Fare Voci giugno 2021

Andiamo incontro all’estate con una nuova proposta di autori ed artisti, di scritture e immagini, convinti che anche per questo mese il lavoro di Fare Voci sia stato di crescita, all’interno di un panorama culturale italiano che si fa sempre più interessante e significativo.

Questo giugno ci porta la presenza di due nomi fondamentali per il nostro presente: Umberto Piersanti con la sua premiata raccolta poetica “Campi di ostinato amore”, e Maria Grazia Calandrone con il proprio e autobiografico “Splendi come vita”; due libri importanti.

Ma ci sono anche le poesie inedite di un narratore come Nicola Skert, il “Friuli Venezia Giulia in 17 sillabe” raccontato da Salvatore Cutrupi, l’esordio poetico di Silvia Righi con il suo “Demi-monde”, Luca Buiat e il suo “Tornare sulla Cosizza”, e poi Giancarlo Baroni trova il finito che comprende l’infinito con “I nomi delle cose” e Luca Campana ritorna con le poesie del suo nuovo “Fioriture invernali”.

Le ‘immagini’ sono gli otto collages di Nicoletta Bidoia.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini        ——————————-

serie ITAJ

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

Voce d’autore       ————————-

Ci sono luoghi dove finisce il mondo

Umberto Piersanti, “Campi di ostinato amore”

di Giovanni Fierro

Un libro di poesia che va in ristampa, segnalato anche dalla critica e vincitore del nuovo, e già da subito pregiatissimo, Premio Umberto Saba Poesia 2020.
È questa la magia di Umberto Piersanti e del suo “Campi di ostinato amore”, destinato a rimanere nel tempo.
E in ogni pagina di questo suo lavoro echeggia lo spirito puro della poesia, forza e mistero che sanno intrecciarsi, costruire il senso e il suono, il significato e il dire.
C’è un punto nevralgico e capace di una tensione vitale che tutto accende, che si può riconoscere “anche in te infanzia,/ eterna epifania,/ Eden che il tempo/ non intacca/ ma innalza,/ anche in te c’era/ un tizzo di carbone”. È un epicentro che attira e irradia, poesia dopo poesia, donando ad ogni pagina il suo più profondo raccontare.
Umberto Piersanti tiene l’attenzione ben salda ad uno sguardo che sa scegliere e focalizzare, che gli permette di essere poesia ancor prima di scriverla, che mette in cortocircuito (sempre prezioso e delicato, sempre deciso e risoluto) il vivere e la difficoltà del vivere, perché “è il dolore – pensavi/ – che non risparmia/ le dolci creature,/ gli uccelli e i fiori,/ la guerra non la fanno/ ma non basta,/ il male è dentro l’aria,/ copre la terra“. Impossibile dargli torto.
Piersanti si immerge nello spazio di un attimo, che appartiene al passato o al presente, alla memoria di un adesso o al respiro che si deve alla natura, e lo esplora con un senso di appartenenza che si fa stupore e misura della propria esistenza.
Sì, “l’acqua del fosso scorre,/ sempre diversa,/ porta lontano i volti/ e non sai dove”; c’è sempre e comunque un indirizzo sconosciuto a cui si è destinati, e questa domanda non è mai una imprecisione, ma semmai un’attesa che riconosce il proprio sé, in cui ognuno di noi è immerso.
Di certo non è facile mantenere il gesto più importante, l’essere padroni di se stessi, perché il confronto rimescola sempre tutto, necessario e forte, per andare incontro a “tutto del mondo nuovo,/ un mondo da non credere/ per chi sta nei campi”. Perché poi le cose, ma anche le persone, sono più semplici di quel che credi, e “altro non sai/ e altro non ricordi”.
“Campi di ostinato amore”, già dal suo titolo, è una dichiarazione di intenti, è un affermare da che parte stare, è una scelta di chi ha deciso che il vivere è possibile solo se lo sia ama. Con tutte le complicazioni e gli inciampi che comporta, per disegnare la propria vita: “è solo nella terra/ il tuo cammino,/ a cerchi e svolte/ che tregua/ non danno”.

 

dal libro:

Terra di memorie

terra di memorie
l’età che si inoltra,
di volti che s’affollano
e vicende
dinnanzi agli occhi
e tremano nel sangue,
l’infanzia è la stagione
più tenace
e ogni altra
offusca
e quasi oscura

la biscia nella pozza
che poi s’acquatta
tra ciclamini pallidi,
d’ottobre,
la gioia che t’afferra
quando ascolti
i frulli d’ali
tra folti ceppi
e rami

e le stelle immense
alla Piantana,
formano quasi un carro
come quello
che l’Antico guida
al Fontanino,
ma nel cielo non c’è
chi lo conduce,
la loro corsa immobile
e infinita
e degli umani conoscono
ogni strada,
fredde più della neve
nell’inverno
gelano le volpi
accovacciate,
d’estate fanno umido
il trifoglio

ah! questa infanzia
che negli anni s’inoltra
e ti pervade,
ossessiona i tuoi giorni
e un poco,
almeno un poco,
li consola

novembre 2019

 

Il confine

ci sono luoghi
dove finisce il mondo,
dietro una rupe
o un greppo
il più lungo e fondo,
l’aria non solo sale
ma scende in basso
e se ci metti il piede
ti sprofondi

le capre non salgono la rupe,
le pecore non scendono nel greppo,
stanno lì ferme
accovacciate nell’erba spagna

e s’arresta il pastore,
dalla sacca tira fuori
il formaggio,
e mangia piano,
vola alto il falco,
passa il confine

maggio 2019

 

L’età dell’oro

porta all’età dell’oro
quella strada,
la strada delle valli
tra le selve,
ragazzo, dopo una lunga
strada ci sei arrivato
e con l’amica
dalla gonna azzurra
nel soffice trifoglio
ti distendi,
no, non scorre miele
dalle querce intorno,
dalle cortecce non stillano
liquori dove immergere
le labbra e i pensieri,
ma la giovinezza bevi
a sorsi pieni

resta nella radura
quanto puoi,
la strada che risale
è faticosa,
la cerchiano gli spini
e i folti rovi,
le pietre e i crepacci
nel cammino,
l’età dell’oro
è una valle remota,
l’età dell’oro
è una breve stagione,
tu resta nel trifoglio
quanto puoi,
quella ragazza abbraccia
con gli occhi chiusi,
l’età dell’oro
è la più fugace

novembre 2019

 

 

Intervista ad Umberto Piersanti:

Partiamo dal titolo, “Campi d’ostinato amore”. Mi sembra sia una forte dichiarazione di intenti, un invito a non arrendersi…
Sì, quando negli anni Sessanta dominava l’avanguardia, la natura era inevitabilmente un argomento che si si trovava fuori luogo, ma questo non mi preoccupava. Alla natura ho sempre dedicato la mia attenzione, la mia appartenenza. Un amore totale, che è perdurato per tutta la vita.
E i campi del titolo sono i campi dove ora purtroppo vado ma con difficoltà, con la mia gamba che mi rende difficile il camminarci, il salire e lo scendere.
Ma rimangono i campi in cui viverci, in cui dormirci; l’altopiano delle Cesane è stato per me una fuga costante, che mi ha permesso di vivere dei momenti in completo rapporto con l’universo, un qualcosa di assoluto.
Si, è un amore che è durato tutta la vita, con una ostinazione che non mi ha mai abbandonato… la poesia.
E dopo tutto questo rimane la tenacia, il senso del vivere; un qualcosa che si riassume in un atto di fiducia nella vita.
Attenzione però, questa non è una natura idilliaca, è una verità dove si riconosce e si vive anche l’ingiustizia del male, dove non c’è la provvidenza.

In questi nuovi testi si vive la pittura (alcuni versi sono vere e proprie pennellate, quasi in trasparenza) e la musica (altri invece sono capaci di melodia)…
Musica e pittura mi appartengono, in “Campi di ostinato amore” sono presenti entrambi.
Il mio è l’italiano dell’Italia centrale, che ha una tradizione linguistica diversa dal sud e dal nord; è una lingua colta, e la tradizione musicale della sua poesia mi appartiene di più.
Sono una grande lettore della poesia italiana, mentre altri autori si sono formati su testi stranieri.
Musica e poesia… mi viene in mente quello che ha detto Caproni: “la poesia non è musicale, la poesia è musica”.
Amo i poeti dell’Ottocento e del Novecento, che hanno una dimensione musicale molto forte.
Sì, pittura e musica sono due elementi che mi appartengono, e che mi rendono solitario nel panorama contemporaneo.
E poi dichiaro il mio amore per Carducci, un autore che nessuno considera….

Suo figlio Jacopo è presente nelle liriche di questo libro. Di sicuro, al di là dell’amore che vi lega, il suo essere colpito da una grave forma di autismo di sicuro condiziona il suo vivere, ma forse è anche una possibilità di avere uno sguardo diverso sulla quotidianità…
Viviamo, vivo, una serenità difficoltosa. C’è bisogno di tenacia, certo… è l’armonia che si tenta di conquistare, è sofferta ed è laica. È la difesa dell’umano.
Jacopo ci obbliga alla vita in un modo differente, non ci sono facili consolazioni…
Soffre di un disturbo pervasivo dello sviluppo, che va peggiorando nel tempo.
Di lui ho scritto anche nei libri precedenti, come “Nel folto dei sentieri”. E in passato l’ho proiettato in uno spazio magico, mentre adesso quel luogo ha più a che fare con il quotidiano.
Sotto certi aspetti, ed è un eufemismo, ci fa comprendere meglio la vita, le sue cose.
Perché, comunque, ho conosciuto il dolore, le crisi, la nevrosi, le ossessioni.
Jacopo lo amo molto, e posso anche dire che non vivo di facili consolazioni.
E in tutto questo si ritorna, inevitabilmente, alle domande che sono l’inizio di tutto, che senso ha la vita? E la fatica del vivere?
E in questo domandarmi mi ritrovo in Leopardi, che stimo moltissimo. Ho in parte la sua visione del mondo, quando cerca un senso al di là… e con lui vivo anche un possibile confronto. Come ho fatto con la mia poesia “Viola d’inverno”, che è un possibile dialogo con il suo “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. E dove il finale della mia poesia, “ma il dono della nascita/ permane”, è una affermazione di fiducia nella vita.

Un aspetto, penso fondamentale, è la presenza costante nella sua scrittura dello ‘stupore’…
Non sono un ottimista a tutti i costi, ma posso dire che lo stupore bisogna averlo.
Ed è quello che vivo ancora oggi, quando mi fermo a guardare la salvia fiorita, uno scoiattolo, il mare in tempesta… vivo le stesse emozioni di quando ero bambino….
Lo stupore della natura è lo stupore dello sguardo; ma non è divino né trascendente.
Sì, mi immergo nella bellezza.

Chi scrive vive una solitudine, in qualche modo. Scrivere poesia che solitudine implica?
Il poeta, più di un narratore, ha una sua propria dimensione che è complessa, e che ha a che fare con la riflessione.
Sì, proprio lì in quello spazio la solitudine è il luogo in cui si affrontano gli archetipi; l’amore, il tempo, la morte…
Perché poi il poeta ha anche il bisogno di distanziarsi dalle cose, e costruisce una memoria a cui fa riferimento.
Poi, è bene fare attenzione, il poeta non scrive solo per sé. Certo, non fa il ruffiano cercando le scorciatoie per trovare il grande pubblico, ma sa benissimo che la propria parola deve raggiungere gli altri.
Il poeta si trova in una dimensione pubblica, anche solo per promuovere il proprio libro, sennò rimane destinato a rimanere un autore sepolto.
Perché poi sono gli ‘altri’, assieme al tempo, a decidere chi è un poeta. Quel qualcuno che, prima o dopo, gli altri riconoscono come tale. Perché questo non lo può fare il critico, con una sua affermazione che vive e soffre il momento dell’istante, e che non può avere alcuna prospettiva temporale.

Sembra anche che queste poesie vogliano, essendone capaci, fermare alcuni momenti; a creare un momento di perfezione in cui stare, in cui rimanere…
Sì, è un catturare le cose, i momenti dell’infanzia, i volti delle persone che mi hanno accompagnato.
Sono convinto che l’unica eternità è la memoria. È capace di fissare nella mente e di fissare sulla pagina.
Lo diceva anche Goethe, “Fermati, attimo, sei bello!”.
Anche perché non mi interessa una poesia che guarda al futuro; questo lo devono fare la politica, la scienza…
Ricordare il passato è anche stare assieme a Montale, a D’Annunzio, a Leopardi…
Così il passato diventa un altrove; la memoria lo trasforma, lo fa vivere.

E quindi qual è il ruolo di chi scrive poesia, nella nostra società adesso?
Lo scrivere è uguale al leggere. Chi lo fa ricerca le parole forti, quelle che non sono profetiche e neanche vere, ma che entrano ‘dentro’ e sono profonde.
Credo all’emozione, ai sentimenti, alla natura…. bisogna rischiare, e non cadere nella retorica.
La mia è una poesia semplice, ma che non vuole essere banale.
Perché le parole hanno un rapporto preciso con le cose, non ne sono mai divincolate; significato e significante devono avere un rapporto preciso e di appartenenza.
Io scrivo di ciò che conosco; non sarei capace di fare come Montale, uno dei grandi della poesia, che ha scritto dei sambuchi perché gli piaceva il ‘come’ suonava il loro nome. Difendo la percezione del reale e delle sue parole…. Che quando scavano, suonano, esplorano, sanno trovare la poesia.
Perché chi scrive si rapporta sempre con una realtà; ed allora è un autore che scrive e che parla, che ti presenta un mondo, nella precisione delle parole che usa. Ti presenta una verità in cui ci entra, a cui dà un senso profondo.

Vivo lo scrivere di “Campi di ostinato amore” come un qualcosa di molto sensuale…
Sì, è vero. La sonorità è sensualità, ciò che scrivo mi deve piacere e sedurre, lo devo vivere come un piacere fisico.
Ho bisogno di ritrovare, in ciò che scrivo, una parola che amo, con la sua carica erotica e libidica, che possa aprire i pori del desiderio.
E il suo suono ne è una parte importante. Perché poi tutto questo lo rapporti con te stesso. C’è poco da fare, dentro di te devi avere stimoli, che poi li misuri con la vita.

Come stanno rispondendo i lettori a “Campi di ostinato amore”?
È un successo di pubblico, straordinario se si pensa che il libro è uscito in un periodo in cui non si è potuta fare alcuna presentazione in presenza, senza quindi la possibilità di poter partecipare a degli incontri, che sono sempre un qualcosa di fondamentale per aiutare le vendite di un libro di poesia.
Evidentemente c’è un qualcosa di particolare che sta spingendo “Campi di ostinato amore”.
Penso perché contiene una poesia di cui si sente bisogno, una poesia onesta – per dirla alla Saba – che parla di memorie e di sentimenti.
Una poesia che non si arrocca dietro un linguaggio astruso, ma che permette un approccio diretto con l’autore, con cose che ci appartengono…
Come lo stupore, ad esempio.

 

L’autore:
Umberto Piersanti è nato ad Urbino nel 1941 e nella Università della sua città ha insegnato Sociologia della Letteratura.
Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra cui “La breve stagione” (1967), “Il tempo differente” (1974), “I luoghi persi” (1994), “L’albero delle nebbie” (2008), ed è anche autore di romanzi e opere di critica.
Ha realizzato il lungometraggio, “L’età breve” (1969-70), tre film-poemi (“Sulle Cesane”, 1982, “Un’altra estate”, “Ritorno d’autunno”, 1988) e quattro “rappresentazioni visive” su altrettanti poeti per la televisione.
Le sue poesie sono apparse sulle principali riviste italiane e straniere.
In Spagna , nel 1989, è uscita la sua antologia poetica “El tiempo diferente” e negli Stati Uniti la raccolta “Selected poems 1967-1991”, nel 2002.
Tra i numerosi premi vinti, ci sono il San Pellegrino, il Frascati, il Mario Luzi, il Ceppo Pistoia, il Tirinnanzi, il Camaiore, il Penne e il Premio Umberto Saba Poesia 2020.
È il presidente del Centro mondiale della poesia e della cultura “Giacomo Leopardi” di Recanati.

(Umberto Piersanti “Campi d’ostinato amore” pp. 159, 19 euro, La Nave di Teseo 2020)

Un grazie di cuore ad Annie Seri, che ha permesso questa bella vicinanza di Fare Voci con Umberto Piersanti.

 

 

 

 

Immagini         ——————————-

serie LES ARCHIVES

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

 

 

Tempo presente        —————————

In attesa dell’invisibile

Cinque poesie inedite

di Nicola Skert

Far finta di vivere…

Far finta di vivere
È una cosa molto semplice

Basta fare dei figli
Avere un lavoro
Pagare le bollette
Il mutuo della casa
Le rate della macchina
Andare in vacanza
A pranzo dai suoceri
E a cena dagli amici
La gita del weekend
E la passeggiata in centro

E poi devi fermarti lì
E ricominciare dall’inizio
Passeggiando sui giorni
Come l’asino bendato
Attorno alla macina
Con cui produrre farina
Per continuare ad alimentare
Il far finta di vivere

 

Il Friuli

Il Friuli è una mandibola di monti
che mastica il cielo fino a farlo piangere
La sua pianura una lingua incisa
dalle acque e dagli eserciti
Una lingua biforcuta, grassa
che parla troppo o che tace arida
e sputa grave inghiottendo acqua

Il Friuli è un mare,
La saliva schiumosa che mette l’acquolina
A chi non sa cosa sia il mare

Il Friuli è un palato rude
che scortica la superfice della lingua
Mangia e beve di tutto
come un cane randagio
Addomesticato dal gregge che lo controlla

Il Friuli è così
Un piccolo compendio di Universo
Butterato da meteoriti vaganti
E levigato dai raggi
Di stelle rassegnate

 

Le nuvole corrono…

Le nuvole corrono
Verso nord est
Compatte e decise
Come un esercito fluttuante

Vanno a caricarsi
Sulle loro spalle di ovatta
L’anima dei miei

Corrono compatte e decise
Modellate dai ricordi
Di un sorriso e di un dolore
Di un rimpianto e di un colore
Tra il canto e il rimprovero
Tra una ninna nanna della mamma
E una carezza forte del papà

Corrono compatte e decise
E con tutto il carico di una vita
Rimangono comunque soffici
Al tatto della vista

E vestono i colori del visibile
I colori dell’alba e del tramonto
E di tutte le sfumature del giorno
In attesa dell’invisibile

Vanno compatte e decise
Tra squarci di azzurro
Come negativi di foto
Ancora da sviluppare
Nelle camere oscure
Delle anime dei figli

 

Sulla soglia della vita

Sulla soglia della vita
Ci si può stare fino alla morte
Ad attendere un’udienza
Che forse non verrà mai accolta

Ne ho viste di persone
Consumare i tacchi su quella soglia
Correndo da un sogno a un ufficio
Da un matrimonio al suo divorzio
Da un figlio alla sua perdita

Già
Ne ho viste di persone
In attesa
Giorno e notte
Giorno e notte

E a sera
Una donna delle pulizie
Spazzare via
Quella polvere di stelle
Spente da millenni

 

L’amore è un cane fedele

L’amore
È un cane fedele
Che scodinzola, gioca
A volte morde
O ringhia

È un cane
Non sempre pulito
E che ingoia
Ogni schifezza
Che trova per strada

È un cane
A volte disubbidiente
Che scappa inseguendo un gatto
Ma che poi
A sera
Torna sempre a casa

L’amore
È un cane a volte infedele
Il migliore Amico
Dell’uomo
L’animale da compagnia
non sempre domestico

L’amore è un cane
Che vuole solo un padrone
Che non sopravvive quasi mai
Al suo padrone

L’amore è vita
E la vita è solo
Un lungo processo
di separazione

E io ti amo, cane

 

L’autore:
Nicola Skert è nato nel 1972, Tarvisiano di origine, Triestino di formazione e Udinese d’adozione.
Ha pubblicato alcuni racconti in diverse antologie, il romanzo metropolitano “Pus Underground”, la raccolta “Racconti PET (Pulp Erotic Trash) vol. 1”, il romanzo fantascientifico “Hitorizumo”, per poi passare dal giallo psicologico di “Giallo Interiora” al romanzo di formazione surreale di “Stretto”, per concludere con la commedia nera di “Come inizio non c’è male”, edita lo scorso anno.

 

 

 

 

Immagini        ——————————-

serie MAGARI

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

 

 

Voce d’autore————————–

Questo precipizio di parole

Maria Grazia Calandrone, “Splendi come vita”

di Roberto Lamantea

Quando ha quattro anni, sua madre le dice: “tu non sei mia figlia, ti abbiamo adottata“. Maria Grazia era “figlia del peccato”, come si diceva crudelmente negli anni ‘60 per i bambini nati fuori dal matrimonio. La madre biologica, Lucia Galante, una contadina molesana, per volontà dei genitori era stata costretta a sposare a diciotto anni Luigi Greco, un uomo che non amava, erede dei terreni confinanti nelle campagne di Palata (Campobasso), che con il matrimonio sarebbero diventati un’unica proprietà con quella dei Greco. Sette anni senza figli, Luigi non poteva averne ma la “colpa” fu data a lei, gli anni ‘60 erano così.
In quegli anni c’era ancora il “delitto d’onore” per l’adulterio, la legge sul divorzio era un’utopia. Lucia conosce Giuseppe Di Pietro, piccolo imprenditore di Nettuno, sposato e con cinque figli. S’innamorano, entrambi lo dicono in famiglia, ma anche l’abbandono del tetto coniugale è un reato, Luigi li denuncia. Lucia e Giuseppe vanno a vivere a Ururi, un piccolo paese vicino, ma sono costretti a scappare e vanno a Milano, dove nasce Maria Grazia. Poi si trasferiscono a Roma.
È giovedì 24 giugno 1965. Lucia e Giuseppe abbandonano la bambina – che aveva otto mesi – su un prato a Villa Borghese. Il giorno dopo alle dieci del mattino arriva una lettera all’Unità: “La bambina trovata a Villa Borghese si chiama Greco Maria Grazia”, scrive Lucia, “trovandomi in condizioni disperate, ho scelto di lasciare mia figlia alla comprensione di tutti. Con il mio amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto”.
Forse invece di “comprensione”, come hanno scritto i giornali – il caso è finito su tutti i quotidiani – Lucia ha scritto “compassione”, così racconterà a Maria Grazia la madre adottiva. Con la lettera, il certificato di nascita della piccola chiesto da Lucia al Comune di Milano il 16 giugno. I genitori di Maria Grazia si annegano nel Tevere: lei ha ventinove anni, lui cinquantasei. La neonata viene rinvenuta alle 15.30 dello stesso 24 giugno su un prato in viale Washington, su un plaid rosa, accanto alla bimba una bambola di plastica.
Domenica 27 giugno il fiume, vicino a Lungotevere degli Inventori, restituisce il corpo di una donna senza documenti: è Lucia. Martedì 29 giugno nel fiume viene ritrovato il corpo di Giuseppe.
Alla storia dei suoi genitori naturali Maria Grazia Calandrone ha dedicato “Alla compassione di tutti”, nel cd “Vivavox”, uscito con il romanzo “L’infinito mélo” (Sossella, 2011), dove il suicidio della madre naturale viene già definito “suicidio sociale”. Il video è su YouTube.
Maria Grazia viene adottata da Ione, abbreviativo di Consolazione, insegnante, bionda e bellissima, di quasi cinquant’anni, e Giacomo Calandrone, antifascista, prigioniero nella guerra di Spagna, operaio metallurgico a Savona, poi sindacalista, deputato e dirigente del Pci per dieci anni.

Ora non è più abbandonata”, scrive Paese Sera il 10 luglio 1965. Al padre Giacomo la scrittrice ha dedicato il libro “Pietra di paragone” (1998, Premio Nazionale Nuove Scrittrici). Lui muore quando la bambina ha undici anni. Quando le dice che lei non è sua figlia naturale, per Ione il dolore è devastante. È tormentata, si chiede se Maria Grazia sarà ancora capace di amarla.
Negli anni l’accusa di tutto; non dorme più, tiene la radiolina accesa tutta la notte, le cambia scuola, la manda in collegio: “Madre è così delusa da me che rinuncia a educarmi. Madre decide che, per raddrizzarmi, ci vuole un Collegio di Suore”: finisce dalle religiose “dal vampiresco e terrifico nome di Adoratrici Del Preziosissimo Sangue”; in collegio scrive poesie. Quando la ragazza ha vent’anni la mamma la chiude fuori casa, Maria Grazia dorme sul pianerottolo o gira tutta la notte per Roma.
È struggente, dolce, è un canto il romanzo autobiografico di Maria Grazia CalandroneSplendi come vita”.
Tra le voci più importanti della poesia italiana dell’ultimo decennio, giornalista, drammaturga, regista, autrice e conduttrice radiofonica e televisiva, Maria Grazia Calandrone sorprende tutti con un libro delicato e struggente, diario e racconto dell’amore “difficile” tra madre e figlia.
Pagina dopo pagina si snoda la vicenda di uno smarrimento: dopo averle detto che Maria Grazia non è sua figlia, Ione teme che la bambina non la ami più e dopo la scomparsa del marito lo snodarsi della vita diventa una vertigine.
In realtà, Ione non ha mai smesso di amare la bambina e questo Maria Grazia l’ha capito: in queste pagine non c’è mai rabbia, rancore, tantomeno odio. Ecco perché Splendi come vita è un canto: è la voce di una donna, madre a sua volta, che ripercorre il filo di quegli anni e, oltre a ritrovare la mamma adottiva – nel libro è Madre, con la maiuscola – trova la conferma di un amore mai spento, un amore di braci.
“Splendi come vita” è nato come un torrente in piena, confida la scrittrice: si è svegliata una mattina con l’incipit in testa, ha iniziato a scrivere e non ha più smesso, complice il lockdown. Un fiume durato venti giorni. Scrive l’autrice: “Questo libro si è scritto da solo nel giugno 2020”.
Cercavo il filo rosso dell’amore”, racconta Maria Grazia Calandrone, “il sentimento che sta sotto i comportamenti; è un libro di ferite”. La scrittura, il corpo della pagina, come rinascita: è “la funzione salvifica della parola”.
Così il romanzo si chiude con due poesie dolcissime: “Abbiamo solo il tempo della vita, mamma. Nient’altro/ Mi posso mettere vicino a te?».
“Splendi come vita” esce in un biennio fertile di pubblicazioni per l’autrice romana: nel 2019 da Aragno è uscito “Un altro mondo, lo stesso mondo”, rilettura del Fanciullino di Pascoli – un testo da rileggere: il poeta dei Canti di Castelvecchio e di Myricae annota un passaggio che sembra scritto oggi: “Ma in Italia la pseudopoesia si desidera, si domanda, s’ingiunge […] Siamo agricoltori che non pensano se non alle vanghe e non parlano se non di aratri e più delle loro bellurie che delle loro utilità. Delle semente, della terra, dei concimi, non ci curiamo più” e sembra riferirsi a quei poeti iperintellettuali che tanto esaltano la tecnica ma non hanno niente da dire.
Sempre nel 2019 Crocetti ha ripubblicato nella collana Kylix un bel libro di poesie del 2015, “Serie fossile”; dello stesso anno è “Come tradurre la neve. Tre sentieri nei Balcani”, con Alessandro Anil e Franca Mancinelli, sulle rotte dei migranti alle porte d’Europa, tra Bosnia, Croazia e la frontiera di Trieste. Del 2020 nello Specchio Mondadori le poesie di “Giardino della gioia”.

 

Dal libro:

Sotto i letti, massimamente. Le ombre si accumulano in maniera massiva sotto i letti dei bambini non amati. E un umido risucchio catacombale, nel quale fruscia il vuoto artiglio del Nulla, pronto a scattare e chiudersi sulle tenere carni. Un vivaio verminoso.

Se ti muovi, ti vedono.

Ognuno gira nudo e solo sulla ruota siderale degli esposti, tanto più nudo e solo quanto più imbozzolato nella concrezione rasposa delle coperte.

Sei abbandonato e solo.
Se ti muovi, ti vedono.

*

Splende, la vita, splende come vita. A volte
splende quieta
come il tuo corpo abbandonato al sonno. A volte
sfolgora come il lampo del sorriso.
Ma la terra non splende, la cenere
non splende.

Davvero, Mamma, non sappiamo niente
e non siamo che corpo e non siamo
più in nessun luogo, dopo, probabilmente

e questo precipizio di parole
non è buono a rifare
neanche una molecola del tuo sorriso.

Era vivo, il tuo corpo, e lo guardavo
come si guarda la casa
distesa nella luce del tramonto e il colle
dove stiamo tornando.

Faticavo a raggiungerti, alla fine. Ma eri vita
accessibile, vita dovuta e vita che ho dovuto
lasciar andare. Addio, Mamma. Addio, professoressa.

Senza difese, torni
vita che splende.
Senza difese, splendi come vita.

Vita
abbandonata.
Vita
di tutti.
Vita che torna,

a tutti.

 

Intervista a Maria Grazia Calandrone:

“Splendi come vita” è un libro duro su un tema difficile, eppure è pieno d’amore. Nella nota finale scrivi: ”Questo libro si è scritto da solo nel cuore del giugno 2020”, ma immagino che il tema e forse anche le parole abbiano “abitato” dentro di te per anni. Ce ne racconti la genesi: quando e come ti sei accorta che tutto questo mondo di ricordi e sensazioni poteva diventare scrittura, quindi dono agli altri?
In realtà non me ne sono accorta, mi sono svegliata una mattina con l’incipit del libro nella mente e ho continuato a scrivere senza interruzione per venti giorni, interrompendomi soltanto per far mangiare i miei figli e per dormire (poco).

Nel libro la scrittura è al confine tra versi, prosa, diario, e finisce con due poesie che sono inni d’amore. Tu sei anche giornalista, conosci la prosa secca dell’articolo di cronaca nera, spesso non privo di crudeltà (l’epiteto di “figlia del peccato”). Quanto ha contato il tuo interesse per la cronaca nella tessitura del romanzo?
Probabilmente è stata la mia storia, l’essere stata in cronaca a otto mesi, a suscitare la mia passione per i casi di cronaca e per la prosa dura del giornalismo, che ho spesso incluso nella tessitura della poesia.

Nella sezione “Inferno” ricordi esperienze terribili, eppure anche queste pagine sono piene di dolcezza. “Splendi come vita” racconta una materia incandescente e non c’è mai traccia di odio o rancore. Che cosa senti di poter dire a chi vive situazioni di violenza famigliare?
Non sono mai stata picchiata, sono stata “soltanto” minacciata di esserlo e, quando venivo chiusa fuori casa avevo vent’anni, la porta si chiudeva quando facevo tardi a tornare dal lavoro.
Non sento di aver subito “violenza famigliare”, non è questo che racconto. Racconto invece un rapporto complesso, di amore profondo e la sofferenza di una donna che, certo, faceva soffrire anche me, ma mai di proposito.
Ovviamente a chiunque subisca violenza non posso che consigliare di provare a difendersi ma, se si tratta di bambini, è compito degli adulti vigilare e interrompere il circolo del loro e proprio dolore.

Da anni conduci laboratori di poesia in istituzioni come scuole o carceri, segui e promuovi la poesia dei giovani. Quali consigli dai a chi vuole avvicinarsi alla poesia?
Leggere il più possibile, leggere sempre e moltissimo la poesia degli altri. Solo ascoltando la musica degli altri si può imparare la propria. Riconoscerla, strutturarla.

 

L’autrice:
Maria Grazia Calandrone (Milano, 15 ottobre 1964) ha vinto i premi Montale, Pasolini, Trivio, Europa, Dessì e Napoli per la poesia, Bo-Descalzo per la critica letteraria.
Collabora da anni con l’attrice Sonia Bergamasco per la quale ha composto i monologhi “La scimmia bianca dei miracoli” e “Pochi avvenimenti, felicità assoluta, lavoro” dedicato alla storia d’amore tra Robert e Clara Schumann e trasmesso in diretta dal Quirinale.
Nel 2018 è regista del ciclo di videointerviste “I volontari”, sull’accoglienza ai migranti, e del videoreportage su Sarajevo “Viaggio in una guerra non finita”; nel 2020 tiene “Esercizi di poesia”, scuola di poesia aperta agli ascoltatori di Rai Radio 3.
Dal 2012 tiene laboratori gratuiti di poesia nelle scuole pubbliche e nelle carceri. È membro dell’Associazione di volontariato culturale Piccoli Maestri.
Nel 2020, durante la pandemia, trasforma i suoi laboratori in videolaboratori in streaming per bambini e ragazzi. La sua poesia è tradotta in molte lingue.

(Maria Grazia Calandrone “Splendi come vita” pp. 224, euro 15,50 Ponte alle Grazie 2021)

 

 

 

Immagini        ——————————-

serie RISO

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

 

 

Voce d’autore        ——————————-

Tutt’intorno il profumo

Salvatore Cutrupi, “Friuli Venezia Giulia in 17 sillabe”

di Giovanni Fierro

Prosegue con sempre maggiore determinazione lo scrivere haiku di Salvatore Cutrupi.
E questa sua nuova tappa editoriale lo vede coinvolto in un progetto dove protagonista è l’intera regione del Friuli Venezia Giulia.
Luoghi e situazioni, Storia e storie, memoria e nuovo tempo che arriva.
Con queste coordinate narrative, Cutrupi dedica la propria attenzione a raccontare le particolarità e le appartenenze dei vari luoghi che descrivono questa preziosa regione, in una collezione di cartoline che ne restituisce il profumo, la melodia, il sapore e l’importanza.
E questo suo scrivere viene ancora di più amplificato dalle versioni in inglese di ogni haiku, grazie al lavoro di traduzione di Gaia Rossella Sain, che abilmente ha trovato il registro adatto ad ogni suo scritto presente in questo “Friuli Venezia Giulia in 17 sillabe”.
Da Gorizia a Trieste, da Pordenone a Udine; ma anche dal mare alla montagna, dalla pianura alla collina. Non manca nessun riferimento, né geografico né sociale, e Cutrupi è abile a condurre il lettore in ogni luogo che affida alle sue parole, haiku che diventano contenitori di ricordi ed usanze, presente e possibilità, di una regione che merita veramente di essere raccontata e ancor di più conosciuta.
E quindi troviamo il Carso, dove “spunta dalle fessure/ l’aspro sommacco”, e il fascino di Grado dove nella sua “laguna muta” possiamo vedere “il pescatore in piedi/ sulla batela”.
Ma è anche l’occasione per ricordare un grande poeta come Pierluigi Cappello: “muore un poeta -/ risuona a Chiusaforte/ l’urlo di un verso”; e che questa è stata anche la terra martoriata della Prima Guerra Mondiale: “arriva a valle/ la voce del silenzio -/ Monte Calvario”.
Il libro è anche l’occasione per festeggiare il Collio, “acini gonfi -/ il sorriso negli occhi/ del vignaiolo”, e svelare la magia delle Valli del Natisone: “dopo la curva/ i nuovi girasoli -/ tachicardia”.
Senza dimenticare il terremoto del ’76: “segni di croce -/ nel duomo di Venzone/ i calcinacci”.
Cutrupi si muove con curiosità e riconoscimento, in una terra ricca e varia, a volte serena e a volte contratta; capace di gioie assolute e rimandi storici difficili da digerire. E in questa sua ampia ‘ricognizione’, il suo scrivere haiku diventa strumento ed occasione di incontro, invito al confronto e nuova viva testimonianza del suo fare poesia.

 

Dal libro:

confine chiuso –
oltre le sbarre il volo
d’una poiana

closed border –
beyond the bars
a buzzard in flight

*

tutta la notte
a parlare del vento –
un aquilone

the whole night
talking about the wind –
a kite

*

strada per Terzo –
le ceneri dei morti
negli alveari

road to Terzo –
the ashes of the dead
in the cells

*

apre il confine –
tutt’intorno il profumo
dell’erba nuova

open border –
the scent of fresh grass
everywhere

*

grandine estiva –
una bugia dal cielo
sui chicchi d’uva

summer hail –
a betrayal from the skies
against the grapes

*

parte un addio –
a Gemona i rintocchi
delle campane

bidding farewell –
the clapping of bells
in Gemona

*

cicale in coro –
una rosa appassisce
a poco a poco

choir of cicadas –
a rose withering
little by little

 

 

Intervista a Salvatore Cutrupi:

Scrivere questi haiku penso sia stato anche un modo per confrontarsi con una intera regione, il Friuli Venezia Giulia, con i suoi luoghi e la sua storia. Che confronto è stato?
È stato un confronto aperto, sincero, come accade tra vecchi amici. È stato un parlare insieme delle sue tradizioni, del fascino del suo vissuto, di chi cura i piccoli e grandi vigneti, delle albe e dei tramonti. Abbiamo ricordato i sentieri che ho calpestato e quei confini chiusi che ora sono finalmente liberi. Ci siamo confrontati infine sui numerosi luoghi poetici, che avvicinano e fanno abbracciare le cime dei monti con il luccichio del mare.

Come hai vissuto questi testi, come delle cartoline? Degli appunti? Dei momenti “cristallizzati” in diciassette sillabe?
Li ho vissuti come cartoline, alcune in bianco e nero, altre a colori. In bianco e nero i testi che mi ricordavano i luoghi visti mezzo secolo fa, insieme ai miei primi amici di Cormons.
A colori le cartoline più recenti, che ho scritto per gli amanti della poesia, in particolare per le tante amiche che giorno dopo giorno continuano a colorare i miei anni.

Lo sguardo è anche quello di chi ha visto e inventato tanti paesaggi, che vivono in queste pagine. Il tuo è stato più il lavoro di un fotografo o di un pittore?
La poesia haiku è caratterizzata dal fatto che cattura l’immagine, il cosiddetto qui ed ora, per cui il mio è stato il lavoro di un fotografo; pur tuttavia ciò non ha escluso una mia visione pittorica dei versi, nel senso che a volte le parole sono state riviste, ripensate, come fa l’artista con i suoi colori e la sua tela, quando ciò che produce non rispecchia le sue intenzioni iniziali e non lo soddisfa.

A fine libro, quale è stato il tuo pensiero riguardo alla nostra regione? Lo scriverne ha mutato qualcosa nei tuoi pensieri e nelle tue emozioni che la riguardano?
A fine libro è aumentata la mia considerazione positiva verso questa regione, sia per quanto concerne le bellezze naturali, sia riguardo alla moralità e purezza d’animo delle persone che qui sono nate.
È una sensazione che avevo già acquisito pochi mesi dopo il mio arrivo, e che mi aveva condotto a fermarmi per sempre in questa terra. Le mie emozioni nello scrivere di questa regione, di volta in volta e a seconda dei momenti, sono diventate respiro, balsamo, conforto, carezze.

Il terremoto del’ 76 ha una parte tutta dedicata a sé. Cosa ha significato scriverne?
Scrivendo del Friuli Venezia Giulia mi è venuto spontaneo dedicare una parte del libro al terremoto del 1976. È stato il periodo del mio fidanzamento con mia moglie Patrizia, il momento in cui, come medico, ho potuto dare assistenza all’Ospedale di Cormons a molte persone venute dalle zone più colpite. E soprattutto ho pensato a come è stata gestita la ricostruzione che dopo 45 anni rappresenta, ancora oggi, un modello esemplare e dà l’esatta misura della laboriosità e dell’onestà della gente friulana.

Tutti gli haiku sono anche tradotti in inglese da Gaia Rossella Sain. Che effetto ti fa? Come cambia il tuo scrivere, nell’incontrarlo anche in un’altra lingua?
Il primo pensiero che ho avuto, dopo aver letto la traduzione in inglese dei miei haiku, è stato quello della gratitudine, della riconoscenza verso l’amica poetessa Gaia Rossella Sain.
È stato come aver ricevuto in dotazione un pass poetico. Nella traduzione inglese ho ritrovato quella leggerezza e quella musicalità che c’è nelle canzoni inglesi e che può aiutarmi a migliorare i miei scritti futuri.
Ho anche rivolto il pensiero ai miei amici poeti di altre nazioni, che possono condividere le mie emozioni ed ho immaginato quanto sarebbe bello se nell’intero universo vi fosse la stessa solidarietà, empatia e libertà di espressione che esiste nel mondo poetico.

 

L’autore:
Salvatore Cutrupi è nato a Reggio Calabria e risiede a Cormons (Gorizia). Nel 2014 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Tutti i miei giorni”, nel 2016 “Mi accompagna il tempo” e nel 2018 la sua terza raccolta “Le stelle che tornano” (Qudulibri).
Nel novembre del 2019 ha pubblicato il suo primo libro di poesie haiku “Cieli d’Autunno” (Qudulibri).
Ha partecipato a numerosi reading poetici e ha presentato i suoi libri a Radio City di Trieste e a TV Koper – Capodistria, nella trasmissione ”La parole più belle”.
In due esposizioni all’Aeroporto di Trieste, le sue poesie sono state abbinate alle immagini del fotografo Luciano Berini, nella mostra ”L’immagine incontra la poesia”.

(Salvatore Cutrupi “Friuli Venezia Giulia in 17 sillabe” pp. 131, 13,90 euro, Edizioni della Sera 2021)

 

 

 

 

Immagini         ——————————-

serie MAGARI

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

Margini. Di poesia e altro       ——————————

Ovunque è stato un ritorno

Silvia Righi, “Demi-monde”

di Roberto Lamantea

Un’opera prima che per rigore stilistico sembra un punto d’arrivo. È “Demi-monde” di Silvia Righi, pubblicato da NEM di Varese, che esce nella collana “Le civette” con la bellissima prefazione di Tommaso Di Dio, ricca di riflessioni e stimoli sulla poesia del primo ventennio del nuovo secolo, non più orfana della tradizione novecentesca e preludio a una nuova gioia dello sguardo.
Demi-monde”, scrive l’autrice nella premessa, è “l’intercapedine, la porta socchiusa, il riflesso del riflesso, l’occhio che si spalanca mentre il sogno è ancora in corso”.
Articolato in tre “Transizioni”, l’ultima in prosa, e corredato da tre pagine di note, “Demi-monde” ha come scenario o quinta una casa delle bambole stregata da un incantesimo inquietante. I testi di Silvia Righi sono fiabe dove lo specchio di Alice non conduce al mondo di giochi bizzarri, limeriks, enigmi e scioglilingua di Lewis Carroll: è lo specchio nero di Grimilde, varco tra mondi incastrati l’uno nell’altro, come in Escher.
Uno spazio (una stanza, il giardino di un Eden rovesciato) di giochi erotici nel giardino degli dèi dove anche i generi maschile/femminile si sovrappongono ed elidono, di metamorfosi “come le mezze asino e mezze femmina”.
L’espressione ‘demi-monde’”, annota l’autrice, “deriva dall’omonima commedia scritta nel 1855 da Alexandre Dumas figlio, che rappresenta gli amori e la corruzione di un ambiente sociale parigino che non è né borghesia né vero ‘gran mondo’. Il termine poi acquisisce un diverso significato nella serie tv horror Penny Dreadful, dove con ‘demi-monde’ s’intende il mondo sospeso tra la vita e la morte, tra l’umano e il soprannaturale, popolato da creature ibride come gli spettri, i licantropi, i vampiri, le streghe”.
Molti i rinvii, le citazioni, i versi tradotti dall’autrice innestati nel corpo delle poesie: dagli amati trovatori Arnaut Daniel e Beatrice de Dia a Sylvia Plath, Wallace Stevens, Jacques Prévert, Marguerite Yourcenar al “Cunto de li cunti” di Basile e, naturalmente, le fiabe dei fratelli Grimm.
Il che potrebbe far pensare a un libro iperletterario: non è così. Quell’inquietante mondo al confine, che in alcune sequenze ricorda le atmosfere del primo teatro dei ravennati Fanny&Alexander – “La turchinità della fata”, “Ponti in core” – è disegnato da Silvia Righi con un gioco di immagini e specchi che cattura il lettore, che si ritrova in quel mondo sospeso come nella tela di un ragno.
L’enigma detta versi stupendi, frammenti di vetri dove l’io, anche quello del lettore, rimane intrappolato: “Ci siamo conosciute ovunque/ ovunque è stato un ritorno”; “Sullo stagno i fiori sbocciano al contrario”; “Lei si dividerà. Io sono divisa/ morta di molte morti/ per raggiungere me./ Non avrà il mio volto lo specchio”; “Il fato, una mandorla nera”.

 

Dal libro:

Se mi addormentassi
una notte, senza premonizioni.
Se mi addormentassi per trent’anni
la camera comprimerebbe gli oggetti
fino a ridurre le cose in sogni
e i sogni in mondi.

Ci siamo conosciute ovunque,
ovunque è stato un ritorno.

All’origine
s’incastra il dilemma del dolore,
le scelte sono le figlie
cresciute in abiti d’argento
a nascondere gambe magre come sedani.
Esiste come un’eccezione o un errore
la porta senza porta
nel trapasso non sei chi sei stata
né chi attende.

*

“Lo vedo quel prato innocente
senza serpenti né mele
noi intente a scioglierci i nodi
accanto al pozzo della Signora Neve”.

Mi trovavano in viso di Madonna
e voci femminili mormoravano dietro
le caviglie benedizioni.
Ma io non sono una
forse tu è la parte di me
che ho estratta viva per un piede.
Il fato, una mandorla nera.

Dimmi i nomi di tre ragazze:
chi butti nel letto di spine?
E in quello delle rose?
E in quello dell’amore?

*

Prima degli specchi
nessuno
conosceva il volto perfetto
né l’intera figura.
L’increspatura dell’acqua, il difetto
del metallo, chi si sarebbe
creduto uno.
Ora è una congestione
l’immagine, vedersi
il grande paradosso.
Lei si dividerà. Io sono divisa
morta di molte morti
per raggiungere me.
Non avrà il mio volto lo specchio.

 

L’autrice:
Silvia Righi è nata a Correggio nel 1995. Laureata in Lettere moderne a Bologna con una tesi sulle riscritture contemporanee dell’Orestea, si occupa da quattro anni di comunicazione ed eventi culturali, collaborando all’organizzazione di manifestazioni come Festivaletteratura (Mantova), Festival Mundus (Carpi), Asian Film Festival (Carpi) e Festa del Racconto (Carpi).
Sue poesie sono comparse nell’antologia di Coop for Words “L’amore è un tappo rosso nello stomaco di un gabbiano”, sulla rivista indipendente Crossroads e nell’antologia del Centro Lombardo-Radice “Esercizi di scrittura”.
Vive a Milano ed è redattrice del sito MediumPoesia. “Demi-monde” è la sua opera prima.

(Silvia Righi, “Demi-monde” pp. 104, 13 euro, NEM 2021)

 

 

 

Ti racconto      —————————

Tornare sulla Cosizza

di Luca Buiat

Tornare sulla Cosizza i primi giorni di aprile
è ritornare su quella roccia bianca levigata
che avevi lasciato sulle punte dei piedi
per l’ultimo tuffo settembrino
quando le prime foglie stanche cadevano nella cascatella
assieme ai lampi che ti portavano via l’estate,
tu sei rimasto a casa sospeso
a contare i giorni che hanno attraversato le colline
sono entrati nei muri e scappati via dal tetto
mentre lassù il torrente non si è mai fermato
ha continuato a mulinare, a venire giù
la sua è una storia di acque
che corrono a dissetare la terra
ora gioca tra i sassi e sprizza di vita nuova,
sembra appena nato e cammina veloce verso i paesi
dove i ragazzi giunti sulle rive iniziano a guardarlo
nei primi tiepidi e lunghi pomeriggi arancio
dove i loro sogni prendono la forma
di un tuffo che faranno nella forra
un gesto che fanno con le mani d’aria
è sfumatura di una carezza
un amore delicato che vuole venire al mondo
un riverbero di luce d’acqua che vampa
sulla corteccia del carpino bianco
dove spuntano le prime foglioline dai rami
pronte a vibrare assieme alla corrente.

 

L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel dicembre 1971.
Ha iniziato a scrivere delle poesie verso i quindici anni, con un “linguaggio poverissimo, forse perché in Friuli negli anni 80 pioveva sempre; ricordo che passavo intere giornate a guardare il ‘brut timp’ davanti alla finestra di casa mia, e prima ancora ci fu il terremoto…”.
Formativi sono anche i libri di Herman Hesse e Jack Kerouac.
Con il gruppo degli Scrittori Creativi dell’Unitre di Cormons da tre anni è tornato a scrivere piccoli racconti o poesie.

 

 

 

 

Immagini         ——————————-

serie LES ARCHIVES

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————

Il finito comprende l’infinito

Giancarlo Baroni, “I nomi delle cose”

di Giovanni Fierro

Stare dentro al meccanismo delle cose, verificare il loro funzionamento, individuare le dinamiche, trovare i perché a cui dare ulteriore domanda, portando il loro raccontare nella dimensione della poesia.
Tutto questo lo fa Giancarlo Baroni nella sua raccolta “I nomi delle cose”, che già nel titolo manifesta questo desiderio di trovare la collocazione ad ogni accadimento ed identità che vivono nel nostro quotidiano.
La sua è un’operazione importante e necessaria, una radiografia del contesto in cui siamo immersi, da cui non possiamo sfuggire.
Certo, dedicarsi a questo lavoro non è facile ed è anche doloroso, ma è un passaggio obbligatorio se si vuole creare una risultanza, una certificazione dello stato attuale delle cose, senza mai rinunciare al passato, che mai come ora è anche protagonista del nostro presente.
E “I nomi delle cose”, mosaico di tanti tasselli diversi, è questo suo sguardo articolato ed ampio, plurimo e vario.
Recinti una fetta di universo/ appendi vietato entrare” dice molto di più di uno studio sul nostro attuale stato di intenti, riconoscendo quanto il sogno si mescoli alla violenza imposta, facendo della Terra un luogo per niente sicuro del dove vivere.
E in cui si riconosce che prevale la legge della sopraffazione: “Se vieni qua ti sparo.// Se vengo lì mi uccidi”; ovvero la geografia intesa come bieco nazionalismo e ricca ignoranza di prospettive.
Ma, ovviamente, “I nomi delle cose” non è libro che si arrende, ma costruisce un riconoscere la bellezza anche quando è più difficile farlo, anche solo per affermare che “Dentro quegli occhi/ corrono i desideri come dei petardi”; possono scoppiare di gioia.
Giancarlo Baroni non fa un passo indietro mai, è sempre nel vivo dell’avvenimento, anche nella non facile constatazione che “Prima che inizi il processo/ cerco di ricordare colpe e meriti/ però la mente resta vuota/ come non fossi mai nato”.
E se il sentimento di smarrimento potrebbe essere legittimo, in questo odierno che tutto mescola e tutto ribalta, il suo scrivere si accolla l’onere di fare chiarezza, di trovare quella preziosa trasparenza attraverso la quale mettere in evidenza (si, riconoscere ed indicare) i nomi delle cose da sostenere e da valorizzare, per trovare dei punti fermi in cui continuare a credere. Magari anche con un semplice titolo da dare ad una poesia qui contenuta: “Siete voi che amiamo”.
È bella l’avventura che porta Giancarlo Baroni a fare di “I nomi delle cose” anche un atto di devozione a quanti, attraverso l’arte e l’espressione artistica, hanno fatto dello stare al mondo un’opera d’arte. Mondrian, Giacometti, Masaccio e altri ancora, e poi Beatrice, Orlando, Amleto, il Barone Rampante… autori e personaggi che con più passione e coinvolgimento ci hanno portato nel cuore dell’esistenza umana. Riuscendo sempre a dire bene della tensione di cui ci nutriamo: “la rosa di Magritte/ occupa la stanza,// sino a quando resterà imprigionata/ per quanto le pareti reggeranno?”.
Giancarlo Baroni con “I nomi delle cose” ci porta in tutto questo, con una precisione di linguaggio che mette in evidenza il grande lavoro di scelta e valorizzazione delle parole a cui affidare il proprio atto poetico; una accuratezza che è sinonimo di intensità.

 

 

Dal libro:

Ai bordi

A velocità stellari
dappertutto nel vuoto

all’improvviso ferme
ai bordi dell’abisso.

 

Fronti opposti

Se vieni qua ti sparo.

Se vengo lì mi uccidi.

 

Quel che diventeremo

Quel che diventeremo lo sappiamo
non serve aggiungere. La terra
seppellita altra terra la trascina
fino a svegliarci. Chissà per quante volte

ancora subiremo, aspettando
tenacemente che l’universo cambi. Come di cenere
soffocata composti e desiderio.

 

Un seme fra le mani

Ti seppelliamo con un seme fra le mani
spunta dal suolo germoglia cresce
ti fa ombra d’estate

le foglie ti coprono in autunno
lo battezziamo col tuo nome gli parliamo.

 

Siete voi che amiamo

Siete voi che amiamo
care signore
che stamattina
attraversando questa strada
l’avete profumata di pane.

Sporgeva dalle vostre borsette
come una luna in miniatura.
Sappiamo che tenete
nei portafogli come resto
le chiacchiere del droghiere,

e che per ogni
confidenza scambiata
– per ricordarvi
di scordarla al più presto –
stringete un nodo sottile al fazzoletto.

 

L’umanità di Masaccio

Il finito comprende l’infinito
l’eterno si fa uomo

Gesù crocifisso scheletro di Adamo.

 

Mondrian

Svaniscono le cose, per nome
insisto a chiamarle
(fari mulini alberi meli
fioriti) do alle cose un titolo dopo

nemmeno quello. Restano
le forme orizzontali rette quadrati
che nascono nel vuoto e lo incorniciano.

 

Intervista a Giancarlo Baroni:

“I nomi delle cose” porta la storia fino a noi. Ci fa stare dentro, ai suoi attriti, alle sue violenze, alle sue lotte. È come un dire è stato così, sarà sempre così?
Sì, spesso le mie poesie si confrontano con avvenimenti, episodi, figure e personaggi del passato.
Sono convinto che il passato abbia mille cose da insegnarci, ci permette di conoscere meglio il presente e di orientare, si spera in meglio, il futuro.
La mia è un’idea di passato attivo e aperto, non chiuso al suo interno ma proiettato oltre sé stesso.
La sezione che apre “I nomi delle cose”, intitolata “La polvere di cavalieri amici”, è la più aspra e dura del libro che in altre sezioni si affida invece a toni più distesi.
Il motivo principale della durezza mi pare derivi dall’aver adottato una ottica interna ai fatti, agli accadimenti e ai meccanismi della storia.
La realtà storica si manifesta a volte, a seconda dei momenti e dei luoghi, in maniera cruenta e violenta.
Se avessi adottato un’ottica esterna avrebbe prevalso un sentimento e un atteggiamento di denuncia. Così invece forse prevale la consapevolezza.
Non dico sarà sempre così, ma è andata anche così, e facciamo tutti attenzione, c’è il rischio che si ripeta.

Il libro parla anche di arte e letteratura, e lo fa dando fisicità ad autori e personaggi. È il desiderio di poter camminare assieme a tutti questi nomi importanti?
Mi piace che nelle mie pagine si presentino autori, persone e personaggi. Può essere lo scrittore, il pittore, oppure la signora affacciata alla finestra mentre sorseggia un caffè.
Per quanto riguarda più strettamente gli artisti e gli scrittori, sono contento di sentirmi parte di una comunità creativa che interessa presente e passato.

Da una parte mi sembra che tutti questi scritti abbiano una propria appartenenza alla scultura (forse perché capaci di avere una propria ombra, di crearne una alle proprie spalle o sotto di sé) dall’altra mi sembra che vivano di capaci gesti pittorici, a volte più marcati altri più leggeri. Può essere così? È molto intrigante questo loro muoversi fra queste due forme d’espressione….
Il rapporto fra luce e ombra è un tema che molto mi coinvolge, soprattutto quando fotografo (mi definisco poeta per passione e fotografo per diletto).
La solidità e la tridimensionalità della scultura, come tu dici, è capace di creare e di proiettare un’ombra ma la pittura è capace di creare un’illusione prospettica.
Una tela ci attrae verso di sé, e richiede che noi troviamo la giusta distanza per ammirarla. Alla scultura puoi girare attorno con il desiderio e la paura che scenda dal piedistallo per incontrarti.

Il testo dedicato al padre mi sembra sia il laccio che tutto stringe e mantiene unito. Lascia il segno sulla pelle, anche una certa sofferenza, ma mi sembra che sia il nodo necessario per tenere assieme tutte queste poesie che fanno “I nomi delle cose”…
Nel libro, e anche in quelli precedenti, non parlo direttamente di me e delle mie esperienze. Sono presente nei miei versi ma mi nascondo, mi mimetizzo, parlo o lascio parlare persone e personaggi.
Nella poesia “Corre l’anima dentro la stanza”, (che da sola e non a caso fa parte della sezione “La partenza del padre”), invece racconto e con pudore dico della morte di mio padre.
Morte che si inserisce all’interno del sentimento della scomparsa delle persone a noi care, della loro partenza non si sa verso dove, degli addii.
L’anima, qui finalmente liberata dal peso doloroso di un corpo che non risponde più, può correre e volare sopra di noi, prima di salutarci e andarsene per sempre.

Alla fine si ha la sensazione si essere di fronte ad un mosaico, tanti e differenti tasselli che vanno a comporre un’unica immagine….
Per temperamento mi viene spontaneo guardare le cose da più punti di vista. Nella mia precedente raccolta “I merli del Giardino di san Paolo”, parlavo di voli e di volatili, spesso erano gli uccelli stessi ad esprimersi.
Gli uccelli, come sai, ora li vedi zampette a terra, ora ti guardano nascosti in un cespuglio oppure appoggiati a un ramo oppure vicino alle nuvole. Credo di avere appreso anche da loro la moltiplicazione dei punti di vista, delle angolazioni, delle prospettive.

E comunque non mi sembra che sia un lavoro pacificato con il mondo, con il nostro vivere quotidiano…
In questo libro ho voluto parlare della vita nei suoi molteplici aspetti e manifestazioni: guerra, violenza, conflitti, morte, amore, bellezza, letteratura, arte…
Dolore e gioia, speranza e disperazione inevitabilmente si mescolano e si alternano, confrontandosi in maniera tesa e mai completamente rasserenata e pacificata.

 

L’autore:
Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie (“Una incerta beatitudine”) e sei libri di poesia.
Le sue più recenti raccolte sono “I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli” del 2009 e “Le anime di Marco Polo” del 2015.
Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia “Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma” (Puntoacapo, 2018).
È stato ospite del programma “Fahrenheit” su Rai Radio 3, anche in occasione del Festival della Filosofia di Modena.
Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”.
Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura la pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”.
Ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: “Sguardi dell’arte”, “Bologna” e “Due volti di Parma”.

(Giancarlo Baroni “I nomi delle cose” pp. 122, 15 euro, Puntoacapo editrice 2020).

 

 

 

Immagini       ——————————-

serie ITAJ

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

 

 

 

Margini. Di poesia e altro      —————————-

In te sta la mia infanzia, una sassaia

Luca Campana, “Fioriture invernali”

di Roberto Lamantea

Gli sguardi da bambino sul lavoro nei boschi: gli alberi da tagliare prima del gelo dell’inverno, attenti a scegliere quelli che hanno radici lunghe, così in dieci o vent’anni potranno rinascere; il maiale, chiuso nella sua stalla, “che ingrassa a ghiande la sua carne”.
Prima dell’inverno lo scanneranno: “basterà un solo colpo/ di lama ad aprire la pelle, penetrare/ nel grasso spesso fino alla carotide. Poi gli uomini/ macelleranno pezzo a pezzo l’animale, le donne/ cucineranno il sangue […] lo cuoceranno/ fino a farne una massa più densa/ da tagliare nel giorno della festa”.
La “lepre che passa / solo lì dov’è stata: la pancia piena d’erba/ di radici strappate alla notte, il pelo striato/ infoltito dal freddo, lo stupore atterrito/ allo sparo che penetra il fianco/ e l’essere preda, per l’ultima volta/ di una fame che tutti affraterna”.
Luca Campana pubblica da Interno Libri di Latiano (Brindisi) la sua seconda raccolta di versi, “Fioriture invernali”: è il canto di un mondo, quello delle montagne delle Marche, dove l’autore ha trascorso l’infanzia. Se per Eliot aprile è il più crudele dei mesi, “dicembre/ è il mese più clemente,/ non genera che lapidi di gelo/ da un cielo che scurisce/ sempre prima, dalle vene seccate/ terra dura” (è l’estate la stagione più crudele, scrive Campana).
Luca Campana ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza in un piccolo borgo nel cuore dei Monti Sibillini chiamato Monastero. I nonni, i genitori, “hanno sempre vissuto del commercio di legna e carbone, di semine e raccolti: una vita regolata da ritmi naturali, dove ogni attività veniva svolta pensando all’inverno, un lungo periodo di isolamento”.
Ecco allora che l’uccisione del maiale prima dell’inverno, la caccia alla lepre, non sono un teatro della crudeltà. O le api che, in una delle poesie più emozionanti del libro, “scalano i favi mezzi vuoti/ su salive rapprese di croco/ e resine amare/ o si stringono le une alle altre/ invisibili al mondo/ in un grappolo in cui custodire/ il calore residuo/ come un sole promesso/ eclissato in un tempo d’esilio/ e cenere spenta”.
Le parole di Leopardi lodano la ginestra, “quel fiore/ avvinghiato a una terra inaridita/ che proprio lì prolifera, che sa piegarsi/ alle leggi indelebili di quella terra,/ che negli strati artici di quelle leggi / continua a sprofondare,/ a tenere vive le radici”, metafora di tutti gli inverni.
È una poesia di rocce, terra, steli, quella di Luca Campana; torna spesso il termine ossa, le ossa della terra. È un mondo di “vene seccate/ terra dura”, “ossa invernali/ seminate nei solchi sassosi/ di forre e strapiombi”. È un paesaggio di “roccia calcarea, marna/ terra mossa: un manto friabile/ franto di fossi e faglie/ che lingue di radici ricompongono,/ compattano in cammino”, versi che hanno la trasparenza della poesia di Zanzotto.
Una delle sei sezioni del libro, scritta durante il lockdown, è dedicata alla pandemia: la vita appesa alle macchine in una stanza d’ospedale, “le loro linee lucide/ sui monitor, il loro occhio/ che incide come un erpice cifrato/ il paesaggio invernale dei corpi”, fino all’immagine raggelante, le cui fotografie sono diventate il simbolo di questa tragedia, dei camion che “attraversano l’inverno/ uno dietro l’altro: una fessura/ aperta lungo il ghiaccio/ dai cimiteri ai forni crematori” dove “nera sarà la cenere delle urne”, scrive Campana in un esplicito omaggio a Celan, testimone di altri forni crematori. Altre pagine del libro sono dedicate all’autismo.
“Fioriture invernali” è un libro che abbraccia il tempo: il tempo dell’infanzia tra il gelo dei monti e gli antichi riti della sopravvivenza, il paesaggio aspro di forre e dirupi dove sassi, rogge e radici sono la metafora di quella sopravvivenza (e forse della scrittura della poesia), il gelo di un inverno dove una solitudine antica torna in questa atavica paura che ci ricorda che, leopardianamente, la natura, se anche dovesse estinguere tutta la nostra specie, non se ne avvedrebbe neanche.

 

Dal libro:

Roccia calcarea, marna,
terra mossa: un manto friabile
franto di fossi e faglie
che lingue di radici ricompongono,
compattano in cammino.

Ora che il tempo rischiara
per gesti orizzontali, minimi,
alla terra strappata ai dirupi non serve
che qualche palata di calce, qualche pugno
di polvere viva
da cospargere intorno alle zolle
degli orti scarniti, alle ossa invernali
seminate nei solchi sassosi
di forre e strapiombi.

*

In te sta la mia infanzia, una sassaia
a picco sulla valle, stanno
voci di gole sciolte a maggio
dalla neve, nomi intrecciati agli oracoli
di grotte di sibille: sta un Monastero
ai salmi della luce a perpendicolo
sul mare, al rituale della terra
arresa a alberi perenni e a orti avari
dove il seme è tardo a maturare,
all’omelia stellata di questa
notte appena pronunciata, un abito
discorso sul mondo.

Svestita torna a rendersi una luna
come si rende il seno di una madre.

*

Ricordo i fiori rari, da bambino,
i fiori che si aprivano d’inverno
sulle montagne intorno al mio paese:
solitari nei fossi, o in mezzo a campi
seminati a gelate e tramontane
sapevano di quasi niente, di un’attesa
cresciuta sottoterra, oltre l’inverno.

Per mesi avevano assorbito sale
da quel suolo,
per mesi la corolla aveva distillato
quel profumo che quasi non sentivi
mentre scendeva nei polmoni.

Era caldo di fiato quando usciva,
umido e caldo di un respiro
che si perdeva in un alone bianco.

Ne trattenevo il vuoto, lo sentivo
seccare sulla lingua,
farsi l’assenza che prepara la parola.

L’ho custodita,
nutrita al buio tiepido del mio silenzio
fino a te.

 

L’autore:
Nato in provincia di Fermo nel 1980, Luca Campana trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Monastero, un piccolo borgo nel cuore dei Monti Sibillini. Per motivi di studio e di lavoro si è mosso tra Macerata, Ancona, Mantova e Padova.
Insegna nel liceo classico di Ascoli Piceno e collabora con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata.
Ha pubblicato il saggio “La stella che sorge dal mare. Un’interpretazione di Carlo Michelstaedter” (Il Poligrafo, Padova 2019) e la raccolta poetica “Pietra pelle” (Nervi, Treviso 2020), da cui sono state tradotte in inglese e russo alcune poesie.

(Luca Campana “Fioriture invernali” pp. 96, 13 euro, Interno Libri 2021)

 

 

 

 

Immagini        ——————————-

serie MAGARI

Otto collages

di Nicoletta Bidoia

 

Intervista a Nicoletta Bidoia:

di Giovanni Fierro

Da cosa nasce questa tua esperienza con i collages?
Venticinque anni fa cominciai a incollare ritagli sulle buste delle lettere che inviavo agli amici, poi ho continuato a farlo su cartoncini che hanno il formato di una cartolina postale. Prima di diventare un ponte verso l’altro, il collage nasce in me dal bisogno di isolare ciò che si vede, disordinandone il contesto e custodendone il senso in un altro modo.

Quale la differenza, e quale il tratto comune, tra questi tuoi lavori e il tuo scrivere poesia?
Si differenziano nella quantità poiché scrivo pochissimo e incollo di più, nel tempo impiegato che è rapido per i versi e lento per i collages, e nel sollievo che mi regala il ritaglio mentre la scrittura mi procura agitazione. Li accomuna il gesto di attenzione al dettaglio o al margine, il desiderio di raccontare una storia con riconoscenza (presente anche nei teatrini di carta) e il fatto che spesso li tradisco per dedicarmi ad altro.

Mi sembra che queste immagini catturino un attimo, contengano una porzione di tempo. Sono quasi delle istantanee… Mi sbaglio?
È un attimo che torna ad accadere ad ogni sguardo e che si dilata finché qualcuno è disposto a guardarlo.

E che tempo è, quello che contengono, che mostrano?
Un tempo di libertà.

Forse, è ovviamente solo una mia impressione, mi sembra che abbiano uno stretto legame con il silenzio. Può essere così?
Ci sono collages dove l’aria circola di più e altri più densi di colore e di echi, ma tento sempre di non sovraccaricare i segni, dando loro fiducia in uno spazio abbastanza ordinato. Il risultato può quindi ricordare una postura raccolta e taciturna, che è anche quella in cui mi riconosco.

Alcuni di questi collages contengono anche delle parole. È un modo diverso di usarle rispetto al metterle sulla pagina di un libro?
Le parole che incollo non sono mie, le trovo in riviste, spartiti e vecchi libri, tuttavia sono io ad isolarle, perciò mi riguardano intimamente. Nelle frasi dei collages c’è un tono più estemporaneo o ironico, come fosse un lungo discorso intimo che ogni tanto interrompo, alzando la testa dai ritagli e dicendo a voce alta una frasetta o due.

In ognuno di questi collages risalta un certo senso del colore, che emerge con una propria forza e forma narrativa….
Quelli che tu hai scelto fanno parte di cicli diversi. Lavoro da sempre per “serie” e ognuna di queste risponde a regole interne e differenti che mi do di volta in volta e alle quali mi obbligo per non annoiarmi, così il gioco diventa formula e viceversa: inserire danzatori all’interno di quadri o sculture, associare su carta ingiallita figure fotografate molti decenni prima a frasi brevi di vecchi libri, accostare visi a pezzi minuscoli di mappe/quadri/righi musicali, popolare collinette fatte di parole, tagliare immagini di fotografi e ricomporle in un altro ordine, e così via.

Protagonisti di questa selezione sono la danza e uno sguardo al passato che emerge dalla scelta delle figure che sono la presenza umana. Cosa anima questa tua scelta?
La danza è una passione che ho coltivato fin da bambina ed è anche un lavoro che avrei voluto fare, perciò ricorre sia nei collages che in poesia. Per i ritagli rovisto tra le foto del passato prossimo o più remoto, cercando di sottrarre il primato all’attualità, che invecchia immediatamente e con cui sono spesso a disagio.

 

L’autrice:
Nicoletta Bidoia ha pubblicato i libri di poesia “Alla fontana che dà albe” (Lietocolle, 2002), “Verso il tuo nome” (Lietocolle, 2005), “L’obbedienza” (Lietocolle, 2008), “Come i coralli” (La Vita Felice, 2014) e “Scena muta” (Ronzani, 2020 – Finalista ai Premi Tirinnanzi, Montano e Gozzano).
Nel 2013 è uscito il libro di narrativa “Vivi. Ultime notizie di Luciano D.” (La Gru) e nel 2021 il libro fotografico di collages “Veramente?” (La Gru).
Ha ideato e realizzato gli spettacoli “Un piccolo miracolo”, insieme alla cantautrice Laura Mars Rebuttini, e “Sotto terra sopra un prato”, col cantautore Gerardo Pozzi.

 

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Livio Caruso.

 

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Fare Voci. Contrassegna il permalink.