Fare Voci febbraio 2024

Il numero di febbraio si apre con Tiziano Scarpa, il suo ritorno in libreria ha titolo “La verità e la biro”, ed è sempre importante confrontarsi con il suo scrivere, con il suo narrare che ogni volta è una sorpresa e un rinnovare il pensiero attorno alla scrittura.

A seguire c’è l’anteprima firmata dalla scrittrice ucraina Yuliia Iliukha, con lo scritto “Donna numero 13”, tratto dal suo libro “Le mie donne” di prossima pubblicazione in Italia.

E poi c’è il mondo ricco, intrigante, necessario di “Bestie. Femminile animale”, antologia che racchiude firme importanti del panorama poetico italiano, come Valeria Bianchi Mian, Martina Campi, Ksenja Laginja, Teodora Mastrototaro e Silvia Rosa. Di questo progetto ce ne parla la sua curatrice, Alexandra Zambà.

Il Sud America in questo numero è rappresentato dallo scrivere di Sergio Abaldi, da Buenos Aires; di lui proponiamo cinque poesie in prima traduzione italiana.

E la poesia è vissuta, rivoltata ed amata da Nicola Skert, che dopo romanzi e racconti pubblica la raccolta di testi “Il Randomante”, tutta da scoprire…

Il Tempo presente sono i cinque testi inediti di Roberto Casati, i Margini. Di poesia ed altro sono quelli di Giorgio Gramolini, con il suo “Vita breve”, e il Ti racconto è nelle pagine firmate da Andrea Comisso con “Il contraccolpo dell’abisso”.

Le Immagini sono di Cristina Suligoi, fra acquerelli e sperimentazione, ricerca e profondità.

Buona lettura

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini         —————————

Sulle rive dei laghetti del Preval

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

 

Ti racconto        ————————–

I grandi amori sono arrivati, i grandi dolori anche

Tiziano Scarpa, “La verità e la biro”

di Roberto Lamantea

Se leggi un libro di Tiziano Scarpa è inevitabile che il silenzio di casa (meglio evitare la lettura in una biblioteca pubblica) sia infranto da una risata scoppiettante, di quelle belle, luminose, gustose, sincere. La scrittura di Tiziano ha questi effetti. Prima di tutto è cristallina: niente contorsioni sintattiche, cascate di subordinate, metafore da autore surrealista o simbolista. Tiziano Scarpa racconta e ha l’abilità di un ragno che tesse – texte, tessuto, è la scrittura, il suo piacere, vero Barthes? – la sua scrittura intarsiata da un’onomatopea che è di suo un gioiello verbale, una nota filologica dal greco e dal latino – e ci fa reinnamorare di quelle lingue antiche – anche quando la narrazione è, senza giri di parole ma con un’umoristica grazia, esplicitamente erotica.
Ecco, “La verità e la biro” conferma il Tiziano Scarpa che si diverte a narrare, tra romanzo, diario, confessione, invenzione, autobiografia (in più pagine l’autore avverte: “In questo libro non ho inventato nulla”). Sornione, enigmatico (che cosa vuol dire la premessa che dopo questo libro Tiziano, 61 anni, non è più un uomo?). Insomma, ecco un altro Tiziano Scarpa marchio doc, la sua scrittura chiara che però allude, la sua narrazione scanzonata che però sa essere lirica e in filigrana non di rado amara.
Come quando narra della studentessa di filosofia, nei vent’anni di una ragazza e un ragazzo iscritti alla Facoltà di Lettere di Venezia (anni meravigliosi i ‘70/’80 all’ex convento di San Sebastiano) che si divide tra il letto di un professore e lui, anzi, con lui, l’io narrante, il Tiziano Scarpa del plot narrativo, condivide i reportage di come è andata con l’altro: sino al punto che il professore dice a lei, la sua studentessa, di fare i complimenti all’altro compagno di giochi per i suggerimenti, diciamo così, erotico-scultorei.
È una scrittura-sguardo attenta ai minimi dettagli, una lente d’ingrandimento sul mondo che diventa visione del mondo, del carattere e della società umani.
Pur nella trasparenza della scrittura, “La verità e la biro” non si può raccontare. È un prisma: mémoir, diario, journal intime, accosta la riflessione filologica alla confessione intima, il racconto delle esperienze vissute all’analisi sociologica e antropologica. Gli snodi narrativi vanno dagli anni dell’Università, con le sue avventure erotico-sentimentali, alla vacanza in Grecia (il teatro, la spiaggia nudista), alla sfida del bungee-jumping all’Aqualandia di Jesolo.
Sono belli i cortocircuiti che dettano a Scarpa pagine di amara antropologia. La colonna vertebrale del corpo-libro è nella domanda di pagina 4: “Il libro è cominciato. Di che cosa parla? Della verità. Dell’impossibilità di dirsi l’un l’altro la verità”. Pratica che sembra riservata, riflette sei pagine dopo, agli scrittori, attraverso lo specchio e apparente finzione del romanzo, del racconto, della novella. Così Platone anche nei testi più famosi, Fedro e Simposio, può riflettere su quali sono le occasioni migliori dell’amore omoerotico di un uomo maturo con i ragazzini. O il raffronto – una delle chiavi di lettura del libro – fra il teatro greco e quello romano: l’emiciclo con le sue macchine sceniche – la mechanè – si trasforma in anfiteatro, il “luogo dello sguardo” diviene arena dove lo spettacolo è vedere sbranare gli schiavi e i condannati a morte, fatti a pezzi dai leoni: lo spettacolo non è la finzione della morte ma la morte vera.
È la riflessione che Scarpa semina in più pagine: oggi i gladiatori sono i concorrenti nell’arena televisiva e nei talk show, umiliati davanti a milioni di telespettatori in uno spettacolo sadico, “scannatoio di ambizioni umane”: “Nello spettacolo greco, l’anima è un cittadino. Nello spettacolo romano, l’anima è un suddito”. Ma “è impreciso, è insufficiente dire che la nostra epoca sta trasformando tutti in attori, in esibizionisti bramosi di mettersi in scena. La sua qualità specifica è che ci sta facendo diventare gladiatori, incoraggiandoci a combattere davanti a tutti in un’arena feroce”.
Ed è la Grecia antica, nel libro di Scarpa – quella Grecia che sarà il teatro della vacanza nella spiaggia nudista, metafora della ricerca di un’antica verginità dello sguardo – a dettare allo scrittore veneziano un’altra bellissima dichiarazione d’amore: “La letteratura, secondo me, comincia con i lirici greci, perché le loro poesie esprimono il dissenso del singolo contro i valori collettivi”. La Grecia patria della democrazia.
Scorrendo le pagine incontriamo anche Catullo, Pavese, Whitman, Bulgakov, Molière, un pirandelliano dialogo tra l’inchiostro e il significato, la riflessione su pensiero e scrittura o sul “perché scrivo”. “La verità e la biro” è tutte queste cose ed è ammirevole l’architettura in cui Tiziano Scarpa armonizza materiali così eterogenei, con l’effetto che il lettore è catturato dalle pagine come dalla trama di un romanzo per sapere “come va a finire”.
Il libro è anche un’altra cosa: da qui il lavoro dell’autore di “Stabat mater” o di una fiaba da brividi come “La penultima magia” percorrerà altri sentieri del narrare, sarà sempre nuovo. Per uno scrittore è il percorso più bello.

 

dal libro:

Ci sono momenti in cui, dando forma ai miei romanzi, io pattino senza attrito, plano, mi sembra quasi di volare in una dimensione naturale; e in questo modo, senza volerlo, trovo riscontro anche in chi legge. Ci sono altri momenti invece in cui sento che mi sto sporgendo deliberatamente verso chi legge, sto adottando un certo genere e un certo stile di scrittura perché penso che esso sia necessario per motivare la lettura di chi spenderà il suo tempo di vita sulle mie parole. Ci vuole una trama, una catena di svolte per caricare a molla i lettori, in modo che certi generi letterari diventino forze motrici della lettura, mobilitino gli occhi, li spingano ad andare avanti, li facciano avanzare lungo ogni riga, sulla pagina. Le parole sono piccoli pistoni che spingono avanti l’attenzione nella riga, dentro il fusto della siringa (questo paragrafo avrà avuto la forza di farti arrivare fino a qui, tu che lo stai leggendo, o ti ha fatto arenare nella noia?)

*

Per esempio, adesso io mi trovo benissimo a scrivere queste cose; fosse per me passerei le giornate a raccontare ciò che vivo, ciò che vedo, ciò che imparo, ad analizzarlo, anche perché scrivere è il modo in cui io conosco le cose, le capisco solo così. Se mi limitassi a pensarle mi accontenterei di vaghe intuizioni, magari anche acute, ma scriverle mi dà molto di più, perché mi costringe ad articolarle e ramificarle, e soprattutto perché scopro i miei pensieri mentre li scrivo, grazie al fatto che li scrivo. Scrivo per sapere che cosa ne penso del mondo. Ma interessa, al mondo, sapere che cosa ne penso di lui?

 

 

Intervista a Tiziano Scarpa:

Nel libro dici che non hai inventato nulla. La scrittura è una forma della verità?
Non sempre. Nel libro faccio notare che questa volta non ho usato la fantasia o l’immaginazione, come invece avevo fatto nei romanzi precedenti. In questo libro ho raccontato molte situazioni in cui mi è stata detta la verità su come stavano le cose, fra colleghi, fra compagni di scuola, fra amici, fra amanti. Rivelazioni che mi hanno sconvolto, spiazzato, ferito, divertito. Alcuni lettori, soprattutto docenti universitari o studiosi, mi hanno detto che il fatto che io abbia dichiarato che si tratta di storie vere lo sentono come una specie di ricatto, e mi hanno fatto notare che si tratta comunque di invenzione, perché la scelta degli episodi e il punto di vista e il modo in cui li confeziono sono miei, e il mio libro verrà letto come un romanzo. Ma io credo che sia importante sapere che gli episodi che racconto sono successi davvero.
A volte mi sembra che la teoria letteraria egemone oggi (che sostiene che non esiste autobiografia, perché tutto è autofinzione) sia una forma di nichilismo. Che la vita sia accaduta o no, per loro evidentemente è uguale.

In una pagina del libro parli della scrittura e del pensiero: pensiero e scrittura hanno tempi diversi.
Il pensiero è sintetico e rapido, la scrittura è analitica e lenta. Proprio per questo mi interessa ciò che la scrittura innesca nel pensiero, mentre si scrive: si è costretti a pensare in modo che la mente si adegui alla velocità della scrittura.
Ma siccome il pensiero non lo puoi rallentare, ecco che mentre scrivi produci una serie di pensieri liminari, come erbe spontanee che spuntano sui cigli della strada, fiori che sbocciano ma non entrano a far parte del nastro stradale, e che inevitabilmente vengono trascurati, non sono trascritti.
Scrivere consiste anche nel fare esperienza di tutti quei pensieri suscitati dall’atto della scrittura stessa, e destinati a essere dimenticati.

Molti i rinvii alla poesia e al teatro greco e latino. A pagina 39 scrivi: “Nello spettacolo greco, l’anima è un cittadino. Nello spettacolo romano, l’anima è un suddito”…
La differenza è questa: nei loro teatri, gli antichi greci inventano un nuovo dispositivo, la scena (skenè), cioè il fondale teatrale, e dunque anche il retroscena. È possibile cambiare costumi, avvicendarsi fra attori, fare salti temporali: insomma, fingere.
Ma ciò che si produce nell’animo dello spettatore non è finto, è reale: ci si commuove davvero, si ride, si parteggia con pena e stress etico per la sorte dei personaggi, ci si chiede chi ha torto e chi ha ragione. Invece lo spettacolo romano prende il teatro e lo fa diventare anfiteatro, toglie il fondale, circonda di spettatori l’arena, non c’è più retroscena, tutto è in mostra, ti fa vedere sangue vero, non puoi fare altro che constatarlo. In questo senso diventi suddito della scena.

Inoltre le pagine sul teatro greco e romano si collegano alla sequenza finale sul bungee jumping a Jesolo e i gladiatori nei reality televisivi: chi sono i gladiatori oggi?
Mi è sembrato di riscontrare un’analogia fra chi rischiava di farsi molto male nelle antiche arene romane e chi oggi si mette in mostra nei social o nei reality show. Si dice sempre che si tratta di narcisismo o esibizionismo di massa, e che è tutto finto. È un giudizio riduttivo, perché non tiene conto del fatto che, come dei gladiatori contemporanei, oggi ci si gioca la carriera, la reputazione, la fedina penale per un post maldestro o una prestazione televisiva mediocre.

E perché abbiamo bisogno di gladiatori?
Io personalmente non ne sentivo il bisogno, perlomeno nelle forme che l’attuale anfiteatro di massa (i social) ha assunto da dieci anni in qua. Ma non si può negare che la letteratura ha sempre praticato un’analoga messa in mostra del sé, molto spericolata, dai lirici greci e Agostino d’Ippona in poi. La società è ipocrita, e la verità sulla vita deve pur venir fuori da qualche parte.
Uno degli spifferi da cui sprizza fuori la verità sulla vita è la letteratura.

Immaginiamo un critico impiegatizio, un bibliotecario da classifica, un agrimensore della letteratura, un burocrate dei tomi, che deve decidere su quale scaffale sistemare il tuo libro: con gli altri titoli di Tiziano Scarpa? Narrativa? Erotismo? Diaristica? Sociologia storica? L’impiegato – si suppone occhialuto – ha la fortuna di conoscerti e chiede consiglio direttamente a te.
Sullo scaffale delle autobiografie.

In questo libro non ho inventato nulla”. “La verità e la biro” sfugge a ogni definizione (ma c’è bisogno di una definizione?): romanzo, diario, journal intime, confessione, sesso esplicito… c’è tutto. Il lettore ride di gusto ma il retrogusto è amaro. Ho la sensazione che sia per te un libro che segna un passaggio fondamentale: dopo “La verità e la biro” Tiziano Scarpa è un altro. È così?
Non saprei, non faccio mai previsioni, perché spesso le idee per i libri mi arrivano inaspettate. Comunque vorrei impiegare il tempo di vita che mi resta scrivendo più fittamente.
Credo che un libro prima o poi lo dedicherò ad alcune disavventure che ho vissuto, e quindi mi esporrò di nuovo con un altro libro autobiografico. Non so se lo farò subito o fra qualche anno. Ho altri romanzi che premono.

E infatti: “I grandi amori sono arrivati, i grandi dolori anche. Il più recente è una diagnosi clinica. Sto per subire una transizione sessuale a causa di un’operazione chirurgica, da uomo che sono verrò trasformato in qualcos’altro. […] Tu che leggi, sappi che il sottinteso di ogni parola che troverai in queste pagine è la consapevolezza che, quando saranno pubblicate, io non sarò più un maschio. Non sto scherzando. Perciò, di fatto, questo libro è anche un congedo dalla mia maschilità”. Sono righe della tua “Avvertenza”, all’incipit del libro: io le trovo un po’ inquietanti…
Eh, per l’appunto, ho avuto delle disavventure e ho attraversato un po’ di esperienze, secondo me non banali, che meriterebbero di essere raccontate e analizzate.

Così “La verità e la biro” è anche un congedo.
Se intendi “congedo fisico”, quello riguarda malattie e guai vari. Se invece intendi un congedo letterario, non direi. Questo libro è stato un viaggio in un’altra direzione rispetto ai libri precedenti. Ma, se mi volto indietro, mi sembra che quasi tutti i miei libri lo siano: ho viaggiato con la mia scrittura in tante direzioni diverse, mi sono messo nei panni di persone e personaggi diversi da me, e per impersonarli e capirli meglio ho dovuto scrivere con stili non miei, e perfino in lingue non mie…

E vedo il tuo percorso, dai “Cannibali” a oggi…
Sai, i “Cannibali” erano un’etichetta molto esteriore, incollata da altri: non è stato un nome collettivo che ci siamo scelti, come facevano un tempo le avanguardie. Io tra l’altro non c’ero in quella antologia, “Gioventù cannibale”, quindi considerarlo un mio “punto di partenza” secondo me non ha molto senso.

E il futuro?
Spero di avere tempo sufficiente per scrivere i libri a cui tengo di più, prima di morire.

 

L’autore:
Tiziano Scarpa è nato a Venezia nel 1963. È laureato in Lettere all’Università Ca’ Foscari.
Ha esordito con “Occhi sulla graticola” (Einaudi 1996). Tra i suoi libri più recenti “Cosa voglio da te” (Einaudi 2003), “Kamikaze d’Occidente” (Rizzoli 2003, minimum fax 2019), “Corpo” (Einaudi 2004), “Groppi d’amore nella scuraglia” (Einaudi 2005), “Stabat mater” (Einaudi 2008, premio Strega 2009, premio SuperMondello 2009), “Le cose fondamentali” (Einaudi 2010), “La vita, non il mondo” (Laterza 2010), “Come ho preso lo scolo” (Effigie-Il Primo Amore 2014), “Il brevetto del geco” (Einaudi 2016), “Il cipiglio del gufo” (Einaudi 2018), “Le nuvole e i soldi” (Einaudi 2018), “Una libellula di città” (minimum fax 2018), “La penultima magia” (Einaudi 2020).
Dall’inizio degli anni Novanta a oggi ha scritto una quindicina di testi per la scena e per la radio, fra cui “L’infinito su Leopardi” (Einaudi 2011).
Nel 2002 è tra i fondatori del blog collettivo Nazione Indiana, dal quale esce nel 2005 per fondare il sito-rivista Il primo amore.

(Tiziano Scarpa “La verità e la biro” pp. 224, 18,50 euro, Einaudi 2023)

 

 

Immagini        —————————

Coralli

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

 

Anteprima        ————————-

Donna numero 13

Le mie donne

di Yuliia Iliukha

La donna che stava imparando a vivere non riusciva a trovare la calma.
Il mondo, che prima le sembrava così vasto, si era ristretto e raggrinzito. Si stendeva davanti a lei come un abbecedario nelle mani di una scolaretta di prima elementare, ma lei non aveva la forza di imparare le lettere. Dormiva male e mangiava poco, dimagriva e invecchiava. Non riusciva a restare a lungo nello stesso posto.
Solo viaggiare la salvava dai cattivi pensieri, solo i nuovi luoghi la aiutavano a dimenticare.
La donna amava gli alberghi: creavano una vana illusione di casa, una proiezione di finta felicità. Negli alberghi la donna si sentiva come nella sua vita passata, quando ogni viaggio era una vacanza tanto sognata e non una fuga precipitosa.
Davanti a lei, le città si moltiplicavano come in un caleidoscopio. In ogni città camminava sino a stancarsi, così da addormentarsi senza sognare. Luoghi di indescrivibile bellezza, che aveva desiderato visitare per tutta la sua vita precedente, ora le appartenevano. Ma lei non era veramente presente.
La donna avrebbe voluto tornare a sentirsi come un tempo, felice di essere inconsapevolmente felice, ma aveva smarrito quella sensazione su uno dei tanti treni.
Ora non aveva davanti a sé altro che un’infinita incognita.
Il giorno dopo l’aspettava una nuova partenza.

 

L’autrice:
Yuliia Iliukha è una poetessa, scrittrice e giornalista, nata nella regione di Kharkiv, in Ucraina. È autrice di oltre dieci libri per adulti e bambini. Le sue poesie e i suoi racconti sono stati tradotti in inglese, tedesco, italiano, bulgaro, ungherese, catalano, polacco, svedese, portoghese, francese.
Iliukha ha ricevuto numerosi premi, tra cui il premio letterario internazionale ucraino-tedesco Oles Honchar, il premio del Concorso letterario internazionale Word Coronation 2018, il premio Smoloskyp, il premio International Chapbook Prize 2023 della rivista 128 LIT (USA).
Dall’inizio della guerra in ucraina nel 2014 si occupa di volontariato. Insieme a un’amica hanno raccolto oltre 500 kit medici individuali per i soldati ucraini.

Di prossima pubblicazione il suo libro “Le mie donne”, di cui qui pubblichiamo in anteprima un testo, che verrà lanciato in Ucraino con testo originale a fronte e la traduzione inglese, e in italiano, pubblicato dalla casa editrice Le Mezzelane.
Nell’edizione italiana le illustrazioni e l’immagine di copertina sono di Iryna Sazhynska, i testi sono tradotti in italiano da Marina Sorina e l’editing è curato da Marinella Giuni.

 

La traduttrice:
Marina Sòrina, nata a Kharkiv nel 1973 in Ucraina, in Italia dal 1995, è laureata in Lingue straniere presso l’Università di Verona. Nel 2009 ha conseguito un dottorato di ricerca in letterature comparate presso lo stesso Ateneo.
Dal 2014 fa parte del direttivo di “Malve di Ucraina” APS, l’associazione che riunisce la comunità ucraina veronese presso il Centro per le donne migranti “Casa di Ramia”.
In ambito letterario ha pubblicato i libri di narrativa “Voglio un marito italiano” (Punto d’incontro 2006) e “Storie dal pianeta Veronetta” (Tra le righe 2018).
Ha tradotto il libro di narrativa “Diario di un fallito” di Ėduard Limonov (Odradek 2004) e le poesie di “Lettere non spedite” di Oksana Stomina. Vive a Verona.

La foto ritratto di apertura è di Nastia Telikova, quella della biografia è di Natascha Reiterer.

 

 

 

 

Immagini        —————————

I Giganti

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

Voce d’autore        —————————-

Gli artigli disegnano linee spezzate

Valeria Bianchi Mian, Martina Campi, Ksenja Laginja, Teodora Mastrototaro e Silvia Rosa, “Bestie. Femminile animale”

di Giovanni Fierro

La parte animale di ogni individuo è sapienza e sorpresa, gesto che diventa identità e nuovo confronto con il proprio inconscio. Passo necessario nell’esplorazione dell’esistenza, della società, di quel mistero che ci fa ancora credere nella sopravvivenza della vita stessa.
E l’antologia “Bestie. Femminile animale” è questa continua esplorazione della vicinanza umano-animale, l’appartenenza reciproca che costruisce la propria identità.
Valeria Bianchi Mian, Martina Campi, Ksenja Laginja, Teodora Mastrototaro e Silvia Rosa sono le firme di queste pagine, che danno forma a venticinque bestie che con l’umano condividono respiro e battito cardiaco, ne sono il confronto e la più prossima appartenenza. Per costruire esseri più liberi e che sanno osare anche oltre il perimetro di ogni inevitabile paura.
Tutto questo per meglio domandarsi di sè, nel tratteggiare un ritratto più preciso del proprio sguardo, per dire che “Porto addosso l’evidenza di bastare/ al mio respiro – unica regina/ e solo re del mio destino”, “Lasciando una scia trasparente di saliva colare/ a picco, in ogni direzione, intorno/ al fulcro esatto del mio enigma” (Silvia Rosa).
Perché il confronto è anche con il tempo di cui siamo chiamati a testimoniare, luogo dove “andavamo in direzioni diverse/ e dove siamo state ieri,/ oggi lo sappiamo (dire)/ nel verde, nel sole a picco” (Martina Campi).
Che certo nulla è facile, in vita quanto in sogno, e allora “sbranami – ma di fiori – il corpo mio” (Teodora Mastrototaro), siccome “si addomestica facilmente/ ciò che muore” (Valeria Bianchi Mian), quando “il mondo brama/ le cose senza padrone/ ma l’anima resta libera/ durante la caccia” (Ksenja Laginja).
Il libro è questo sottolineare il sacro dell’esistenza come esperienza primaria, umano ed animale intrecciati in un sempre che è da difendere, la trasformazione del chiedersi continuamente chi si è, davanti alle proprie responsabilità e ai propri desideri.
Dice bene la curatrice del volume Alexandra Zambà: “Comprendere gli animali è come aprire la porta del nostro inconscio e passare al di là” (nell’intervista che potete leggere qui sotto).
E questo vuol dire avere un migliore rapporto con la propria verità, con la propria parte animale, maggiore fiducia in ciò che si è.
Il risultato è anche una nuova considerazione del mondo animale, un ribaltamento di percezioni e significati, dove l’anima (assoluta, universale, umana quanto animale) è il luogo prescelto affinché il confronto (umano-animale, ma anche umano-umano) possa essere anche visionario, “penserò a te nel mestruo puntuale/ o dentro qualche incubo straniero” (VBM) e il concetto del vivere si fa certamente più chiaro e preciso, “principio e fine del tutto/ eterno ritorno nel grembo” (KL); con il desiderio di conoscere la misura esatta di ciò che ci serve, quando “la mente è un vasto oceano/ che perde i contorni, un ghiacciaio/ che si ritira precoce, per sempre” (SR).
Diventa così fondamentale anche riconoscere la forza di cui servirsi, anche per accettare di arrendersi, “sono fusa alla morte quando la sera/ mi rifugia in ogni parte” (TM), forse per raggiungere una serenità che non è più una utopia: “ritorna la mia casa, e ovunque vi fosse un riparo” (MC).
“Bestie Femminile animale” è questo lavoro corale, dove la poesia e la scrittura sono il nuovo campo scientifico per poter sviluppare la più profonda comprensione dell’incontro umano-animale.

(le illustrazioni all’interno del libro sono di Valeria Bianchi Mian e Ksenja Laginja)

 

 

Dal libro:

L’orsa bianca farnetica
da quando ha il cuore incrinato,
si rivolge a una stella con versi
rochi e cupi, mentre il gelo scorre
lungo il suo manto via da un minuscolo
fiore carminio che si apre sul fianco,
una crepa che lascia fluire a terra
la costellazione del suo nome
e gli occhi di tutti i suoi figli,
di cui non distingue più il volto.
Gli artigli disegnano linee spezzate
nel vento, la mente è un vasto oceano
che perde i contorni, un ghiacciaio
che si ritira precoce per sempre,
come alla fine di un’era glaciale.

Per la prima volta da che ha memoria
sente qualcosa di simile al freddo.

Silvia Rosa

*

Il becco si spalancò
per far uscire la notte,
regina della notte rapace
pupille dilatate sul mondo.

Artigliare l’essenza
farne materia plasmabile
al mutare dei canti.

Ksenja Laginja

*

Un fenomeno sacro cola,
in forma di luce lo spazio
crudo tra le rughe delle ali,
segna sulla polvere che cambia
la forma del dolore senza morte
a farsi più cielo.

Teodora Mastrototaro

*

Prenderà posto sull’arcobaleno
la sposina già sospesa nell’attesa
del viaggio di nozze con l’aitante
viveur della riviera di Ponente.
Avrà più tardi dolori tra le costole
i bei capelli strappati a viva forza
di tradimenti conficcati nei neuroni
e buchi vuoti
negli occhi avrà bottoni.
Conterà il tempo delle gabbie strette
nella pelliccia a difendersi dal gelo.
Com’è elegante la signora
per la chiesa.
Si addomestica facilmente
ciò che muore.

Valeria Bianchi Mian

*

a quando confondevo le tracce
e nelle notti d’inverno uscivo
dalle depressioni del terreno e lo spazio
intorno era una distesa ondeggiante di silenzio

a quando il mio respiro era nell’erba alta
un fruscio tra gli altri, del vento in corsa
e tu conoscevi, di me, solo la mia velocità

ritorna la mia casa, e ovunque vi fosse un riparo

e ora che ho lasciato la mia zampa nella vigna
ora, che la mia zampa è dilaniata e derubata e deturpata
e quello che resta è sparso lungo la vigna,
sotto il solo di gennaio, che ne sai di me?

Martina Campi

 

 

Intervista ad Alexandra Zambà:

Curatrice del volume “Bestie. Femminile animale”

Quale la sensazione predominante che lei ha vissuto, a conclusione dell’intero progetto “Bestie. Femminile animale”?
Noto che la prima domanda comincia dalla fine, quando le carte sono belle e messe sul tavolo! Posso dire che la mia collaborazione con le cinque giovani scrittrici ha preso le mosse dal mio desiderio di saper di più sullo sforzo generale di estendere agli animali i principi e le norme proprie degli umani, dalla mia volontà di porre fine al pregiudizio e alla discriminazione basati sullo specismo, criterio arbitrario allo stesso modo del razzismo e del sessismo.
Continuando le riflessioni sull’intreccio delle idee delle cinque poetesse, da me messo in risalto nell’introduzione del libro “Bestie”, posso dire che nel corso delle discussioni con le autrici mi investiva la sensazione di trovarmi davanti a tessitrici dell’inesprimibile. Osservavo lo sgretolarsi delle certezze degli stereotipi dominanti, contaminati dal sessismo e dalla presupposta superiorità dell’umano sull’animale. Infine, è diventato evidente che il tempo trascorso tra il prima e il dopo della ricerca ha rivoluzionato i canoni dominanti. La pluralità dei punti di vista delle cinque poetesse ha amplificato i risultati della loro ricerca attraverso lo sbocciare delle loro poesie.
Comprendere gli animali è come aprire la porta del nostro inconscio e passare al di là, dove emerge la volontà di planare nel liquido amniotico, caldo, nutriente, protettivo e sacrale, godere del silenzio, non avere bisogno del respiro, non sentire il peso della gravità ma nuotare.
Ha avuto esito il tentativo di godere del silenzio, sentire irrompere le onde a tratti amplificate, entrare nelle profondità femminili dell’invisibilità.

Nel libro sono diverse le voci coinvolte, in che modo si sono confrontate? Cosa hanno costruito ‘assieme’?
Ho partecipato attivamente alla costruzione del libro, e come un’onda mi avvicinavo e mi allontanavo, distaccandomi per essere libera di valutare a ogni giro di pagina.
Il libro “Bestie. Femminile animale” assomiglia più ad un carteggio tra poetesse che a un libro collettivo. Un canto a più voci, un repertorio cantato da voci libere, l’unione di più voci anche non appartenenti alla stessa chiave melodica. Poi il tempo scorre e affina le idee nel corso dello scambio, spesso le smembra, travolge i significati, ma poi li ricompone cambiando le forme.
L’accostamento tra condizione umana e condizione animale si è più volte formato e poi smontato per dare il senso che soddisfa campi semantici differenti, secondo il mondo fantastico di ciascuna ma senza ricadere in metafore animale-donna scontate.
Una volontà che andava via via delineandosi come testimonianza del tempo-spazio a partire dall’assorbimento dell’infanzia.

Perché “Bestie” è allo stesso tempo una ricerca della propria voce, di ogni singola autrice, e di una voce più ampia, collettiva e corale. Mi sbaglio?
Potrei dire che le testimonianze delle cinque autrici della ricerca della propria voce partono da una consapevolezza psicologica transpersonale collettiva. Loro tendono a demolire la semplicità della rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità del senso che la sovrabbondanza dei segni del corpo produce. Sentono il bisogno di risolvere la questione dell’antropocentrismo, di cogliere ogni sfumatura ontologica tra uomo e animale.

E forse si vive anche una esigenza di avere una parte animale… Per proteggersi? Per dare valore alla parte più spontanea? O cos’altro ancora?
Non so se si sente l’esigenza di avere una parte animale per proteggersi o come scrive William Blake “il cervo vagando per il sentiero salva l’umana anima dal suo pensiero”.
Penso che per lo più si riconosce una ricerca di voler instaurare meglio i rapporti simbolici nella natura e nell’animalità. Da tener presente che per millenni alla donna è stato impedito di vivere in società, racchiudendola nelle mura domestiche.
Forse in “Bestie” si vuole condividere la felicità dell’animale, vivere in armonia con la natura come l’animale. Non vivere negli artefatti umani che costruiscono uno spazio separato dalla natura.
Questa separazione, che allontana la donna dal ciclo della natura e assegna all’uomo la conquista dello spazio, è la base della presunta superiorità dell’uomo sulla donna, gli animali e la natura con un continuo esercizio della violenza come espressione di potere, che si nota in tutte le culture, creando una mancata alleanza fra i generi, una disuguaglianza e una sottomissione, uno sfruttamento.

Quanto la parte umana influisce sulla dimensione ‘bestia’? E quale il carattere femminile che ne emerge?
Interrogare l’animalità̀ vorrebbe dire sondare l’intelaiatura complessa della vita, cercare di comprendere fino a che punto tale telaio sia modificato o mascherato dall’essere umano.
Ma prima di tutto bisogna ammettere che tra l’animale e il suo contesto c’è una comunione, uno scambio che garantisce all’animale stesso l’armonia d’essere uno con la natura.
Forse le cinque poetesse del libro sono alla ricerca di tale armonia, dello scatto istintuale della poesia “Tigre Assenza” di Cristina Campo, che in una lettera all’amica Margherita P. Harwell scrisse di vedere la tigre nell’oscurità in un angolo della sua stanza a battere il tempo con la coda.

In che modo si può mettere in relazione questa antologia con il corrente bisogno e desiderio di una maggiore libertà identitaria dell’universo femminile?
L’intesa che ha accomunato le poetesse del libro “Bestie” è stata prima di tutto di evidenziare “la trasversalità che caratterizza l’esistenza femminile”, e allo stesso tempo la discriminazione, subordinazione e negazione della donna in ogni parte del mondo.
Nei discorsi preparatori del libro prendono posizione sulla responsabilità delle scelte compiute, pronte a cogliere e valorizzare le peculiarità dei loro vissuti, nella tensione continua del rinnovamento che è capacità di modificazione, relazione tra sé e il mondo. Tale ricerca si è concretizzata nella mediazione fra l’interno e l’esterno, fra il sé e l’altro, fra la donna e l’uomo, fra la singolarità e la collettività nelle continue metamorfosi delle esistenze.
Se l’identità si costruisce attraverso il confronto e la mediazione, allora rintracciamo in essa il luogo d’incontro della differenza, di ogni possibile differenza. Possiamo dire per ciò che l’attuale globalizzazione produce un falso universale che tratta le identità culturali come un dato, come strutture statiche, quando invece sono plurali e in divenire. Come rifletteva il filosofo Jacques Derrida: “L’identità è frutto del riconoscimento degli altri. L’identità è un dono sociale“.

Un tratto importante, che mi sembra emerga in modo netto e significativo, riguarda l’anima, che si mostra come esperienza, un accadere dove umano e animale si intrecciano, si completano, si sfidano. È così?
Sì, certo, abbiamo grandi artisti e pensatori come Alberto Savinio che nel 1944 scriveva dell’anima: “accosciata sul fondo di una fetida stanza che sembra la gabbia di uno zoo, la ‘nostra anima’ è una fanciulla nuda con testa di pellicano. La sua pelle è tutta incisa dalle frasi dei visitatori, come un rudere”.
E aggiunge lo psicologo del profondo James Hillman: “’fare anima’ significa prendere la realtà pezzo per pezzo e ricondurla all’anima, ai regni di Ade, alla dimora delle ombre, alle profondità dell’eterno femmineo, ai reami dell’Io istintuale”.
Posso concludere che le cinque poetesse tessono il libro con diversi fili dove l’umano e l’animale si intrecciano, si completano, si sfidano, in un progetto di vita in cui ci sono aspetti della nostra complessità nel saper dialogare e interrogare le profondità psichiche, ricordando che nessuno si attiene nella vita a un solo ruolo: siamo tutti multiformi.

 

 

Le autrici:

Valeria Bianchi Mian conduce corsi di scrittura creativa con Golem Edizioni e Psicologia.io e co-conduce il progetto “Medicamenta, lingua di donna e altre scritture”, con percorsi di poesia terapia e produzione di antologie. È illustratrice di testi oltre che saggista, scrittrice e poeta.

Martina Campi è autrice e performer. Ha lavorato in progetti artistici audiovisivi per la piattaforma Howphelia e pubblicato testi con varie case editrici. La sua poesia è tradotta in più lingue ed è presente su litblog, riviste e antologie e progetti corali.

Ksenja Laginja vive e lavora tra la sua città, Genova, e Roma. Autrice di diverse pubblicazioni, nel 2020 ha vinto i premi Europa in Versi e Arcipelago Itaca e nel 2021 il Premio Renato Giorgi, nella sezione inediti. Co-organizza la rassegna di poesia e musica elettronica “Poème Électronique”.

Teodora Mastrototaro è drammaturga e poetessa, la sua ultima pubblicazione è “Legati i maiali” (Marco Saya 2020), è stata finalista al premio Arcipelago Itaca per la sezione Raccolte Inedite. Vince il Premio Speciale del Presidente di Giuria al concorso Bologna In Lettere 2021.

Silvia Rosa insegnante a Torino, è direttrice della rivista digitale “Poesia del nostro tempo”. Autrice di raccolte poetiche, i suoi testi poetici e in prosa sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno, portoghese e turco. Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di alcuni autori argentini.

 

La curatrice:

Alexandra Zambà cipriota di lingua greca, vive e lavora a Roma. Organizzatrice culturale europea, promuove decine di eventi ogni anno in Italia, Grecia e Cipro. Ha fondato con altri Vita Activa Edizioni. Suoi testi poetici sono accolti in diverse riviste e antologie internazionali.

(Valeria Bianchi Mian, Martina Campi, Ksenja Laginja, Teodora Mastrototaro e Silvia Rosa, “Bestie Femminile animale”, prefazione di Alexandra Zambà, pp. 93, 17 euro, Vita Activa Nuova 2023)

 

 

 

 

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I laghetti del Preval

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

 

Latinoamericana        ———————–

El pensar viaja en el féretro de la costumbre   Il pensare viaggia nel feretro dell’abitudine

Cinque testi inediti in italiano

di Sergio Abaldi

“Pienso, luego existo”.
Es decir,
el pensar viaja en el féretro de la costumbre.

“Penso, poi esisto”.
Come a dire,
il pensare viaggia nel feretro dell’abitudine.

dal libro “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales I”, 2004

*

Un día antes de que la primavera nazca,
justo el día en que el invierno muere…
Siempre la hemorragia de un calendario que sitúa en tiempo y forma.
Tiempo práctico de los relojes…
Forma aritmética de inventarnos en los estados de ánimo de la naturaleza…
Pero esa no es mi morada, ahí no puedo!
Y otra vez el naufragio me arrima a la orilla menos pensada,
a demorarme fuera del sistema de representación del transcurso de las cosas,
a dejar de multiplicarme invicto en las tablas de las épocas y despertenecerme…
Al fin y al cabo, si no fuera por pensarme, a lo mejor…
nunca estuve.

Un giorno prima che la primavera nasca,
proprio nel giorno che l’inverno muore…
Sempre l’emorragia di un calendario che colloca nel tempo e nella forma.
Tempo pratico da orologi…
Forma aritmetica d’inventarci negli stati d’animo della natura…
Ma questa non è la mia dimora, lì non posso stare!
E un’altra volta il naufragio mi avvicina alla riva meno pensata,
per dimorarmi fuori dal sistema della rappresentazione del trascorrere delle cose,
per smettere di moltiplicarmi invitto nelle tavole delle epoche e desappartenermi…
Alla fin fine, se non fosse per il pensarmi, probabilmente…
mai sono stato.

dal libro “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales II”, 2007

*

Del alfabeto de la esperanza arrancaron las letras de mi nombre.
En el simulacro de la presencia mis huesos son atuendo.
Qué puedo decir y además para qué…
Siempre seré nada…
uno más entre tanto nadie.

Dall’alfabeto della speranza hanno strappato le lettere del mio nome.
Nella parvenza della presenza le mie ossa sono un abito.
Cosa posso dire e poi perché…
Sempre sarò nulla…
uno in più tra tanti nessuno.

dal libro “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales III”, 2011

*

Se dice que todos los árboles
elevan sus “brazos” hacia el cielo…
hacia el sol.
Que encestan en lo viable de lo inmediato.
Se dice que todos
menos uno
lo hacen.
Es que el sauce no reglamenta en esto…
No sólo sus ramas,
hasta sus hojas
parecen pelear por acariciar su raíz.
En este punto,
si me incorporo a la figura,
digo que agradecen
porque entienden
que para poder florecer,
antes se debe ser.

Si dice che tutti gli alberi
alzano le loro braccia al cielo
verso il sole.
Incestano nel vitale l’immediato.
Si dice che tutti
meno uno
lo fanno.
Il salice non fa parte della regola…
Non solo i suoi rami,
perfino le sue foglie
sembrano combattere per accarezzare le sue radici.
Su questo punto,
mi allineo all’immagine,
dico che ringraziano
perché capiscono
che per poter fiorire,
prima bisogna essere.

*

Tal vez haya que invertir la coreografía de la vida…
No plantar árboles,
no escribir libros,
tampoco hijos tener
y demás apéndices de lo táctico cotidiano.
Tal vez haya que aprender a aprender
que debe el hombre quedarse sin el hombre,
a soltarse de sí…
En definitiva es a lo único
que realmente estamos agarrados.
Alguna vez tiene que llegar el instante
en el que en esta eternidad,
el hombre descanse del hombre.

Forse bisogna capovolgere la coreografia della vita…
Non piantare alberi,
non scrivere libri,
neanche avere figli
e le altre appendici della strategia quotidiana.
Forse bisogna imparare ad imparare
che l’uomo deve restare senza l’uomo,
slegarsi da se stesso…
Alla fine è l’unica cosa
a cui realmente siamo aggrappati.
Forse deve arrivare l’istante
dove in questa eternità
l’uomo si riposi dell’uomo.

dal libro “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales IV”, 2013

Tutte le poesie di Sergio Abaldi sono state selezionate e tradotte in italiano da Antonio Nazzaro.

 

L’autore:
Sergio Abaldi si dice che nacque davanti al porto della città di Buenos Aires, nella decade degli anni ’60, nell’oramai scomparso Ospedale Ferroviario.
È professore d’inglese e fotografo. Il suo lavoro poetico-filosofico-letterario-fotografico pubblicato: “Argentina y sus escritores – Antología Nuevos Poetas” (Editorial Nuevo Ser 2003), “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales I” (Editorial Nuevo Ser. 2004) “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales II” (Editorial Centro Cultural Borges 2007) “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales III” (Editorial Centro Cultural Borges 2011) “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales IV” (Editorial Centro Cultural Borges 2013), “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales V” (Editorial Centro Cultural Borges 2019), “El eterno grito de la existencia – Sentencias Viscerales VI” (Editorial S.A. Ediciones Independientes 2022).
È presente nellantologia “43 Poetas por Ayotzinapa” (Edición Digital, 2015), “Elena y el volcán – Antología poética homenaje a Elena Garro” (Editorial Novelungos de Rucio y Caronte – Cía. Mexicana de Arte & Cultura en el Mundo S.C. 2022).

 

 

 

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Oltre – Il cammino

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

 

Voce d’autore         —————————-

Penso che tu non sia

Nicola Skert, “Il Randomante”

di Antonello Bifulco

Giunge finalmente nelle migliori edicole, scusate librerie, la silloge di poesie intitolata “Il Randomante” scritta da Nicola Skert e portata alle stampe dai tipi della qudulibri, casa editrice Goriziana, con la prefazione di Vieri Peroncini.
Il Randomante, a detta dello stesso autore, è quella persona che colto da insensibilità nei confronti della società che lo circonda, erra alla ricerca del vero senso della vita sapendo benissimo di incontrare immani difficoltà, quindi comincia dalla fine e ci racconta che: “Sto morendo/ i medici sostengono/ che non è nulla di grave/ che è un malessere momentaneo/ che passerà/…/ Ma è ineluttabile/ sto morendo/ Da quando?/ Solo questo so/ Dal cinque febbraio millenovecentosettantadue”. Insomma comincia dalla certezza della pena, e come dargli torto, è sempre bene cominciare da qualcosa di ineluttabile.
Autore di romanzi e racconti difficilmente ascrivibili ad un genere, se non nelle ultime opere letterarie che lo vedono impegnato con il giallo friulano, dopo anni, lunghi anni di attesa, Nicola decide finalmente di pubblicare la sua raccolta di poesie, una raccolta che riassume più di due lustri chiusi nei cassetti a sedimentare.
Si potrebbe dire che le parole hanno sedimentato un piccolo capolavoro poetico. L’autore ci accompagna dentro la sua ricerca della verità, la verità insita nelle cose, la verità raccontata con l’aiuto dell’ironia, dell’autoironia, con il surrealismo nudo e crudo quando ci racconta che Dio è carnivoro e si nutre della nostra carne, chiedendosi se la carne torna alla terra e l’anima va a Dio, cosa resterà dell’uomo?.
I temi trattati da queste sue poesie? Ci ha messo tredici anni per pubblicarle i temi non possono essere quindi che variegati ed uno per ogni colore dell’arcobaleno.
Il primo dei temi lo capirete già alle prime parole è l’amore, ma non l’amore di una persona qualunque, l’amore visto da Skert a volte dissacrato, a volte disperato di un rapporto andato, l’amore che è amarsi vivendo in un mondo piccolissimo dove il prezzo di ogni cosa è fissato in anticipo anche per l’amore.
L’amore che si stufa dei luoghi comuni e si chiede quando mai una storia è a lieto fine, o è lieta o è finita, l’amore per se stessi davanti allo specchio dell’anima e chiedersi ancora un minuto per stupirsi, insomma l’amore dei problemi, piccoli, grandi, risolti e irrisolti, sapendo che il problema è la vita, che rimane comunque irrisolta.
Gli altri colori di questo arcobaleno tematico ci portano attraverso l’alienazione, la disgregazione familiare, l’errore ripetuto più volte perché sbagliando non si impara, anzi forse si ripetono meglio gli errori, ci racconta che farsi bastare un foglio bianco per descrivere le emozioni può essere un salvagente in un mare di solitudine e che ci vorrebbero tre vite per capire che è tutto comunque una burla.
La bellezza di queste poesie è anche nel piacere che prova l’autore ponendosi delle domande, tante domande, il più senza risposte poiché le domande alle volte sono fuori tema, sono inutili e cercare di capire perché sono inutili è un buon punto di partenza per capire che “A volte la vita/ è così/ Un filo trasparente/ Su cui inciampo/ Con un cuore tra le mani/ Merda in testa/ E troppi pensieri nel culo”.
Insomma qualcuno potrebbe pensare che alle volte è troppo dissacrante, anche per la Poesia, di cui lui ne ha visioni variegate, ma che hanno un fondo di verità quando dice che la Poesia è una bonifica del cuore o quando tranquillamente ci comunica che la poesia è spesso un letamaio di anime putrescenti.
Io invece voglio raccogliere alcune sue indicazioni sulla vita, e cioè che si lotta per essere sicuri alla fine di essere felici, che c’è sempre, nonostante tutto, l’ironia di una fine non voluta, di un esito non sognato, di una promessa non mantenuta per quella terra promessa un metro sotto.
Per chiudere voglio ricordarmi sempre di queste sue parole: che la Vita, come nei giochi olimpici, dovrebbe essere di “solidarietà/ Dove il primo/ Prima del traguardo/ Si ferma/ Per aiutare l’ultimo/ Per poi tagliarlo abbracciati/ Ecco/ Questo è il podio che vorrei/ Ora/ Quello di cui/ C’è bisogno”.
Ecco, questa era la poesia che volevo!

 

 

dal libro:

Se la vita

Se la vita
È una gara
A chi arriva per primo
Non partecipo
Grazie

Potrei pure vincere
Per carità
Ma non me ne frega
Un cazzo

Vinco solo
Se la gara
È per gioco
E se almeno
La vita
Fosse un gioco

Avete francamente
Rotto le palle
Con la competizione

I prossimi giochi olimpici
Li voglio di solidarietà
Dove il primo
Prima del traguardo
Si ferma
Per aiutare l’ultimo
Per poi tagliarlo abbracciati
Ecco
Questo è il podio che vorrei

Ora
Quello di cui
C’è bisogno

*

Sono un uomo di mezzo

Sono un uomo
Di mezzo
E non posso
Farci niente

Sempre mezzo fuori
E mezzo dentro
Mezzo si è mezzo no
Mezzo pure forse

Nel mezzo di una strada
O di un cammino
Nel mezzo di un bicchiere
Sempre mezzo pieno
E di una odiatissima sigaretta
Sempre mezzo smetto
E mezzo smezzo

Mezzo di me a te
E mezzo di me a me

Una continua oscillazione
Un andare su e giù
Forse perché per me
La vita
È un atto sessuale proiettato
All’amore
Alla creazione
E si sa
Che ogni parto
Non è indolore

E per questo
Anche se sono
Un uomo di mezzo
Non sono
Un mezzo uomo

*

Mi sento un piccolo Dio

Mi sento un piccolo Dio
A cui hanno strappato
Il mondo
Nel giorno della Creazione

Mi sento un Angelo
A cui un piccolo Dio
Ha strappato le piume
Per sapere
Se l’ama o non l’ama

*

La meraviglia è in me

La meraviglia è in me
Peccato che io sia spesso
Fuori di me
Incazzato e iracondo
Sempre pronto a rientrare
Solo per fare a botte
Con qualche parte
Di me

E poi me ne esco
Di nuovo
Con l’aria soddisfatta
E un ghigno insoddisfatto

Di nuovo fuori da me
In cammini lontani
Da questa terra
E dai suoi abitanti
Così lontani
Che li puoi ritrovare
Solo seguendo la mappa
Delle mie rughe

Un labirinto in cui intrappolare
Un mostro da liberare
Una tela lisergica
Di ragno sotto acido
Una rete da pesca
Intessuta da pescatori ubriachi
Nei quali continuamente cerco
Un tesoro
Un sogno
Una discepola via diversa

Già
Perché di vie maestre
Ne ho avute e ne ho
Abbastanza
Grazie!

*

Sono una vera lagna

Sono una vera lagna
Tutti ‘sti poeti
Si lamentano di tutto
Piangono continuamente
Scrivono con le lacrime
Macché inchiostro!
Bagnano i fogli
E con tutte quelle lacrime,
Li accartocciano

Sbattono forte i piedi
Come bambini capricciosi
Perché non viene dato loro
Il giocattolo che reclamano
Da una vita dalla vita
O perché semplicemente
Non sanno cosa vogliono
Dalla vita da una vita

Già
Sono una vera lagna
Tutti ‘sti poeti
Dal cuore singhiozzante
Che si crogiolano compiacenti e compiaciuti
In un dolore che cavano fuori a forza
Anche se lui se ne starebbe meglio lì
Rintanato in un cantuccio dell’anima
Senza disturbare nessuno

Ecco, ora che l’ho scritto
Finisco anche io
Tutta questa lagna

*

C’è uno spazio

C’è uno spazio
Per tutto
Ma c’è pure sempre
Qualcosa che lo erode
Un fiume
Un vento
Una donna o un uomo
Che scavano e portano via
Terra buona e terra cattiva

E la mia terra
Per te
L’hai erosa abbastanza
Per non avere più argini
In cui contenerti
Per non avere più terra
Su cui poggiarti

*

Penso che tu non sia

Penso che tu non sia
Il solito gioco
Di un destino infantile
Ma la chiave di volta
Per sorreggere un ponte
Che scavalca una forra
Dove scorre un fiume
Di perplessità
Che non temo più

Ma non sei neanche
Una chiave di volta
Una soluzione architettonica
O un bene prezioso

Sei l’idea a sé stante
Che ha scalato
La parete nord
Dell’amore
E che ha conficcato in vetta
La sua bandiera

E devi vedere
Come sventola
Tesa
Fremente
Orgogliosa

Ondeggia come un mare
Increspato dal capriccio dei venti
Che capriccio non è

Ma solo un
Seguire la corrente
Che conduce sempre
Da te

 

 

Intervista a Nicola Skert:

Fermate il mondo voglio scendere” e finalmente leggere le Poesie di Nicola Skert, a lungo attese, forse anche dall’autore stesso. Nicola, è stato un percorso lungo, un mettere da parte attenzioni, sensazioni, umori e malesseri, chiusi nello scompartimento più basso di un cassetto e poi lanciati alle stampe con un titolo significativo: “Il Randomante”. A parte il gioco di parole, cosa stavi cercando e cosa cerca “Il Randomante”?
Bella domanda: cosa cerca “il Randomante”? Prima di tutto, è chiaro che non si tratta di un banale errore ortografico ma, al più, di un banale gioco di parole.
Se il Rabdomante cerca l’acqua con una bacchetta biforcuta, Il Randomante cerca il senso della vita in maniera random, ovvero casuale, procedendo a tentoni nei meandri più oscuri dell’anima.
Non tutti ne sentono il bisogno, per carità, e fanno pure bene, sguazzano sulla superficie del senso e vanno a sdraiarsi sulla spiaggia del non senso per prendere il sole, senza battere ciglio.
C’è chi invece non può fare altrimenti che immergersi in quel mare fino a profondità dove la luce svanisce, e la spiaggia la deve scavare per vedere cosa c’è sotto. È una sorta di vocazione, una chiamata, alla quale non ci si può sottrarre.

Autore già conosciuto per i tuoi racconti, romanzi pulp, gialli e di fantasia (un bambino che va a vivere dentro una scarpa sicuramente è di fantasia), una volta hai detto che i tuoi racconti avrebbero colpito il nostro cervello con la forza di un treno in fuga dai binari della letteratura canonica, sarà così anche con la poesia?
Credo proprio di sì. Sono poesie immediate, scritte di getto, raramente riviste se non per correggere un errore ortografico o grammaticale (se è rimasto c’è un motivo).
A volte la lunghezza dei versi dipendeva esclusivamente dalle dimensioni del foglio sul quale scrivevo.
Come contenuti, sono senza censura, a volte fanno sorridere, a volte sono pugni nello stomaco. Il ventaglio di emozioni da esplorare è decisamente molto ampio.

Poesia, sai che prima o poi qualcuno ti proporrà la fatidica domanda che più o meno fa così: cos’è la Poesia? Ecco non è arrivato ancora il momento, ma ti chiedo invece quanto è importante la poesia per te e quali le difficoltà, se ve ne sono, nel passaggio scrivere un romanzo, scrivere poesia?
Ecco, lo sapevo! Ci siamo andati vicini eh, ma intanto ti ringrazio per avermela risparmiata. Ci sono caduto anch’io in questa domanda e se non sbaglio una volta l’ho formulata pure a te, mordendomi la lingua subito dopo. Detto questo, nella poesia la fatica è tutta prima di scriverla, il livello delle emozioni deve raggiungere il livello di troppo pieno per poi tracimare in uno sbuffo di parole.
Nel romanzo è durante, è una colata lavica da tenere sotto controllo e che non si sa mai se arriverà da qualche parte, e come. Una scommessa, insomma.
Per quanto riguarda la poesia, per me è importantissima, è una delle vie di “espulsione immediata“, concime di parole dalle quali, forse, può germogliare qualcosa di sensato per il lettore, oltre che per sé stessi. Altrimenti, sarebbe solo autoreferenzialità.

Entriamo a parlare di queste tue poesie, ho notato in molte di esse, a proposito “sono 137 poesie”, che c’è sempre qualcuno o qualcosa che ti porta via i sogni, ma che si deve vivere nonostante gli altri? È stata solo un’impressione?
No, non è una tua impressione, è così: c’è sempre qualcuno o qualcosa che mi porta via i sogni, solo perché forse non li hanno, o ne sono invidiosi e amano romperli. Ma ho la fortuna di rimanere un inguaribile sognatore, una macchina da sogni. Se poi me li sottraggono, amen, non li sapete neppure fare funzionare, e io continuerò a produrli.

Avviso ai naviganti, questo è un libro per quelli che si prendono troppo sul serio e, soprattutto per quelli che non hanno mai smesso di farlo. Quanto è importante divertirsi con le parole e con esse sdrammatizzare una vita fatta di “Poeti che sono una lagna”?
Come ha detto quel tale, l’ironia è una cosa seria. Non prendersi troppo sul serio è la cosa più seria del mondo, anche se è un atteggiamento pericoloso, si potrebbe confondere nel “non credere in sé stessi” o nel “non credere il quello che si fa“. E si finisce per essere considerati dei “cazzoni“, cosa che non si è affatto.
Solo che quando si scopre che in realtà la vita è una burla colossale, o ci si ride sopra, o si finisce sopraffatti da una patetica serietà. Sì, lo so, forse non è chiaro ma non importa, c’è chi capirà.

Hai trattato tutte le tematiche che riguardano la vita, cominciando proprio dalla morte che ha in sé la certezza della pena, ma l’amore declinato in tutte le sue forme è l’impronta principale di questo tuo libro, confermi?
Confermo. Non sembra, ma l’impronta principale del libro è proprio l’amore, in tutte le sue forme, anche quelle deviate, perverse, psicopatiche. Perché l’amore è quella forza vitale così potente da far accettare anche la morte.
Sarà banale dirlo, ma alla fine la ricerca del senso, forse sta proprio nella via più inafferrabile che tutti cercano: l’amore. E quando una ha perso, o ha rinunciato alla via dell’amore, che cominciano i guai. Guai seri. Comincia il surrogato dell’amore, quello psicopatico.
Ma, a proposito: cos’è, esattamente, l’amore? Il Randomante, mannaggia a lui, non si ferma mai. E non dipende da me.

La vita è aspettare l’ultimo sul traguardo durante una gara podistica e oltrepassare la linea dell’arrivo abbracciati. Nicola Skert quanto è importante essere sportivi oggi e quanto è importante essere sportivi e non passare per coglioni oggi?
Bella domanda. Essere sportivi vorrebbe dire accettare la sconfitta e, se vincitori, essere solidali con lo sconfitto, non infierire, se necessario consolarlo, anche se sembra contraddittorio che a farlo sia chi ha procurato il dolore.
Purtroppo oggi, passare per sportivi è passare per coglioni. La disumanizzazione passa attraverso a un processo di “demenza sportiva“. Si diventa sedentari, proiettati solo su sé stessi. E si muore, appunto, da coglioni.

 

L’autore:
Nicola Skert è nato nel 1972, tarvisiano di origine, triestino di formazione e udinese d’adozione. Ha alle spalle una formazione scientifica. Come biologo ha pubblicato alcuni articoli scientifici, come scrittore racconti in diverse antologie e alcuni romanzi.
Tra i suoi romanzi “Pus Underground”, “Hitorizumo”, “Giallo Interiora”, “Stretto”, “Come inizio non c’è male”, “Ultima fermata Misincinis”, “La chimica del male”.
Ha pubblicato anche una raccolta di racconti dal titolo “Racconti PET (Pulp Erotic Trash)”. Molti dei suoi racconti sono pubblicati in varie antologie.

(Nicola Skert “Il Randomante” pp. 206, 14 euro, qudulibri editore 2024)

 

 

 

 

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Coralli

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

 

Tempo presente       ————————-

Lievi fragilità delle nebbie

Cinque testi inediti

di Roberto Casati

 

Si muovono leggere
sfiorate su muri nascosti
sequenze di giorni
lasciando di quel che rimane
tracce di vento vago
innocente anticipo di fragile alterazione.

Le tue mani sulle discendenze
raccolgono i frutti
di una stagione ribaltata
acini d’uva all’ultima fermata
sguardi di bimbi
in semplice adorazione.

Sono i tuoi occhi
terminale visibile del cuore
a raccogliere l’invito
a capire quando sto in silenzio
ciò che resta
di questa stanca stagione.

*

Apro la mano
e accolgo sguardi
da una vista distante
seduta su gentili parole
lievi fragilità delle nebbie.

Così nel perduto
cerco segnali
e definisco alternative
accarezzando l’anima
su percorsi già conosciuti.

Allora gioco gli ultimi denari
sulle restanti ipotesi
luoghi svelati senza incertezze
acini d’uva come orecchini
aggrappati al già sentito.

Ultimo sventato assalto
grido segreto
oltre l’abbandonato vedere dell’angolo.

*

Erano evidenti
i voli notturni della poiana
nascosti dietro le stanche nebbie
nel bosco aggrappato al Ticino
sguardo di luna sul tuo bianco seno.

Il silenzio strappava i vestiti
e agli angoli si muovevano
piccoli di cinghiale travolti
da ciò che restava dei nostri passi
tracce leggere sul prossimo sentiero.

Eri la donna straniera
(banale gioco di parole)
e con i tuoi diciassette anni
rimarcavi agli occhi la bellezza
nella notte della prima nevicata.

Istante lacerato
nel continuo disordine
oltre il punto di resa del tempo.

*

Il cielo appartiene al giorno
sguardo lacerato
nel continuo disordine
oltre la comprensione del vento.

Cuore caldo estorto
alle notti senza lucciole
fragili inquietudini in fuga
esclusiva sul prossimo viaggiare.

A breve verrà
la conquista del silenzio
come gioco privilegiato

stanco senso dell’anima

dove la tua bocca
è l’unico fragile non detto.

*

L’inutilità di cercarti
rispondeva come ombra alla notte
linea fragile
intravista correzione
tra attesa e delusione.

Perso nella musica
ti guardavo ballare
il colore dei capelli l’ho dimenticato
ma ricordo di aver giocato tanto
abbracciato ad un cuore che non era il mio.

Non avevo parole per trattenerti
raccolta in brevi attimi
la tua bellezza sfidava il vento
la canzone appena accesa
era ad ogni passo più lontana.

Abbandonata la mia mano
eri ormai oltre il giardino
dove le ortensie cercano il nuovo colore.

 

L’autore:
Roberto Casati è nato nel 1958 a Vigevano (PV) dove attualmente vive. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Amore e disamore” (Edizioni Lo Faro Roma – 1984), “Roma e Alessandra” (Edizioni Tracce Pescara – 1986), “Coincidenze massime” (Edizioni del Leone Spinea – 1988), “Ipotesi di fuga” (Edizioni del Leone Spinea – 1992), “In navigazione per Capo-Horn” (Edizioni del Leone Spinea – 1999), “Carte di viaggio” (Guido Miano Editore Milano – 2016) e “Appunti e carte ritrovate” (Guido Miano Editore Milano – 2020).

 

 

 

 

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… lungo l’argine

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro       ——————————-

Come chi vive aspettando una vita

Giorgio Gramolini, “Vita breve”

di Roberto Lamantea

Ha la grazia della lirica greca la poesia di Giorgio Gramolini. “Vita breve” è la terza silloge dopo il lontano “Frammenti” (1990), che già nel titolo indicava una poetica e uno stile (Gramolini è autore di felici aforismi), seguito nel 2021 da “Attraversare il nulla”.
La plaquette, pubblicata da un piccolo editore dell’Appennino ligure, in provincia di Alessandria, Pasturana, 1.300 abitanti, puntoacapo di Cristina Daglio (le migliori case editrici di poesia sono piccole e hanno sede in provincia) ha una voce timida, come se le parole fossero sussurrate alla notte, a una finestra in una stanza vuota.
Il tempo, la fragilità, l’attesa, la vacuità del nostro essere nel mondo intonano questi versi dal nitore classico. La semplicità (apparente) delle rime fa venire in mente Saba, gli haiku, Montale (“Non dormire una notte/ a ricercare un verso/ che possa attraversare/ un mondo un universo” rinvia a “Non chiederci la parola…” degli Ossi di seppia), l’ultimo Valeri, quello di Calle del Vento, la calle veneziana dove Valeri abitava negli ultimi anni, tra San Sebastiano e le Zattere.
Nella prefazione Dario Stanca le definisce “parole minime” e aggiunge: “La poesia di Giorgio Gramolini non cerca semplici lettori, ma compagni di viaggio”.
Il libro è tessuto sul tempo, il tempus fugit delle Georgiche di Virgilio, ma anche il tempo ritrovato, rivelato da un colore, un profumo, anzi “un colore che sembra un profumo”: sì, il tempo ritrovato di Proust: “Ritrovare il passato che non torna/ in un profumo,/ nello specchio di un volto sul viale// Segni fugaci che sanno di antico,/ che vai cercando per farti del male”.
E il senso struggente della vita che passi aspettando chissà che cosa e alla fine t’accorgi, trascorsi decenni, che il senso è in questo aspettare: “Come chi vive aspettando/ una vita,/ e in questo aspettare/ è tutta la vita,/ così i tuoi occhi socchiudi/ di quando in quando…”. O questa cinquina: “Cercarti e non averti,/ non cercarti e trovarti// Lasciare che i deserti/ tu riempia di quest’anima/ di rose e di gerani”.
O un acquarello giapponese: “Tra gli alberi/ si spegne la mia strada/ di primavera// Foglie d’autunno/ scialbe/ verso la sera”.
Già, la sera. La sera declino, la foscoliana “imago della fatal quiete”, ma anche “l’ora che volge il disio e ‘ntenerisce il core” (Purg. VIII-1), l’ora dello sguardo che invisibile trascolora nella notte, un movimento che declina.
Gramolini canta con endecasillabi, settenari e rime una dolcezza antica, che la poesia intona da sempre ed è ogni volta nuova, persino oggi, nel tempo del rumore.

 

dal libro:

Incontro

Ritrovare sé stesso
a un angolo di strada
nel vento che dirada
alberi e nubi e i sogni dei passanti

Chiudere gli occhi al tempo
che ti è davanti

*

Luna

Dimmi la luna…
Dimmela col cuore pieno di attese,
come chi la vide
la prima volta e altro non pretese

*

Averti e non averti

Cercarti e non averti,
non cercarti e trovarti

Lasciare che i deserti
tu riempia di quest’anima
di rose e di gerani

*

Angelo

Angelo mutilato di un’ala
che più non vola
che non consola
neppure il pianto di una cicala

*

Autunno

C’è chi non teme il declino.
Pigro e opulento
guarda il granaio pieno,
i pàmpini carichi di chicchi
e disdegna il fruscio delle foglie
che cadono nel limpido mattino

*

Letargo

Scheletrito giardino,
dormienti forme tra sogni di primavera

Tace Natura tra guanciali di neve…
E intanto spera

*

Canto d’inverno

Il pomeriggio una lunga sera.
La notte fonda come il tuo rimpianto

Se brillano le stelle nella nera
volta, canta il gelo il suo feroce canto

*

Occhi di sera

…E il cielo e il mare
e poi le rosse nuvole
e tu con gli occhi buoni della sera

Avevi il senso delle cose che vanno.
Eri sincera.

 

L’autore:
Giorgio Gramolini è nato nel 1957 sul Lago Maggiore, vive in provincia di Milano con la moglie bibliotecaria, un cane, alcuni gatti.
Insegna Inglese nelle scuole superiori. È vegetariano e svolge opera di volontariato nella protezione degli animali.
Dagli anni ‘80 ha pubblicato versi su alcune riviste (Il Grillo, Malvagia, La Bottega), il libro di poesie “Frammenti” dall’editore Ursini di Catanzaro (1990). Del 2016 sono gli aforismi di “Pensieri scorretti”, in seguito ha pubblicato “Attraversare il nulla”, 2021, “Frammenti di inesistenza” (puntoacapo 2022), “Cento sogni” (2023).
Amante della letteratura e del cinema polizieschi e del mistero, i suoi autori preferiti sono Petrarca, Giovanni della Casa, Foscolo, Laforgue, Yeats, Gozzano e Montale.

(Giorgio Gramolini “Vita breve”, prefazione di Dario Stanca, pp. 100, 15 euro, puntoacapo 2023)

 

 

 

 

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Oltre – La preghiera

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

 

Ti racconto         ————————–

La prima frase per un qualsiasi racconto da scrivere

Andrea Comisso “Il contraccolpo dell’abisso”

di Anna Piccioni

 

Tutti noi dovremmo stare attenti a quell’uomo di mezza età con le infradito e in maglietta, che dà l’impressione di essere indossata a sua insaputa; in bermuda seduto al tavolino di un bar con l’aria distratta: è un predatore di sogni, di storie, di fantasie. Tutti noi siamo l’ombra di un suo prossimo racconto: lui stesso lo dichiara, mi basterebbe conservare i miei sensi aguzzi, predatori; pronti a imprigionare la prima frase per un qualsiasi racconto da scrivere (pag. 47).
Così è Andrea Comisso, un acuto osservatore dalla fervente immaginazione, con una particolare specialità nel saper stare in piacevole compagnia di se stesso, indugiando sui particolari, godersi il lento scorrere del tempo, assorbire l’ambiente, diventarne parte e osservarsi da fuori , e usare tubetti di normalità per dipingere un quadro e cristallizzare il fascino del consueto (pag. 84).
La scrittura per Andrea Comisso sembra una dote innata, come se i racconti uscissero fuori dalle cose, dalle persone che lo circondano e lui sapesse coglierli e inseguirli.
Attento osservatore del mondo, capacità empatica nell’entrare nei pensieri e nei sogni delle persone.
Scrittura schietta, chiara fluente ricca con una buona dose di ironia.
Nella lettura si scopre una penna che con leggerezza traccia parole, descrive situazioni aggiunge personaggi; entra in mondi paralleli, dà voce agli oggetti agli animali
Il contraccolpo dell’abisso” è una raccolta di 72 racconti in 238 pagine, quindi racconti brevi a volte brevissimi, ma intensi.
In alcuni casi mi hanno lasciato una sensazione di tristezza: anzi devo dire che alla fine della lettura ho avuto la sensazione di essere circondata da un’atmosfera neutra opaca asettica.
Infatti molti sono racconti distopici, surreali, o terribilmente realistici. La lettura richiede cautela, per non farsi cogliere di sorpresa, per non trovarsi spiazzati.
Infatti Comisso ti racconta una storia, descrive personaggi, luoghi ma poi arriva il colpo di scena, la cosiddetta sciabolata inattesa, come la chiama lui, e scopri di aver ascoltato personaggi irreali, virtuali, fantastici, ma verosimili.
Come nel racconto “Waiting Room” (pag. 130) che potrebbe dare una risposta alla domanda che tutti ci facciamo: “cancello o non cancello il numero di cellulare di chi non c’è più?”.
Oppure “Punto a capo” (pag.71), contro la società dell’immagine, quando le fotografie cominciano a scolorirsi e poi a svanire del tutto, costringendo gli spettatori a fare una spossante attività di ricostruzione astratta e autonoma del contesto […], ma le parole a stampa erano rimaste salve. […] Milioni di persone ricominciarono a leggere. Il mondo ricominciò a colorarsi.
Il mondo digitale, la superficialità, la perdita dei valori, la mancanza di solidarietà, il piattume, i falsi idoli e tutto quello che rappresenta questo mondo è presente, e fa da cornice ai racconti di Andrea Comisso. E “Contraccolpo dell’abisso” potrebbe significare che arrivati nella profondità più nera del proprio animo, della propria disperazione, il nostro istinto ci impone un colpo di reni per risalire verso la luce.
Perciò i racconti incredibili hanno tutti un fondo di verità e direi una morale, come nelle favole.

 

 

Intervista ad Andrea Comisso:

Quando la scoperta della scrittura?
In senso stretto e in generale, la scoperta della scrittura nasce, quantomeno come consapevolezza che essa “esiste”, nell’attimo in cui si inizia a leggere, perché ti rendi conto che, se tu leggi, qualcuno ha scritto; non voglio dire che, per me, risalga alla prima esperienza assoluta di comprensione di un testo – che fu un fumetto di Tiramolla nei primi anni settanta, – ma la faccio combaciare con un breve romanzo di Gianni Rodari, “Il fu due volte barone Lamberto”, alle scuole elementari. Da lì, molte letture via via più complesse mi portarono ai primi “sbuffi” di scrittura consapevole, direi all’epoca del Liceo.
In quegli anni, ai miei tempi, si scrivevano lettere, tantissime lettere; e almeno nella dimensione intima si scriveva molto, seppure poi si buttasse quasi tutto.
Se però tu mi chiedi quando ho saltato il fosso, diventando questa rozza figura di scrittore, allora ti rispondo che è faccenda recente. Da poco più di due anni ho superato il timore reverenziale verso la scrittura, che ho sempre considerato sacra e quindi non bisognosa del mio contributo. Immagino sia per l’età che avanza e per la constatazione che scrivono – e hanno successo – anche soggetti obiettivamente peggiori, che ad un certo punto mi sono detto: “va bene, perché no?”.

Essere avvocato, essere scrittore: dualità, concorrenza, o convivenza?
Dovendo scegliere fra le alternative che mi poni, dico dualità. Se però mi consenti di adoperare un termine più calzante, dico estraneità. Alla professione di avvocato si accredita per sbaglio una naturale confidenza con la parola scritta. Certo, essa è presente, ma limitata al tecnicismo: lo slancio creativo può risultare addirittura di danno.
Scrivere narrativa è tutt’altra cosa e non è proprio detto che una persona, in quanto “avvocato” scriva bene. Anzi, la familiarità con lo scritto, più che vantaggio costituisce ostacolo, perché prima di accingersi alla letteratura bisogna destrutturare abitudini, vezzi, frasi e modi che, siamo sinceri, con il “bello scrivere” non hanno alcuna attinenza.
Se tu leggessi ora un mio atto, non credo riusciresti a riconoscere lo scrittore di racconti. Tra l’altro, e questa è una ragione più emotiva che tecnica, scrivere è atto di libertà, di ricerca, di consolazione. Lo vedo quindi staccatissimo dal mestiere, che nella sua nobiltà rimane un lavoro.

Perché la scelta di questo titolo, “Il contraccolpo dell’abisso”, lo stesso di un racconto all’interno della raccolta?
La scelta è stata istintiva: il titolo nacque un mattino dinanzi al caffè, chiacchierando di tutt’altro con un amico. Al racconto si lega perfettamente, perché sintetizza in una locuzione il senso della storia: toccato il fondo, puoi morire o risalire, adoperando l’energia che ti inabissa e invertendone la polarità per tornare a galla. Forse è diventato il titolo della raccolta, perché più di altri mi pareva dignitoso.

La scrittura per Andrea Comisso sembra una dote innata, come se i racconti uscissero fuori dalle cose, dalle persone che lo circondano e lui sapesse coglierli e inseguirli o farsi inseguire…
Immagino che ogni forma d’arte peschi nella realtà e desideri trascenderla, sublimarla. La mia realtà è quella del quotidiano, nel quale colgo i paradigmi del tutto. Innata, peraltro, credo sia la mera libidine dello scrivere, a trasformare il desiderio in atto concreto significa sottoporre se stessi ad un vaglio critico impietoso, adoperare la lima instancabilmente, e qualche volta anche strumenti più cattivi.

Ho l’impressione che alcuni, o forse molti, racconti abbiano alla fine una morale, un insegnamento, come nelle favole di Fedro…
Non ci avevo pensato razionalmente, ma si, può essere e ne sono contento: non inizio a scrivere con la prospettiva di calare nel testo una morale, ma se alla fine essa risulta, significa che il racconto ha raggiunto uno scopo. Uno di quelli possibili.

In questa raccolta non c’è un filo che li leghi l’uno all’altro, o che uno richiami l’altro sono autonomi. È così, oppure mi è sfuggito?
No, non esiste un filo, o quantomeno non un filo che tocchi tutti. I racconti sono figli di stimoli diversi, di momenti diversi. E come ti dicevo, sono figli di una molto appagante anarchia: non seguo un programma, non mi impongo una tematica: trovo nella realtà – o nel sogno, o nella fantasia – un concetto scatenante, una frase centrale, un nocciolo significativo su cui costruire il resto. Ed è già una bella fortuna avere questi punti di partenza.
Pretendere che sgorghino anche concatenati mi sembrerebbe troppo. Chissà…magari col tempo verrà anche questa grazia e la accoglierò volentieri, ma a condizione che non prenda il posto della cosa migliore che ritengo di avere adesso, cioè la spontaneità.
Non credo si possa scrivere se non sulla base di questo stimolo primario, così come sono sicuro che un bel racconto, scritto a tavolino con la miglior tecnica, alla fine spiccherebbe per freddezza, artificiosità. E allora, essere scrittore non avrebbe più senso.

 

L’autore:
Andrea Comisso nasce a Trieste nel 1969. Si matura al liceo Classico Dante nel 1988 e quattro anni dopo consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’università di Trieste.
Abilitato dinanzi alle corti superiori, si occupa di specifici e selezionati settori del diritto civile e penale, affianca alla professione forense quella di docente e formatore.
Ha esordito con “Oggi le nuvole regalano una tregua“.

(Andrea Comisso “Il contraccolpo dell’abisso” pp. 240, 18 euro, Hammerle editori 2023)

 

 

 

 

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La tempesta

Nove opere

di Cristina Suligoi

 

 

Intervista a Cristina Suligoi:

di Giovanni Fierro

Nella tua arte, e in questi lavori che proponiamo, è sempre molto presente il paesaggio. Che significato ha per te? Alcuni luoghi sono luoghi vicino casa…
In effetti i lavori che hai proposto, in quanto realizzati in prevalenza durante il periodo pandemico, rappresentano prevalentemente “paesaggi della memoria” in cui esprimo l’attaccamento e l’amore per i luoghi della mia infanzia: Mossa con le sue colline, le località del Blanchis e del Preval con i suoi laghetti, ma anche il Carso goriziano, Gorizia e l’Isonzo…
L’impossibilità di uscire di casa e di godere quindi della libertà di movimento mi ha aiutato a far riaffiorare ricordi e ad elaborarli attraverso la tecnica dell’acquarello, una tecnica che in quei momenti ho trovato più congeniale, perché “spontanea” e “immediata”, per esprimere le sensazioni che in quei momenti provavo.

L’arte dell’acquerello penso sia per te fondamentale. Cosa ti ha conquistata di questa tecnica? Cosa ti permette di esprimere?
La scelta di dedicarmi alla tecnica dell’acquerello è recente e risale al periodo pandemico: in parte è dovuta alla praticità, per la dimensione ridotta dei supporti cartacei rispetto alle tele o alle tavole, in gran parte per i tempi di realizzazione (l’immediatezza), le difficoltà nella gestione dei colori e le tante potenzialità espressive che offre. È difficile spiegare che cosa mi permette di esprimere… perché tutto accade dopo, ovvero quando riguardo ciò che ho realizzato. Quando dipingo ad acquerello mi immergo completamente in ciò che faccio lasciando che la mia immaginazione prenda il sopravvento e la mano agisca di conseguenza. È come se i colori avessero vita propria e mi regalassero un’immagine. Quando poi osservo il lavoro compiuto, anche se non sono sempre soddisfatta del risultato, provo sempre un grande stupore.

Un aspetto importante della tua pittura è la sperimentazione. Basta vedere i lavori più recenti – come i “Coralli” – per rendersene conto. Cos’è che ti spinge a sperimentare, a non accontentarti del ‘già fatto’, del ‘già conosciuto’?
Per me la ricerca è fondamentale e mi stimola a fare di più. Mi piace e mi diverte. Di base la mia formazione artistica è legata all’arte del tessuto e quindi le tecniche pittoriche per me sono sempre una novità e ciò mi stimola nell’affrontarle, nel rielaborarle utilizzando materiali e supporti differenti, passando dal cartoncino al nylon per arrivare al legno, al plexiglas ed alla tela, dai colori ad olio a quelli ad alcol, dagli acrilici ai pastelli, ecc.
Tutto dipende dal momento, dall’ispirazione, dal mio stato d’animo. Per me sperimentare è crescere, una sorta di evoluzione della “specie”; non fermarsi ma provare, sbagliare, rimettersi in gioco.

Una cosa mi ha colpito tanto, di questi tuoi dipinti, è che hanno in comune una profondità che nasconde un mistero, una tensione che si avverte, e che non è ancora allentata, risolta… È così?
Durante gli anni di studio a Venezia, dove ho conseguito il diploma in Decorazione, ho realizzato uno studio grafico sugli Arcani Maggiori scegliendone uno in particolare su cui ho successivamente incentrato le mie ricerche: la Papessa, una figura densa di simbolismi e significati. Posto alle sue spalle è appeso un telo, un tessuto dai colori cangianti che lascia intravvedere ciò che è “oltre”, una verità in parte nascosta e accessibile solo agli “iniziati”.
Ho sempre ritenuto che lo scrittore, il poeta, il filosofo, il musicista, il pittore siano degli “eletti” in cui mistero e quella sorta di verità magica siano profondamente presenti dando loro la capacità di guardare “oltre” l’intelligibile.
Per me, allentare o risolvere la tensione di cui tu, giustamente, hai intuito la presenza significherebbe mettere fine, in un certo senso, alla ricerca e alla sperimentazione, soffocando quelle emozioni e quei sentimenti che esprimo attraverso i colori e i segni.
Quindi no… la tensione che avverti non è ancora risolta.

Anche perché l’acquerello è fatto da una trasparenza che promette di guardare attraverso, ma in queste immagini lo si può fare fino solo ad un certo punto, non oltre… ti ci ritrovi in questo?
Sin dal periodo veneziano, partendo dallo studio sugli Arcani, la mia ricerca estetica si è focalizzata nella realizzazione segni/simboli dipinti su supporti trasparenti come il nylon (un chiaro riferimento alla tessitura del mio passato) che permettono di guardare, o meglio, intravedere “oltre” che per me corrisponde, come ho scritto sul della seconda edizione di “Frammenti di un Inconscio condiviso” nel 2023, alla “ricerca volta a scoprire passo dopo passo il proprio mondo interiore, un cammino in cui l’oltre scandisce il tempo all’interno di uno spazio in divenire…un divenire fluido come le onde del mare, la corrente dei fiumi, le fiamme del fuoco… come una preghiera che s’innalza al cielo”.
Negli ultimi lavori ho “estremizzato” l’uso degli acquerelli diradando le trasparenze mediante l’uso del colore puro, denso… in alcuni casi quasi materico. Ma il denominatore comune è sempre la ricerca legata a quel mistero, quell’alchimia dei materiali che ogni sperimentazione reca con sé.

La mancanza della presenza della figura umana è un altro connotato importante della tua pittura. Come mai questa assenza?
Nei lavori ad acquerello che proponi l’assenza della figura umana è pressoché totale. In questo caso ci riferiamo a dipinti realizzati con la tecnica dell’acquerello che nel mio caso non prevede un disegno di base, quindi una progettazione.
Ma se per esempio osserviamo l’acquerello dal titolo “I Giganti” le figure paiono emergere quasi per caso: è il colore che espandendosi, contraendosi e mescolandosi con gli altri definisce i soggetti. Questo è proprio uno degli aspetti legati alla magia di questa meravigliosa tecnica pittorica.
Se negli acquerelli prediligo maggiormente i paesaggi, è nelle realizzazioni ad olio o con acrilici che dipingo più spesso la figura umana, specificatamente femminile.
In quei casi si tratta di una sorta di racconto autobiografico legato a momenti particolari della mia vita, all’introspezione, all’analisi di situazioni personali ma anche di eventi legati alla società.

 

L’artista:
Cristina Suligoi è nata a Gorizia nel 1960 e risiede da diversi anni a Gradisca d’Isonzo (GO).
È cresciuta in un ambiente familiare da sempre a stretto contatto con la musica e l’arte, sperimentando, grazie agli insegnamenti del compianto artista e scultore Darko Bevilacqua, la realizzazione di alcuni bassorilievi in ceramica nei laboratori della Scuola d’Arte di Gorizia, diretta dal prof. Andrea Parini.
Maestra d’Arte e diplomata in Arte del Tessuto all’Istituto Statale d’Arte “Max Fabiani” di Gorizia nel 1979, ha proseguito gli studi all’Accademia di Belle Arti di Venezia diplomandosi nel 1986 in Decorazione.
Allieva di grandi personaggi dell’arte contemporanea, quali Plessi, Basaglia, Francalanci, Zen e Chiggio, ha avuto modo di immergersi in un mondo caratterizzato da un gran fermento artistico volto soprattutto alla sperimentazione di diverse tecniche espressive.
Da una Venezia sognante ad una Milano frenetica il passo è stato breve ma determinante a farle affrontare una vita molto diversa, in un ambiente culturale sociale complesso, di non facile lettura, ma caratterizzato da dinamismo e spinta innovativa.
Rientrata a Gorizia si è avvicinata al campo della terapia artistica, frequentando corsi informativi e formativi legati alla scuola steineriana,
Nel 2015 ha conseguito a Roma la Laurea in Scienze della Formazione e dell’Educazione.
Dal 1979 ad oggi, oltre a diverse mostre personali, ha partecipato a numerose collettive d’arte in Italia, Austria e Slovenia.

Tra le più rilevanti:

2005 – Gorizia e Nova Gorica – “Donne allo specchio. Piacersi, odiarsi. Quando le parole diventano immagini” – Provincia di Gorizia
2013 – Gorizia – “900 & Oltre” mostra delle nuove acquisizioni delle collezioni dei Musei Provinciali di Gorizia – Palazzo Attems Petzenstein
2013/2014 – Gorizia – mostra triennale “C’era-mica un piatto d’artista” Corte dell’Arte – Musei Provinciali di Palazzo Attems Petzenstein
2016 – Gorizia – mostra “Cartoline d’Autore Più” Corte dell’Arte – Musei Provinciali di Palazzo Attems Petzenstein
2022 – Firenze – mostra collettiva “Dante fra i Mondi nella sensibilità contemporanea” a cura di G. Bonomo e R. Ferrari
2022 – Follina (TV) e Gorizia – 1^ edizione “Frammenti di un inconscio condiviso
2023 – Rieti, Antrodoco (RI) e Gorizia – 2^ edizione “Frammenti di un inconscio condiviso

I suoi lavori qui proposti:

… lungo l’argine
acquerello – 2020 cm 23×29,4 collezione privata

I Giganti
acquerello – 22×28 2021

Sulle rive dei laghetti del Preval
acquerello – 2022 cm 40×30 collezione privata

Coralli” 1 e 2
inchiostri a base di alcol su cartoncino 100% polipropilene – 2023 cm 13×13

I Laghetti del Preval
acquerello – 2022 cm 40×30

Oltre – Il Cammino
acquerello – 2023 cm 25×25

Oltre – La Preghiera
acquerello – 2023 cm 30×30

La Tempesta
sperimentazione con acquerelli su base in polipropilene – 2023 cm 26×20

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso.

 

 

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