Sono felice di essere madre, ed ero felice di poter restare a casa a prendermi cura dei bambini. Piano piano mi sono abituata al ruolo di una donna che cucina, pulisce e si prende cura dei bambini. Ho rinunciato ai miei sogni di diventare scrittrice e traduttrice di libri importanti. Lavoro come traduttrice, ma traduco invece film per la televisione, il che è molto più semplice e non richiede molto tempo. La mia famiglia è la mia priorità. E mi sento emancipata, perché questa è la mia scelta.
Continui ad utilizzare colori intensi e brillanti. Cosa rappresentano per te adesso? La vivacità dei colori che usi è il termometro di cosa?
Non so se posso rispondere… Prima avevo paura di usare i colori, e i miei lavori erano per lo più in bianco e nero. Poi, dieci anni fa, è successo un qualcosa e ho iniziato a usare questi colori molto accesi.
Penso che abbia a che fare con il fatto che non mi piace mettere tristezza e paura nelle mie immagini. Voglio che i miei quadri siano belli. Ho alcuni lavori diciamo ‘depressivi’, ma li tengo per me e di solito non li mostro perché non voglio che le persone siano depresse. Voglio che si sentano felici.
C’è già abbastanza tensione e orrore nel mondo e non voglio aggiungerne altro.
Ho scritto quattro libri quando ero più giovane, e ogni volta che leggevo in pubblico sceglievo le parti divertenti, ed ero molto felice quando sentivo la gente ridere.
Nelle tue opere la dimensione onirica è sempre presente. Queste immagini sembrano creare un labirinto. Ma di cosa sono fatti? In che modo è possibile uscirne? Se proprio devi uscirne…
Il mondo è un labirinto e non riusciamo ad uscirne mai. Giriamo in tondo, incontriamo altre persone, animali e cose… Quando ero più giovane mi chiedevo spesso quale fosse lo scopo della vita, cercavo di trovare il senso della vita nei libri, nei saggi, ci pensavo… poi, dopo che sono nati i miei figli, ho smesso di pensare ai problemi che non si possono risolvere, che non hanno risposte. Non avevo più tempo per fare questo.
Avevo compiti più importanti: come essere una buona madre, una brava persona, perché sentivo che in quelle situazioni stavo fallendo. Ero piena di autocommiserazione e rabbia perché la mia vita non era quella che mi aspettavo (in verità la mia vita era meravigliosa, ma dovevo venirne a patti…).
Pensavo di dover andare oltre a tutto questo e liberarmi. Ma poi ho capito che non volevo essere libera in questo modo. Non voglio scappare dal labirinto, voglio restarci dentro, al sicuro, e poter sognare ciò che c’è fuori.
Più che in passato, la natura è molto presente. Fiori, alberi, piante… che significato hanno per te?
Vivo in città. Da bambina, e poi da madre di bambini piccoli, ho trascorso molto tempo nella nostra casetta di famiglia vicino a Praga. Ho amato molto il legame con la natura. Quando apri la porta e vedi il cielo e l’erba e sai subito che tempo fa… Passeggiare nel bosco o semplicemente sederti in giardino e bere un caffè…. Forse mi manca. Adesso invece tendo a restare in città.
Mi sembra che la dimensione del gioco, molto presente in passato, sia meno presente in questi dipinti….
Sì, è vero. E mi manca. Ero più libera quando disegnavo. Disegnare, il percorso per farlo, per me è ancora più importante del risultato, ma ho perso parte della mia libertà e sto usando la testa più di prima.
L’artista:
Kateřina Sidonová è nata nel 1964 a Praga, Repubblica Ceca
Ha studiato educazione nell’ambito della disabilità infantile, e lavorato con bambini rom.
Dopo essere diventata madre di tre figli, ha iniziato a lavorare come traduttrice dall’inglese (narrativa e film). Ora è traduttrice freelance.
Ha pubblicato quattro libri, le fiabe di “Figlio dell’Albero”, l’autobiografica romanzata “Sono Katerina”, il romanzo “Jakub” e “Un giorno in classe 4.D”.
Ha esordito con la sua prima mostra personale nove anni fa, a Praga. A cui hanno fatto seguito altre diverse esposizioni, anche in altre città della Repubblica Ceca.
Collabora con la casa editrice polacca “Dowody na istnienie”, lavorando ad immagini utilizzate per le copertine dei libri da loro pubblicati (traduzioni in polacco di autori cechi, finora una decina).
Nel 2019 ha anche illustrato il libro “Rytec kamejà” dell’autore ceco Ivan Fala.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Livio Caruso.