Alle porte dell’estate il nuovo numero
di “Fare Voci” si presenta con un’altra
serie di autori e scritture, capaci di raccontare
il nostro tempo e la nostra società.
A partire dalla voce d’autore di Patrick Williamson
e la sua raccolta poetica “Traversi”, pagine intense
dove i migranti e i più deboli sono il centro della
sua e nostra attenzione; Rita Gusso con “In-canto”
ci porta nella Caorle del suo dialetto e della memoria;
Federico Zucchi con “Il varco umano” esplora il
quotidiano dove la vita si porta a contatto con l’urto;
e Maria Stefania Cardinali con “Emozioni Versi e Racconti”
ci dice della finitezza di ognuno di noi, della trasparenza
che aspetta ogni vita.
Con “Attraversamenti” si può entrare nel mondo della
poesia croata, grazie ad Alessandro Salvi che in questo
numero e in prima traduzione italiana ci presenta
lo scrivere di Josip Sever.
Il tempo presente è narrato dai quattro testi inediti
di Roberto Lamantea e dal racconto “In viaggio”
di Rita Manzara.
Le immagini sono di Roberto Pagnani, qui presente
con otto suoi quadri.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail: farevoci@gmail.com)
Immagini ————————
Nella stessa direzione
di Roberto Pagnani
(2019 smalti e tempere su tela cm 30×40)
Voce d’autore ———————-
La traccia che lasciamo
Patrick Williamson, “Traversi”
di Giovanni Fierro
Queste sono pagine intense, che si muovono in uno scrivere quasi gestuale, come a far trovare alla parola il suo essere, il suo innervato significato e senso.
Perchè Patrick Williamson nella sua raccolta “Traversi” (con le traduzioni dall’inglese all’italiano a cura di Guido Cupani) ci racconta di chi fugge, di chi a casa propria non può stare, di chi il proprio pane quotidiano lo può solo chiamare speranza. Senza mai una vera certezza.
E quindi la sua poesia è l’occasione per affrontare il dramma dei migranti, con l‘esile sicurezza di ogni persona che affida la propria vita ad una possibilità di riscatto, di liberazione.
Lo scrivere di Patrick Williamson è denuncia, è poesia che si fa esperienza, si trasforma in una memoria sensoriale. Per tutti.
Gli scritti di “Traversi” sono poesie di conflitto vissuto, in questi suoi passi c’è l’attrito che i più deboli subiscono, nel loro sempre più arduo sopravvivere.
Sì, qui la “barca” è destino e condanna, è il palco della drammaticità della società, dove trovano posto gli esclusi e i sofferenti, con la stessa intensità dello spavento che si ha da bambini, di fronte alla paura.
Ed è prezioso il modo in cui sottolinea il ruolo del poeta nel fare questo.
“Traversi” è una vicinanza con il tempo e la società, un’appartenenza e non una lontananza.
E questo scrivere è il passaggio necessario, quello che trova forma “dall’acqua alla luce”, per dire dei “chiusi fuori”, dei non voluti e degli invisibili. Anche perché i prossimi potremmo essere noi.
Queste poesie non sono né un’omelia, né una preghiera è né un salmo, ma invece una lucida attestazione per dire da quale parte volere stare, un chiaro e netto schierarsi.
Perché poi l’epicentro di questo raccontare è anche, inevitabilmente, il naufragio, che è anche il nostro, come società e come singoli individui. Sempre e comunque.
E tutto questo impegno, questa attenzione ed empatia, è un lavoro significativo, per affrontare il nostro presente e rimboccarci le maniche, per “lasciarci la bruttezza alle spalle”.
Dal libro:
Capanno
Apri, l’aria mi rinfresca il collo,
sbuccia le tenebre, tira giù
la vecchia falce. Giornali umidi.
Ecco il fardello. Bruciali.
Paraocchi, briglie, levali
dall’uncino. Queste scatole,
gialle di pietra in briciole,
si sfasciano ai lati. Fumo.
L’orologio ha battuto l’ultimo colpo,
ma i ferri tintinnano ancora, guarda,
attraverso un vetro, oscuro, amore,
in volute, più acre. Liberatene.
Emergi nel sole. Strizza gli occhi.
Te ne stai lì, un fruscìo mentre i brani
scorrono a caso, accendi una sigaretta,
le mani spalancate. Invitami.
La notte delle zattere
La terra viva,
vorticano i continenti nella notte
lunghe scie di vapore
tracce livide, lamento sussurrato
labbra in preghiera, maledicono
l’idiozia, rimpianto e speranza
che il tormento esala
s’attenua fino al prossimo
passare misterioso
accentua il silenzio
passeggeri solitari
rivoli di sudore
imbevono le angosciate
forme innescate
spazzate da un interruttore,
intensità, illuminazione
tenetevi forte
affrettatevi
dall’acqua
alla luce.
Sempre avanti
Me l’avevi detto che la vita è barca affollata
di affetti voci alla deriva che si fanno
lontane sopra il campo di onde amare,
lasciami scavalcare il mondo, stare in piedi
davanti alla barriera, assaporare
giorni da estendere al di fuori della pena,
ma lo scafo affollato si rovescia, di nuovo
nell’acqua fonda, mentre scriviamo di naufragio,
parole mozze che ritornano alla riva,
fà aspettare le ore, trattienile quel poco
ancora, queste preziose vite
mentre suona l’ora oscura, questo palpito
silente a cavalcare un’onda d’aria che
si scuote, questo battito che presto finirà.
La traccia che lasciamo
La parola sulla pagina è intonsa
e la scrittura è la colla,
solo i replicanti suturano gli squarcia perfezione
così non resta traccia;
noi una traccia la lasciamo sempre,
un’identità sulle nuvole, ritratto con Gray,
ideale per lasciarci la bruttezza alle spalle.
Questi discutono di noi stessi, questa vita
che ci tiene legati è un bel casino;
predatori o stelle, saliamo e discendiamo
la diritta via smarrita per sempre,
e quando la selva oscura ci circonda
lasciamo dietro a noi strappi di tela,
su, fà poesia di questa nostra vita, sulla pagina.
Intervista a Patrick Williamson:
In che modo è nato questo libro, e quali sono le sue radici?
Le principali poesie del libro sono state scritte come un’espressione di rabbia, mescolata a compassione e a un senso di impotenza, quando mi sono trovato di fronte a ciò che succedeva nel 2014, ovvero il conflitto contro l’Isis e il suo califfato, la questione di Gaza e dei migranti, che sfortunatamente sono ancora le notizie principali.
Fino ad alloro il mio lavoro era stato piuttosto lirico, ma ho sentito e capito che la mia poesia avrebbe dovuto diventare più impegnata, almeno dal mio punto di vista privilegiato (dove come scrive Guido Cupani nella sua ‘Sonata per Gaza’, “si sta comodi sul divano occidental-orientale col nostro corruccio auto-assolutorio smagliante“) , e rispondere ai conflitti che succedono nel mondo, e alle loro conseguenze.
Proprio come una forma di solidarietà, e per poter esprimere speranza.
E per lasciare il mio segno, per quanto piccolo possa essere (ispirato dal sito ‘I am not a Silent Poet’).
C’è una lunga tradizione di impegno nella poesia, non solo nel Regno Unito, e questo mettere a fuoco è molto più necessario, ora.
Alcuni scrittori prendono posizioni politiche, ma io volevo evitare di farlo in questo contesto. La sfida era di non finire con lo sputare invettive e contemporaneamente essere sdolcinato.
Alcune poesie che non sono state incluse, sono poi finite nell’e-book “Odds & Sods”; come parte della mia intenzione di riflettere sulla vita dei reietti, e come gesto votato al bene comune.
Sembra che queste poesie parlino di un conflitto di sofferenza, di un attrito del vivere. Può essere così?
Sì, lo è. Ci sono così tante persone che sopportano conflitti che non hanno creato, e di cui non conoscono neanche le cause.
Devono solo sopravvivere, o stando dove sono e senza possibilità di fuggire, come a Gaza o in Siria, oppure fuggendo con ogni mezzo possibile verso un ‘dove’ poter credere ad una vita migliore, per se stessi e per i propri figli.
In “May you bury me/ Che tu possa seppellirmi”, ad esempio, provo a riflettere sul conflitto dal punto di vista di una persona; è la sua terra natale e andarsene via significa perdere tutto ciò per cui ha vissuto e riconoscere la sconfitta, che è un qualcosa di insostenibile.
Queste vite, in tutti i casi, sono in mano alla misericordia degli altri.
Sono sradicate, in lotta, è un attrito del vivere, come dici tu.
Il conflitto in tutte le sue forme, che sia la guerra o l’abuso domestico, stanca lo spirito, quindi parliamo dell’essere ‘abbattuti’, ‘schiacciati’.
Anche quando riescono a fuggire dal conflitto, la vita degli apolidi è sminuita dall’esilio o dallo stress post-traumatico, ad esempio
Questo è il perché ho scritto queste poesie con l’intenzione di includere un elemento di speranza tra tutta questa sofferenza; se troppo tetra, la vita è insopportabile.
“Dum spiro, spero”, oppure “mentre respiro, spero”. Una delle forze della poesia è quella di essere un medium per esprimere tutto questo.
La ‘barca’, in questi testi, è reale ma è anche un simbolo. Parla anche della nostra vita di ogni giorno? E anche il naufragio è protagonista; anche questo è nostro? E se sì, in che modo?
La barca è certamente reale, come l’origine di molte poesie (“Crossings/Traversi”, “No turning back/ Sempre avanti”), e simbolica come il dire “siamo tutti nella stessa barca”.
Le barche sono raramente l’impresa di singole persone.
Le barche sono il simbolo della nostra audacia, del nostro orgoglio (pensa al Titanic), del nostro coraggio (gli yachts da oceano…), e anche della disperazione (migranti sui canotti, contrabbandieri che vendono barche per niente sicure…).
In tutti questi casi, le barche rappresentano il veicolo, il mezzo per i viaggi che facciamo, anche quelli carichi di pericolo.
Tutto questo porta alla mente un film come “Prigionieri dell’oceano” di Alfred Hitchcock, che ben rappresenta un microcosmo del genere umano.
L’immagine del naufragio agisce e funge da avvertimento, dice che ogni avventura è pericolosa.
Rappresenta il fatto che, come le barche, anche la vita potrebbe ‘ribaltarsi’ in qualsiasi momento, nulla è garantito.
Però c’è sempre della speranza; in “No turning back” ‘le parole spezzate’ ancora ‘ritornano alla riva’.
Siamo tutti in un viaggio, e le immagini che propongo e presento, rappresentano possibili soluzioni, per fuggire e trovare rimedi ai conflitti; e anche la fuga come modo per evitare il conflitto, e per ricominciare da capo.
Il mio intento è di mostrare che c’è una via da seguire, anche se è disseminata di ostacoli.
Il libro è un modo per stare con le persone deboli, quelle fragili. Scrivere poesia è anche un modo per prendere posizione? Per dire da che parte stai, e con chi?
Si, e non sono da solo nello scrivere e nel fare, da questo punto di vista e su questi argomenti. Uno degli scopi fondamentali della poesia è dare voce a chi si esprime con difficoltà e a chi sta ai margini della società, così il mondo può ascoltare le loro storie e magari avere una reazione.
Questo in particolare è stato il caso della corrente crisi dei migranti giunta al suo culmine, e creando progetti di antologie dove i proventi delle vendite sono andati a realtà come “Persona Non Grata” o “A Scream of Many Colours”, che si occupano di migrazione.
Questa è poesia dove il poeta ha preso posizione per uno scopo ‘sociale’, contro l’ingiustizia.
In senso ampio, scrivere poesia è sempre un prendere posizione, così come la poesia è un modo per riaffermare l’umanità e la vita di fronte alle avversità, è dire di celebrare e amare, e comportarsi per come si vuole avvicinare le persone, e aiutare ed incoraggiare.
In una poesia hai scritto “lasciarci la bruttezza dietro”; è un desiderio, una possibilità, una promessa?
Penso desiderio ed aspirazione… Tutti noi vogliamo lasciare una traccia, e che sia bellissima e pulita il più possibile, così che la prossima generazione possa essere ispirata a fare lo stesso, oppure invece avere una tabula rasa da cui partire.
Però, questo ideale, deve essere temperato con la realtà per poterla presentare, e non essere all’acqua di rose.
Il poeta britannico Peter Reading, per esempio scrisse in modo esplicito a proposito del cancro, e Helen Dunmore scrisse della sua morte che stava arrivando; loro non si sono fatti intimidire dalla ‘bruttezza’, non hanno esitato a mostrarla come una parte essenziale del vivere.
Essere veritieri conta, lasciare una storia ‘sbiancata’, invece, non dà benifici.
Il movimento #Me Too e il revisionismo di eroi del passato spesso rivelano un lato meno appetibile di una persona, che solleva la domanda se la persona è ricordata più per il suo lavoro e la sua arte che per i suoi lati negativi….
Inoltre la memoria è selettiva, e tiene a sé solo quello che le piace e non ciò che è dannoso o traumatizzante, perché questo diventa un qualcosa di troppo a cui far fronte.
In queste mie poesie sono stato guidato da due idee. La prima è l’osservazione alla fine del libro di Pasternak/Dottor Zivago in cui si dice che le due cose che rimangono di noi, quando non ci siamo più, sono i nostri bambini e le nostre poesie; la seconda, e la raccolta era all’inizio intitolata “The trace we have to leave behind”, il fatto che la traccia che dovremmo lasciare della nostra vita è quella che può mostrare che è stata una vita vissuta nel modo giusto, e non disperata.
A questo ci possiamo avvicinare, con il creare una onesta raffigurazione che può servire ad informare qual è il nostro vero io.
L’autore:
Patrick Williamson abita vicino a Parigi. È poeta e traduttore letterario, e ha pubblicato una dozzina di opere. Le sue ultime raccolte sono “Beneficato” (inglese-italiano, Samuele Editore, 2015), “Tiens ta langue/Hold your tongue” (Harmattan, 2014), “Gifted” (Corrupt Press, 2014), e “Nel Santuario” (Samuele Editore, 2013; Menzione speciale della Giuria del XV Concorso Guido Gozzano, 2014).
Ha curato e tradotto “The Parley Tree, An Anthology of Poets from French-speaking Africa and the Arab World” (Arc Publications, 2012), e ha tradotto fra gli altri Tahar Bekri, Gilles Cyr, Guido Cupani and Erri de Luca.
È membro fondatore dell’agenzia transnazionale Linguafranca.
(Patrick Williamson “Traversi” Samuele editore, pp. 65, 12 euro, 2018)
Immagini ————————
Il pino di George Gordon Byron
di Roberto Pagnani
(2019 smalti e tempere su tela cm 40×40)
Tempo presente ——————–
Petali uno a uno
Quattro inediti
di Roberto Lamantea
è un cucciolo, la notte
beve latte di nebbia
va nei sentieri
tra gli orti
spia i gelsomini
le nozze tra i gelsi
è un viandante la notte
la luna zoppa
cade sul sentiero
10.12.2014 ore 2.15
*
notte svelle del nido
la cicatrice
notte dalle dita di cedro
che all’alba sanguina
di piccoli fiori
snuda notte snìdia
in gola sforata
notte senza labbra vento senza labbra
notte sgozzata
appesa a morire
al gancio della memoria
notte senza dita senza teschio
che nessuno guarda
che nessuno ama
notte che nessuno
vede
fuggire
11.1.2015 ore 16.08
*
De profundis clamavi ad te, Domine.
De profundis clamavi.
Ma il gridare cos’è?
Da quale ovunque si stempia
a invocarti, Signore,
da quale vocativo invocazione vocazione
è la tua terra che mani e tempo
invocano a scavare
Tu, Domine, tu, Angelo
di terra e vento
di terra e vetro
ti chiamavo, Signore, dalla catena
delle notti e delle sillabe
a te vocato, da te invocato
a cercarti
in ogni occhio strappato
ogni urlo senza voce
nel cielo cieco
nei silenzi dei santi
De profundis clamavi
ad te. Solum.
2.5.2016 ore 23.20
*
Mai una primavera come questa
è venuta sul mondo
con i suoi agnelli
sgozzati appesi a dissanguare
a gocce lente, i bambini
impalati tra il grido
delle madri e il ghigno
veloce dei servi.
Petali uno a uno
martellati, prati
scuoiati, ghigni
imbellettati.
È una bella primavera
questa, nera
come una cassa di preghiere
vomitata dal cielo.
7.5.2018 ore 21.15
Note:
“De profundis” – “dal profondo” [dell’abisso] – è l’inizio del Salmo 129 secondo la traduzione in lingua latina della Vulgata.
“Mai una primavera come questa è venuta sul mondo” è di Franco Fortini, “Vice veris” dalla sezione “Elegie” di Foglio di via (1946; 1967).
L’autore:
Roberto Lamantea è nato a Padova nel 1955, ha trascorso infanzia e adolescenza tra il Friuli Venezia Giulia, la Liguria e il Lago Maggiore.
Vive a Mirano. È giornalista, critico letterario e di danza. Dal 1989 è redattore della “Nuova di Venezia e Mestre”.
Ha pubblicato diverse raccolte poetiche, la più recente è ”Delle vocali l’azzurrità”, edita da Manni, nel 2013.
Immagini ————————
Viola riposa
di Roberto Pagnani
(2018 smalti e tempere su tela cm 25×30)
Voce d’autore ———————–
Ghe xe chi che abita e chi che passa
Rita Gusso, “In-canto”
di Giovanni Fierro
Un microcosmo che diventa respiro ampio e profondo. Uno sguardo sul particolare che trova la pagina della poesia. Raccontare la Caorle dagli anni cinquanta ai settanta, e creare un confronto con il nostro presente.
La Caorle di chi ci è nato e vissuto, e la Caorle dei turisti, del mare.
Rita Gusso in questo suo volume “In-canto” con sapiente empatia mette in scena tutto questo, crea una rappresentazione necessaria, dove il suo sguardo si posa su persone ed abitudini, sorprese ed inganni.
La prima parte del libro è proprio questo ricreare la memoria, rimetterla al centro dell’attenzione; portare Caorle, e ancor più lo spazio cittadino del Campo IV, al centro dell’attenzione, con l’uso del dialetto caorlotto come strumento di indagine e scoperta, di intonazione e creazione.
Così c’è tutta una geografia anche temporale da misurare, perché “Basta pochi chiometri a far distansa” e “no’ se pol più esistar in un soo posto”.
Rita Gusso poi nella seconda parte vive l’oggi, con i suoi protagonisti chiamati per nome e cognome, e fa del libro una raccolta di atmosfere e fascinazione, ma anche di pericolo avvertito e vissuto, in un continuo ‘sentire’ l’aria che si respira e il suolo che si cammina.
Anche solo per parlare di “Stea de carta veina/ siera de paja/ rissoi de vero (Stella di carta velina/ cera di paglia/ riccioli di vetro)”, e di come “tra i scafai del vecio Stefano/ se ingruma oci e fantasie (tra gli scaffali del vecchio Stefano/ si raggrumano occhi e fantasie)”.
E in questo ambiente così ben tratteggiato, nel suo perimetro che è più emozionale che metrico, si affacciano le fragilità di ognuno, le debolezze innervate e il fare sofferente che la vita innesca.
“In-canto” le cose le dice, non fa sconti, ma sempre con una grazia espressiva che sorprende e toglie il fiato nella sua semplicità, così potente e sempre sincera.
E fra i muri di Caorle riaffiorano memorie di guerra, si fa sempre più spazio il costo della casa ai giorni nostri, il costo della vita di ora. E questi uomini e donne si inventano così l’unico talento necessario, l’arrangiarsi per sopravvivere.
Pagina dopo pagina si arriva poi al finale, dove l’autrice porta all’attenzione del lettore ciò che rimane di tutto questo, ciò che non sarà più sanabile, ma anche ogni piccola epifania che può solo essere fatta di petali e del proprio sbocciare.
Perché sì, succede ancora, “l’aqua selvadega bate el tenpo/ sgiossando arzento (l’acqua selvaggia batte il tempo/ gocciando argento)”.
Dal libro:
Ghe xe quei che i va in girondòn
co’a poesia in scarsea
e i trasforma el viver co’e so vision.
‘A realtà
‘na question de viste
el passaggio de omini che
se inventa cità paesi, paroe
spartendose ‘na identità
Ci sono quelli che vanno in giro/ con la poesia in tasca/ e trasformano il vivere con le loro visioni./ La realtà/ una questione di vedute/ il passaggio di uomini che/ si inventano città paesi, parole/ condividendo una identità
Tuto core drio el finestrin
alberi case marciàpie, zente,
perché no’i ‘o ga dito
che el mondo sarìa spario?
Drio el canton se ga cucià ‘na toseta,
no’a canta più ‘a ga i zenoci scussai
i pie che se spea
un fior scavessà ne’a testa
Anca ea ‘a gavarà avùo i ani
che gavevo mi quando gero picòa
quando ‘a xe ‘ndada in n’altro posto,
i ani che no’i vedeva ‘ora de esser grandi
par esser seri e gaver ‘e robe,
restae inpetae a ciamarle par nome
Tutto corre dietro il finestrino/ alberi case marciapiedi, gente/ perché non l’hanno detto/ che il mondo sarebbe scomparso?/ Dietro l’angolo si è accucciata una ragazzina,/ non canta più ha le ginocchia sbucciate/ i piedi che si spellano/ un fiore spezzato nella testa// Anche lei avrà avuto gli anni/ che avevo io quando ero piccola/ quando è andata in un altro luogo,/ gli anni che non vedevano l’ora di essere adulti/ per essere seri ed avere le cose,/ rimaste appiccicate a chiamarle per nome
Ghe xe chi che abita e chi che passa
chi xe vento sbiro e chi fa piera:
qualche patchwork ne’a vaisa
par imbeetar el muro
el mar el vien de matina
col biscoto de cafelate
dentro un quadretin
sensa gnanca ‘a spussa de freschin
Ci sono quelli che abitano e quelli che passano/ chi è vento scaltro e chi fa pietra:// qualche patchwork nella valigia/ per imbellettare il muro/ il mare viene di mattina/ con il biscotto del caffelatte/ dentro un quadrettino/ senza neppure la puzza di pesce vecchio
‘E robe de quei che non ghe xe più
‘e sopravive, ‘e ne parla,
go ancora ‘e piante grasse de me mare
‘e continua a far fioi,
‘na mamìaria fa un fioron roseta
dura soo un zorno.
Le cose di quelli che non ci sono più/ sopravvivono, ci parlano,/ ho ancora le piante grasse di mia madre/ continuano a fare figli,/ una mammillaria fa un grande fiore rosa pallido/ dura solo un giorno.
Intervista a Rita Gusso:
All’inizio, il testo di pagina 9 (il primo dei testi qui sopra proposti) è una dichiarazione di appartenenza alla poesia?
Può essere. Le capacità e gli strumenti che si hanno non credo bastino per fare poesia. Ci sono diversi componenti che ci spingono a scrivere. Tra cui la sensibilità nel cogliere la realtà e interpretarla.
Molte cose sfuggono in questa società consumistica. Non abbiamo tempo per fermarci a cogliere certe bellezze che ci appartengono. Anche se penso che ogni persona abbia dentro la poesia e che debba solamente imparare a conoscerla, mi rendo conto che nella nostra cecità o di converso nell’opportunismo distruggiamo il nostro ambiente.
Per fare un esempio pratico: un giorno ho bloccato l’auto in mezzo alla strada correndo il rischio di farmi tamponare perché sono rimasta incantata dal ciliegio fiorito che usciva dalle vecchie mura delle ex carceri di San Vito. C’era una bella luce e quel bianco leggermente rosato dei fiori contrastava sul grigio delle carceri, era di una bellezza, per me, strepitosa.
Purtroppo ha dovuto soccombere alla logica delle ristrutturazioni. Ora le vecchie carceri sono diventate la casa della poesia. C’è dell’ironia in tutto questo non trovi? Si distrugge la poesia per farle una casa. Rispecchia abbastanza la cultura odierna. Cerchiamo di impossessarsi delle cose che ci piacciono e vogliamo che rimangono sempre così. Un museo in cui racchiuderle.
Personalmente mi sento parte della poesia, fa parte di me e anche se la vita mi trascina altrove, questo modo di interpretare l’attorno continua ad emergere.
“In-canto” è anche un libro che mette a confronto un passato, gli anni 50/70, con il nostro presente. Quale la necessità, o il desiderio, di fare questo?
Nella mia visione ho ripopolato il paese con quelle persone. Gli spazi sono stati rioccupati. Occupavamo quello spazio, in quel tempo, con quei ruoli ed ho voluto portare ad oggi quella dignità e quel semplice, ma denso, significato delle loro vite.
Ora tutto passa veloce, fagocitato nella legge dei grandi numeri, c’è bisogno di un processo identitario per riprendere in mano ciò che siamo e la nostra generazione ha il dovere di portare questa memoria.
Erano periodi in cui lo spreco non si sapeva cosa fosse. In neppure cinquant’anni dobbiamo fare i conti con isole di plastica che inquinano i mari e uccidono gli animali e gli ambienti.
Le condizioni abitative in quello che adesso è un bel centro storico erano miserevoli, ed il riciclo era implicito. Non era necessario insegnarlo. Era una situazione generalizzata dalla depressione economica post-guerra, e da cui questa gente ha saputo risollevarsi inventandosi delle attività di servizio ai primi turisti che arrivavano.
L’accettazione delle diversità era implicita. Ora c’è sempre più paura e chiediamo sempre più regole che ci soffocano. Eravamo bambini che si confrontavano quotidianamente con i pericoli e imparavamo ad affrontarli.
Penso che i ragazzi di oggi abbiano paure e ansie legate al senso delle loro vite, a richieste performative sempre più alte. Impreparati ad affrontare una realtà materiale. Noi viviamo del tempo, le nuove generazioni vivono nel tempo velocizzato, la comunicazione tra le due generazioni si è interrotta, manca il senso della propria vita, l’importanza della propria esistenza. Sembra che la realizzazione personale sia avulsa da tutti gli altri. Emerge solo ciò che passa attraverso i cinque sensi. Una richiesta sociale improntata sulla performance, molto difficile da vivere. Anche la dimensione trascendente sembra scomparsa, lo trovo drammatico.
Non c’è un richiamo oltre il presente attuale, il dolore, la paura e l’ansia che provano i ragazzi non viene espressa, non hanno molta possibilità di confronto e di comprendere le loro emozioni.
Lo sguardo che usi nella narrazione di Carole, e in particolar modo di Campo IV Novembre, coglie l’esistenza di persone fragili, con diverse criticità e problematiche, con un vissuto difficile. Perché questa scelta?
Penso che in qualsiasi epoca gli esseri umani siano precari nelle loro vite, tutto cambia e desideravo parlare di loro senza rimanere lì. La memoria è un diritto, senza di essa non siamo nulla, nessun metro di misura per filtrare le nostre vite e poter dire. Volevo dare voce agli ultimi di cui anche io facevo parte, senza però quel sentimento del tempo che ci lega alla nostalgia di un passato poco reale, deformato dal tempo stesso.
Per questo nel libro non ho quasi usato l’imperfetto o il passato prossimo. Ho preferito usare il presente. Come se le cose accadessero in questi anni. Quei valori che erano presenti in quella gente non possono essere scomparsi, ce li portiamo dentro anche se la realtà di oggi è proprio un’altra dimensione.
Oggi abbiamo quanto mai bisogno di quei valori, anche se mi rendo conto che avrebbero più una funzione di ammortizzatore sociale. Forse desideravo che quelle esperienze fossero più un esempio. È grazie a queste persone che oggi stiamo meglio. Questa gente ha lavorato sodo per dare maggiore possibilità ai loro figli. Nel bene e nel male la vita di oggi è più agiata, la maggior parte delle persone citate sono ancora viventi, non vivono più in quella realtà neppure loro, si sono trasferiti dal centro storico, sistemare quelle case diventava troppo oneroso, una questione che riguarda un po’ tutti i centri storici d’Italia, ma sono convinta che come me anche loro se lo portano dentro. Come sosteneva il grande Bernardo Bertolucci l’infanzia ci rimane incollata addosso come il fango sugli stivali dei cacciatori, ognuno con i suoi mezzi ne è il testimone nella propria vita.
Le poesie di pagina 50 e 51 le ho trovate eccezionali, nella loro vibrante semplicità raccontano cosa rimane, cosa ancora si offre alla vita…. È quello che deve fare anche la poesia?
Come dicevo prima, tutto trascorre, si ripete e si trasforma. Anche il vecchio ciliegio se n’è andato, è rimasto però dentro l’anima delle persone che hanno saputo coglierlo, quella bellezza non potrà mai essere cancellata e in questo senso non è mai morto perché continuerà a vivere nella manifestazione delle loro vite. Non si sa perché si scriva poesia, accade, lei avviene, per quanto la parola abbia dei limiti e non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, il bisogno di pace e di armonia è in tutti noi.
La memoria del bene ci spinge a proporlo, costruirlo. Ho letto da qualche parte che nelle memorie depositate gli episodi felici rimangono impressi in misura maggiore di quelli infelici e dolorosi.
Però la cultura viene trasformata in merce: i mass media stessi sono diventati un prodotto di mercato, dai quali invece ci si aspetta la diffusione di una cultura funzionale agli imperativi di mercato.
I nuovi miti sono il concetto di utilità, crescita illimitata, razionalità del progresso. Principi che si sono già rivelati fallimentari in quanto ecologicamente insostenibili. La poesia, secondo me, ha la potenzialità di collegarsi con spazi interiori ai quali necessita il silenzio. Staccare la spina dall’ininterrotto vociferare sociale, sviluppa il pensiero critico, in un certo senso ha un potere di trasmigrazione e trasmutazione.
Alcuni giorni fa sono andata a visitare il giardino di un’amica, mi sono accorta che non è un giardino, ma un parco di 16.000 ha, incredibile, pieno di alberi, fiori, fontane. Lei ha provato più volte il dolore della perdita, della malattia ed ha trasformato i suoi lutti in un giardino che è un tripudio alla vita e che apre a tutti. Per me la poesia ha questa capacità. Un modo per raccontare il bello in cui ci possiamo riconoscere e di cui abbiamo tanto bisogno.
La scrittura in “In-canto” è allo stesso tempo capace di trasparenze e di forte corposità, in che modo hai intrecciato questi due differenti tono espressivi?
In realtà accade senza che me ne accorga. Credo abbia a che fare con la nostra storia.
Siamo fragili, in una realtà difficile, seppur in modo diverso, ora come allora, e ascoltare e rispettare i nostri stati interiori è fondamentale per viaggiare correttamente con ciò che siamo. E’ una posta difficile perché la realtà odierna propone merce per ogni tipo di esigenza. Io sto ristrutturando casa internamente. Esternamente non si vede nulla. Eppure ho trovato sulla cassetta delle lettere volantini con pubblicità di artigiani e imprese edili. Possiamo dirci felici per questa facilità di reperire ciò che ci occorre?
Nella società Orwelliana il pensiero non conforme non è accettato. Alcuni aspetti della realtà, seppur piccoli e fragili, possono essere non contemplati nella legge dei grandi numeri e può essere necessaria la forza interiore per proteggerli e farli comprendere da una società che non li vede.
La forza viene dalle verità che si sono vissute. Ho imparato a vivere con l’essenziale, a gustare quello che ci viene dato, non credo si possa essere diversi dalla nostra storia.
E c’è poi l’attrito che si vive leggendo della Caorle di chi ci è nato e vissuto e quella dei turisti… che attrito è?
Si potrebbe dire conflittuale, ma non è proprio un rifiuto. D’estate il paese si trasformava completamente, luci, giochi, spiagge e mare. Era una festa perpetua, ma non reale. Tutta quella gente che arrivava e invadeva i nostri spazi con il desiderio spensierato del vacanziere, era estranea, non sapeva nulla di quello che era invece il paese d’inverno, di chi era la gente che vi abitava. Non c’è relazione con le masse.
Ho fatto anche una piccola silloge dal titolo “Granchi” che parla di questo aspetto. Diverso era invece il rapporto dei turisti che si avevano in casa, in quel contesto esisteva il rapporto umano, non c’era pertanto quel senso di fastidio, tutt’altro, era qualcosa di concreto, vero.
Ora però è diverso, Caorle è turistica anche d’inverno, seppur con un turismo giornaliero, non residenziale.
Questo libro lo potevi scrivere solo in dialetto?
Sì, non aveva altre possibilità. Anche se è stato recensito come un libro dal taglio moderno descrive una realtà di paese. Certi vissuti si possono dire solo in dialetto, in lingua italiana non esistono, risulterebbero falsati, distanti.
L’autrice:
Rita Gusso è nata a Caorle nel 1956, vive a S. Vito al Tagliamento.
È autrice di opere in italiano e dialetto caorlotto. Pubblica in questo dialetto “Tata nana” (Campanotto, 2002) e “Gris de luna” (Campanotto, 2013), libro vincitore del primo premio nazionale “Salva la tua lingua locale” 2015.
Suoi testi si trovano in antologie e riviste letterarie. Collabora con la poesia a mostre d’arte di vario genere. Fa parte dal 1995 del gruppo di poesia Majakowskij, con cui ha pubblicato “Da un vint insoterat” (ed. Biblioteca dell’Immagine, 2000), “Par li’ zornadis di vint e di malstâ” (Samuele, 2016) e “Non ti scrivo da solo” (Samuele, 2017).
Collabora con la rivista “Caorle Mare Magazine”, dove cura una rubrica in dialetto. Vive a San Vito al Tagliamento (Pn).
(Rita Gusso “In-canto”, pp. 52, 9 euro, Il Convivio Editore 2018)
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Gli ultimi fiori vicino al mare V
di Roberto Pagnani
(2019 smalti e tempere su tela cm 30×35)
Attraversamenti ———————
Josip Sever
Una poesia
di Alessandro Salvi
(Attraversamenti: ovvero cinque poeti croati, tradotti e presentati uno per volta, in prima edizione italiana, da Alessandro Salvi. Prima puntata)
La massima di Josip Sever, poeta croato di culto, diceva “il suono detta il senso“.
Al suono dunque va la preferenza rispetto alla vista. Una poesia la sua, che muoveva dai presupposti sanciti dai futuristi russi, quali Chlebnikov e Kručënych, ma altresì influenzata dalla poesia cinese, assai nota a Sever.
Una poesia che potremmo definire a grandi linee postavanguardista, giunta a un punto di non ritorno, dove spiccano motivi cruciali del secolo più breve.
Un susseguirsi febbrile di immagini marcanti contraddistingue le sue folgoranti poesie, sprigionate da un lessico preciso e ricercatissimo.
di Josip Sever:
Svuci svoj pristojni izraz
da se rascvjeta
moja soba
tu u njoj tišina
stavila ruke pod glavu i spava
u ključevima vina
tutnji bijeli glas
vidiš li muhe na vampirima
što još preosta
od njihove vampirske krvi i kože?
vjetar u prozoru strši
crn i strašan
kao spaljeni vještac
Sfilati questa espressione educata
affinché sbocci
la mia stanza
qui dentro il silenzio
ha posto le mani sotto la guancia e dorme
nelle chiavi del vino
mugghia una voce bianca
le vedi le mosche sui vampiri
cosa resta
del loro sangue di vampiro e della loro pelle?
il vento nella finestra si sporge
nero ed orrido
come stregone arso sul rogo
Josip Sever (Blinjski Kut 1938 – Zagabria 1989) è stato un poeta e traduttore croato. Ha studiato a Zagabria lingua e letteratura russa, e a Pechino il cinese.
Fu amico del poeta futurista russo Aleksej Kručënych (1886-1968). In vita ha pubblicato due soli libri di versi: “Diktator” (Il dittatore) nel 1969 e “Anarhokor” (Anarcocoro) nel 1977.
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Dove vai
di Roberto Pagnani
(2019 smalti e tempere su tela cm 40×50)
Voce d’autore ————————-
Portate la vita a contatto con l’urto
Federico Zucchi, “Il varco umano”
di Salvatore Cutrupi
Nel nuovo libro di poesie di Federico Zucchi dal titolo “Il varco umano”, edito da LuoghInteriori e dato alle stampe nel febbraio scorso, sono stati inseriti anche alcuni inediti che avevamo commentato su Fare Voci all’inizio del 2018.
La prima poesia della raccolta dà il titolo al libro; una poesia che vuole essere un’apertura, una vicinanza, un segno quasi di fratellanza verso i dimenticati, verso chi è tristemente solo, verso chi vive ai margini della società:
Il varco umano
Sulle rotte meno battute
dispiega
le tue mappe ingiallite,
disponi
le tue vele sdrucite
alla rara potenza.
Staziona sulle banchine dei pendolari
sugli alisei smarriti delle mattine, perché
le sale d’aspetto sono state abbattute
i campi base abusati, i fiordi marini
colmati di pixel.
Sbarca sui ponteggi dei volti sconnessi
sull’asfalto bucato di una fossetta,
salpa incontro a chi resta in attesa
verso il fiume Zambesi che
scorgi dal tuo punto di vista.
Il varco umano
è il lampo che lega
divise odissee
per festeggiare il mistero
di non essere
soli.
Lo sguardo del poeta si posa e poi si sofferma sui più deboli anche nella poesia seguente, che evoca situazioni ancora oggi esistenti in vari contesti della nostra penisola.
È uno sguardo che sussurra, che scruta, ma che poi strilla bussando alla coscienza del lettore e chiamandolo alla riflessione.
Dieta mediterranea
Percuote il sole la pelle ai braccianti
imbastardisce le spalle, porta le ore a camuffarsi
l’una sull’altra, come esistenze uscite sfuocate.
Sulla corteccia dell’alba corpi d’ebano celeste
si schiacciano sui pomodori, costretti a cottimo
per una paga che a stento riesce a coprire
un avanzo di pane e il nolo del letto.
Verso sera la luce declina nel ghetto
riverbera nei fuochi fatui dei rifiuti
scorta la transumanza delle braccia.
Il ghetto è tutto un fermento: fulgide cuoche
si stringono sulle misere piastre, nere schiene
si appoggiano all’acqua riempita, tutti
si mettono all’opera: i caporali e semplici
soldati, schiavi e periti della polvere, venditori
di polli e giocatori di dama dalle dita sottili
(…)
I versi di Federico Zucchi cercano anime differenti, anche se il tema dei deboli è quello che appare più spesso nel suo viaggio poetico.
I suoi versi sono diretti, direi essenziali. Quando si comincia a leggerli si desidera andare avanti fino alla fine, prendendosi tuttavia delle pause per pensare, ponderare, meditare.
Preferisco gli eroi stremati
Preferisco gli eroi stremati,
invecchiati male, con le labbra
schermite in sillabe asciutte,
murati in orti incassati o affacciati
sulla lingua di un porto scosceso
canticchiando canzoni stonate
al microfono della povera sera.
Preferisco gli eroi stremati
che si trascinano senza medaglie
e sono controvoglia portati
a fasciare le ferite degli altri
senza volere salvare nessuno.
Li trovi spesso da soli
privi di scorta imperiale
che si aggirano sul crinale più
esposto alla pubblica accusa
(…)
Non nascondere il morto
Al bambino fate vedere il morto
fategli baciare la fronte del nonno
cosi imbastardita di macchie ramate
da non sembrare nemmeno più il nonno.
Fategli controllare se nel taschino
della sua camicia azzurra persiste
l’incanto rupestre di una Rossana.
Portate la vita a contatto con l’urto
la ferita vicino al velo da sposa.
Vedere il primo morto
capire che la vita si disfa
e riappare nella lacrima
è come il primo
indugiare tremante
sul gancio di un reggiseno
(…)
In questa raccolta, composta da settantasei poesie non poteva mancare l’apertura del poeta al mondo dei suoi affetti, un’apertura che ha qualche rimpianto ma che è soprattutto permeata di gratitudine e ricca di amore.
Quando la poesia abbraccia gli affetti e gli affetti abbracciano la poesia nasce l’incanto e tutto fiorisce, tutto diventa ricordo, tenerezza, bellezza:
Zio Leo
(…)
E anche oggi che i polmoni stanno
annaspando e il corpo fatica
a salire una rampa di scale,
anche oggi che la broncoscopia
segnala i cosacchi nel tempio
e che la stanchezza corrompe
gli zigomi alteri,
anche oggi che sarebbe facile
perdere ogni riserbo e un certo
contegno di scarne parole,
lo zio conserva la sua distinzione
e tossendo risale la poca corrente,
senza pesare su chi resta a remare
nella sua scia da secolo scorso.
Nemmeno un saluto
Eri troppo vecchia per usare un computer
troppo sorda per sentire il telefono
troppo lontana per venirti a trovare.
Quando l’ho fatto non è bastato
salire le scale, trovare il tuo nome
e cognome sulla tessera del campanello.
Tu non c’eri e al tuo posto un uomo
con un bambino in braccio mi ha
indicato il cielo non sapendo in
che altro modo tradurre la morte
(…)
Intervista a Federico Zucchi:
Dal momento in cui hai scritto le poesie del tuo libro fino al giorno della loro pubblicazione sono passati più di due anni. Hai avuto bisogno di questo tempo per farle sedimentare, per rivederle, per riscoprirle oppure c’è stato qualche altro motivo?
In realtà nel libro ci sono poesie attempate e testi scritti negli ultimi mesi. Un po’ come quelle strane feste in cui si mischiano miracolosamente generazioni diverse e nonni e nipoti, ragazze e ragazzi, dolori e beatitudini, improbabili parenti venuti da lontano e vicini di casa mai visti, vivi e morti, finiscono per ballare insieme sulla riva di un pomeriggio. E finché la musica tiene, sussiste un insieme.
Direi che in parte è stata un’esigenza (lasciare intiepidire la lava e lavorare di scalpello), in parte una necessità, perché senza un editore interessato il libro non sarebbe nato.
Voglio farti una domanda prendendo spunto da questi versi della tua poesia “Questa terra amata”: “in questa terra/ si ride poco/ e si canta quel tanto/ per non prosciugare”.
Quanto è grande l’amore che nutri per la tua terra e quanto ti ritrovi in queste parole?
Amo molto la mia terra, così confinata, così scarcerata dal mare e dai valichi alpini.
Ci sono dei cieli, degli squarci che tolgono il fiato in cui sembra davvero che Oriente e Occidente, Meridione e Settentrione, Altezza e Orizzonte si uniscano insieme in una tensione.
Poi, certo, questa è anche terra di fatica, di parole povere, di silenzi morsicati nella sera. C’è una nobiltà contadina in tutto questo e c’è un’antica paura che il pane non sia abbastanza.
E quando si ha molta paura, il canto può diventare sconveniente.
Comunque, quando ero bambino, sentivo ancora cantare per strada, soprattutto nei giorni d’estate a casa di mia nonna, a Fiumicello.
Adesso mi sembra che il canto spontaneo si sia silenziato, ma questo è un problema generale dei nostri tempi elettrici e funzionali, che hanno in sospetto la vera allegria e la contemplazione.
“Il varco umano”. Perché hai scelto questo titolo?
Il varco umano è una breccia che si apre sulle facce indurite. È una possibilità di trovare ancora delle corrispondenze tra la linea di terra e lo sguardo del cielo.
Siamo mossi da fili sottilissimi e misteriosi che a volte brillano e a volte restano celati.
Sta a noi cercare delle porte, trovare dalle scale protese sul retro, sta a noi far parlare corpi lontanissimi e voci che parevano disperse. La nostra immaginazione rischia di comprimersi sempre più nel presente, senza varchi che non siano conformi.
Contro questo mondo che appiattisce e che livella, si muovono, in fondo, tutti i testi del libro.
Inciampano di continuo nel dolore, si fermano assorti, si tastano le ossa, si trovano un cuore.
Cosa ti prefiggi di raggiungere attraverso il tuo scrivere?
Mi piace cercare raccordi tra cose nascoste in bella vista. Scrivo per rimanere accanto a quanto amo e insieme mi sfugge. È una gioia solitaria, ma non isolata e sono contento se le mie parole incontrano dei lettori.
Nelle tue poesie, come in quelle di tanti altri autori, ci sono l’immaginazione e i momenti di vita reale.
È una cosa di cui hai piena coscienza nel momento stesso in cui scrivi, oppure tutto nasce spontaneamente, senza pensarci?
Credo che realtà e fantasia siano fatalmente intrecciate. La realtà nuda e cruda è solo un dato statistico. Quando ci sentiamo pienamente vivi siamo un bosco misterioso in cui realtà e fantasia si potenziano vicendevolmente.
Amiamo un corpo, una voce, una linea dei fianchi, un certo modo di versare il caffè nella tazzina. Ma nello stesso istante amiamo l’antilope nascosta in quei fianchi, nei capelli mossi dal vento rivediamo l’ondeggiare della betulla nel giardino dietro casa quando eravamo bambini.
Tutto è legato, segretamente connesso. In questo legame nasce la poesia che è sempre una dichiarazione di guerra contro la cattiva solitudine: siamo diversi, dissonanti, multiformi, ma persiste dentro ognuno di noi un nesso comune, una prima somiglianza.
La scrittura di un testo per me inizia da un’immagine, da un nucleo che quasi si impone. E poi viene il resto, l’impalcatura, il lavoro sporco sulle parole.
Quali caratteristiche deve possedere una poesia per essere considerata da te una “bella poesia”?
Deve strapparmi dal torpore e, in fondo, farmi amare di più la vita.
L’autore:
Federico Zucchi è nato a Gorizia nel 1979 e vive a Palmanova (Udine).
Lavora come insegnante di lettere alla scuola media.
Ha pubblicato nel febbraio del 2013 il libro di poesie “Nel mare non manca nessuno” (Edizioni Culturaglobale) e nel mese di ottobre del 2014 la raccolta ”Dinamo Isba” (Edizioni DivinaFollia).
Le sue poesie sono state premiate e segnalate in numerosi concorsi nazionali e internazionali.
(Federico Zucchi “Il varco umano”, pp. 114, euro 11, LuoghInteriori 2019)
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L’addio
di Roberto Pagnani
(2018 smalti e tempere su tela cm 70×50)
Voce d’autore ———————–
Di giorno in giorno
Maria Stefania Cardinali, “Emozioni Versi e Racconti”
di Ilaria Battista
C’è una dolce malinconia che accompagna il secondo libro di Maria Stefania Cardinali, “Emozioni Versi e Racconti”.
Lo si percepisce fin dalla copertina, in lontananza un gruppo di persone cammina su una spiaggia mentre le orme del mare sbiadiscono le loro orme.
Inoltrandosi con discrezione tra le parole di Maria Stefania sembra quasi di esserle accanto, mentre prova testardamente a spostare un cavalletto di legno scuro su cui riposa da troppo tempo una tela abbandonata.
Sembra quasi di sentirlo, l’odore di trementina che faceva compagnia all’intera famiglia, mentre il padre pittore ripuliva i pennelli che avevano restituito a genitori addolorati un bambino perduto.
I versi di Stefania sono un dono; mettendo a nudo il suo animo condivide con noi la fragilità di domande che non hanno mai risposta.
Che ne è stato del tempo perduto? Perché il mio sguardo non ha più la leggerezza di una volta? Come possiamo stare in equilibrio quando sono pochi i passi che ci rimangono?
Sono un dono anche le sue emozioni, di cui ci fa partecipi con delicatezza, rendendoci ospiti attenti a non essere troppo invadenti.
Nel suo scrivere ci sono la dolcezza di mani che si congiungono in un’ultima preghiera, il rimpianto di un amore che affonda come una barchetta di carta troppo bagnata, la paura di non sapere cosa ci sarà dopo, e la pesante consapevolezza che c’è già stato un prima.
Il tempo passa, lieve come un sospiro, una lacrima, un ricordo.
La poesia è già altrove, ma le parole di Maria Stefania rimangono qui.
A farci compagnia, riposte con cura tra le poche cose che hanno valore.
Dal libro:
Quando è morto mio padre
Quando è morto mio padre
disteso sul suo letto
aveva la dignità di un sovrano
nelle sue labbra serrate
le ultime dolci raccomandazioni
le palpebre celavano la mitezza
dei suoi sguardi sul mondo
le sue dita scure dal largo palmo
sembrava profumassero ancora
dei suoi tubetti di colore e di trementina.
Arrivò il prete.
Ci chiese perché non lo avevamo chiamato prima
per l’estrema unzione.
Mia madre gli aveva accarezzato la testa
sfiorando le dita tra i pochi capelli
insieme sottovoce
avevano recitato le loro preghiere.
Le margherite
Ero nel prato
coglievo le margherite
tante corolle bianche in un mare verde
con un mazzo tra le mani
guardavo lontano
la strada
attendevo lui.
Passò il trattore
sferragliando
tagliò tutta l’erba.
Mia madre
Il toc toc del bastone sulle piastrelle del pavimento
il suo ritmo lento, misurato, insicuro
per un attimo s’interrompe
poi, riprende
i suoi passi
mia madre.
Dal corridoio quel ticchettio
ecco lei appare
testa candida, spalle curve.
Ha paura di cadere
non guarda davanti a sé
è trattenuta ormai dal passato
inventa di giorno in giorno un equilibrio
per i passi che rimangono.
Gli occhi, malati, sono diventati più piccoli
le palpebre arrossate
tutto è sfuocato intorno a lei
poco più che ombre.
Ma la voce è sempre uguale
con quella nota di malinconia
presente anche nei ricordi sereni.
Si siede
allunga un braccio,
mi chiama
cerca la mia mano
la stringe
ci intendiamo senza parole.
“Facciamo una partita a carte
mamma”.
Intervista a Maria Stefania Cardinali:
Leggendo le tue parole si percepisce quasi un velo di dolce malinconia, come se sentissi la necessità di mettere su carta le tue emozioni, prima che la vita prenda in qualche modo il sopravvento e le modifichi completamente. È stata questa l’esigenza che ti ha spinto a scrivere?
L’esigenza di scrivere esiste comunque, ma a condizione che abbia qualcosa di autentico e pressante da dire, con le parole mi riprometto di essere sincera.
Penso che una nota di malinconia faccia parte della mia natura, forse è il fondale su cui sviluppo l’emozione del momento.
Mettendo a confronto il tuo libro precedente, “Per non tradire l’attesa”, e questo, partendo sia dal titolo che dalla copertina, mi pare che il tuo lavoro sia stato scritto in un momento particolare della tua vita, e che se l’avessi scritto solo qualche settimana prima, o dopo, sarebbe stato completamente diverso. È così o mi sbaglio?
Questa raccolta è in qualche modo una risposta in un momento particolare, è un aiuto, un supporto per sentirmi ancora capace di dire qualcosa di mio. Tra le tante cose in cui mi trovavo coinvolta, solo queste righe mi appartenevano veramente.
Tra tutto quello che hai scritto mi hanno colpito molto le parole che hai dedicato a tuo padre, e il pudore con cui hai parlato degli ultimi momenti che lui ha passato insieme a tua madre. Il pensiero della tua famiglia è stato una costante nel tuo approccio alla scrittura, o anche qui c’è stato un avvenimento particolare che ti ha portato a questi ricordi?
Non rispondevo a qualcosa di particolare, la mia famiglia è stata sempre il punto di forza, il sostegno sicuro in cui ritrovarmi e da cui attingere. Quando perdi in parte o completamente dei riferimenti importanti, cerchi di ricostruirli e ritrovarli nella scrittura, questa è la mia esperienza.
A me è parso di sentire, lungo tutte le parole del libro, quasi lo stupore del tempo che passa; come se questa consapevolezza ti fosse piombata addosso all’improvviso.
L’esigenza di trattenere in qualche modo i ricordi è nata così, oppure è sempre stata una parte del tuo scrivere?
La velocità del tempo che passa mi crea qualcosa di più che stupore, direi timore, timore che sbiadisca il mio passato con i ricordi, le emozioni, le esperienze, le relazioni e con esso la mia identità, tanti pezzetti di me saldati ad altri più recenti, bagaglio da portare per il futuro che mi rimane.
L’autrice:
Maria Stefania Cardinali è nata a Udine nel 1948.
Si è diplomata all’istituto magistrale, per poi iscriversi alla facoltà di pedagogia a Trieste,
senza però concludere la tesi. Ha lavorato per qualche anno in una compagnia di teatro
per spettacoli per bambini, e insegnato in una scuola dell’infanzia.
E’ stata collaboratrice della biblioteca di Cormòns, per alcune letture per bambini
nell’ambito della rassegna “Nati per leggere“.
Frequenta il corso di scrittura creativa all’Unitre di Cormòns.
La sua prima raccolta, “Per non tradire l’attesa“, è stata pubblicata nel 2016.
(Maria Stefania Cardinali “Emozioni Versi e Racconti” 2019)
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Albero della vita
di Roberto Pagnani
(2019 smalti e tempere su tela cm 20×20)
Tempo presente ————————
“In viaggio”
Un racconto
di Rita Manzara
Da tempo ormai sono in costante cammino mentre la stanchezza emerge sempre più profondamente dalle mie ossa.
– Viaggia con me – vorrei poter dire ancora a mia madre, prendendole la mano come nei suoi ultimi giorni.
Le parlavo senza sapere se lei percepisse le mie parole, sentendomi realmente in viaggio con lei per quella mano gonfia e dolorante trattenuta nella mia.
In quei momenti ero allucinata dall’ansia di strapparla al maleficio che l’aveva resa improvvisamente quieta, quasi sorridente per l’abbandono della vita.
Le raccontavo episodi della nostra storia a partire dalla prima vacanza, narrandole ricordi che possedevo soprattutto attraverso una lettera conosciuta a memoria …
– “Cara Mammula”… – Così la chiamava il nostro comune amore: mio padre.
Eravamo andati al fresco, in montagna.
Pareva tanto, in quel tempo in cui non ci si arrendeva al troppo, ma si aspettava per poter gioire di un dono – desiderato ma non certo – quando finalmente arrivava vestito da sorpresa.
I bambini accettavano anche un semplice frutto gustoso e ben maturo come un tributo di affetto ed erano ancora in grado di rimanere in silenzio, incantati, a rimirare il cielo.
Eravamo partiti dopo aver fatto il segno della croce: una nostra abitudine all’inizio di ogni viaggio, che avevo coscientemente acquisito solo alcuni anni più tardi.
Con noi c’era anche nonna, che papà chiamava “signora” pur condividendo con lei molti momenti della nostra vita.
Un paio di giorni tutti insieme, poi mio padre era tornato a casa per impegni di lavoro.
In quegli anni non esistevano mezzi per comunicare velocemente, tuttavia si scrivevano lettere anche per una settimana di lontananza. Si prendeva la penna appena posata la valigia, sapendo che dopo tre giorni il cuore di chi aspettava avrebbe fatto un piccolo sobbalzo nel veder venire incontro il postino sorridente e trafelato.
Papà aveva scritto la sera stessa del suo ritorno, parlandoci con nostalgia della luna che abitualmente noi tre osservavamo riuniti in un unico abbraccio.
Per qualche sera, la notte trovò vicine solo mia madre ed io: allora non conoscevamo l’orribile senso dell’ignoto che il buio porta alla fine della vita.
Quella breve vacanza portò anche i miei primi tragitti verso il sole: torna nitida l’immagine delle braccia che mi raccoglievano tutta quando coprivo traballando un piccolo segmento di terreno …
Anche adesso i miei passi sono incerti, ma nessuno mi attende.
Non mi resta che continuare a camminare recuperando piccoli flash di luce in questa perenne oscurità che ora domina la mia mente.
Guardo l’orologio appoggiato sul comodino: mi sembra che rincorra il battito del mio cuore incitandomi a riprendere il viaggio tra i frammenti degli anni, delle stagioni, dei giorni, delle ore.
Un tempo questo orologio era sempre stretto al polso di mia madre: un legame indissolubile che si era ulteriormente rafforzato dopo la paura di averlo perduto e la gioia di averlo ritrovato …
Era accaduto tanti anni dopo.
Eravamo scappate a Venezia con l’intenzione di stare in pace tra noi per qualche giorno.
Piazza San Marco era divenuta un palcoscenico per i nostri occhi mentre, sedute al caffè, una melodia dolce e triste scivolava sulle tazzine regalandoci un’emozionante malinconia.
Poi, la faticosa allegria dei tacchi troppo alti per correre sui vaporetti, le risate soffocate dai cuscini nel piccolo alloggio dei frati, all’ Accademia… Tante istantanee nella mia mente e, in primo piano, sempre i suoi occhi pieni di luce…
Dove sono, adesso, i tuoi occhi, mamma? L’ultima volta che li ho visti erano fessure che filtravano l’infinito, eppure anche in quello sguardo mi è sembrato di rivedere il caleidoscopio della nostra vita insieme, del nostro viaggio di emozioni.
Quando ero ancora bambina, sparpagliavi un discreto numero di foto in bianco e nero sulla superficie del desco, quello su cui facevo i compiti e sotto il quale mi nascondevo come se fosse stato un rifugio. La stanza, allora, si riempiva di presenze che si trasformavano da immagini in persone.
In altri momenti, quel tavolo accoglieva il pranzo mentre la radio cantava.
Il gusto del cibo accompagnava la musica, che arrivava leggera dentro l’aria e mi toccava come la ruvida morbidezza delle tue mani, screpolate ma leggere sulla mia pelle.
Ma la festa non dura in eterno …
L’ orologio mi è stato messo in mano in un giorno di pioggia. Un cuculo dava il benvenuto alla primavera ed io mi chiedevo, senza darmi risposta, se fosse lo stesso che avevo salutato a settembre.
Finora questo magico oggetto non è riuscito ad organizzare la mia vita: mi sembravano eterne le parentesi, mi mancava la forza, sono rimasta incapace di accettare gli addii, i momenti di smarrimento, il male di sentirmi sempre sola.
Adesso, l’orologio ha finito di scandire i ricordi che danzavano nella mia mente accompagnando il mio ultimo tempo.
Ora c’è solo la sua presenza a separarmi dal silenzio.
Devo fermarmi: non posso più percorrere avanti e indietro il quadrato della mia stanza.
Mi siedo e, con la fatica dell’ultimo sforzo, allungo la mano verso il comodino.
Cercherò di caricarlo questo orologio, prima che sia definitivamente impossibile.
Non so se ce la farò, mamma. Comunque, aspettami: tra poco sarò da te.
L’autrice:
Rita Manzara vive a Trieste.
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Spilli di sole” (1981), “Ponte bianco” (1992) e “Passi d’argento” (2010); la raccolta “Mille modi per non dirvi addio” è in attesa di stampa.
Dal 1980 ad oggi ha ricevuto molti riconoscimenti in vari concorsi letterari nazionali ed internazionali, riservati sia alla poesia che ai racconti brevi.
Ha partecipato alla Biennale Internazionale Donna che si è svolta a Trieste, in Porto Vecchio – Magazzino 26, da novembre 2017 a gennaio 2018.
Ha collaborato con il settimanale “Il Meridiano” di Trieste.
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Giulia seduta
di Roberto Pagnani
(2018 smalti e tempere su tela cm 40×40)
Intervista a Roberto Pagnani:
di Giovanni Fierro
Cosa hanno in comune i soggetti dei tuoi quadri qui proposti? l’azzurro invece è il colore che li ‘unisce’. Perché questa decisione e scelta?
Hanno la “comunione” con la natura; sono tutte immagini che nascono da un’idea che si confronta con l’istinto del dipingere, le dita si sostituiscono ai pennelli per poi dare forma alle figure.
L’azzurro, e in altri casi il grigio, serve per proiettare l’immagine verso un’ideale atmosfera astratta.
Più che le forme, più che i soggetti, mi sembra che sia il colore ad essere la voce che usi, per dire e per raccontare. Può essere così?
Il colore è estremamente importante. Può evocare la drammaticità del vivere sia in positivo che in negativo. Ha chiaramente un proprio linguaggio direttamente connesso con l’emozione ed il pensiero.
E allo sguardo questi pesci, queste donne, questi alberi, sembrano vivere e costruire un’attesa, un tempo sospeso. È solo una mia lettura/sensazione? Se no, qual è questa attesa che vivono?
Sì, hai visto bene, sono immagini in attesa… Sono situazioni che simbolicamente rappresentano una situazione non codificata ma sempre sull’orlo di un cambiamento improvviso.
Ecco, una altra sensazione che vivo fortemente è un senso di vulnerabilità, che avvolge i soggetti, che è anche espressa da loro. Una sensazione di bisogno di difesa, di un vivere la fragilità…. cosa ne dici?
Essendo i soggetti spesso da soli nella campitura azzurra, sono sicuramente esposti ad una possibile situazione emozionale che li rende, sovente, cangianti rispetto al loro osservatore.
E comunque anche il ‘corpo’ (umano o animale…) è importante. Mi sembra sia sempre il luogo dell’accadere, il posto dove tutto possa esprimersi, la realtà che dà forma alle emozioni e ai pensieri….
I corpi sono già di per sé delle geografie dove si creano e formano dei “viaggi” continui… Percorsi legati alla forma e alla vita dei pensieri e quindi dell’iperuranio…
L’artista:
Roberto Pagnani è nato a Bologna e vive a Ravenna, città in cui svolge la sua attività di artista.
Cresciuto in un contesto familiare dedito al mondo dell’arte da più generazioni, è stato a contatto diretto con opere dei maggiori protagonisti dell’ambiente culturale informale europeo.
Espone in numerose manifestazioni e mostre negli Stati Uniti, in Lituania, Grecia, Danimarca, Bulgaria e in diverse città italiane.
Importanti sono anche le sue collaborazioni con il mondo del teatro e della musica come, ad esempio, la realizzazione di scenografie.
http://www.robertopagnani.org/
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Gaia Rossella Sain
Alessandro Salvi, Livio Caruso, Guido Cupani, Antonello Bifulco.