luglio – agosto 2019

 

È il momento giusto per conoscere una delle voci
più importanti della nuova poesia greca:
Thomas Tsalapatis.
La sua raccolta “L’alba è un massacro signor Krak
è motivo di entusiasmo e scoperta.
Altre voci d’autore sono quelle di Annalisa Ciampalini
e Francesco Macciò, il loro scrivere è prezioso
e i loro libri più recenti sono importanti occasioni
di confronto.

Il tempo presente è negli inediti di Laura Mautone
e negli scritti di Luca Buiat.

Il percorso di avvicinamento alla poesia croata continua,
ospite di questo numero è Delimir Rešicki.

Le immagini sono gli strappi e gli acquerelli
di Manuel Grosso.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

( la nostra mail: farevoci@gmail.com )

 

 

 

 

Immagini       ———————–

Segnica

di Manuel Grosso

 

(strappo – poliuretano, resina, sabbia, tavola  2,5×45 cm  2017)

 

 

Voce d’autore        ———————–

Un silenzio sbilenco

Thomas Tsalapatis, “L’alba è un massacro signor Krak”

di Giovanni Fierro

 

Thomas Tsalapatis è una delle voci più autentiche della nuova poesia greca.
Già visto in Italia come ospite ad alcuni festival poetici, con la sua raccolta “L’alba è un massacro signor Krak” si pone al centro dell’attenzione per il pubblico italiano.
Con un vortice espressivo dove la poesia è luogo di intreccio di diverse forme espressive come il monologo, il fumetto, il teatro ed altre ancora, Tsalapatis mette su pagina un cortocircuito narrativo che è capace di andare al cuore del dire e del raccontare.
E il signor Krak del titolo è il protagonista di queste pagine vorticose, è la crepa che permette nuovi sguardi, è l’occasione per mettere nero su bianco la paura dell’incontro che porta all’ignoto, perché la vita di ogni giorno è “Una confusione di odori sbagliati, di sudore di corpi, di impronte. Tutto ti caccia dentro alla nevrosi collettiva del malumore facile”.
Si, Tsalapatis mette in scena un viaggio dove tutto si mescola, e dove l’invenzione continua è la cifra stilistica del suo scrivere.
Atene e il mondo intero sono un luogo dove è chiaro che “Il sonno è una perdita, signor Krak, è una perdita. Se potessimo, ne faremmo di sicuro a meno, perché il sonno è una perdita, signor Krak”.
E allora tutto è da accendere e l’autore spinge il significato e la tenuta della parola, incendia le immagini che crea e che riconosce, sapendo che “Il testo si distende sul tracciato del rettilineo. Righe sopra altre righe, righe dietro altre righe. Le strade delle pagine favoriscono la lettura del senso”.
E stare sotto Atene è come lo stare sottopelle di ogni singolo individuo: “Ogni volta che qualcuno in città apre una bottiglia, qualcun altro qui cade dallo sgabello; ogni volta che qualcuno in città canta, qualcun altro qui affila forbici”.
Così “L’alba è un massacro signor Krak” è una perfetta mappa con cui perdersi e ritrovarsi.
Con grande soddisfazione.

 

dal libro:

(…) Così, tutti noi andiamo avanti, uomini e ombre, bucati dal tempo. Scandagliando superfici, corrompendo parole, esaminando tregue. Tutti noi, che siamo usciti dall’ombra per trovare l’oscurità.

*

(…)
Oh, vita con le braccia protese,
distendi sul pavimento i tuoi sacchi di plastica
sopra ci camminerà
un silenzio sbilenco,
mentre guardi, guardi soltanto, semplicemente guardi.
(…)

*

(…) Leggi pure in metrò, in tram, in autobus. Lascia che le associazioni di idee corrano più veloci del treno. (…)

*

Sotto Atene c’è un bar. Tre, quattro livelli sotto il livello del mare, senza vie di fuga, senza vie di contatto, senza corridoi che ti portino qui, senza un percorso che lo colleghi al resto della città. Questa è l’altra profondità, quella che galleggia tra respiri e pentimenti. Qui batte l’altro cuore della città, quello che ansima nella sua schiettezza, senza fotogenia, senza pose, senza costruzioni. (…)

*

(…) I volti sul metrò, i corpi sul metrò. L’inversione di contatto, quando il pensiero primario di ogni passeggero è evitare il corpo dell’altro, evitare l’improvvisa stretta di mano, il contatto con l’ignoto. (…)

*

(…)
Tu
visibile solo ai dubbiosi e agli irresoluti
a coloro che misurano di continuo il debito
e ne accertano ogni volta lo stesso valore, lo stesso peso
che rinviano, all’infinito rinviano
piegati dal senso che può avere
un destino al quale non puoi sfuggire.
(…)

 

Intervista a Thomas Tsalapatis:

(Per la cui realizzazione va un grande e sentito grazie per la disponibilità e l’impegno a Roberto Di Pietro dell’Agenzia Letteraria Edelweiss e a Viviana Sebastio, traduttrice dei testi di Tsalapatis e autrice della prefazione del libro, che ha tradotto le domande in neogreco e le risposte in italiano.)

Il signor Krak, il ‘protagonista’, ha già nel suo nome il suono di una rottura, di un qualcosa che si spezza. È lo spiraglio necessario da cui guardare la vita, le persone, la società, e raccontarle?
Credo che l’immagine della crepa descriva al meglio l’epoca in cui viviamo. L’erosione delle certezze, la sensazione di pericolo, il timore della piena, tutti fenomeni visibili sin dal primo giorno della crisi. Non so se il signor Krak rappresenti una crepa nel mondo o un’esistenza piena di crepe, in ogni caso costituisce un esempio dell’epoca in cui viviamo.

In queste pagine la poesia si mescola con la narrativa e con la forma teatrale. Perché questa scelta?
Avevo bisogno di fare poesia con materiali familiari. Con elementi presi dalla prosa, dal fumetto, dal teatro e dal cinema, dalla stand-up comedy, dalla lingua dei giornali e così via. Vale anche per le mie due raccolte poetiche successive. Ho piena conoscenza della tradizione poetica greca e, insieme, nutro il desiderio costante di collegare forme e modi, per trovare qualcosa di nuovo ma al contempo di familiare. In poche parole, il libro è il punto di incontro di vari generi che ho amato. Non so se è un testo ben riuscito ma è di certo sincero.

È un libro dove realtà e sogno/incubo continuamente si mescolano. È questo il nostro presente, in cui ognuno di noi è immerso?
È un realismo che esiste sotto la superficie della realtà, del documento, della semplice trascrizione. Parla del sottosuolo del reale, di ciò che esiste sotto l’istantanea del momento. È una sorta di documentario dell’inconscio e del modo in cui esso sfugge alle crepe ed emerge nella nostra realtà, dandole forma.

Mi sembra che la cifra stilistica del libro sia l’invenzione continua, in ogni pagina. L’accadere svela sempre e sorprende. È un modo per entrare nelle viscere di ogni cosa, di ogni sensibilità umana?
Le poesie hanno spesso il carattere di una parabola inversa, ne conservano lo schema, senza tuttavia voler insegnare nulla. Mettono a fuoco, a volte con violenza, a volte attraverso il lirismo o il paradosso, gli organi vitali della realtà, questo è il loro scopo.

Sono pagine che si ‘offrono’ al lettore anche con una ‘piacevole leggerezza’, ma sempre all’interno di un senso di angoscia diffusa e pericolosa. Può essere una lettura adeguata?
Certamente, i suoi contorni possono ricordare il fumetto o una storia pulp. Gli obiettivi sono, comunque, la profondità, l’assurdo, l’oscurità. “L’alba è un massacro signor Krak” è il tentativo consapevole di collegarsi all’ignoto e di porsi di fronte a esso.

E Atene, che luogo poetico è? Cosa sta succedendo ora? Anche in relazione all’attuale situazione sociale e politica…
Atene è già di per sé una paradossale e assurda poesia, con il suo sconfinato passato storico, le conquiste dell’antichità, il peso dell’eredità spesso sentita come un cappio. Agli inizi dello Stato greco, Atene era solo un piccolo villaggio. Ha iniziato dal principio e il suo paradossale presente si è edificato all’improvviso. La città si è fatta carico di tutti gli eventi della Grecia contemporanea: guerre, compresa quella civile, colpi di Stato, la caccia ai comunisti e alla Sinistra – durata, in sostanza, fino al 1981 –, l’ascesa della classe borghese con le sue peculiarità, la creazione di una cultura greca contemporanea e altro ancora. Fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui si è realizzata la plurima incarnazione di crisi diverse. Mi riferisco alla crisi economica e alla disoccupazione, alla crisi etica e alla delusione, alla crisi dei profughi e al razzismo. Atene è al contempo città di speranza e di resistenza, dell’ascesa della poesia e del teatro, di nuovi movimenti e dell’ininterrotta creatività. Sì, il signor Krak è un abitante di Atene, città multiforme, dove tutto esiste nello stesso momento. Metà mito e metà tosse.

 

L’autore:
Thomas Tsalapatis nasce ad Atene nel 1984. Studia Teatro alla Facoltà di Filosofia dell’Università ateniese. Nel 2011 pubblica “L’alba è un massacro, signor Krak” (Edizioni Ekati, Atene), opera che gli vale il Premio Nazionale per la Letteratura come scrittore esordiente.
Nel 2015 esce la sua seconda raccolta di poesie “Alba” (Ediz. Ekati), rappresentata in teatro e di recente pubblicata anche in Francia (traduzione di Nicole Chaperon, Ediz. Desmos, Parigi 2017).
Nel 2016 scrive i testi di “Encore”, opera teatrale messa in scena da Theodoros Terzopoulos al Teatro Attis di Atene e poi pubblicata dalle Edizioni Mov Skiouros con il titolo “Annegamento” (Atene 2017).
Nel 2018 ha vinto il Premio InediTO – Colline di Torino, con la raccolta “Circostanze”.
Le poesie di Thomas Tsalapatis sono state tradotte in inglese, francese, italiano e spagnolo.
Thomas scrive per varie testate giornalistiche nazionali, i suoi testi sono raccolti nel blog “Groucho Marxism” ( http://tsalapatis.blogspot.it ), attento osservatorio sulla società e sulla cultura greca ed europea.

(Thomas Tsalapatis “L’alba è un massacro, signor Krak”, pp. 106, 18 euro, XY.IT editore, 2018)

 

 

 

 

Immagini       ———————–

Sonnellino

di Manuel Grosso

 

(fugace acquerello estivo, 30x40cm 2019)

 

 

 

 

 

Tempo presente       ———————-

Poesie (in un fazzoletto)

Cinque inediti

di Laura Mautone

 

“Come l’acqua dei fiumi quando lotta all’estuario contro la forza del mare,
il tempo nuovo e quello vecchio si scontrano, si mescolano”
                                                           Haruki Murakami

 

Un fazzoletto

di verde è la mia valle

oltre la stanza

***

Si può amare anche la desolazione di una città di provincia

orfana di giovani.

Si può amare anche qualche decina di metri di Portici.

Si può amare anche la città in cui siamo nati,

che ci avvolge in un abbraccio

spento

—————————————————————————

Sotto un cielo di porpora

tutti siamo in esilio.

La mia notte crepita di pensieri

desideri mancati

colpe mai pagate

parole soffocate:

la mia notte è la tua

****

Parole barbare
tra versi ricercati

****

Indago la luce.
Catalogo le farfalle del silenzio

—————————————————————————

Vetri screziati, stridore al risveglio

sorprese parole dalla notte.

Parole assopite dalla frastagliata

costa del sonno,

senso di sogno e

sogno di senso.

Indizi mai trovati,

suoni di rogge accompagnate

da passi mai trascorsi.

Braccato dai cani

a caccia dei non sensi

annusati sotto mentite spoglie.

Non chiamatelo straniero

ciò che non si vede.

—————————————————————————

La costruzione dei fatti

È come un verme solitario
il desiderio
cresce nell’attesa e
nel differimento
e si alimenta solo
quando si nutre.

Corpo sconosciuto
nel tepore della notte
desidero ogni pezzo
di te
risuona il mio al ricordo
contatti sfiorati
fili che non si illuminano
ma accendono

—————————————————————————

A D.
La topografia di un sentimento

Tempo che scivola morbido
senza angoli
sulle parole
e la scoperta di comprendersi
nell’ambiguità del labirinto
è come un fiore che sboccia
di colori pieni
corpo che esplora corpo
nella danza
è melodia delle parole
una percussione che batte
un giro di note che albeggia

****

Come ostaggio degli eventi

la famiglia e

il senso inarrivabile di una distanza

un milione di infantili

piccole azioni-

reazioni.

Oggi non ci sto più:

cresciuta

ora lontano

serenamente disciolta

 

 


L’autrice:
Laura Mautone insegna italiano e storia in una scuola superiore di Merano.
Attraverso una serie di interviste, raccolte in un volume intitolato “Che cos’è la poesia?”, edito da Corraini nel 2002, ha avuto modo di conoscere alcuni tra i più importanti poeti italiani del Secondo Novecento.
Nel 2005 ha pubblicato con Traven Books e la prefazione di Gregorio Scalise la prima raccolta di poesie, intitolata “Dell’amore e di altri aneurismi”.
La seconda raccolta, “Acufeni nel cuore”, è uscita nel 2007 con la casa editrice Raffaelli di Rimini e la prefazione di Mary de Rachewiltz.
L’ultima raccolta di poesie, con la prefazione della compianta Maria Luisa Spaziani, “Come sabbia come neve”, è uscita per Alpha Beta nel giugno 2014.
Insieme a Elsa Barratt poi, nel 2016, ha pubblicato un manuale di storia CLIL in inglese con la casa editrice Loescher di Torino, intitolato “Moving Forwards. Percorsi di storia CLIL in inglese per la scuola secondaria”. Nell’ambito dell’azione letteraria Ad alta voce/Stille Post, inserita nelle celebrazioni per i 700 anni di Merano, nel 2017 ha pubblicato il racconto “L’appartenenza”.
Sta lavorando ad una nuova raccolta di poesie e ad un volume di lettere degli studenti.

lauramautone@yahoo.it

 

 

 

 

 

Immagini        ———————–

Arca

di Manuel Grosso

 

(strappo – schiume poliuretaniche, scatola, stoffa, tavola, acrilici  28x28x4,5 cm  2017)

 

 

 

 

 

Voce d’autore      ————————

Allontanarsi dall’origine

Annalisa Ciampalini, “Le distrazioni del viaggio”

di Giovanni Fierro

 

Leggere queste pagine di “Le distrazioni del viaggio”, di Annalisa Ciampalini, è stare nel centro di un qualcosa da riconoscere, un qualcosa che è stato già costruito, ma che ha bisogno di un altro sguardo, di un’altra misura, di un altro ascolto, per dare forma a ciò che sta accadendo.
Perché questi testi a cui l’autrice ci invita hanno la forza e l’ampiezza di una meditazione, di un innervarsi nella radice della parola.
Ogni poesia è un quadro dove si vive uno smarrimento superato, che si è fatto maturo e proficuo, che è stato occasione di crescita ed è comunque pericolo che si può ripresentare.
Perché in queste sue frasi si può conoscere “la misura delle ombre e delle ore./ La terra, la sua immobilità”.
Ed è questo un paesaggio interno dove si può dire “Com’è debole il tuo abbraccio/ e il vuoto attorno, il deserto nelle strade”.
E in questo suo scrivere si innesca anche la fascinazione, il piccolo accorgersi che “Lui scende le scale pianissimo”. Può bastare per trovare un altro suono, un’altra pronuncia. Delle cose e di sé.
“Le distrazioni del viaggio” è una ricerca del silenzio, e di ogni sua possibile coniugazione con la vita vissuta.
Nelle sue pieghe, dove “Nel pomeriggio il pensiero/ ha gli occhi spalancati per la sete”, e dove ci si può accorgere che “Tutti dormono con piccoli sogni nelle mani”.
In queste poesie le tinte sono morbide, i confini a volte netti ed altre invece sfumati uno nell’altro, le forme invece hanno la loro presenza, non si sciolgono nell’ambiente e mai ne escono definitivamente; sempre lo esplorano e lo misurano. Ne sono il perché.
Il senso di pace che si respira, pagina dopo pagina, è sempre e comunque il risultato di un attrito, mai una vana gloria da ostentare.
L’umanità in questo scrivere di Annalisa Ciampalini è capace di un monito importante: “Devi imparare a vedere la notte”.
Solo così ognuno sarà capace di preparare il tempo che ci accoglie, riuscirà a riempire il vuoto con la trasparenza. E senza polvere.

 

Dal libro:

La superficie del lago s’increspa
per la caduta improvvisa di un sasso.
Nei cerchi perfetti dell’acqua
un fiore s’incarna,
ha la trasparenza del cristallo
e la voce minuta dell’aria.
Anni d’attesa per un fiore così,
anni di grigio pesante sopra ogni lago.
Ma solo nostra è la noia
e la placida direzione delle cose.

*

Tornerà l’aritmia inconcepibile
e il momento vuoto, come scordarsi d’esistere.
Il sussulto prima della frammentazione
tornerà nella terra e negli organi di tutti.
Continueremo a non vedere lo spazio
che s’incurva a non credere la conchiglia
possa raccogliere il mare. Conteremo
soltanto le ore di luce, nel buio
grandi archi uniscono le case.

*

A volte basta allontanarsi dall’origine
per scompigliare i disegni, e ci sentiamo
cancellati nel pensiero degli altri. C’è
poi chi viaggia e resta sempre lo stesso
muro – un fuoco arde nella cavità
domestica – e tiene calde le mani
in un’area popolata ed eterna.

*

La donna che ci ospita ha mani calde e forti
e porta con sé il silenzio della terra.
Le ore annullate dal viaggio si ricompongono
nell’annebbiarsi della sera, si insediano
in queste case di confine, nel precipizio
delle mura. Le finestre al mattino
ci guardano, sognano il viaggio che faremo.

 

 

Intervista ad Annalisa Ciampalini:

“Le distrazioni del viaggio” è un libro che si nutre di attesa, che la costruisce anche. È un lavorare con il tempo, e anche un affrontarlo. Cos’hanno queste tue parole, qui contenute, per poter mettere su pagina un impegno tale?
Nonostante la difficoltà di trovare una valida definizione di tempo, esso è a tutti perfettamente noto, o almeno lo sono alcuni dei suoi aspetti. L’attesa può esser definita a partire dal concetto di tempo, in quanto essa corrisponde a un intervallo temporale alla fine del quale deve, o immaginiamo debba succedere qualcosa.
È forse proprio a causa dell’evento aspettato che l’attesa può generare ansia, euforia, impazienza, o comunque un sentimento specifico. Sono attratta dai momenti particolari, dagli istanti di discontinuità all’interno di un quotidiano tendenzialmente tranquillo.
Ho bisogno di pensare che dopo il grande rettilineo la strada si incurvi, o si inclini, impedendoci in tal modo di vedere tutto chiaramente.
Nella raccolta spesso affronto il tempo in modo che possa costituire un momento di attesa. Forse in questo modo ho l’impressione che la successione cieca degli istanti serva effettivamente a qualcosa. E non importa se alla fine dell’attesa non accade nulla, in quanto il pensiero è sempre in grado di costruire un successivo momento di attesa, basta un po’ d’immaginazione.

C’è un silenzio che diventa quasi meditazione. Che importanza e significato ha?
Il silenzio è stato fortemente desiderato e pertanto cercato durante la composizione della silloge. È un luogo comune, lo so bene, ma credo che siamo invasi dal rumore e dalle immagini. A me tutta questa confusione non piace molto perché mi allontana da un’osservazione autonoma, mentre il silenzio mi rende più aperta verso altre modalità percettive.
Naturalmente mi rendo conto che è solo un’opinione, e che per alcuni il silenzio può risultare difficile da gestire. Ad ogni modo la silloge è nata nel silenzio ed è fatta anche di questo. Alcuni versi sono stati scritti come reazione a poesie di altri autori, poeti di ogni tipo, ma anche autori di romanzi, o di saggi.

Ma cos’è poi che rimane, una volta attraversato questo percorso di attenzioni e appartenenze, un riparo o una condanna? Un qualcosa che libera o che lega?
Questa è una domanda che mi fa pensare. Forse l’attenzione è qualcosa che mi appartiene. Voglio dire che mi piace osservare la natura, analizzare le reazioni delle persone, certi dettagli nel comportamento, mi piace fare collegamenti e immaginare. Certo, la mia attenzione è rivolta solo ad accadimenti particolari, e tendo a essere un po’ ossessiva. Il mondo è vario e complesso e a volte scegliamo solo qualche aspetto a cui dedicare il nostro interesse. Non mi sento obbligata dalle cose che richiedono la mia attenzione, piuttosto liberata, le sento come possibilità per usare l’immaginazione, per costruire realtà differenti, seppur verosimili.
Nel libro sono presenti case, mura, persone dedite a una vita prevalentemente domestica. In realtà per me il senso di appartenenza non è molto forte, almeno non mi pare. Vivo la casa come uno spazio in cui posso essere libera dagli sguardi altrui, come luogo di pensiero e di concentrazione, ma anche luogo da cui poter venir via in ogni momento. Uno spazio che esiste anche per indicarci la presenza di un territorio esterno.
La soglia, della casa o di qualsiasi spazio che ci isola e ci definisce, va attraversata con ansia e con la speranza di incontrare meraviglie.

Una sensazione che si vive, distinta e totalizzante per tutto il libro, è un ‘arrendersi’ (un concedersi) che permette di stare con le cose, con gli accadimenti e le persone. Può essere una possibile lettura?
Sicuramente sì. Per tutta la raccolta il desiderio è stato quello di scrivere versi che potessero essere uno strumento di misura per tutto quello che sentivo attorno a me, quello che tu chiami, in modo molto bello, cose, accadimenti e persone. Ho cercato, tenendo sempre a mente che mai ci sarei riuscita, di essere lieve, addirittura trascurabile rispetto ad alcuni richiami esterni. Volevo essere solo una piccola cosa, confusa con la molteplicità di esseri, oggetti e trame di pensieri.

Il paesaggio esterno (il lago, il mare, le ore di luce…) è anche il paesaggio interiore? È un sentire che si manifesta e che trova forma? Ed è vero anche l’inverso, quando il ‘sentire’ diventa paesaggio a cui dedicare lo sguardo?
Esattamente. Avverto proprio la corrispondenza che tu descrivi tra il paesaggio esterno e quello interiore. Scrivendo poesie e soprattutto leggendole, ho iniziato a pensare che troviamo sempre una linea del paesaggio che raffigura il nostro sentimento predominante.
Questo credo possa avvenire perché lo scenario naturale, e non solo, è composto da una grande varietà di linee, e se non c’è nessuna vetta a ricordarci che esistono altezze impressionanti e sentimenti sublimi, possiamo sempre guardare le stelle.
Viceversa, l’andamento del paesaggio esterno e le sue forme possono generare pensieri, facilitare un modo di sentire. C’è l’acqua in caduta che produce un ruscello tra i dirupi alpini e la piccola laguna chiusa, con sopra un cielo grigio.

E mi sembra che questo tuo scrivere cerchi di costruire un centro, un focus attorno al quale far gravitare lo stare quotidiano, un qualcosa a cui fare riferimento…
Non sempre quando si scrive si ha piena consapevolezza del percorso che tracceranno i versi, e nemmeno se avranno un punto in cui confluire. Solo dopo aver riletto il libro, mi sono resa conto che alcuni luoghi rarefatti possono riferirsi ai luoghi perduti dell’infanzia, ai campi vicino casa mia che da piccola mi parevano sconfinati.
Certe figure femminili, che compaiono qua e là, credo corrispondano alle donne che gravitavano attorno casa mia, coetanee di mia nonna. Erano donne che vivevano a stretto contatto con la terra, con le mani ruvide e forti, prendevano per mano i bambini senza tanti discorsi, pur prendendosene grande cura.
Mi piacerebbe che il mio scrivere richiamasse quel modo di stare al mondo, quella semplicità, e allo stesso tempo avvicinasse le persone alla propria mente, a un mondo più grande.

La cifra stilistica mi sembra sia la trasparenza, ma che diventa anche linguaggio a sé, strumento per raccontare e dire. Lo leggo e lo vivo come un passare attraverso, e continuo, che misura il respiro di ogni cosa. Può essere così?
Come ho scritto poco sopra, mi piacerebbe che i miei versi fossero lievi, e io stessa poco presente per poter raccontare le cose lasciandole intatte. So che questo è impossibile, è solo un desiderio che mi accompagna mentre scrivo, ma che certamente mi è utile per la composizione dei versi.
Ad ogni modo mi fa davvero molto piacere questo tuo pensiero perché “misurare il respiro delle cose” è un aspetto importantissimo per il mio modo di concepire la scrittura.
E per farlo occorre passare attraverso la trama fitta di ciò che vogliamo dire, occorre farsi piccoli, strumento di misura. E non disperarsi se questo processo non è possibile, ma lavorare come se lo fosse.

Sì, l’attesa ma anche una certa ‘sospensione’… un equilibrio che crei e racconti tra ‘spazio’ e ‘vuoto’…è questo che chiude e contiene il percorso circolare di “Le distrazioni del viaggio”?
Quando scriviamo seguiamo la nostra forma mentale, almeno credo. Mentre lavoravo a questo piccolo libro non ho voluto controllare le mie percezioni, né i miei pensieri. La distrazione è l’attimo che ci porta fuori da noi, uno stato di grazia momentaneo che immaginiamo di vivere.
Ma è certo che non possiamo stare sempre fuori da noi, ogni volta bisogna rientrare, riprendere i nostri pensieri, gli strumenti che ci appartengono, il nostro da fare. L’equilibrio che tu rammenti probabilmente viene creato dall’atto di uscire e da quello necessario e conseguente di rientrare in noi, da queste dinamiche opposte. E forse il percorso è davvero circolare, parto da me stessa e ritorno in me stessa. Sperando sempre in una condivisione di qualche casa, di qualche stagione, e soprattutto dello spazio dedicato alla mente.

 

L’autrice:
Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968. Ama da sempre la poesia e la matematica, la musica e la natura.
Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “L’istante si dilata” con Ibiskos Editrice e nel 2014 la raccolta “L’assenza” edita da Ladolfi Editore
Suoi contributi appaiono su alcune antologie edite da Fara editore.
Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro “Pierino Porcospino e l’analista selvaggio”, edito da ADV Publishing House nel 2016.

(Annalisa Ciampalini “Le distrazioni del viaggio”, pp.53, 12 euro, Samuele editore 2018).

 

 

 

 

 

Immagini        ———————–

Barche

di Manuel Grosso

 

(Fugace acquerello lagunare  30×40 cm  2019)

 

 

 

 

Attraversamenti       ———————

Delimir Rešicki

Una poesia

di Alessandro Salvi

(Cinque poeti croati, presentati uno per volta in prima traduzione italiana a cura di Alessandro Salvi. Seconda puntata)

 

Spesso in poesia il pensiero nella sua più alta forma d’espressione ci svela la natura paradossale, quella che fa vivere gli opposti in armonia, ma in maniera tanto chiara da disarmarci.
È il caso di questa poesia di Delimir Rešicki, uno dei poeti croati contemporanei più importanti, che dalla sua Slavonia, regione croata martoriata dalla guerra negli anni 90, osserva con sguardo acuminato e traccia, con gesto di consumato artigiano, un’istantanea fulminea e concisa.

 

di Delimir Rešicki:

Ništa

Ništa ne plodi zemlju
tako kao strah i pepeo
ništa ne leti
tako lako kao olovo
ništa nije tako sveto
kao ono što je uzalud

Nulla

Nulla rende fertile la terra
quanto la paura e la cenere
nulla vola
tanto facilmente quanto il piombo
nulla è santo quanto
quello che è invano

 

Delimir Rešicki è nato nel 1960 a Osijek, laureato nella stessa città in ‘croatistica’.
Dalla fine degli anni 80 ha pubblicato poesia, prosa e critica letteraria sulle maggiori riviste letterarie croate. Tradotto in numerose lingue, ha al proprio attivo una cospicua produzione di libri in versi, tra i quali vale ricordare: “Gnomi” (1985), “Sretne ulice” (Strade felici, 1987), “Die die my darling” (1990), “Aritmija” (2005), “Lovci u snijegu” (Caccciatori nella neve, 2016).
Numerosi i premi, anche internazionali, da lui conseguiti.

 

 

 

 

 

Immagini       ———————–

Carmina

di Manuel Grosso

 

(strappo – schiume poliuretaniche, scatola, sabbia, tavola, acrilici 50x43x2 cm 2017)

 

 

 

 

 

 

Voce d’autore      ———————

L’ora che scende indifesa

Francesco Macciò, “L’oscuro di ogni sostanza”

di Giovanni Fierro

 

È un raccontare importante, quello che Francesco Macciò fa in questo suo libro, e il cui titolo è motivazione e finalità: “L’oscuro di ogni sostanza”.
E il suo è un percorso che in sette capitoli porta nuovi sguardi e possibili chiavi di lettura del nucleo di senso che anima ogni accadere, ogni manifestazione del vivere.
Queste sono pagine le cui poesie tracciano la necessità di ricondurre l’esistenza, ma anche lo scrivere, “al principio immemorabile/ di ogni parola”, sfida continua e appartenenza culturale e sociale.
Perché poi ogni parola ha il suo mistero, perché “Se non c’è luce nella luce,/ non c’è neppure il buio/ in questo buio/ che congiunge ogni cosa”; guardata, scritta, vissuta.
È la forza di questo libro è l’accettare proprio questo manifestarsi, che diviene però l’occasione per misurarne la luce, perché è un qualcosa che si costruisce, perché “Mi dici che dagli alberi/ dobbiamo imparare e dai fiori/ e da ogni forma vivente/ che si protende verso la luce“. Ecco, è questo.
Sì, senza dimenticare mai che “A vivere, ad agire ci spinge/ l’oscuro di ogni sostanza“.
E allora cosa fare? Francesco Macciò ci guida, ci accompagna, ci indica il passaggio intuito, e inevitabile: “il varco di un silenzio/ che ci accomuna e ricompone in noi/ ogni origine, ogni confine”.
Ed è questo lo sforzo a cui siamo in vitati, il gesto necessario e liberatorio, il luogo dove ognuno di noi si può scoprire nuovo, di nuovo; perché poi tutto è molto più chiaro, “come una mano pesante/ e leggera, un’idea/ curvata in un palpito sconfinato”.
E la scrittura appropriata, il respiro primordiale delle parole e delle frasi contenute in questo libro fanno di Francesco Macciò un autore di riferimento, per quel laboratorio che è il mettere la poesia al centro della ricerca di ogni sé, nella tensione magnetica del vivere.

 

Dal libro:

Signora delle bolle di sapone
che non nascondi
ciò che possiamo vedere,
ma lo rifletti nell’apparenza,
nella sproporzione.

Signora delle barricate d’acqua
degli afflitti, dei disarmati.
Signora delle coccinelle,
dei mezzosangue,
degli addormentati sui catafalchi
viola delle camere mortuarie.

Signora della persistenza
e della mutazione
dove cominciano le stelle
e la scia bianca della memoria
al fondo di ogni gesto,
di ogni storia,
al principio immemorabile
di ogni parola.

*

per Franco C.

L’ora già curva dietro le spalle,
l’ora senza soste, senza compensi,
l’ora salata delle dune, l’ora
verticale dei patiboli,
delle maree, l’ora
torbida degli stagni, l’ora
velata dei pesci, degli approdi
lunari, l’ora che scende
indifesa a consacrare le case,
l’ora degli insonni, l’ora
che non sa né il giorno né l’ora,
l’ora che fende i botri, le zolle,
l’ora del fango, delle frane…

*

A vivere, ad agire ci spinge
l’oscuro di ogni sostanza –
pensa quando sfinita dalla sete
ti slanci verso l’acqua,
pensa all’acqua: Narciso
che si consuma in un desiderio
e deve rimanere un corpo, niente
altro che un corpo disciolto
in un bulbo, in uno stelo,
mentre un altro corpo
si consuma nell’aria evaporando
in un filo di voce.
E non importa se era Eco o finzione,
se desiderio o visione
questo doppio indizio del vero.

*

E poi tutta quest’acqua
senza sfiorarla… quest’acqua
nuvola, ghirlanda
nel silenzio che ci affatica.
E poi tutta quest’acqua
indicibile che precede le cose
senza nominarle,
senza assegnare ad esse
un movimento,
un’intenzione.

 

 

Intervista a Francesco Macciò:

Il primo testo del libro è quasi il manifestarsi di una intenzione, quando dici “al fondo di ogni gesto,/ di ogni storia,/ al principio immemorabile/ di ogni parola”. È qui che si deve cercare la radice dello scrivere poesia?
È proprio così: un’intenzione, nel senso profondo di “tendere a”, tentare di raggiungere qualcosa. Questi versi, all’interno di un componimento più complesso, racchiudono una semplice indicazione di poetica collocata appunto in apertura di libro.
Ungaretti immaginava sommersa dalle sabbie e dalle acque la parola essenziale, che solo il poeta sa portare alla luce, un po’ come calarsi nelle “secretas galerias de l’alma”, di cui ci parla Machado.
Per Caproni invece la parola è esiziale e spegne la realtà. Omero, Dante, Pascoli, per citarne solo alcuni, collocano la parola poetica in un altro e in un altrove fuori di noi o in un piccolo-grande io celato dentro di noi, immemorabile e inappropriabile se non dal poeta.
Per quanto mi riguarda, si parva licet…, ho cercato di concentrare alcuni spunti in una sorta di saggetto di poetica intitolato “Inappartenenza” e accluso al libro “Abitare l’attesa”. Mi permetto di proporne i paragrafi conclusivi:
La poesia nessuno può asserire di possederla, tanto meno il poeta, transfuga inarrestabile nel suo solitario stupore, che non consola ma è consolato, non possiede ma è posseduto”…. “una partenza, un percorso, un punto di arrivo sono definibili in una costruzione di parole, nel prodotto di un sentimento o di un sedimento. Invece laddove sono voci, visioni a trasportare, è via di inappartenenza, percezione inesauribile da cui scaturiscono forme nuove, indefinibiliIl poeta è su queste due divergenti strade: la prima, che conosce, è quella falsa; la seconda, che non conosce, quella vera”… “un cieco che brancola su tombe vuote, così Foscolo di Omero: il poeta non ha che il nulla davanti a sé, tutto è maceria dietro di lui; non vedente ma «veggente» sente voci che lo mettono in cammino, ha visioni che ‘dettano dentro’La poesia nasce dal ricordo di queste visioni, di queste voci”… “è tutto un rifluire rasoterra, dallo zero, dalla cenere che il fuoco ha lasciato… tutto un ricostruire, decostruendo”… “è figlia della memoria, la poesia, come le Muse che della poesia sono la voce. Incipit vita nova: non una vita contraria, esiliata in stessa, dice Dante, ma una vita nuova, via di salvezza, comincia dal ‘libro della memoria’E Memoria (Mnemosine) è figlia del Cielo e della Terra (Urano e Gaia), figlia di ciò di cui possiamo avere esperienza, dei confini celesti e terrestri della nostra esistenza”… “voci, visioni… come concrezioni lente, stratificate nella memoria, come gocce di vapore sospese in una nuvola, come costruzioni che si dispongono in altre forme nell’offrirsi disappropriate a una nuova vita”.

Nel testo “Descrizione della scena” il teatro incontra il disturbo psichico. Che incontro è stato? Come hai trovato le parole giuste per farlo accadere? E in particolare dare voce al disturbo psichico è cosa delicata e coraggiosa, penso…
Quando si scrive in versi, come dicevo, si è spinti da necessità: accerchiati da immagini e parole, ci si mette in cammino, ma non si sa su quale strada né dove sia la meta.
Posso solo dar conto a posteriori, e in modo inevitabilmente incompleto, delle circostanze da cui ha preso avvio questo testo che, oltre a essere uno dei più estesi, è anche uno dei più laboriosi e stratificati che abbia scritto. Durante uno spettacolo del Béjart Ballet Lausanne al teatro Carlo Felice di Genova presi alcuni appunti che descrivevano la scena: gli effetti delle luci, i contrasti di colori, i movimenti coreografici… Questi appunti extra-vaganti qualche giorno dopo si accasarono in forma di poesia.
Ma alla tessitura imbastita sulla raffigurazione di frammenti scenici, si è intrecciata, sincronicamente, con l’urgenza di una trascrizione immediata, la sconcertante confessione di un amico che conviveva da tempo con gravi problemi psichici. Me ne parlò proprio in quei giorni. Rimasi colpito dalle sue parole lucidamente deliranti e dal fatto che fosse proprio lui, peraltro scrittore e artista, a chiedermi di dar voce ad esse nelle mie scritture.
Così le sue parole, la sua confessione espressa in un linguaggio teso quasi fino al punto di rottura, forzarono il testo pervadendolo e divennero una sola cosa con i versi che stavo scrivendo.

I testi della sezione “Stanze dell’attesa” mi sembra che cerchino, trovandolo, il momento preciso di ogni cosa. Il centro di ogni accadere. Che si tratti di un’attesa, di una memoria o di un qualcosa che ci sta succedendo sotto gli occhi. Può essere così?
La precisione, ovvero insistere su un punto circoscrivendolo e descrivendolo, talvolta anche minuziosamente, credo sia un modo per avvicinarsi all’oscuro di ogni sostanza.
Ma è una precisione che sfiora l’evanescenza, la sospensione, l’attesa di un accadimento sempre ulteriore a una nuova attesa.
Si tratta di una sezione costituita da dieci poesie saldate in successione, quasi “stanze” di un unico testo, che in fieri si offre a una pluralità di letture. Il “principio di contraddizione”, di cui parla Luigi Surdich nella Prefazione, potrebbe riverberare qui nella dinamica antifrastica vita/morte, fissità/movimento, ecc., o anche nell’indagare la sostanza stessa della poesia e della vita, che rinvia a un oltre e si può attraversare anche per via di esclusione o di individuazione, di consapevolezza dei simulacra che la negano.

“A vivere, ad agire ci spinge/ l’oscuro di ogni sostanza” scrivi. Cos’è, una fascinazione, una condanna, una irrisolta capacità di poter capire fino in fondo la radice di ogni cosa?
È una poesia che parte dall’acqua, motivo su cui poggia una successiva sezione di questo libro, e si incentra sul mito di Eco e Narciso nelle molteplici (s)connessioni su cui insiste e in cui si specchia, in chiave metamorfica, la necessità di calarsi in una idea di conoscenza. Una conoscenza che vada oltre il velo multiforme dell’apparenza e attinga all’“oscuro di ogni sostanza”.

Difatti, poi la natura è sempre più presente. Penso all’acqua e al lago protagonisti in “Così soli e così leggeri”. Qual è la loro importanza, il loro significato?
Acqua come elemento primordiale, specchio di riconoscimento e via di elevazione, acqua lustrale che toglie il peso delle incrostazioni e ci lascia nell’essenziale.
In queste direzioni è un tema presente anche in un “capitolo”, intitolato appunto “D’acqua”, di “Abitare l’attesa”, libro che precede di qualche anno “L’oscuro di ogni sostanza”. Qui però il tema si innesta, fondendosi con essa, sull’idea del viaggio, anticipando l’ultima sezione di un volume che vorrebbe configurarsi unitariamente più come libro di poesia che come libro di poesie.
“Così soli e così leggeri” già nel titolo indirizza a una pluralità, che diventa presenza insieme, dialogo con un’interlocutrice che da un contesto reale si proietta in una dimensione interiore, quasi oniricamente divenendo altro da sé. Il testo, oggetto di un lungo processo di elaborazione e più volte riscritto, è nato, per quel che vale ricordarlo, da un incrocio di immagini originate dal ricordo di uno specchio d’acqua, un laghetto che aveva attirato da lontano la mia attenzione mentre transitavo in automobile nei pressi di un paesino dell’entroterra ligure.
Altre immagini d’acqua e di roccia, che evocavano altri luoghi, si sovrapposero poi all’immagine del laghetto e della strada presso quel laghetto, e ancora quella strada richiamò alla memoria i tempi lontani in cui l’avevo percorsa alla guida di una motocicletta, in compagnia di una ragazza.

L’ultimo capitolo porta il lettore ad un finale che si manifesta quasi in dissolvenza, con una delicatezza importante. Che tanto coinvolge e tanto trasmette anche la sensazione che tutto sia così difficile da ‘possedere’, da ‘tenere in mano’…. Mi sbaglio?
In questa ultima sezione, “Pilgrimage”, la concretezza del viaggio, come dici, è anche sfuggente e, pur allacciandosi alla memoria, “si manifesta in dissolvenza” lasciando in sospensione spazio e tempo.
Per aggirare una risposta che mi costringerebbe a rimasticare quello che ho scritto col rischio di sgradevoli riverberi, preferirei riportare un passo dell’intensa e ampia prefazione di Surdich, intitolata “La Contraddizione, la distinzione, le parole”:
“’Pilgrimage’, a differenza di quanto avviene per le altre precedenti sezioni, designa con una intitolazione ogni singola poesia e colloca la sua ambientazione, diversamente da quanto è riscontrabile per le poesie delle prime sei parti ove i dati paesaggistici non venivano designati dalla puntualità di toponimi, in luoghi della Bretagna e dell’Irlanda: una memoria di viaggio, dunque, che, secondo quanto suggerisce il titolo della sezione, si propone come esperienza restituita nel pieno della sua concretezza e, insieme, come itinerario arricchito da una sua intrinseca sacralità: in contrapposizione, pertanto, alla cadenza di una sentimentale regressione della memoria. Ne è prova, ad esempio, il transito dalla osservazione dall’esterno dei «minuscoli tralicci / minerali» dei «granelli di sabbia» alla consequenziale riflessione attraverso la quale, recuperando una memoria dannunziana, la misura del tempo diventa misura del secolare, dell’eterno (Su una spiaggia bretone). Una intuizione, interamente calata in immagini, che conduce, poi, nella poesia “Dublin”, al miracolo della sospensione del tempo con cui una situazione sentimentale-affettiva («Così soli quella sera»), accennata a metà del componimento, viene ripresa a preludio del finale e la ripresa sembra prospettare l’assoluto di una sospensione del tempo: «Così soli quella sera / nel transitare inerte / dei bastimenti, come se niente / dovesse più accadere».

Genova e i suoi luoghi sono ben presenti in questo libro. Quale la tua appartenenza alla tua terra? E quale il modo di raccontarla?
Certo l’evocazione, anche sullo sfondo, della mia terra dì origine si offre, se non altro, come appiglio memoriale e punto di contatto con una realtà che si disvela nelle sue componenti storiche, antropologiche, ecc. Ma questi legami mi pare non siano qui così forti come in altri libri. In “Abitare l’attesa”, ad esempio, c’è una sezione, “Di terra”, che evoca Genova e la Liguria, per non dire di “L’ombra che intorno riunisce le cose” nella sua compagine antologica interamente calata nei luoghi della mia infanzia torrigliese.
Quale l’appartenenza alla mia terra? E quale il modo di raccontarla, di esprimerla in versi?
È una domanda che mi è stata posta altre volte e pertanto dovrò necessariamente ripetermi. Auden diceva che la poesia migliore assomiglia a un prodotto da esportazione: ha un sapore locale che viene riconosciuto e apprezzato universalmente.
In realtà scrivere è come un viaggio che si distende in molte direzioni, esplora molti territori, ma disegna anche una circolarità complessa che in qualche modo riporta sempre al luogo di partenza. Il procedimento è indecifrabile.
La poesia, come dicevo, non nasce da libresche elucubrazioni ma da un rapimento di cui il poeta non ha consapevolezza: quanto ha scritto gli si offre come oggetto d’indagine di cui può ricostruire a malapena alcuni passaggi, può osservare cioè i movimenti della risacca, ma non sa dire nulla dell’onda di piena.
Chi scrive in versi cerca di avvicinarsi con le parole a quello che sente o che vede, e in queste percezioni, in queste prove di avvicinamento, le parole scattano in avanti mescolando le carte. Non è questione di “localistico” o di “universale” — inciamperemmo subito in queste categorie se ricorressimo ad esse per definire, ad esempio, la poesia di Saba – ma di dati di memoria che si fissano, in una persistenza di immagini e di voci, fuori del proprio spazio e del proprio tempo. E si consegnano a una durata, a un’attesa (a una pretesa) di ascolto.

 

L’autore:
Francesco Macciò è nato a Torriglia nel 1954 e vive a Genova dove insegna italiano e latino al liceo.
Dal 2011 è direttore artistico del Festival torrigliese “TorrigliaInArte”.
Finalista a molti concorsi letterari, ha vinto il Premio “Cordici” di poesia mistica e religiosa (2009) e il “Satura città di Genova” (2012). Sotto lo pseudonimo di Giacomo di Witzell ha pubblicato il romanzo “Come dentro la notte” (Manni, 2006).
Ha curato il volume di studi su Giorgio Caproni “Queste nostre zone montane”, con introduzione di Giovanni Giudici (La Quercia Edizioni, 1995). Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: “Sotto notti altissime di stelle” con prefazione di Luigi Surdich (Agorà, 2003 / Matisklo, 2013”, “L’ombra che intorno riunisce le cose” (Manni, 2008), “Abitare l’attesa” con prefazione di Gabriela Fantato (La Vita Felice, 2011, finalista Premio Volterra Ultima Frontiera 2012 e finalista Premio Internazionale Mario Luzi 2014/2015).
Numerosi i suoi saggi critici apparsi su varie riviste. Suoi testi poetici sono stati tradotti e pubblicati in Germania e negli Stati Uniti.

(Francesco Macciò “L’oscuro di ogni sostanza”, pp. 98, 14 euro, La vita Felice 2017)

 

 

 

 

 

Immagini        ———————–

Existenza

di Manuel Grosso

 

(Poliuretano, stoffa, acrilici, matite acquerellabili  28x13x11 cm  2019)

 

 

 

 

Tempo presente      ———————–

Orizzonti da avvicinare

Due testi

di Luca Buiat

 

Oggi il Friuli è

Oggi il Friuli è un campo strapazzato
sotto un cielo bagnato di maggio
con i frutti ancora appesi,

oggi il Friuli è uno sballo di sterrati di cieli
ed orizzonti da avvicinare dove riscoprire
il piacere delle pozzanghere,

oggi il Friuli è il vento che passa tra i fili d’erba
noi stiamo qui, tra i campi e le colline prima del mare
dove c’incazziamo, lavoriamo, beviamo e godiamo,

oggi il Friuli è una fabbrica di bestemmie
sotto un velo di smog e papaveri rossi sbocciati
dove nostro padre non ci parla mai,

oggi il Friuli è un assedio di sassi e fango
dove poter impantanarsi le ginocchia e i pantaloncini
ed il nostro sporcarsi crea fastidio agli sguardi,

oggi il Friuli è un gioco di tramonti in bilico sul Collio Brda
di strade in salita in tuffi di colline
dove i nostri sorrisi trovano vergogna di stare sulla bocca.

 

Guardo il blu

Guardo il blu ed il giallo del frisbee,
l’abbiamo trovato vicino al fiume,
durante una giornata dedicata all’acqua,
l’avevano lasciato lì come un cane
con la coda tra le gambe,
oggi l’abbiamo preso dall’armadio in cantina
era disteso sulla coperta da Pic-Nic
le sue ali pronte a tagliare l’aria,
chiuse dentro le ante marroni
anche la nostra palla è lì accanto,
lasciamola a casa mi dici,
l’abbiamo presa abbastanza a calci ieri pomeriggio
ora è un pugile suonato,
lasciamola dentro il sacco a pelo mi dici,
lo vuoi lanciare sopra quei fili d’erba
il disco volante di plastica
in modo che non cada su quei ciuffi appena nati
lo vuoi fai volare fuori lontano,
da questa giornata da raddrizzare.

Ti spiego che lo devi tenere dritto,
parallelo alla Terra dove stiamo
tieni il pollice sopra e l’indice sul bordo
ti dico, usa il polso come una ruota e tiralo senza
aver paura di sbagliare
poi t’incazzi perché lo immaginavi lungo e
veloce il primo lancio, come
al primo calcio contro al pallone,
al soffio che hai fatto sul tarassaco
invece collassa dopo un volo goffo,
mi chiedi di riprovare con Adrjan così lo fallisce
anche lui il primo tiro,
perché è bello sbagliare assieme
far succedere qualcosa insieme
me lo fate vedere quel frisbee sorvolare il parco
tra le panchine e le altalene
il vostro mondo fatto solo di altalene palloni e
merendine, poi salite sulla scala dello scivolo
e scoprite che diventa più veloce a scaraventarlo giù
e intanto il pomeriggio scende, sulle nostre scarpe
consumate.

 

Luca Buiat, la poesia dei gesti quotidiani

di Ilaria Battista

Camminare sull’erba, lanciare un frisbee, inforcare una bicicletta e pedalare in collina guardando il sole che tramonta oltre il confine.
Qualcuno li chiama gesti semplici, quotidiani, banali.
Qualcuno che non ha gli occhi da poeta di Luca Buiat, che invece posa lo sguardo su ciò che lo circonda, e lo illumina di una luce speciale, la luce di chi intravede la bellezza, e l’unicità di ogni singolo gesto.
Così il campo non è bagnato dalla pioggia, è strapazzato dal cielo di maggio.
La pozzanghera non è un catino di acqua e fango. È un qualcosa che regala il piacere di gioie primaverili.
Un frisbee abbandonato lungo il fiume non è un gioco ormai inutile e dimenticato; ma con altri occhi, con lo sguardo di chi assegna un posto d’onore al tavolo apparecchiato dall’universo, diventa un disco volante che con le sue traiettorie goffe e fuori linea, regala scampoli di saggia filosofia a due bambini che si rincorrono nel parco.
Niente è scontato, niente è banale nelle parole di Luca Buiat.
Tutto ha una dimensione nuova, un ruolo da protagonista.
Non ci sono comprimari nelle sue parole, solo attori principali che uno vicino all’altro mettono in scena la grande poesia dei gesti quotidiani.

 

L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel dicembre 1971.
Ha iniziato a scrivere delle rudimentali poesie verso i quindici anni, usando un “linguaggio poverissimo, forse perché in Friuli negli anni 80 pioveva sempre; ricordo che passavo intere giornate a guardare il ‘brut timp’ davanti alla finestra di casa mia, e prima ancora ci fu il terremoto…”.
È cresciuto con gli episodi di The Twilight Zone e i videogiochi. E con la musica di Springsteen, De Gregori, Luca Carboni, Paolo Conte, Fossati, Guccini, Rossi (fino a Bollicine) e i Doors.
Formativi sono anche i libri di Herman Hesse e Jack Kerouac.
Lavora in un’azienda metalmeccanica da 28 anni, i Moderat sono la sua band preferita. Mentre Thom Yorke ha appena pubblicato “Anima” e la terza serie di Stranger Things è appena uscita su Netflix.
Mi piace correre in mezzo alla natura usando la bici o i piedi, senza fretta, e fermarmi a scattare foto con il telefono”, dice.
Grazie al gruppo degli Scrittori Creativi dell’Unitre di Cormons da tre anni è tornato a scrivere piccoli racconti o poesie.

 

 

 

 

Immagini     ———————–

Rapido appunto al sole…

di Manuel Grosso

 

(Pastelli a olio si carta  20×30 cm  2019)

 

 

Intervista a Manuel Grosso

di Giovanni Fierro

Puoi raccontare e spiegare cosa sta alla base del tuo progetto degli ‘strappi’, e come vengono effettuati?
La superficie terrestre, intesa come una grande tela su cui intervenire facendo degli strappi/calchi, è il luogo fisico e psichico di una ricerca artistica che, oramai, porto avanti da circa 15 anni.
La logica di recupero degli affreschi attraverso la settecentesca tecnica dello strappo viene da me rivisitata simbolicamente e, mutatis mutandis, tecnicamente.
L’azione creativa consiste esattamente nell’andare alla ricerca di porzioni orografiche, tracce, passaggi di vite umane e animali, oggetti sepolti e abbandonati, a volte privi di qualsiasi potere seduttivo che vengono letteralmente “strappati” con l’ausilio di schiume poliuretaniche dai loro siti e, arrivati allo studio, dipinti con un monocromo delle infinite possibilià tonali del blu.
Colore, questo, che mi consente di alleggerire, rendere più impalpabile e diafana, una materia che si rivela originariamente greve. Visivamente si potrebbero definire basso o altorilievi organici.
Psichicamente, uno sguardo rivolto in modo concentrato alla terra, al suo “salotto sotterraneo”, mi permette di strappare consapevolezza all’horror pleni quotidiano. In questa serie di lavori il processo creativo stesso conta quanto l’oggetto finito.
La dimensione ludica che lo caratterizza, è soggetto stesso, ma implicito, delle mie intenzioni artistiche. Il corpo fisico coinvolto nell’azione di ricerca dello stimolo visivo, l’aspetto energetico più sottile dei pensieri e delle intenzioni progettuali stimolate da ogni nuova osservazione creano un palinsesto progettuale che sfocia nella sintesi formale degli “strappi”.

Mi sembra che in questi tuoi lavori la materia principale sia proprio il tempo…. Stratificato, dimenticato, usurato, che viene ‘catturato’ e mostrato da questi tuoi soggetti…
Si, Giovanni, il tempo è parte integrante del mio lavoro per diversi aspetti.
In primis, il modello operativo attraverso il quale procedo prevede diverse fasi. L’esplorazione del territorio, l’operazione dello strappo “in situ” una volta individuato il frammento visivo, il trasporto in studio del manufatto, infine l’elaborazione cromatica.
In secondo luogo gli oggetti, le tracce, le frazioni di terra rilevate sono soggette, in un continuo mutamento, al fluire degli eventi, anche atmosferici. L’operazione che svolgo vorrebbe quindi sospendere temporalmente quello che in fondo è un micromomento nella storia di questo pianeta.

Usi anche l’acquerello, per ritratti e paesaggi. Questo che aspetto è del tuo fare arte?
È un aspetto puramente ludico, godereccio. Il piacere consentito dall’acquerello, almeno per come io lo interpreto tecnicamente, di rendere velocemente, con poche macchie di colore, delle fugaci impressioni retiniche colte qua e là, in un paesaggio o in un volto, ad esempio.

E cosa hanno in comune queste due differenti forme espressive?
C’è molto in comune, cambiano solo gli spetti tecnici e le relative tempistiche operative, in fondo. Gli acquerelli sono sempre pronti a uscire dal mio zaino, li amo perché sono agili. In qualsiasi posto mi trovi, appena sedotto da qualcosa che vedo, ne faccio uso. Sono quindi una tecnica dell’immediatezza, mentre gli strappi richiedono un processo lungo, ma il fine comune è cogliere la realtà, anche effimera, attraverso un’attenzione vigile.

Conduci laboratori d’arte per i bambini, che esperienza è? E che progetto è ‘Maniarte’?
Anche qui, le cose tornano. Con i bambini è come camminare in un luogo sconosciuto, ogni volta. Le risposte che t’arrivano sono sempre inaspettate, nuove, fresche.
Tu fai vedere loro un’opera e questa diventa subito un nuovo territorio e la mappa che essi descrivono spesso è incredibile perché fa riferimento al loro stesso corpo fisico, emotivo, mentale, ancora destrutturato.
“Maninarte” è un luogo aperto a tutti, grandi e piccini, e a tutte i linguaggi artistici. Vuole cercare di favorire in ognuno, per quanto ognuno desideri, la possibilità di scoprire il suo personalissimo talento in condivisione con altre persone.
Quando vedo i partecipanti ai corsi scoprire delle potenzialità a volte inaspettate, guadagnandone in autostima, è per me una gran soddisfazione.

 

L’artista:
Manuel Grosso nasce a Gorizia nel 1974, vive e opera a Romans d’Isonzo (Go).
Ha conseguito una formazione artistico-filosofica. Da cinque anni ha aperto “Maninarte”, uno studio con funzioni di bottega d’arte, galleria e promozione socio-culturale nel paese di residenza.

Mostre personali:

2017
Fragmenta, Circoloquadro, Milano a cura di Ivan Quaroni
2010
Dalla terra, Galleria d’arte La Fortezza, Gradisca d’Isonzo, (Go)
2008
Dalla terra, Piccola Galleria, Bolzano

Mostre Collettive (più recenti):

2016
Streetscape 5, a cura di Chiara Canali e Ivan Quaroni, Como
Sesta rassegna di arte contemporanea, Casa dei Carraresi, Treviso
Statements 2016, Associazione culturale Circoloquadro, Milano

2014
Artisti per Solidea, Studio artistico Maninarte, Romans d’Isonzo, (Go)

http://www.manuelgrosso.it  

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Gaia Rossella Sain
Alessandro Salvi, Livio Caruso, Guido Cupani, Antonello Bifulco.

 

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