Fare Voci aprile 2023

È sempre tempo nuovo per “Fare Voci”!
Con il desiderio di costruire continuamente una mappa di percezioni, per orientarsi meglio nel nostro tempo, sempre più bisognoso di una lettura che sia il più possibile articolata.

E anche il numero di aprile ci viene incontro per questa preziosa ricerca.
Ad iniziare dal nuovo libro di Roberto Marino Masini, “Canto intimo”, dialogo intenso con l’opera pittorica di Roberto Cantarutti, e ulteriore conferma del poeta goriziano.
Il tempo presente è nei testi inediti in italiano della poetessa slovena Kristina Kočan e nel nuovo racconto di Nicola Skert, “Mare Magnum Mare Nostrum”.

In viaggio ci porta Caterina Borgato con “Donne di terre estreme. Women of the Outermost Lands”, ed importante e significativa è la voce d’autore: con il ritorno di Annalisa Ciampalini e le sue poesie contenute in “Tutte le cose che chiudono gli occhi”, il sorprendente ed intenso “Nero crescente” di Patrizia Baglione, “Nero crescente” e i “Pensieri dopo il silenzio” di Elena Giacomin.

I Margini. Di poesia ed altro sono nel valicare la soglia dell’esordio poetico di Ezio Settembri, “D’altra luce”, mentre il Libroelibro è quello di Raffaella Cavalieri, “Una vita per Dante. Con Alfred Bassermann tra Germania e Italia sulle orme del Poeta”.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini           ——————————

da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

 

 

Voce d’autore        ———————————-

Domani e poi ancora

Roberto Marino Masini, “Canto intimo”

di Giovanni Fierro

La nuova uscita del poeta goriziano Roberto Marino Masini è un lavoro dove il confronto e la condivisione sono elementi fondamentali del suo progetto.
Animato dagli scritti di Charles Baudelaire, in particolare quelli tratti da “Spleen et idéal”, Masini in questo suo “Canto intimo” entra in risonanza con il disegno di Roberto Cantarutti, pittore cormonese.
E così il suo nuovo libro si nutre del carnoso scrivere dell’autore de “I fiori del male” e si addentra nella rarefazione, nel continuo svanire che alimenta le quarantaquattro opere (una per ogni poesia) di Cantarutti.
Dunque “Canto intimo” è un’avventura, un viaggio che si compie nell’attraversare parole altrui e nel sfumarsi nelle atmosfere di corpi ed incanti/presagi che abitano le immagini.
In questa mappa, tanto viscerale quanto risolta, Masini non esita a definirsi, “mi sembra di essere un poeta disperso/ nelle umane tempeste”.
E proprio la sua poesia diventa bussola per l’orientamento, spinta che porta fuori dalle secche del nostro fragile tempo contemporaneo, e che gli fa scrivere “Ora questo mare si apre,/ sfuma nella nebbia,/ cambia colore, diventa foresta viva”.
Mai come questa volta Masini esce dal suo quotidiano, punto di riferimento continuo del suo fare poesia, e si porta in prossimità di archetipi e assoluti, bisognoso quasi di confrontarsi con il tempo, in questo caso misura universale e mai relativa.
E non a caso recupera la presenza di una possibile Dea (da uno scritto della sua prima presenza poetica), figura di riferimento attorno alla quale far coagulare significato e senso: “Questo sono i ritratti incisi/ nel tempio che ti ho dedicato”. Per poi aggiungere un domandarsi che si fa importante, “Quanto vale il mio sogno?/ Lo chiedo a te/ che di fantasmi sei golosa”.
Sì, “Canto intimo” è questo “groviglio di tratti scritti,/ un intrico di pensieri dove cercare/ uno squarcio di buona sorte”, la possibile costellazione di terra dove trovare la più vicina fonte di appartenenza, a cui affidare la certezza che “sono le parole sotto la grande stella/ ad essere ombre della vita,/ le parti evaporate con i desideri/ e spente senza rumore”.
Masini ancora di più riesce nel proprio intento di trovare l’attrito indispensabile che permette l’accensione di ogni stare al mondo, anche se il suo accadere è sempre un qualcosa che consuma e condanna, “come se fossimo assenti oppure nascosti/ dietro la porta a vetri tra lo spavento/ e l’angoscia,/ mentre la bora cerca di entrare”.
Nato nella natura (l’autore lo ha scritto nel parco sull’Isonzo del quartiere di Campagnuzza/Sant’andrea, a Gorizia) il libro ha in sé le sue radici e le sue foglie, la luce quando si fa spazio fra rami e il suono dell’Isonzo che arriva, a volte in silenzio altre rompendo la calma tutt’attorno.
Poi “Canto intimo” si muove nello spazio che gli occhi creano, quando si chiudono: “Lunga notte fatta di stelle,/ fantasmi di lune nell’intimo”, “Riportami a te ed indossa la luce”.
Con Baudelaire e Roberto Cantarutti come compagni di viaggio, Roberto Marino Masini procede sui sentieri della poesia con un rinnovato vigore creativo, con un candore d’autore che non rinuncia all’imperfezione che dà ad ogni vita la propria identità.
In queste pagine accadono molte cose, attese e ripartenze, inneschi e accettazioni. Ed ogni primo dubbio che dà alla parola la sua dignità di essere poesia: “Tagliare un legame libera la coscienza/ oppure sostituisce la corda?”.

 

Dal libro:

E sì contemplo la vita da una roccia pagana
da quest’isola dispersa,
da un sogno volgare, scruto l’orizzonte
“esiliato quaggiù tra gli scherzi del volgo”
e dondolo al vento di un quarto piano
le emozioni attraversate,
posando la cenere del sigaro di tanto in tanto,
in una vecchia tazzina.

*

Impegno tutto me stesso per rimanere a galla
in questo giorno turbolento.
E tu con me intrighi gli sforzi
in un unico desiderio,
quello dell’andare serenamente
e semplicemente avanti nel tempo che rimane.
Poi immaginando lo scrivere come una spiaggia,
ascoltiamo il ridere della risacca
mentre affronta lo scoglio,
in quel perpetuo amplesso tra mare e pietra.
Al cormorano chiediamo di raccontarci la sua verità.

*

In questa mortale convinzione
la notte è più scura,
devozione devo al suo comparire
ed al sole prossimo una preghiera
per ringraziare.

*

Il caos si traveste di noia
come tante barchette di carta
appese all’autunno.
Dondoliamo in noi stessi,
un futuro pensiamo di averne,
ne abbiamo da scegliere mi dicevi
contando sulle dita.
Poi il vento si fa improvviso giudice
e boia,
indossa degli abiti diversi,
chiude gli occhi, conta i superstiti
e li trasporta verso un domani
senza scelta.

*

Il tempo,
il tempo dicono sia leggero come l’aria,
dicono si trasformi a suo piacimento
in donna, in fiume impetuoso,
in pura quiete o in ombra impalpabile.
Nell’oscurità puoi coglierlo,
prenderne coscienza, sfogliarlo
senza turbamenti.
Nell’oscurità puoi leggerlo
come fosse il diario di chi ti è vicino,
e scoprirne i segreti.

 

Intervista a Roberto Marino Masini:

Il trovare spunto dallo scrivere di Charles Baudelaire, entrando in dialogo con il suo dire, cosa ha portato, che prima non c’era, nel tuo fare poesia?
Non lo so sinceramente, se qualcosa di diverso è nato da questo libro rispetto a quelli precedenti. Sicuramente i testi sono molto profondi, delicati se vogliamo e personali, forse più del solito.
Sarebbe curioso e interessante leggere il libro sentendo i suoni della natura, respirare l’aria, ascoltare il vento e guardare gli alberi nello stesso modo nel quale tutto questo è stato da me vissuto mentre creavo i testi.
È stata l’ambientazione del momento a fare la differenza tra quanto scritto finora, unitamente con l’amore per questo poeta.

E poi in questo tuo “Canto intimo” c’è anche un altro dialogo, quello con le opere di Roberto Cantarutti. Da cosa è nato, e come lo hai vissuto?
Con Roberto esiste un rapporto di amicizia da diversi anni… Abbiamo capito di avere delle cose in comune, dicembrini entrambi, la musica di John Coltrane, il fiume, i sassi raccolti sui greti o nei boschi, etc… Frequentandoci è nato una sorta di feeling artistico. Ho apprezzato lo stile, la profondità dei suoi lavori.
Nel 2019 gli chiesi la possibilità di inserire alcuni suoi dipinti nel mio libro che stava per uscire, “Respiro”. La collaborazione è stata proficua ed ispiratrice per entrambi. Questo è stato il “la”… Proseguendo nel tempo questa “comunicazione” si è fatta più stretta, ho partecipato a numerosi incontri artistici che Cantarutti ha organizzato nel suo atelier, fino ad arrivare alla scorsa estate. La cosa importante – credo sia la natura dell’arte – è quella dello scambio: da una poesia nasce un’immagine che porta allo sviluppo di una nuova idea sotto forma diversa.

Una cosa che colpisce subito, leggendo i testi di “Canto intimo”, è che per la prima volta, mi sembra, la tua poesia esca dal quotidiano. C’è una spinta che porta queste tue nuove poesie ad avere un desiderio di assoluto; si confrontano direttamente con il tempo – passato, presente, futuro – uscendo dal perimetro dell’intimità di ogni giorno. È così?
Effettivamente sì. È la lettura di Charles Baudelaire e lo stare immerso nella natura che mi ha spinto oltre i soliti schemi poetici… Non me ne sono reso conto ma è successo. Fermo restando che quando scrivo di città sono sempre a Gorizia, oppure quando parlo del fiume parlo dell’Isonzo…

“Canto intimo” ha un rapporto confidenziale con la natura, anche perché è nato in mezzo alla natura…. Ci puoi raccontare questo?
Sì. Un rapporto molto stretto con lo stare in un luogo pieno di energia, il Parco Naturale dell’Isonzo di Campagnuzza/Sant’Andrea, come ho raccontato prima…
Ho trascorso molto del mio tempo in solitudine, all’interno di questo luogo, sulla stessa panchina dove, in circa un mese e mezzo ho scritto il libro.
Mi è bastato aprire la raccolta “I fiori del male” di Baudelaire e le parole sono arrivate spontaneamente, quasi senza rendermene conto. Si tratta di una zona poco frequentata, nella quale il rumore più estraneo alla natura è quello del treno che attraversa l’Isonzo a qualche centinaio di metri di distanza, per il resto il cinguettio degli uccelli o il fruscio del vento.

E quindi, come si relazione “Canto intimo” con il resto della tua precedente produzione poetica?
Ti posso dire che si è trattato di un capitolo a sé stante, integrata nel mio scrivere sicuramente, ma incentrata sull’affetto verso altre persone, una donna in particolare, Elisabetta. Racconti di vita che si sono intrecciati con la mia.

 

L’autore:
Roberto Marino Masini è nato nel 1958 a Gorizia, dove vive.
Ha pubblicato le raccolte di poesia “Un profondo delicato” (2002), “Il tempo ci attraversa” (2006), “La delicatezza di un piacevole mistero” (datata 2004 – edita 2007) sulla rivista istriana di Fiume “La battana”.
La sua raccolta “I cedri del Libano” (2007) è risultata vincitrice al concorso nazionale di poesia “Pubblica con noi 2008”, organizzato da Fara Editore (Rimini).
Nel 2009 ha pubblicato “Cercavi tra l’erba le parole”, e poi le raccolte “Per disperata ostinazione” (2014), “L’andare illogico” del 2016, e “Respiro” del 2020, edite da Qudu.
Recentemente ha formato il gruppo teatrale “La Fabbrica delle Nuvole”.

(Roberto Marino Masini “Canto intimo” pp. 88, 18 euro, con opere di Roberto Cantarutti, Qudu 2023)

 

 

 

 

Immagini        ——————————

da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

 

Tempo presente       ———————-

Vsak v objemu nikogar, Ognuno nell’abbraccio di nessun’altro

Cinque testi inediti in italiano

di Kristina Kočan

pribe

tam daleč leži morje
širno zrcalno pribežališče
tam daleč od nasipa
na katerem stojimo
jambori v iskanju
peres vleče veter
na komaj vidne otoke
ob katerem šepetamo
pesmi v neznanih jezikih
drug drugemu na uho
nad katerim se lovijo
obalne ptice mraza
mokrišč nizkih trav
odvisne od mesečinskih
noči polnih žuželčjih
rovov zveste stalnima
sopotnikoma vetru in smrti
v mističnem kriku
domotožje pritiska globlje
zdaj v meglo zdaj v trave
zdaj v valove zdaj
v mirno morje
leži tukaj blizu
za bežen pogled
na sijočezeleno
s telesom z grlom
s črnim očesom
kot s kompasom
proti toploti

pavoncelle

lì giace il mare
un vasto santuario a specchio
lontano dalla diga
su cui ci troviamo
alberi in cerca di
piume vento impetuoso
verso le isole appena visibili
alle quali sussurriamo
poesie in strane lingue
ognuno nelle orecchie dell’altro
e sopra gli uccelli della costa e dal freddo
delle zone umide di erba bassa
continuano ad inseguire
legati al chiaro di luna
notti brulicanti di insetti
tunnel fedeli a ciò che è costante
vento e morte compagni
nel dentro di un grido mistico
la nostalgia di casa spinge più in profondità
ora dentro la nebbia ora verso l’erba
ora nelle onde ora
sul mare calmo
giace nelle vicinanze
per uno sguardo fugace
al verde scintillante
con il corpo con la gola
con gli occhi neri
seguendo la bussola
verso il calore

*

Tijger

vsak v objemu nikogar
breme v tonah šepet
v ušesu nikogar v temo
strmeče oči v daljavi
žužnjanje ženskih
glasov kako zveni
voda oceana v brezvetrju
temna je ali pa azurna
voda Hudsona hladna
igla proti severu les
v prasketu vsa teža
v ognju mrtvi dež
v sneg potem led nato
kosti ostajajo blizu
divji purani
trepetlikajo zvezde so
nekje v upanju da se
zjasni da se prečaka
še ena zima

Tigre

ognuno nell’abbraccio di nessun’altro
il fardello di questa tonnellata sussurra
nell’orecchio di chi nelle tenebre
occhi fissi nel guardare lontano
frizzanti voci femminili
quale il suono
dell’oceano nell’aria che rimane ferma
è il buio o l’azzurro
la fredda acqua dell’Hudson
un ago rivolto al nord del bosco
scintille a pieno peso
nel fuoco la pioggia morta
e nella neve poi nel ghiaccio ancora
ossa rimaste vicino
tacchini selvatici
le stelle tremano e stanno
da qualche parte nella speranza di
chiarire il sopravvivere
in un altro inverno

*

šibje

čevlji škripljejo v snegu
se nama oddaljuje
ogreta koča ogenj
pravkar ugaša
nasičenost vzdihljajev
drgnjenje vlažnih teles
v nemem popoldnevu
s temoto tiholazna
divjad med šibjem
preplet gazi prstov
plamenov ki zanetijo
besede na toplih jezikih
šele zimski brsti
nemudoma pogoltnjene
od poljubov
na poti proč

sottobosco

la neve scricchiola sotto le scarpe
restare indietro è
la calda capanna il fuoco
muore piano piano
il non avere fame dei sospiri
lo sfregarsi dei corpi bagnati
in un pomeriggio sospeso
nel fumante passo leggero dell’oscurità
cervo nel sottobosco
impronte intrecciate dei polpastrelli
fiamme che trovano la scintilla
parole su calde lingue
solo i germogli invernali
in questo istante ingoiati
dai baci
sulla strada ancora da fare.

*

astre

v sopari
poznega dneva
astre
vztrajajo
šmarnice
z oranžnimi repi
rojijo nad njimi
v zraku lovijo
tople hroščke
vse se meša
v zeleni in rjavi
le astre
v togem plesu
živih barv
sijejo skozinskoz
da jih ptice
čez zimo
ne pozabijo

astri

nell’afa
del giorno calante
astri
il persistere
di carte moschicida
dalla coda arancione
il loro brulicare oltre
nell’aria ad afferrare
piccoli caldi insetti
tutto si mescola
nel verde e nel marrone
solo astri
nella loro danza rigida
di colori accesi
dentro il loro brillare
attraverso il non essere dimenticati
dagli uccelli
oltre l’inverno

*

beseda ki to ni

potem novo se obrne
ptica leta postane
netopir majhen za palec
premaga vse puškarje
papige kljunače albatrose
kdaj sem že napisala
da so netopirji
ptice potem žalost
ker to niso ta večni
yūgen v meni beseda
ki to ni kot strmenje
v tiho vodo se ravna
proti jugu plove njeno
cvetoče listje ki to ni
v globočavo temnih
debel borov sence
hrastov ptice brez glasu
snega na njenih krilih
sega vse tajinstveno

la parola che non lo è

e poi una nuova svolta
l’uccello dell’anno diventa
un pipistrello dalle dimensioni di un pollice
a sconfiggere tutti i pappagalli
fucilieri beccaccini albatros
quando ho scritto
che i pipistrelli erano
uccelli poi un colpo al cuore
perché loro non erano l’eterna
yūgen dentro di me una parola
non è il guardare fisso
nel silenzio l’acqua si volta
verso il fluttuare a sud facendo
galleggiare il fiorito fogliame
fogliame fiorito che non è
nel profondo di cupi
tronchi ombre di pini
di querce uccelli senza voce
di neve sulle loro ali
il misterioso si estende

 

L’autrice:
Kristina Kočan è nata nel 1981 in Slovenia. È poetessa e traduttrice. Nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca in Poesia Americana Contemporanea presso l’Università di Maribor, Slovenia.
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Selišča”, “Šivje”, “Kolesa in Murve” e “Šara”, che è stato nominato per il Best Debut Book Award 2009.
Per “Selišča” ha ricevuto il Premio Veronika 2022 per il miglior libro di poesie ed è stata anche nominata per il premio Jenko e il premio Velenjica-čaša nesmrtnosti.
Nel 2019 ha pubblicato la raccolta di racconti “Divjad” e il libro multimediale “s|prehod”, contenente le sue poesie e registrazioni con alcuni musicisti, assieme al lavoro fotografico di Bojan Atanaskovič.
Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, e antologizzate in diverse raccolte internazionali.
Il suo lavoro di traduzione si concentra principalmente sugli autori americani.
Nel 2021 è apparsa l’antologia di brevi prose contemporanee di scrittori nativi americani, intitolata “Po toku navzgor” (Litera), da lei tradotta e curata.
Dal 2015 ha iniziato a collaborare con diversi musicisti, scrivendo anche i testi per la band slovena Brest. Vive a Ptuj.

(Le traduzioni in italiano dei testi di Kristina Kočan sono a cura di Sandro Pecchiari, David Bandelj e Giovanni Fierro)

 

 

 

 

Immagini       ——————————

da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

 

In viaggio        —————————

Nei loro occhi c’è l’anima

Caterina Borgato “Donne di terre estreme. Women of the Outermost Lands”

di Roberto Lamantea

In una famosa poesia, Emily Dickinson dice che nessun vascello compie un viaggio così avventuroso come la lettura di un libro. E se il libro è un diario di viaggio, con fotografie a tutta pagina, la lettura diventa un caleidoscopio, un prisma, la tessitura di parole e immagini un atto di magia, il reale diventa fantastico e viceversa, il canto antico di un mondo a noi lontano – un mondo ai margini della geografia e della storia – un riflettore sulla coscienza (la nostra, politica, sociale, economica, di abitanti nell’Occidente) che ci rivela che noi, più ricchi di milioni di persone nel mondo, siamo invece i più poveri. Non abbiamo più l’anima.
Ci sono terre ancora più estreme e vicine. Quelle dove i racconti umani sono basati sull’indifferenza, alimentati dalle differenze. In queste terre, non è la terra ad essere avara e l’acqua è abbondante. Manca “un’anima” alle persone”. Caterina Borgato è una viaggiatrice nelle “terre estreme”: deserti, aride pianure o rocce nere come la notte, dove le temperature spingono gli abitanti a muoversi sempre, tra deserti, altipiani, oceani di sale, tempeste di vento che accecano. La loro vita è una danza lenta, forse una preghiera. Hanno tende e tessuti colorati, i tappeti servono anche per difendersi dal freddo o si trasformano in letti, altari dell’amore. La cena è un rito: si mangia tutti insieme, in cerchio pescando con le mani da una zuppiera. Tu, straniera, sei accolta, donna fra altre donne, ci si parla con lo sguardo, qualche parola d’inglese, altre in quella lingua smarrita di nomadi. Sono poverissimi e ti regalano un sorriso che ha la luce degli astri.
Tutto questo è “Donne di terre estreme”, fotografie e testi di Caterina Borgato, pubblicato da MonturaEditing per un progetto umanitario sociale in Mongolia “Una Ger per tutti”: il ricavato è interamente devoluto e dedicato a ragazze madri con figli disabili.

Le foto, tutte a colori, sono in gran parte ritratti: i volti delle donne guardano l’obiettivo con quei sorrisi innocenti e infiniti che Pier Paolo Pasolini cercava quando lavorava ai film della “Trilogia della vita” (Decameron, I racconti di Canterbury e soprattutto Il fiore delle Mille e una notte, anticipato dal documentario Le mura di Sana’a): gli “occhi ridarelli” dell’immaginario Gennariello, l’adolescente che doveva rappresentare l’innocenza del popolo rispetto al mondo del consumo, della pubblicità e della tv, e che finirà anch’egli travolto dall’omologazione di massa. Gli sguardi delle donne in questo libro ce l’hanno ancora quell’innocenza, anche se nel loro mondo – e le foto lo documentano – hanno già fatto irruzione gli oggetti di plastica: spazzolini, specchietti. Ma un rossetto diventa il modo, anche timido, di volersi un po’ bene, un gesto di libertà. Poesia sono, invece, le vecchie macchine da cucire a pedali o a mano, le Singer delle nostre nonne.
Nei loro occhi c’è l’anima. Storie e volti di donne e di bambine, genti per le quali l’ospitalità è sacra. Ombre nella polvere, il pane nato dalla terra, sandali slabbrati, la pelle dei piedi diventata cuoio. Volti e oggetti sembrano sculture. Mongolia Occidentale, l’isola di Socotra (Yemen), Dancalia (Etiopia): le mani che impastano la cena, donne che parlano alle montagne, donne di vento, ombre nella polvere. Gli animali non sono, come in Occidente, merce: “C’è un antico, primordiale intreccio emotivo tra questo popolo [i nomadi kazaki], gli animali e la Terra. Donne, uomini e bestie hanno vite così legate che nella forma di saluto più comune si chiedono notizie di tutta la famiglia, dello stato di salute del gregge e delle condizioni dei pascoli”. È un libro di cose: oggetti deformati dall’uso, consumati dal tempo, nodosi e ruvidi, spesso rotti; quegli oggetti sono vita, tempo, storia.
A Socotra le donne parlano alle montagne: “Dicono che riescano a vedere nel buio delle notti senza luna con occhi di gatte selvatiche, che sappiano curare ogni male con il fuoco. […] A Socotra le montagne parlano. Quello che dicono lo cattura e trasporta un soffio di vento o lo diffonde un’eco riflessa sulle pareti verticali delle valli”. Nell’attesa del primo monsone, la prima raffica di vento è “come la prima carezza che scatena l’innamoramento e l’amore”.

Ci sono pagine e testi di assoluta bellezza. Il libro è come un canto antico, ha la voce che aveva Omero, che hanno le storie dell’epopea di Gilgamesh, qualcosa che va oltre il tempo. Allora il libro di viaggio, documento d’immagini e parole di una bellezza del mondo che l’Occidente sta cancellando nel silenzio generale e nel frastuono delle guerre, rovescia la lirica della Dickinson: non è più la poesia ad essere un viaggio, ma il viaggio ad essere poesia. Se una pagina come “Quanti anni hai, donna?” ha l’intonazione del canto, del salmo, impossibile non emozionarsi nel leggere “Vivere nel silenzio all’infinito” a pagina 184: “Questi luoghi sembrano inabissati nel silenzio di un tempo che non si riesce a misurare. Quello immenso dell’origine di tutto. […] Spazi di assenza estrema. Dove non c’è bisogno di riempire l’aria e lo spazio con parole. E dove nessuno ha paura del silenzio. Non possono avere paura del silenzio gli esseri umani che stanno ai margini. Ai margini della geografia, delle possibilità di vita. Vite semplici in terre ai limiti sono silenzio. Non c’è rumore, nessuno fa rumore. E riesce a sopravvivere un incanto. Quello di poter sentire e ascoltare i segnali della vita che vengono dalla Terra, la madre di tutto. I pensieri di queste donne e di questi uomini sono sinfonie e tempeste. Inni alla vita e requiem. […] Dove c’è silenzio non si riesce a fare rumore, per poter ascoltare l’assenza estrema delle cose. Il vuoto assoluto dello spazio. Perché la perfezione si trova anche nel niente. E tutti i deserti sono estensione naturale del sacro silenzio interiore”.
Il libro è anche una mostra di 40 fotografie presentata al Trento Film Festival e Montagna Libri nel 2021, al Festival Letteratura di Mantova, al Festival del Viaggiatore di Asolo, Immagimondo Lecco, Oltre le Vette a Belluno, nel 2022 tra l’altro al Museo Archeologico Sass di Trento, al Museo Antropologico di Firenze e di Napoli, al programma Geo&Geo di Raitre. L’ultimo allestimento a Mirano – dove Caterina Borgato abita – dal 4 al 19 marzo 2023 nel parco di Villa Giustinian Morosini “XXV Aprile”.

Intervista a Caterina Borgato:

Dopo tanti viaggi, come è nata l’idea del libro?
Desideravo essere riconoscente a tutte le donne che mi hanno accolta nella loro terra, nelle loro case, nella intimità familiare di piccoli mondi semplici. L’accoglienza dei forestieri è tanto più grande e generosa, quanto più semplice sono le realtà delle comunità e delle famiglie. Anche per un breve riposo, per l’ombra sotto un ciuffo di palme, per ripararmi dal sole o dal vento, dalla pioggia o dal caldo, tutte le donne e gli uomini che ho incontrato mi hanno teso la mano o hanno preso la mia che chiedeva aiuto.
Scrivo da sempre, scrivo tanto, la scrittura mi riequilibra l’anima, mi fa stare bene, mi fa viaggiare, mi fa pensare, mi emoziona. Mi piace fotografare quello che i miei occhi vedono come “eccezionale” e straordinario. Ecco, ho raccolto tutto questo, l’ho messo insieme per dedicarlo alle donne di terre estreme.

Hai girato mezzo mondo. Ma mezzo mondo è dilaniato da guerre, malattie, povertà… Come vivi tutto questo nei tuoi viaggi?
Vivo lo squilibrio come parte delle dinamiche inarrestabili dell’umanità, come il risultato dello sfruttamento calcolato e metodico di terre, di umanità, di risorse materiali e intellettuali. Sento la prepotenza di chi si sente ancora superiore in base ad uno status mentale indotto dalla società, dall’educazione, dall’informazione distorta e malata, soffro per la superficialità di chi attraversa terre, ma non prova a comprenderne la realtà, si estranea e guarda da distante, come se quello che vede non fosse parte dell’umanità cui appartiene.
E sempre più chiari sono gli equilibri degli interessi politici di pochi che hanno come oggetto la sorte della vita di molti. Il desiderio che mi spinge oltre i luoghi conosciuti e vicini è provare a comprendere l’altra umanità.

Quali sono le storie che ti hanno emozionato più di altre?
Ho in mente un titolo: “Viaggi sparsi” e raccoglierà storie fatte di quegli attimi, di quei momenti che sono rimasti indelebili. Khalod e Noal, le sorelle albine di Socotra, lo sheikh di Waideddo che mi ha riconosciuta dopo sei anni dal mio passaggio da sola, in bicicletta, lungo una pista della depressione desertica della Dancalia etiopica, ma anche le notti ad ascoltare i canti dei Tuareg, nel sud dell’Algeria, le giornate a piedi sull’altopiano di Soqotra insieme ad un bedu che saliva sui rami più alti delle Dracaene Cinnabari e recitava poesie, i viaggi con le corriere in India, esperienze assolute di umanità, i trasferimenti in convoglio in Iran, insieme a camionisti di tutta Europa e ai carrozzoni di un circo italiano in tournée, gli incontri con altri viaggiatori, soprattutto quelli del passato.
Una donna con il suo bambino seduti dentro una montagna di patate in Bolivia, la vita a San’a, il primo viaggio in Etiopia alla ricerca della famiglia di una bambina. Io penso in continuazione a questi incontri e ringrazio la vita che mi ha permesso di farli.

Racconto di viaggio e fotografia come dialogano tra loro?
Di professione sono esperta culturale, non fotografa né scrittrice. Mi piace scrivere, perché mi emoziona come scrivo, mi piace fotografare come sono capace.
Leggo le storie negli attimi che fotografo e scrivo quello che vivo. Credo che la scrittura e la fotografia possano raccontare, insieme, l’universo. Le trovo perfette, per come desidero comunicare e raccontare.

Il progetto “Una ger per tutti”…
È uno dei tre progetti sociali di Montura, dedicato alle mamme di Cingheltei, un sobborgo di Ulan Bataar dove da anni provano a vivere una “nuova vita” tanti nomadi che hanno dovuto abbandonare la steppa.
In uno spazio dedicato solo al progetto, le mamme con i loro bambini vengono accolte per iniziare con l’aiuto di altre mamme, un percorso di due anni attraverso il quale si prenderanno cura di sé stesse, diventeranno autonome economicamente per potersi prendere cura da sole, della crescita e dell’educazione dei loro bambini, nati con disabilità psichiche e fisiche, quasi sempre da abusi subìti da uomini alcolisti.
Tutte le donazioni dei miei libri vengono devolute al progetto per l’acquisto di ger per ogni famiglia, per gli impianti per l’acqua potabile e sanitari, per i laboratori. Per tutto quello che serve.

 

L’autrice:
Caterina Borgato è nata a Mirano nel 1966 in una famiglia di alpinisti e viaggiatori. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, master in cultura d’impresa al Cuoa di Altavilla Vicentina, un’esperienza di dieci anni in aeroporto a Venezia e poi il coraggio di iniziare da zero.
Dal 2004 è “expert on tour” per Kel12 National Geographic Expeditions. Ha vissuto in Yemen e nell’isola di Socotra, in Etiopia e nella depressione della Dancalia (da sola ha attraversato la Dancalia “pura” in bicicletta, seguendo la rotta di Ludovico Nesbitt), ha viaggiato in Mongolia, Africa Sub Sahariana ed Equatoriale, Asia, Medio Oriente e Sud America.
In ogni continente vive il viaggio come una eccezionale “scuola di umiltà”, l’incontro con l’umanità. “Donne di terre estreme”, pubblicato da Montura Editing, è il suo primo libro, un percorso umano e poetico, con testi e immagini, nella realtà femminile in terre considerate geograficamente estreme, terre ai margini.

(Caterina Borgato “Donne di terre estreme. Women of the Outermost Lands” pp.192, 30 euro, MonturaEditing Rovereto 2021)

 

 

 

 

Immagini        ——————————

da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

 

Tempo presente        ——————————

Mare Magnum Mare Nostrum

Un racconto inedito

di Nicola Skert

Non è facile. Non è facile per niente, ragazzi, vivere in questo mondo di squali. E io sono solo un pesce piccolo. Certo, vivo e mi sposto in branco, ma quando si avvicina un’orca assassina, non c’è scampo, ti senti come una sardina sott’olio e via, se ti va bene.
A volte è meglio fare come le cozze, che vivono la loro umile vita attaccate a uno scoglio, piuttosto di allontanarsi in mare aperto dove non si sa mai come va a finire. Lo diceva anche Verga, e Verga di cozze se ne intendeva, a giudicare da sua moglie. Beh…bando alle battute banali e meschine, c’è bivalve e bivalve, certuni si comportano solo da filtratori e diventano ricettacolo di schifezze, altri invece le trasformano come alchimisti in bellissime sfere perlacee … non si sa mai come va a finire, in questo oceano di meraviglie vendute all’asta. Già, perché in questo mare torbido ormai vendono di tutto, e non capisci mai se sei un pesce che nuota in un allevamento sovraffollato, o se semplicemente tutti seguono la corrente principale come le tartarughe nelle loro peregrinazioni oceaniche. A volte sono pure costretto a vestirmi come un pinguino, anche se il più delle volte sono goffo come una foca.

Una cosa è certa: c’è chi sostiene che l’uomo non derivi dalle scimmie bensì dalle sirene. Perché ha mani e piedi con vestigia palmate, è l’unico polmonato che può nascere in acqua senza affogare e permettersi immersioni lunghe quante quelle di un delfino. Ci viviamo nell’acqua ancora prima di nascere. E quei pescatori che collaborano con i delfini per aumentare e condividere il pescato? Vedete voi…
Eh già… non si può più essere certi di nulla, neppure di derivare dalle scimmie, o dalle sirene, figuriamo da Adamo ed Eva. Non si può credere più a nulla, in questa società liquida, davvero. Ci devi sguazzare dentro e basta, navigare a vista e possibilmente sotto costa, sperando nel torbidume di affiorare in acque limpide, prima o poi. D’altronde, il mare è fatto proprio così: è curvo anche se, pure in questo caso, c’è chi lo nega. Non riesci mai a vedere cosa c’è all’orizzonte, fino a quando quella cosa non ti è così vicina che ormai non fai più in tempo a evitarla sguazzando altrove.
E a volte non so più che pesci pigliare. Getto l’amo di qua e di là ma ormai c’è ben poco da pescare, i branchi si sono fatti furbi e si spostano altrove. Tanto lo sapevamo tutti che prima o poi sarebbe finita così, che prima o poi anche gli squali avrebbero dovuto fare i conti con se stessi. Siete al vertice della catena alimentare, d’accordo, ma quando avrete finito di razziare i mari che farete, eh? Vi mangerete tra di voi? Probabile, molto probabile. Ma ora che mi sono tolto dai tentacoli di questi giochi sporchi, ora che so usare l’inchiostro per scrivere invece di gettarlo negli occhi degli altri per confonderli, ora so che cosa sono. Sono un uomo che sa stare a galla senza più appoggiarsi a un altro uomo, magari spingendolo sottacqua affogandolo. So accarezzare il ventre piatto di un mare placido. Non temo più tempeste, onde gigantesche, lampi e vento che urla forte per spaventare.

Perché io sono sceso negli abissi, e so che laggiù fa freddo, è buio e fa paura, e sapete come scricchiola l’anima per l’immensa pressione che la circonda! Ma laggiù le tempeste che schiaffeggiano e devastano la superficie, non le senti neppure. Laggiù tutto è silenzio e quiete. Laggiù ci vai quando vuoi, una volta che ci sei già andato e sei riuscito a ritornare in superficie, e laggiù ci puoi tornare ogni volta che lassù le cose non vanno proprio bene. Da sotto sono solo semplici increspature, da sopra il rischio di morire.
E ripensandoci bene, perché una cosa deve per forza escluderne un’altra? Perché i confini devono essere così netti? Non lo sono di certo tra i mari, non esiste neppure una definizione operativa di mare od oceano pertanto… sì, credo che siano vere tutte e due le ipotesi.
Il mio corpo deriva dalle scimmie e la mia anima dalle sirene. E sono pure un po’ Adamo e un po’ Eva.
Un barone rampante che fluttua tra boschi di corallo.
Ciao, mare.

 

L’autore:
Nicola Skert, nato nel 1972, è tarvisiano di origine, triestino di formazione e udinese d’adozione.
Ha alle spalle una formazione scientifica e, come biologo, ha pubblicato numerosi articoli scientifici. Scrittore poliedrico con la passione per la narrativa di genere giallo, le sue pubblicazioni più recenti sono i racconti “Frico a sei punte”, uscito nell’antologia “Fricokiller” (2021), e “Terrano Bollente” in “Enokiller” (2023) e il romanzo “Ultima fermata Misincinis” (2022), pubblicati da Morganti editore.

 

 

 

 

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da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

Voce d’autore        —————————-

Il bianco che si accumula piano

Annalisa Ciampalini, “Tutte le cose che chiudono gli occhi”

di Giovanni Fierro

Annalisa Ciampalini compie un nuovo passo dentro la maturazione del suo scrivere. Il risultato è questo “Tutte le cose che chiudono gli occhi”, ulteriore messa a fuoco di un percorso poetico che sta offrendo al lettore rinnovate suggestioni e sempre più fertili orientamenti.
Scrittura dalla radice profonda, sguardo che si sofferma sulle minute (ma fondamentali, quando non uniche…) manifestazioni del vivere quotidiano, riflessione che si fa segno di significato: questa è, anche, la poesia della Ciampalini.
I miei sono luoghi piccolissimi/ punti in fuga/ a stento trattenuti dalle foto”, è l’attestato di appartenenza che più di tutto racconta il rinnovato scrivere dell’autrice toscana.
In questa geografia minima ma intensa, la sua poesia trova il sussulto e la verità a cui aderire, perché “è questa l’ora del fuoco/ in un tempo deciso oltre il cielo”.
Annalisa Ciampalini ha questa dote di usare le parole con la stessa necessità con cui l’acquarello si nutre d’acqua e l’incisione ha bisogno di ciò che si toglie.
È un rimanere quello che riempie le pagine di “Tutte le cose che chiudono gli occhi”, ciò che respiriamo dopo una spogliazione dettata dal tempo che scorre ed accade, attraverso il vivere che si fa soglia e spaccatura, occasione sempre per riconoscere “un tempo umile/ uno splendore semplice, di terra/ luce che nasce dall’erba”.
Il suo nuovo libro si muove in cinque tempi, in cinque sezioni che però si intersecano, ritornano una dentro all’altra, si muovono nel richiamarsi continuo fra poesia e poesia, in un tessuto narrativo che si dona e si confessa, dove “la fragilità sta nel verso che non dura/ scriverlo su carta/ voltarsi per leggerlo di nuovo/ e il segno muore”.
Annalisa Ciampalini in queste sue pagine fa anche una profonda riflessione sulla poesia, sul suo perché che tutto accende e riconosce, sul suo bisogno di essere forma (e quale forma), nell’esporla agli agenti atmosferici, ai vuoti notturni, alle luci che non sempre hanno la forza di rimanere accese. Sempre e comunque nel tendere alla sua origine, dove “per un attimo il posto aderisce alla vita/ alla prima impronta lasciata”.
Queste sue poesie costruiscono però anche un altro tempo, un luogo in cui fare più silenzio, bisognoso di maggiore attenzione, un quando in cui fare anche i conti con se stessi e il proprio giorno presente e dove, proprio per questa sua sincerità e personale esposizione, si può cercare e trovare qualcuno a cui dire “guarda la luce come è bianca/ e come è fragile quest’aria”.
E forse proprio in questo spazio più fragile, ma così interno al proprio respiro, Annalisa Ciampalini può scrivere che “noi dobbiamo solo restare vivi/ immaginare un luogo che ci aspetta/ e una luce prematura. Inventare questa gioia”.

 

Dal libro:

I nostri corpi complementari
il tuo chiarore
la mia esile oscurità.
Tua è la pietra dell’inverno
il seme dormiente nel giaciglio scuro
le mani che sanno dove premere.
A me resta l’albero lontano
il bianco che si accumula piano
il fiore pallido
esitante tra le dita.

*

Solstizio

C’è fuori un luogo vasto dove il pensiero cresce
spazi allungati che contengono passaggi
un solstizio d’inverno tra corpi luminosi e alti
che mai arriva fino a qui.
Che scenda, ora, tra le cose basse, che si faccia ombra
nell’acqua tonda raccolta nel secchio,
che mani luce pallida a precederlo.
Dovremmo imparare a disegnare eclittiche,
a curare la precisione del tratto. Non approssimare.
Saperlo riconoscere e dire “è questo”.
Vederlo per intero, sentirlo
nella sua sacra brevità.

*

La luce sulla soglia
è promessa di futuro
un sogno bisbigliato all’orecchio.
Un’alba che vince
La sua stessa agonia.

*

Somiglianze

Quando giungemmo alla fine del viaggio trovammo un insieme di piccole cose disseminate in una luce sconfinata. Difficile immaginare terre emerse tanto vicine e così dissimili tra loro: per forma, correnti e vegetazione. Sembrava che una grande mano le avesse radunate lì, proprio quel giorno, dopo che per intere ere geologiche erano cresciute separate, disperse in mari lontani.

Ma poi pensammo alla metropoli, a quel corpo multiforme e compatto nel vapore serale, ai grattacieli, alle case basse, ai sotterranei nelle notti di gelo.
Al sonno di tutti che sale.

 

Intervista ad Annalisa Ciampalini:

A stare tra le poesie del tuo nuovo libro, sembra quasi che bisogna chiudere gli occhi per vedere meglio le cose…. Come se lo sguardo ha bisogno di essere prima immaginato e sentito, e solo in un secondo momento possa diventare strumento di conoscenza e di contatto con il mondo. Può essere così?
Molte cose accadono velocemente, senza scalpore e soprattutto senza preannuncio, di conseguenza lo sguardo non si posa mai abbastanza su di esse e difficilmente riesce a cogliere l’attimo cruciale, l’incipit di un accadimento. I nostri sensi non possono essere pronti per scorgere l’attimo prezioso del mutamento, arrivano sempre in ritardo.
La chiusura degli occhi preserva dalla realtà che vorremmo osservare e sentire, ma consente all’immaginazione di lavorare liberamente. E in questo libro, come hai giustamente osservato, c’è il desiderio di immaginare prima di poter vedere, un’immaginazione che, come noti, si fa anche sentimento. In poche parole: si immagina di osservare qualcosa prima che si manifesti, si cerca di dare una forma agli attimi che precedono un certo evento.
Poi lo sguardo inizia il suo lavoro osservando direttamente e diventando così strumento di conoscenza. O almeno simile a uno strumento di conoscenza, perché l’immaginazione ha già fatto la sua parte.

Nel libro, il luogo e il tempo, si mostrano nelle loro manifestazioni più minute, forse anche più fragili. È in questo loro vivere meno evidente che le cose più importanti si manifestano?
Questa domanda è collegata alla precedente, proprio perché hai colto la linea di pensiero e lo sfondo che sta alla base del libro. Credo che le cose si manifestino in modo molto complesso. O meglio: il modo di manifestazione ci sembra complesso e articolato forse perché, in quanto esseri limitati, non possiamo averne una visione d’insieme.
In tutta questa complessità è facile rendersi conto degli accadimenti importanti e rumorosi, quelli che occupano un grande spazio e si sviluppano lungo un arco di tempo considerevole, ma non di quelli minimi, che sono comunque indispensabili alla realizzazione di un evento. È difficile cogliere il primo istante in cui un fiore inizia a fiorire, o quello in cui una casa comincia a creparsi: spesso vediamo il fiore quando è già in boccio e rimaniamo colpiti da una crepa quando è già sufficientemente riconoscibile.
Sarebbe interessante riuscire ad assaporare l’attimo che prelude al cambiamento! Che sapore ha quell’istante? Da quale caratteristica è annunciato?

Pagina dopo pagina “Tutte le cose che chiudono gli occhi” è quasi un continuo trattenere il fiato, per organizzare meglio il respiro. È forse per stare al mondo con una maggiore precisione?
Capisco cosa intendi per “trattenere il fiato” e in effetti è una sensazione che conosco bene: si sta come se dovesse accadere qualcosa di importante, è una forma di ansia piacevole, una ricerca di concentrazione per poter essere sincronizzati con quello che sta accadendo.
Cercare di stare attenti e in sintonia con quanto avviene attorno a noi vuol dire desiderare di stare al mondo con precisione. Non significa che io ci riesca, solo che mi piacerebbe vivere con la precisione che tu dici. Spero che nel libro si senta questa mia aspirazione.

E mi sembra che alla base di questo tuo nuovo scrivere ci sia il desiderio di saper riconoscere, ogni volta, il manifestarsi delle intensità della vita. È così?
Credo che vivere significhi anche conoscere la vita nelle sue molteplici espressioni, che sono differenti, varie, a volte opposte e sarebbe un peccato farsele sfuggire. Credo che la poesia, non solo la poesia, se usata con precisione e amore, possa avvicinare le persone alla realtà, alla vita.
Ho scritto questo libro con gioia, seguendo il flusso della scrittura, a volte con fatica, sperando di riuscire ad arrivare a percepire istanti particolari, pieni di vita. In questo libro ho evocato affetti, persone che non ci sono più, ho sentito forte il desiderio di far parte di una comunità.
Tramite questo mondo che si accendeva mentre scrivevo, ho sentito l’intensità della vita e spero di aver reso, almeno in parte, questo mio sentimento.

La luce è qui presenza importante, a cui affidi senso e significato del mistero umano. Accorgersene è difenderla?
La luce è presente in molti componimenti della raccolta, e non ha sempre la stessa valenza. C’è una luce di attesa, una luce di quando qualcosa volge al termine, una luce di lontananza, di dolore, una luce dello stare insieme: quest’ultima è quella che si posa sugli uomini che si sentono membri di una comunità, piccola o grande non importa.
Detto in questi termini può sembrare che la luce e le sue declinazioni siano semplicemente fenomeni fisici, in realtà la luce appare nelle poesie per creare uno sfondo, come strumento che serve a definire un’atmosfera, ad abbracciare i sentimenti, gli affetti.
La luce è sempre comunque portatrice di speranza, di direzioni nuove, di rinascita. E quindi, certo, occorre difenderla perché nell’oscurità c’è anche confusione, forme indefinite, monotonia.

Tutto il libro sembra costruire una possibile “fioritura piena”. Di sensazioni, di riflessioni, di accadimenti. Fare poesia è svelare questo passaggio dall’essere gemma al diventare fiore?
Per me la poesia può anche essere vista come strumento vivo, capace di addentrarsi negli istanti cruciali, di sentirli, di viverli e in un certo senso di comprenderli. Possono sopraggiungere momenti di grazia in cui non sembra ci sia differenza tra sentimento e comprensione.
C’è infatti un pensiero mosso da un sentimento e un sentimento che si nutre di pensiero. E come dici tu, “svelare il passaggio dall’essere gemma a diventare fiore”, può essere sicuramente una delle funzioni della poesia: può farlo perché è duttile, si ramifica, penetra anche nei passaggi stretti e oscuri.

Nella seconda parte ci sono anche alcuni testi narrativi, in prosa. Da cosa e come sono nati?
Sono nati dall’esigenza di accompagnare un accadimento per intero, di volerlo seguire nella fase in cui nasce, in cui cresce e si trasforma, e in cui muore. Avevo bisogno di una scrittura meno frammentaria, di mettermi nella condizione di chi osserva, magari con aria assorta, e osservando cerca di sentire e conoscere per poi scrivere. E desideravo un contatto più diretto con l’accadimento.
Ovviamente non sappiamo mai se riusciamo a realizzare il nostro scopo, ma ho pensato che la prosa poetica fosse lo stile più adatto per far venire alla luce queste piccole narrazioni.

E anche il fiume, nella sezione “Il posto”, diventa presenza significativa. Acqua che mostra trasparenza, luce che si riflette sulla sua pelle… dove trovare “per un attimo il posto aderisce alla vita/ alla prima impronta lasciata“. Cosa custodisce di così importante?
Sono contenta che tu mi faccia questa domanda. Quel fiume, o meglio, quel breve tratto di fiume a cui pensavo mentre scrivevo questa sezione, esiste veramente. Fino a mezzo secolo fa, forse anche di più, era un luogo di ritrovo soprattutto per i giovani, un luogo vivo, dove si facevano diverse attività.
Adesso non è nemmeno segnalato, il piccolo centro abitato che si trova nei pressi del fiume sembra non accorgersi della presenza del corso d’acqua. Il fiume è presente, ma dimenticato. Se gli argini non sono puliti e si lascia che l’erba cresca selvaggiamente, il fiume nemmeno si vede, scorre calmo e nessuno si accorge che c’è. Se le cose non vengono rammentate, chiamate col loro nome, se un luogo non viene percorso, frequentato, muore.
“Il posto”, così si intitola la terza sezione del libro, custodisce i ricordi delle generazioni dei miei nonni e dei miei genitori, e attraverso quella scrittura mi interrogo su come una comunità possa mantenere vivi luoghi, sentimenti, idee condivise.

Il libro si conclude con il viaggiare come protagonista. E sono testi che sembrano rimettere tutto in gioco, quando scrivi “noi dobbiamo solo restare vivi/ immaginare un luogo che ci aspetta/ e una luce prematura. Inventare questa gioia”. È così?
Viaggiare implica essere in transito, oppure sostare in un luogo non fisso, che solitamente non viene sentito come dimora. Per quanto mi riguarda viaggiare è spesso una condizione piacevole perché predispone a sfiorare le cose piuttosto che a penetrarle, e ciò può dare una luce diversa ai miei pensieri.
In questa sezione, come giustamente osservi, si sente un’aria nuova: lo sguardo attento e intimo delle precedenti si dilegua un po’ e l’attenzione si sposta sulla condizione di movimento e staticità.
In particolare, nella poesia che contiene i versi che tu riporti, lo sguardo punta verso un luogo che è oltre, dove la luce è arrivata da poco ed è, appunto, “prematura”. Penso a un luogo che ci attende, in cui il futuro si sta costruendo lasciando a tutti una possibilità.

 

L’autrice:
Annalisa Ciampalini è nata a Firenze e lavora ad Empoli, dove risiede. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “L’istante si dilata” con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta “L’assenza” edita da Ladolfi Editore. Nel 2018 pubblica “Le distrazioni del viaggio” con Samuele editore, libro tradotto in spagnolo da Antonio Nazzaro.
Suoi contributi appaiono su diverse antologie edite da Fara editore. Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro “Pierino Porcospino e l’analista selvaggio” (ADV Publishing House 2016) volume che raccoglie testi di diversi autori. Dal 2017 frequenta la scuola “La poesia è di tutti” diretta da Massimiliano Bardotti.

(Annalisa Ciampalini “Tutte le cose che chiudono gli occhi” pp. 75, 13 euro, peQuod 2022, collana “portosepolto” diretta da Luca Pizzolitto)

 

 

 

 

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da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro       —————————-

Valicando la soglia

Ezio Settembri, “D’altra luce”

di Roberto Lamantea

Autore di un’importante monografia su Umberto Piersanti, “Il mito ritrovato” (Industria & Letteratura 2021), Ezio Settembri pubblica ora da peQuod la sua prima raccolta di versi, “D’altra luce”, ed è bello scoprire un compagno di viaggio in quella tradizione lirica che da Leopardi e Pascoli arriva allo stesso poeta urbinate.
Ma se ci sono citazioni, in questo piccolo e prezioso libro del poeta di Macerata “adottato” da Mantova, non sono dovute né a civetteria né al gusto dell’esibizione colta: Settembri rivive una poetica – l’infanzia, il pascoliano tepore della casa-nido – accogliendo e ascoltando in sé l’eco di lontani versi che rivivono come innesti nella sua tessitura linguistica e stilistica, sin dall’esergo di Vasco Pratolini: “La speranza è immensa perché disperata. L’amore inedito è giovane sempre”.
Accanto agli omaggi espliciti a Francesco Scarabicchi e Giancarlo Sissa – che firma la prefazione – ecco gli echi di Pasolini da “Supplica a mia madre”: “Con non altri che te/ era il colloquio,/ un tacere di sguardi”; Montale (esplicito: “Non cercare la parola/ che salva”); la luna leopardiana (“Io ti supplico, placida luna/ che orienti il mio dire”); i “greppi” di Piersanti; il D’Annunzio dei “Pastori” da Alcyone: “Natale. È tempo di tornare”, l’infanzia e la giovinezza rivissute con una pascoliana malinconia: “Quanta luce,/ in quella solitudine,/ si va perdendo”, ma anche Fortini e altri.
È la gioia di chi ama davvero la poesia, ne è abitato, accoglie quei canti della memoria nei propri versi in qualcosa che è molto più di un omaggio o della poetica della citazione cara – in altri anni – ad Arbasino: è scoprire come la storia della poesia riviva in noi al di là del tempo e della filologia.
È il tenero senso del tempo fuggito, della nostalgia che trema e “molce” il cuore, per restare a Leopardi, e diventa sguardo: con quegli occhi velati Ezio Settembri guarda i nostri anni – c’è anche un testo, “Notte di febbraio”, dedicato a Kiev, con un verso stupendo: “l’aria caduta a pezzi” – nella luce malinconica di un amore più consapevole.

 

Dal libro:

Appoggiavo spesso la testa
sulle tue braccia scoperte,
anche da grande,
abbandonato come un infante.
Con non altri che te
era il colloquio,
un tacere di sguardi
prima della partenza.
Mi mancano i tuoi dolci silenzi,
pieni di consapevolezza,
l’attesa leale
del mio turno di parole,
una pazienza invincibile.
Un filo di rediviva tenerezza
mi lega ai compleanni
della mia infanzia,
ora che è notte
e rari lumini affiorano
dal ponte di nebbia.

*

La mia scuola,
quanti sette gennaio inflitti.
Rimpiangere la vostra età?
Non in questo tempo
di messaggi congelati
tra pesci in un acquario,
non in questo deserto.
Ben più lucenti erano
i miei anni novanta,
lo strusciare per incrociare
la ragazza a cui mai
avremmo rivolto la parola.
Le poesie scritte da ubriachi,
la scoperta del Werther,
“Il conte di Montecristo”
divorato in un mese.
Quanta luce,
in quella solitudine,
si va perdendo.

*

Per dire l’allegrezza
non andrebbero che usate
parole semplici,
memorabili.
Io per me
salverei il fremito
che mi attraversa
valicando la soglia,
e solo si placa
all’ingresso
nella cucina luminosa,
dove, tolta la mascherina,
vorrei trattenerlo,
ma fugge via
al mio arrivo.

*

Bisogna concedersi
di sbagliare, qualche volta,
concedersi di aver sbagliato.
Riesumare un rimpianto
spegnendo la tv.
Non cercare la parola
che salva, tentare
di salvarne almeno una.

 

L’autore:
Ezio Settembri (Macerata 1981) ha studiato Lettere moderne a Macerata, laureandosi nel 2007 con una tesi sul pittore fiorentino Ottone Rosai. Dal 2009 è docente nella scuola secondaria.
Ha pubblicato poesie e studi sulle arti figurative su varie riviste. Dal 2019 fa parte della redazione della rivista online Nuova Ciminiera, sulla quale ha pubblicato studi sulla poesia di Sereni, Benzoni, Pasolini, Scarabicchi, Davoli.
Nel 2021 è uscito il suo saggio “Il mito ritrovato – La poesia di Umberto Piersanti” (Industria & Letteratura), vincitore del Premio Lago Gerundo di Paullo, Premio L’Arte in Versi di Jesi. Vive e insegna in provincia di Mantova.

(Ezio Settembri “D’altra luce”, prefazione di Giancarlo Sissa, pp.102, 15 euro, peQuod 2023)

 

 

 

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da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

Voce d’autore        ————————-

Senza dare spazio

Patrizia Baglione, “Nero crescente”

di Giovanni Fierro

È un polipo la tristezza/ dalle spire lunghe/ ti guida senza che sia tu a volerlo/ quasi cadi giù”. È da questa vertigine che le poesie di Patrizia Baglione, contenute nella sua raccolta “Nero crescente”, prendono vita e trovano il proprio spazio sulla pagina.
Una vertigine che continuamente si muove e ritorna, che ci avverte di come sempre c’è un qualcosa che è già finito, ma che continua ad attraversarci in modo completo, quasi assoluto.
Questo avvertire la tensione, alimenta anche il cercare un riparo: “mi nascondo lontano/ da ogni sussulto/ da qualunque prova d’amore”.
Patrizia Baglione, in questi suoi testi così necessari e liberatori, si pone di fronte al proprio mondo, vissuto e subito, cantato e respirato, con il coraggio di trovare il proprio ritratto a cui appartenere: “è così che voglio essere/ non più ghiaccio che trema/ ma idea di essere sciolta”.
L’impossibilità di un amore, il suo abbandono, sono il confronto che fa scrivere “Tu hai sfogliato/ per bene la mia anima//poi// ti ho catturato le membra/ e le ho mostrate all’altro mondo”. Ma solo se prima il tuo vivere è stato un donarsi, un rinunciare ad ogni protezione, il non avere paura della sconfitta.
Perché comunque c’è stato il momento in cui il centro esatto di ogni aspirazione si è manifestato, attimo preciso ed esatto, la verità di quando “nella lunga notte dei desideri/ ho cercato di rapire/ il tuo odore”.
Piace lo scrivere di Patrizia Baglione, per la scelta delle parole con cui si racconta, capaci di contenere l’istante di una verità, e impegnate sempre nel poter dire del nero (crescente) che esplora, e che a volte si fa buio, altre diventa ombra.
Tutto il libro è un affrontare, un non lasciare andare, perché c’è il bisogno di testimoniare, di essere documentazione e racconto. Per dire che le ferite che non si possono evitare poi ritornano sempre, ma ogni volta con un po’ di sofferenza in meno. E allora il fare poesia è anche questo tentativo, continuo ed ostinato, di tenersi in vita, anche solo per ricordarci che ogni gemma è destinata a sbocciare, “mentre io non invecchio/ muoio soltanto”.
Perché è quando il noi che non tiene più, quando è una fragile somma aritmetica che assomiglia sempre di più ad una sottrazione. E tutto “Nero crescente” ha radice in questo accadere, per nulla bonificato dalla più pura buona volontà. È impossibile.
Non serve inventarsi punti di fuga o uscite di sicurezza, “Anche i morti lo sanno/ che dell’azzurro del cielo/ non ci si può liberare”. E da “Nero crescente” non si esce, non si può.

 

Da libro:

È un polipo la tristezza
dalle spire lunghe
ti guida senza che sia tu a volerlo
quasi cadi giù

resti a contemplare il nero
ma è poco, non basta
è ancora troppo buio.

*

Senza ferma dimora
questo lampo di vita
già vestito da morte

non un piccolo tetto
per lasciarsi riposare
quando il tempo è già neve.

*

Due legni che bruciano insieme
ma uno resta grande
l’altro

(già poggiato sul suo lato)
si è fatto piccolo
povero e nero. E così noi.

*

Siamo fuoco e scintille ardenti
tempesta viva
sotto un cielo stellato. Siamo mare.
Metamorfosi continue
alla ricerca di disperata bellezza
mutevolezza lenta
ma radicata. Siamo anche coraggio!
Desiderio che resti
costante la gioia
anziché, qualche sprazzo di luce
di tanto in tanto, qui e là.
Inevitabilmente si sa
scende anche il sipario.
Pervasi così
da uno stato confusionale
come vecchi ubriachi
distratti dal mondo.
Pregare il ritorno di un tempo migliore
restando svegli per ore la notte. Ma
prima che ogni speranza sia andata
dietro la lunga coltre di fumo
un timido uomo si è fatto giorno.
Non nel parto
ma nella vita stessa
si nasce.

*

Il filo che mi lega a te
è lo stesso che inchioda i morti
alla croce
dalla carne, oramai lacerata
fuoriesce
la polvere rossa dei papaveri

sono un cencio di ossa
sopra
questa trave di legno
in un giorno qualunque
di un mese qualunque.

 

Intervista a Patrizia Baglione:

Il nero che esplori a volte si fa buio, altre diventa ombra. È in questo suo alternarsi la sua più profonda identità?
Sì, sicuramente lo è. Ogni ferita, anche la più profonda, in qualche maniera diventa meno pesante da sostenere nel corso della propria vita. Quasi un fardello dalle dimensioni minori, ma non scompare mai del tutto. Quello mai.

E poi mi sembra che a legare assieme tutte queste tue pagine, ci sia una tensione emotiva che dà respiro ad ogni scritto. Da cosa nasce? Qual è la sua origine, la sua appartenenza?
Dal mio personale vissuto: intimo e fragile. Quando ho scelto di metterci la faccia, sapevo bene di aver sposato una causa importante, quella della violenza, è una tematica tanto diffusa ma non sentita realmente. A riconoscerla davvero sono sempre le vittime che in qualche modo, parlano la stessa lingua, e allora non servono più nemmeno le parole, perché parlano gli occhi, il volto, il corpo intero.

Poesia dopo poesia, il “Nero crescente” che racconti è anche un continuo (e necessario, mi sembra…) sciogliersi nell’altrui attenzione. Da cosa proviene questo desiderio, questa fondamentale e originale attestazione di esistenza?
La volontà di trasformare questi versi, così personali, in una ribellione sociale. Siamo in tante e molte non hanno ancora voce, mi capita spesso, a fine di una presentazione, che una donna mi venga vicino e inizi a condividere anch’essa la propria esperienza.
In quel momento capisco di aver fatto centro, di essere andata oltre i versi scritti, di aver toccato anime simili alla mia.

Tutta la raccolta testimonia un continuo dialogo con l’altra persona. In che modo il confrontarsi diventa laboratorio di umana resistenza, di inesauribile voglia di verità?
L’altra persona non è mai sempre la stessa. Ho condiviso quasi sette anni della mia vita con un uomo con gravi problemi di personalità, scoperti solamente più tardi. Il problema delle relazioni tossiche è proprio questo: finché ci sei dentro ti sembra tutto surreale, ti .poni tante domande, ti colpevolizzi su tutto.
Non hai proprio la forza e la capacità mentale di focalizzare le sue di colpe. Le subisci e basta. La tua autostima crolla inevitabilmente. Ti senti minuscola con le spalle al muro, non sei la persona che eri. Ti sei anche ammalata e devi trovare il coraggio di uscirne. Da sola.

Alla base di questo tuo scrivere mi sembra ci sia una netta ed attenta scelta delle parole, a cui affidare il senso del tuo raccontare. È così?
In realtà non sono mai abbastanza attenta alle parole, scrivo di getto, senza troppi ripensamenti e forse senza mai soffermarmi davvero. Vengo colpita da un flusso di parole che non danno il tempo di ragionarci su. Necessitano di venir fuori e basta.

Scrivi “Sono qui/ prendi il mio firmamento”. Fare poesia è questo donarsi in modo completo, assoluto?
Per me lo è, assolutamente. Non mi sono mai risparmiata in nome della poesia. È grazie ad essa de sono diventata una persona attiva nella società. Da adolescente ero molto più chiusa con il mondo esterno, facevo fatica a mostrarmi nelle mie cose, a liberarmi da certi pregiudizi. La poesia mi ha dato un paio di ali.

 

L’autrice:
Patrizia Baglione è nata ad Arpino (Frosinone) nel 1994. Fa il suo esordio nel 2019 con “La mia voce” (Quid Edizioni).
Nel febbraio 2020 pubblica, con la casa editrice Kimerik, la sua seconda silloge dal titolo “Malin-conia delle nuvole”, presentata su “Rai Radio Live”.
Negli ultimi anni ha ricevuto alcuni riconoscimenti, come il Premio alla Cultura al “Kalos” 2020.
È inoltre giurata del concorso artistico letterario “Autori Italiani 2021”.
È stata inserita all’interno della rivista letteraria “Transiti Poetici” a cura di Giuseppe Vetromile.
Dal 2022 è all’interno di “Atlantide – Centro studi Nazionali per le Arti e la Letteratura”.

(Patrizia Baglione “Nero crescente” pp. 68, 12 euro, RP libri 2022)

 

 

 

 

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da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

Libroelibro        ————————-

Un uomo del suo tempo

Raffaella Cavalieri, “Una vita per Dante. Con Alfred Bassermann tra Germania e Italia sulle orme del Poeta”

di Laura Mautone

Una vita per Dante. Recita il titolo di questo prezioso volume che ricostruisce la vita di Alfred Bassermann, membro di una famiglia della agiata borghesia tedesca, nato a Mannheim nel 1856, nonno di Prisca, Constanze, Felicita e Manfredi Bettoni, vissuto tra Heidelberg, Schwetzingen, Königsfeld e morto nel 1935 a Königsfeld. Studiò giurisprudenza a Heidelberg, ma poi diventò studioso e traduttore della Divina Commedia di Dante in terzine (pubblicata tra il 1892 e il 1921), autore di numerosi saggi e volumi che contribuirono alla recezione del sommo poeta nel mondo di lingua tedesca nel corso dell’Ottocento e non solo. Permisero anche di ricostruire quella che viene definita la “geografia dantesca” e di alimentare la diffusione dell’amore per il paesaggio e la cultura italiani.
Tra Germania e Italia sulle orme del Poeta, continua, infatti, il titolo, perché Alfred Bassermann amava la lingua e la cultura italiana, tanto che compì numerosi viaggi in Italia e proprio durante un viaggio maturò l’idea di lasciare il suo lavoro come impiegato presso il Ministero degli Interni del Baden, per scoprire le tracce di Dante nel bel paese dove il sì suona. (Inf. XXXIII, vv.79-80)
Alla stessa età in cui Dante per la prima volta incontrò Beatrice, egli conobbe la sua opera e ne fece il leitmotiv della sua esistenza. Una valigia sempre pronta sotto il letto: chi vuol conoscere un poeta deve visitarne il paese. Così si legge nell’esergo del suo importante volume Dantes Spuren in Italien. Wanderungen und Untersuchungen (pubblicato nel 1897 in tiratura limitata e a proprie spese, e poi a Monaco e Lispsia), tradotto in 20 lingue e citato spesso nelle note della Divina Commedia (addirittura dal Sapegno). L’edizione di Monaco è stata tradotta in italiano da Gorra per Zanichelli nel 1902.
Dante viene definito da Bassermann ein geheimnissvoller Dichter des Jenseits der doch in der Wirklichkeit wurzelte und aus ihr seine beste Lebenskraft zog. Doveva essere un bambino molto particolare se a 9 anni, data simbolica, in cui anche Dante ci racconta di aver incontrato Beatrice per la I volta e di esserne rimasto folgorato, se Alfred, incontrando per la prima volta i versi del Canto III della Divina Commedia: Per me si va tra la perduta gente, chiese al padre la traduzione in tedesco e non contento della mancanza della rima nella traduzione, si mise in testa di tradurre lui i versi. Si trattò di un destino: Dante occupò la vita di Bassermann da quel momento in poi per oltre quattro decenni.
Per Bassermann natura e arte sono fonte di ispirazione per la Divina Commedia, per questo decise di ripercorrere le orme di Dante nel bel paese per scoprire con i suoi occhi ciò che poteva aver ispirato Dante nel paesaggio e nell’arte. Bassermann aggiunge, nella premessa all’edizione del 1896, che deve ringraziare non solo l’Italia, ma anche gli Italiani, che nel nome di Dante, lo hanno sempre accolto con grande disponibilità. E così ha fatto anche Raffaella Cavalieri: per esaudire il desiderio di dare l’addio a suo padre da parte della sua ultima figlia Cady, centenaria, (nata nel 1916 dalle seconde nozze di Alfred con Hedwig Pfeiffer), ha realizzato anche lei un viaggio tra i documenti, le lettere, i luoghi, le atmosfere che Alfred Bassermann ha raccolto e vissuto e ne ha ricostruito con precisione scientifica, riferimenti letterari e citazioni, con maestria e delicatezza poetica, un ritratto che ne rivela tutta la complessità.
Dopo anni di apprendistato sui libri, a partire dal 1886 Bassermann decise di uscire dal chiuso delle biblioteche e partire alla ricerca del genius loci del sommo poeta, calcando le sue orme in quella stessa terra che ispirò l’opera più celebre al mondo, la Divina Commedia.
La tradizione del Grand Tour era già consolidata alla fine del XVIII secolo, il viaggio di formazione dei giovani della cultura classica, da parte dei rampolli della nobiltà e il viaggio come esperienza di vita per gli adulti. Lo spirito era quello cosmopolita e curioso verso l’altro.

A 100 anni dal viaggio di Goethe, nel 1886, a trent’anni, Alfred Bassermann compì il suo primo viaggio in Italia, lasciava una moglie e due figli e il lavoro al Ministero degli Interni. Era una comunità di stranieri, intellettuali, aristocratici, uomini di scienza, diplomatici e artisti quella che frequentava per esempio il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Viesseux a Firenze (Bassermann è registrato per una settimana dal 13 marzo 1892 alla Reading Room), o i salotti letterari a Roma e gli hotel e i ristoranti a Capri (Zum Kater Hiddigeigei).
In questo libro leggiamo, per esempio, che tradusse addirittura i versi del Paradiso in trincea nella prima guerra mondiale e leggiamo del dolce suono del verso 141 del canto IX del Purg. e del suono che Alfred Bassermann sentì aprendo porte dell’oratorio di San Giovanni Battista nel Battistero di San Giovanni Laterano a Roma.
Bassermann fu tuttavia un uomo del suo tempo: patria, sangue e suolo furono concetti gravidi di conseguenze in quel periodo, vide, infatti, solo alcuni aspetti del nazismo e arrivò ad identificare il Veltro (una delle profezie di cui Dante dissemina la Divina Commedia) con Hitler, colui che avrebbe cambiato il mondo. Venne criticato e attaccato. Morì nel 1935, senza vedere la disfatta di quei fatali ideali.
Attraverso i suoi scritti, le ricostruzioni visive e percettive di Raffaella Cavalieri, ripercorriamo nel libro anche l´immagine di un’Italia da poco unita che in Dante trovò l’emblema e la bandiera e viviamo l’esperienza di viaggio iniziata un secolo prima da Goethe, sulla scia del Grand Tour, che da secoli portava i nobili e poi anche i mercanti a compiere il viaggio in Italia come viaggio di formazione alla ricerca della cultura classica, tra descrizioni di paesaggi, locande, itinerari e personaggi incontrati.
Come nella migliore tradizione del Grand Tour anche la raccolta di souvenir d’arte era tipica i quei viaggi. Così inizia anche l’interesse di Bassermann per la glittica romana e la sua raccolta di calchi di deliziose gemme. Interesse per l’arte, anche in collegamento alla Divina Commedia, era enorme: aveva intuito quale importante fonte per il poema fosse non solo il paesaggio italiano, la natura, ma anche l’arte italiana, come ha evidenziato bene anche un recentissimo libro di Laura Pasquini “Pigliare occhi per aver la mente”. Dante, la Commedia e le arti figurative (Roma, Carocci Editore, 2020).
Da qui il progetto anche di illustrare la Divina Commedia e i suoi schizzi (non che volesse farlo lui, aveva chiesto a Max Klinger di illustrarla ma lui declinò l’offerta). Grazie ai ricordi e ai documenti inediti dell’archivio privato della famiglia Raffaella Cavalieri ha potuto ricostruire ciò che sta dietro le quinte dell’immensa opera di Alfred Bassermann, l’affetto che portò verso la cultura italiana, la poesia e l’arte; un uomo che, come abbiamo già detto, ovunque ha bussato nel nome di Dante ha trovato cordialità ed ospitalità.
Scopo del libro è, secondo le parole dell’autrice, restituire a Bassermann la voce, con la gratitudine e l’auspicio che, al di fuori di qualsiasi ricorrenza celebrativa, anche Dante e la Comedia, oltre alla sua passione, non ricadano nell’oblio in cui per troppo tempo sono rimasti.

 

Dal libro:

Ecco il ritratto del padre da parte di Cady, oggi centenaria, l’ultima dei figli di Alfred Bassermann: Mio padre era un uomo alto, di bell’aspetto, con un carattere eccellente fino alla vecchiaia. Il suo viso era una via di mezzo tra Bismark e Nietzsche. I suoi occhi erano di un potere irresistibile, la sua bocca coperta da un paio di baffi alla Nietzsche. […] Poteva essere l’uomo più affascinante, amabile e il partner più spiritoso e divertente. La sua conoscenza e la capacità di apprendimento erano una cosa rara. Parlava e leggeva fluentemente l’italiano come fosse la sua madrelingua, poi greco e latino, oltre al francese. A cinquant’anni iniziò a studiare inglese. […] Da bambini avevamo un timore assoluto di lui che non sapeva come ottenere la nostra fiducia.

Scrive Bassermann il 17 marzo 1886 nella sua prima lettera dall’Italia:
Roma, amatissima creatura! Eccola qui, bisogna veramente esserci, per crederci. Ieri tra neve e ghiaccio e oggi nell’aria dolce e calda come in una serra nella terra promessa. Sono infinitamente felice di non essermi fatto fuorviare e di poter ora sfruttare alcuni giorni per farmi un’idea, almeno a larghi tratti, della grande bellezza e del suo significato storico, qui molto evidenti. Ho temuto che la quantità delle nuove impressioni mi potesse fuorviare. Ma tutto è di una chiarezza e semplicità così classica, che nell’osservare il tutto non è necessaria nessuna particolare fatica.

Davanti a San Pietro Bassermann, come Stendhal da Santa Croce a Firenze, è colto da vertigini:
Non so se era l’effetto del viaggio notturno o la potenza della prima impressione, ebbi quasi le vertigini nel trovarmi così sperduto sulla grande piazza. Sono dovuto arretrare fino al basamento di una delle colonne, per riuscire a vedere il tutto con tranquillità.

Il 20 marzo da Terracina scrive:
[…] Sto vivendo veramente come in un sogno, nel quale si incontrano le cose più incantevoli senza che ci si meravigli delle stesse. E mare e cielo e paesaggio fanno a gara ad offrire i colori più brillanti. […] Ogni giorno mi affeziono di più agli Italiani, sono di una grazia e finezza inimitabili, uomini e donne di una bellezza, che ho visto raramente.

4 aprile 1886: Capri
Qui è veramente bellissimo e penso già con dispiacere al giorno in cui dovrò andar via. Questo collegamento tra bellezza italiana e benessere tedesco è fantastico e credo che si debbano ringraziare soprattutto gli artisti tedeschi per il fatto che qui regni questa atmosfera. Qui si perde istintivamente l’abitudine al ritmo del viaggiare seguendo un programma, lasciando tranquillamente il Baedeker in tasca.

Egli uscì dal chiuso delle biblioteche e andò calcando l’orma del suo predecessore nella terra che gli ispirò l’opera più celebre, la Divina Commedia: chi vuole conoscere un poeta deve recarsi a vistarne il paese, invita il Bassermann nell’introduzione di Dantes Spuren in Italien. […] Riprendendo un suo pensiero, posso sinceramente affermare che in questi anni, ovunque ho bussato nel nome di Alfred Bassermann, ho trovato la più gradevole collaborazione e accoglienza. Possa al mio libro toccare la stessa sorte. (p.169)

 

L’autrice:
Raffaella Cavalieri è Dottore di Ricerca dell’Università degli Studi di Siena e studiosa di odeporica (letteratura di viaggio). Si è specializzata nel campo del viaggio di ispirazione letteraria, a proposito del Grand Tour e sulla rilettura del paesaggio e ha pubblicato diversi testi su questo tema: del viaggio di Dante si è già occupata ne Il viaggio dantesco. Viaggiatori dell’Ottocento sulle orme di Dante (2006); poi si è dedicata alle altre due “corone”, con Petrarca il viaggiatore (2007) e In viaggio con Boccaccio. Dall’oro delle ginestre di Certaldo ai profumi d’Oriente (2013); ha ripreso poi ad occuparsi di Dante con L´Italia con gli occhi di Dante. Guida del viaggiatore (2015); In viaggio con i padri della letteratura italiana. Dante, Petrarca e Boccaccio. Saggi di geografia letteraria (2020) e infine si è occupata di Piccole donne in viaggio. Le sorelle Louisa e May Alcott attraverso l’Europa di fine Ottocento (2020).

(Raffaella Cavalieri “Una vita per Dante. Con Alfred Bassermann tra Germania e Italia sulle orme del Poeta” pp. 184, 30 euro, Ravenna, Longo Editore 2021)

 

 

 

 

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da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

 

 

Voce d’autore            ————————–

Dove la distanza si arrendeva

Elena Giacomin, “Pensieri dopo il silenzio”

di Anna Piccioni

La lettura dei versi di Elena Giacomin scorre veloce, le parole si rincorrono descrivendo immagini della Natura che si richiamano per assonanza e somiglianza, come pennellate dai contorni decisi coinvolgendo poi un sentire più profondo. Con l’uso dell’enjambement la poesia diventa prosa poetica, e l’anafora dà incisività al pensiero.
Ogni componimento raccolto in “Pensieri dopo il silenzio” avrebbe bisogno di una analisi a parte per la ricchezza di parole, colori, che girano attorno allo stesso tema come nella “Luna Nuova”, in cui il seme fa sentire il suo silenzio nella terra mentre il mondo sopra scandisce le sue stagioni.
Il seme stenta a spuntare e rappresenta l’animo dell’autrice nascosto, impaurito, fragile insicuro, “…mi cullai nel buio/ che non riserva sorprese/ e preserva dalla luce/ che era lontana,/ sconosciuta,/temuta”. Paura di affrontare le ostilità e preferire di stare in un non-luogo, dove nulla accade, nulla può ferire… ma poi si scuote, si rende conto che manca “l’audacia di vivere”, e c’è un prorompente desiderio di riscatto alla passività “…il momento del passaggio/accade all’improvviso”, certamente un futuro di incognite e sorprese, “il timido germoglio prende forza… di uscire dal rifugio della terra”: è rinascita, è sfolgorante scoperta.
Seme, pioggia, luna, ore: sono i lemmi e i temi più ricorrenti. Il seme rappresenta quella parte più intima, con tutte le nostre potenzialità che non sempre abbiamo coraggio di tirar fuori, quella parte più interna di noi stessi che racchiude vigore, ma è ancora privo di un’energia capace di trasformarsi.
L’esperienza di una vita vissuta nella sicurezza e nella tranquillità, nel “buio”, poi un vero e proprio terremoto che sconvolge la sua vita la porta a reagire, a trovare la forza e il coraggio, che non avrebbe forse mai immaginato di possedere dentro di sé e diventa parte importante e appagante della Natura. Anche Elena è creatura, sa trovare il suo giusto ed equilibrato posto nel Creato.
La pioggia: toglie i veli dagli occhi annebbiati e fa vedere le cose come sono: “…la pioggia che cade bagna noi, la terra, le cose. Sublime purificazione di ogni errore e visione”; “…la pioggia mi aiuta” a riconquistare immagini di ciò che è possibile; la rinascita della Natura “…le loro radici sporgenti ed estese, pronti ad accogliere ogni pioggia come vera madre”.
Il tema della luna è probabilmente quello più amato. La luna con la sua luce riflessa illumina il cammino di chi si è perduto, di chi cerca la sua strada di chi semplicemente vuole parlare con lei e questo vale per Elena: lungo monologo durante le età della Luna e sa che la Luna ascolta.
Le ore come possono essere: solitarie, combattute, del ricordo, percorse, di libertà; ognuno di questi attributi danno titolo a una poesia, e messe insieme in questa sequenza rivelano un percorso, la solitudine proiettata negli alberi frondosi; le lotte determinate dall’incomprensione dal rimanere chiusi in se stessi dal non guardarsi negli occhi trascurando dettagli; ricordi sfumati coperti dalla patina del tempo, vivere percorrendo ore attraverso un alternarsi di opposti; aspettare l’oblio per prendere il volo.

 

Dal libro:

Oltre

Guardo il cielo,
voglio guardare il cielo,
le nubi,
la pioggia che cade
e bagna noi, la terra, le cose.
Sublime purificazione
di ogni errore o visione,
carezza di sguardi scambiati
che vanno al di là dell’apparenza
e si dilettano a danzare
a quel ritmo lento
che giustifica ogni limite.
Saranno le onde del vento
a scompigliare le pagine della vita,
apriranno varchi tra le parole,
schiuderanno le porte dei pensieri
e fisseranno nel profondo
le risposte trovate.
Riguardo il nostro cielo,
nessuna nuvola ormai
mi impedirà il vedere oltre.

*

Ore combattute

Eravamo troppo occupati a fare la guerra
a non guardarci negli occhi
e non percepire il respiro degli altri.
Eravamo reti intrecciate di destini
che si aggrovigliavano senza principio
e nemmeno fine.
Strane nuvole nel cielo
di colore viola e grigio
dicevano che lontano,
molto lontano,
esisteva un altrove
dove la distanza si arrendeva
e la spezzata speranza
rimaneva sconosciuta e misteriosa.
Oggi,
questo silenzio dopo la neve,
segnato da orme profonde,
mette in fila
momenti a volte brevi
a volte interminabili
e respira la non morte.
Non c’è tempo per vivere:
non sappiamo vivere,
solo affrontare ogni momento,
fette di quotidianità
che sono i ricordi che si realizzano ora,
torture di un passato.

L’edera è cresciuta troppo,
dovrebbe essere potata
ma solo possiamo guardarla.
I rami degli alberi sono troppo sottili
per reggere un fucile
carico di pallottole
(una per ogni cuore da sopprimere),
anche il silenzio,
quell’antico silenzio,
volta le spalle,
si trasforma in distanza
e si muore senza aver vissuto.

Intervista ad Elena Giacomin:

Quando è iniziata la scrittura poetica e come nasce la poesia in Elena Giacomin?
La poesia nasce come necessità, urgenza, improrogabilità, una azione che non può essere differita. Infatti, mi trovo sempre con un taccuino in borsa in ogni occasione. Anche sul comodino c’è sempre carta e penna. Così nasce la mia poesia, un momento improvviso che, come una folata di vento, arriva senza preavviso.
Ero vissuta in Cile dove avevo conosciuto la poesia di Pablo Neruda (Nobel 1971), Gabriela Mistral (Nobel 1945), e molti altri sensibili poeti latinoamericani.
Verso i diciotto anni, passavo quel tempo Leopardiano tipico della gioventù che avrebbe solcato la mia anima: dovevo soltanto cogliere questa opportunità e trasformarla in versi. Così ho cominciato a scrivere testi più impegnativi e introspettivi.
Poi ho cominciato a partecipare ai primi concorsi e ricevere dei positivi riscontri che mi hanno incoraggiata a continuare. La scrittura per me è compagna di strada che trasforma in poesia quello che è una mia passione.
Il confronto con gli altri poeti e scrittori è fondamentale: incontri, readings, letture e partecipazione a concorsi servono, secondo il mio parere, a rafforzare e arricchire lo stile e la forma di espressione. È un aspetto che va continuamente alimentato se si vuole migliorare e crescere.

L’aver trascorso la propria infanzia prima in Argentina e poi in Cile ha influito sulla sua poetica?
Sono sicura che il fatto di aver vissuto all’estero, in contatto con altre culture e tradizioni, lontana dalla mia patria di origine e alla ricerca di una mia identità legata alla mia terra, sia un elemento che ha contrassegnato il mio modo di esprimermi ma soprattutto il modo di sentire e percepire il mondo.
Nei luoghi che sono vissuta, Argentina e Cile, da marzo 1960 a novembre 1972, sono due paesi in continua crisi sociale e politica, con molti cambiamenti, con livelli di povertà molto alti, ma ricchi di rapporti umani e solidali.

Elena Giacomin scrive anche in spagnolo: in quale delle due lingue sente la sua poesia?
Pur non avendo mai tralasciato di parlare e scrivere in spagnolo, negli ultimi anni, per vicissitudini avverse, ho avuto la necessità di esprimere nella poesia sentimenti di sofferenza e dolore. Ho scoperto che riuscivo a esternare, nella scrittura in spagnolo e con adeguate parole, ciò che faceva più male.
Così è nato il mio primo libro “Argento e Melodie / Plata y Melodías” di Battello Stampatore nel 2020, con l’introduzione di Gabriella Valera Gruber. Pubblicato in piena pandemia. Questo libro è stato scritto da me nelle due lingue. Devo dire che mi ha dato molta soddisfazione scrivere e tradurre le mie proprie poesie.

“Pensieri dopo il silenzio” si può considerare un percorso di vita da uno stadio ad un altro, una trasformazione interiore?
Effettivamente si può dire che “Pensieri dopo il silenzio” sancisce uno spartiacque tra una tappa della mia vita e un’altra. Dopo tanto nascondimento, riesce a narrare la storia di un seme che vuole diventare albero ma per riuscirci deve morire e rinascere.
Questo passaggio a una nuova esistenza attraversa un reale dolore, ma porta in sé una volontà di vivere che richiede molto coraggio e impegno. La trasformazione, rappresentata nella silloge, non sarà soltanto interiore, già di per sé molto faticosa, ma anche nella vita di tutti i giorni, nell’esporsi ai rischi che la vita offre a volte rendendo più difficile il percorso ma altre coronandolo di bellezza.

La Natura è protagonista nella silloge qui presentata: gli alberi, la pioggia, il vento, e anche il tempo…dove si pone la poetessa?
Qualcosa della natura lo troviamo sempre nei miei versi. Forse perché mi identifico negli eventi naturali: ogni raggio di sole, ogni goccia di pioggia, ogni soffio di vento, ogni onda, ogni parte del grande spettacolo della natura sento che mi avvolge nei momenti di emozioni o eventi particolari.
Dove mi pongo? Non so se la natura mi accompagna o io accompagno la natura a compiere quanto deve fare. Comunque, per me è importante questo riferimento in quanto mi fa sentire appartenente a un universo infinito e mi fa apprezzare quanto ricevo in dono da esso.

La copertina ha un significato particolare?
La pittrice Carmen Battaglia trasse ispirazione dalle mie liriche per creare il quadro che fa di immagine alla copertina. Si tratta di una amica che abita a Como dove ha un atelier e dipinge con passione. L’ho conosciuta a Sarria mentre entrambe percorrevamo il cammino verso Santiago di Compostela.
Poi siamo rimaste in contatto e chiesi a lei di individuare l’immagine che più rappresentasse i miei versi. Sono stata subito colpita dai colori e dalla semplicità dei tratti così evocativi della silloge: la donna, la luna, la natura. Sono molto contenta che il quadro dipinto da Carmen Battaglia mi accompagni in questo percorso poetico con la sua arte.

 

L’autrice:
Elena Giacomin è nata a Trieste, dove vive. Ha risieduto diversi anni con la famiglia in Argentina e poi in Cile. Inizia presto a scrivere e partecipa a diversi concorsi regionali.
Le sue poesie si trovano in diverse antologie poetiche.
Ha esordito con la raccolta poetica “Argento e Melodie / Plata y Melodías”, pubblicata da Battello Stampatore nel 2020.

(Elena Giacomin “Pensieri dopo il silenzio” pp. 98, 13 euro, Daimon edizioni 2022)

 

 

 

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da “Canto intimo”

Dieci opere su carta

di Roberto Cantarutti

 

I lavori di Roberto Cantarutti, le quarantaquattro opere incluse in “Canto intimo” di Roberto Marino Masini, di cui proponiamo qui una selezione di dieci opere, sono stati prodotti utilizzando nero di vite al medium sottraendo a fresco da un unico tratto iniziale. Come spiega lo stesso pittore cormonese all’interno del libro.
Cantarutti, a riguardo del loro dialogo con lo scrivere di Masini, aggiunge che questi sui lavori “s’intessono e fondono al suono delle parole e delle immagini reinventate, aprendosi ad una terza visionarietà”.

 


L’artista:
Roberto Cantarutti, pittore cormonese, partecipa a mostre collettive e personali a partire dal 1997, in Italia e all’estero.
Il suo percorso artistico si basa sulla riflessione e sul recupero di un disegno pittorico essenziale.
Dal 2020 apre il proprio studio ad eventi che coinvolgono la pittura, la poesia e la musica, sperimentando il dialogo tra queste vive espressioni umane ed artistiche.

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.

 

 

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