Fare Voci aprile 2021

 

Benvenuti al numero di aprile 2021 di “Fare Voci”.
Un numero a dir poco speciale.

Sì, perché ospitiamo la voce d’autore di Roberto Marino Masini e il suo ritorno con il nuovo libro “Respiro”, assieme ai testi inediti di Gabriella Musetti e a Giovanna Dal Bon con le poesie di “La sola andata”.

Ma ci sono anche il fare poesia di Jude Luciano Mezzetta che, con “Longitudini”, trova lo splendore dello scrivere, e la fiducia nelle parole di Alessandra Maltoni che ha il coraggio di dire “La poesia cambierà il mondo”.
E poi un classico, Paul Celan con la sua antologia “Non separare il no dal sì”, a cura di Elisa Biagini.

Numero speciale? Sì!
Perché “Fare Voci” ospita anche un sentito e necessario omaggio a Pier Paolo Pasolini.

Assieme ad Alessandro Del Puppo che, nel suo “Pasolini Warhol 1975”, ci racconta un possibile/impossibile incontro fra queste due figure così importanti; con il nuovo lavoro musicale degli Autostoppisti del Magico Sentiero, “Pasolini e la peste”; con la lettura che fa Roberto Lamantea del testo di Pasolini “I giovani infelici”, mai così attuale, e con Franco Polentarutti che ci racconta “Pasolini, la scelta di una libertà”.

Le immagini, che danno ulteriore ritmo a questo numero, sono le otto opere su carta di Alessio Russo.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini       ————————————

Paesaggio

di Alessio Russo

 

 

 

Voce d’autore        ——————————

Un profondo delicato

Roberto Marino Masini, “Respiro”

di Giovanni Fierro

Tutto mi porta altrove eppure sono ancora qui,/ in questo travaglio di giorno,/ dove ogni cosa sembra litigare con il buon senso”, e dove Roberto Marino Masini trova il perché della sua nuova raccolta poetica, “Respiro”.
Ed è questo il presente dove si muove il nuovo scrivere del poeta goriziano, in questo libro diviso in tre parti, che ci racconta di bisogno e incertezze, di legami e singoli giorni, del domandare e del domandarsi “E del vento, del vento dimmi/ quando lo senti spingere verso la coscienza”.
Con questa nuova pubblicazione continua il percorso d’autore iniziato nel duemila e due, e che libro dopo libro, ha permesso a Masini di costruire una appartenenza alla poesia più profonda e più delicata.
Porteranno la leggerezza dell’aria,/ della primavera che si lascia appena sfiorare,/ del futuro che domani potremo riprendere/ in altri quaderni”, per dire meglio e con più precisione delle realtà che nutrono il quotidiano, che sono l’energia e l’identità che ogni giorno ci modella e ci invita a vivere. Ad ognuno di noi.
In “Respiro” Masini costruisce un dialogo continuo, con sé e con le persone che ama, e con quelle che non ci sono più. Non ha paura di mostrare la fragilità del vivere, perché scrive la necessità di difendersi, di opporre resistenza ad ogni forza avversa e contraria: “Non lo sai nemmeno tu,/ ogni mattina scavi la pace in quella che era una preghiera”. A volte è dolore e fatica, altre gioia e sorpresa.
Scendo cauto,/ ricordando di seminare le briciole di pane/ per segnare il tragitto del ritorno,/ per non perdermi in questo tempo/ che sembra sempre più sbagliato”; è il qui ed ora che Masini testimonia ed esplora, con l’intensità delle parole scelte, a cui dona sempre più fiducia, ricambiato.
La sua poetica è questo credere alla possibilità di ogni singola parola destinata alla pagina.
Anche Gorizia fa parte del suo tessuto poetico e narrativo, con i suoi luoghi e il suo dialetto, dove “Se ci pensi è la semplicità di un mondo tanto vicino/ quanto sconosciuto che si rivela,/ improvvisamente scuote”. Anche questo è dire di una città.
In queste sue pagine, leggendo e rileggendo, ci si accorge che “Respiro” è anche il bisogno di un qualcosa che si possa mostrare, come una possibile ‘verità’ riconosciuta a cui fare riferimento, che è stata cercata fin qui.
Lo scrivere per Masini è un trovare e rendere visibile; è sempre un’occasione nuova per scoprire il cuore di ogni momento, dove “Entro nel disordine del dopo, lo districo piano,/ lo tolgo dai mobili…”.
Sì, le gemme presenti nei suoi libri precedenti qui sono sbocciate, sono fiorite in “Respiro”. Masini con ancora maggiore determinazione coglie le immagini e trova i significati, “In questo mondo di stelle tristi/ incapaci di cadere e di desiderare”.
Ma il suo è un rilanciare, uno scommettere sulla capacità umana di usare la sofferenza come setaccio, trama fina che separa la luce dal terriccio buio di ogni esperienza. Sa cogliere l’essenza di ciò che rimane, ogni nostro “Respiro”, per dare in modo migliore il senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo.
E l’agire migliore è sempre il passo che va incontro a noi stessi, perché “Non è partire che spaventa/ ma il tornare verso la nostalgia,/ il ricordo”. Grazie.

 

Dal libro:

Entro nel disordine del dopo, lo districo piano,
lo tolgo dai mobili…
Dai tappeti respiro la polvere e nei nascondigli
dei quali mi raccontavi ogni giorno non trovo tesori
ma solamente ricordi.
Polaroid sbiadite, istantanee di vita,
muri freddi, fantasie dimenticate.
Cerco di liberarmi d’ogni cosa,
butto fuori quest’aria pesante
che non ha tempo per ciò che è stato…
Lasciarsi alle spalle tutto,
non voltarsi più, sapendo però che le immagini
ritorneranno, risaliranno forse scolorite ma improvvise
per il tempo a venire.

*

Nono Toni

De quel mio ultimo saludo me resta il ricordo
de quel odor de l’ospizio de via Diaz,
dove comandava i preti,
la spuza de un cameron pien de rantoli,
cataro, feci…
Del nono me sovien no un rider, gnanca la vose…
solo un véder confuso de la sua bici nera,
del suo pedalar e un riguardo per un omo
che me pareva sai grande.
No lo gavessi più vedù e forse ta quel giorno
ta i suoi oci iera la speranza de scampar da quel posto
dove se podeva solo spetar…

(… mentre tosivo de picio: “… vara su, vara su che xe el nono Toni che te ciama…”)

Nonno Toni
Dell’ultimo mio saluto rimane il ricordo/ dell’odore dell’ospizio in via Diaz,/l’odore stantio di uno stanzone intriso di rantoli catarro e feci./ Del nonno rammento non un sorriso,/ né la voce… solamente una confusa visione/ della sua bicicletta nera,/ del suo pedalare ed un senso di riguardo/ per un uomo che sembrava enorme…/ Non l’avrei più visto e, forse in quel giorno/ c’era nei suoi occhi/ la speranza di fuggire da quel luogo/ dove si poteva solamente aspettare…
(… mentre tossivo da piccolo… “… guarda su, guarda su che c’è Nonno Antonio Toni che ti chiama…”)

*

La verità è la spinta che ci porta
dove non vorremmo andare, dove
ci si perde senza ritorni,
dove la tua bocca si chiude prima della mia.
Forse l’abbiamo sognato quel luogo,
tutto finiva per ricominciare
nel silenzio di un riflesso.

*

Dalla terra la polvere
chiede un po’ d’attenzione, s’alza,
lentamente ricade al suolo la sua ombra
e ritrova l’appoggio.
Poca considerazione nei piccoli gesti, troppo poca.

 

 

Intervista a Roberto Marino Masini:

Da cosa nasce questo libro e qual è il ‘respiro’ del titolo?
Per me scrivere è indispensabile, quando non lo faccio ne risento… può sembrare banale ma scrivere è come respirare, in un certo senso “terapeutico”. Di conseguenza ecco la parola che più si adattava alla raccolta, parola che oltretutto viene ripresa in diversi testi.

Ognuno dei tre capitoli del libro è contrassegnato dall’anno in cui sono state scritte le poesie che ne sono contenute. C’era il bisogno di definire un tempo, di contenere momenti differenti, sia di vita che di scrittura? E quali sono, se ci sono, le differenze fra di loro?
Sono passati cinque anni dalla precedente pubblicazione, “L’andare illogico”, era ora di chiudere il cerchio, di finire un percorso e poi iniziarne un altro, futuro.
Ho l’abitudine di procedere nella stesura finale di un libro in modo cronologico, perché penso sia giusto sottolineare i vari momenti del mio percorso, il suo evolversi dal punto di vista emotivo.
In sintesi, nella prima parte parlo molto di mia madre, del nostro rapporto, della sua morte. Nella seconda proseguo raccontando di come questo mi ha cambiato e di quanto ho incontrato strada facendo.
Nella terza ci sono doverosi riferimenti a quanto è accaduto in questo anno disgraziato che ci ha coinvolti tutti e che, purtroppo, è destinato a continuare nella stessa difficoltà.
Il filo conduttore della raccolta rimane comunque un rapporto intimo tra emozioni e la vita che le genera…

Gorizia è parte integrante del tuo scrivere. Questa volta, in “Respiro”, che ruolo ha avuto? Come ti sei rapportato ad essa? E c’è anche un testo in dialetto….
Come nelle precedenti pubblicazioni, la nostra città vive in molti miei testi, magari alle volte la si può trovare in qualche sfumatura, alle volte invece è presente “fisicamente”.
Sono nato e vissuto a Gorizia, non si può prescindere dal luogo di appartenenza nel fare poesia. Io almeno così credo.
Il dialetto è il sottobosco che vive in me. Fa risorgere ricordi, soprattutto della giovinezza (“Nono Toni” lo dimostra), ma in altri miei inediti, possiamo trovare anche l’ironia, il quotidiano.

A pagina 45 c’è questa frase: “La semplicità di lasciare un segno”. Ti chiedo, è l’obiettivo di ogni essere umano? È il desiderio della poesia?
Più che obiettivo direi desiderio di condivisione, senza ombra di vanità. D’altra parte, è vero che chi scrive questa aspirazione l’ha dentro di sé, magari inconsciamente, ma esiste.

Una parola, ma quindi anche un protagonista, è presente in tutto il libro, in ogni sua sezione. Ed è la parola ‘polvere’. Che significato ha per te? E come mai questo affidarsi a lei per veicolare il tuo dire?
Una metafora. Una parola che riassume l’essenza delle piccole cose. “… l’invisibile agli occhi…”, nascosto dalla quotidiana frenesia, ma importante. Quante volte tralasciamo i dettagli per poi riscoprirli come necessari? Questo è un po’ il senso che voglio dare alla polvere…

Il tuo scrivere precedente si è sempre contraddistinto per alcuni toni malinconici che ne hanno firmato l’originalità. In questo tuo nuovo lavoro mi sembra che i toni siano decisamente diversi. C’è un’apertura ad altri stati d’animo, come la gioia ad esempio, che diventa un qualcosa non solo da vivere, ma anche da difendere. Cosa c’è alla base di questa tua nuova tavolozza emotiva che si è così aperta verso un nuovo e rinnovato ‘sentire’?
Non rassegnazione però, eventualmente malinconica constatazione dei tempi…
Se prima affrontavo aspetti difficili della mia vita, lasciavo comunque aperta una speranza, una via d’uscita. Adesso c’è maggiore tranquillità, questo evidentemente si riflette sulla scrittura. In ogni caso questi sentimenti sono per me importanti, e sento il bisogno di condividerli con altri.

A pagina 50 scrivi della ‘verità’. Cos’è la verità per chi scrive poesia?
La poesia è sincerità. Espressione del proprio animo. Raccontare quanto accade dentro e fuori me stesso senza giri di parole.
Accade che io scriva qualcosa accorgendomi in seconda battuta di aver detto cose sulle quali in precedenza non mi ero soffermato, ma che emergono improvvise e reali.
Questa è la mia verità.

Forse “Respiro” è un dialogo continuo. Che fai con te stesso, con le persone amate, anche con chi non c’è più. Come se fosse un unico e continuo presente che tutto e tutti accoglie. Ti ritrovi in questo?
Ogni pubblicazione è un dialogo continuo con me stesso e include tutti coloro che mi circondano… Affronto la vita con le persone amate nel presente quanto nel passato.
Un passato che non si può tralasciare neppure nella sofferenza delle perdite, ma custodire, come un album fotografico dal quale trarre ispirazione e sfogliare di tanto in tanto.

Mi sembra che con il tempo la tua fiducia nella poesia sia ancor di più aumentata. È così? E perché?
Non so rispondere a questa domanda. Sapere che questo è ciò che nota chi mi legge fa piacere, ed è giusto che altri dicano questo, non io.
Posso dire solamente che questa tua affermazione è il risultato di una personale crescita e, alla fine, è anche uno dei miei intenti, migliorare la scrittura e di conseguenza una fiducia maggiore per continuare a farlo.

Tu sei anche uomo di teatro. Questa tua altra passione è entrata in qualche modo in queste tue nuove poesie?
Credo che sia la poesia ad essere entrata nel teatro… Ho scritto diversi testi poetici per altrettanti spettacoli, per la mia compagnia (“La fabbrica delle nuvole”) e per altri gruppi.
In particolare cito la collaborazione negli allestimenti del gruppo teatrale SOS Rosa di Gorizia, con l’amico regista Gennaro Ponticelli (mio mentore teatrale) di cui seguo i suoi laboratori e spettacoli, documentandoli dal punto di vista fotografico.
Con Gennaro, inoltre, da molto tempo c’è un cantiere aperto che riguarda la poesia ed il teatro, prima o poi qualcosa nascerà e, speriamo, verrà portata su di un palco… Credo che dovrò pensarci seriamente, visto le ultime insistite chiacchierate e gli stimoli lanciatami dall’amico regista…

L’autore:
Roberto Marino Masini è nato nel 1958 a Gorizia, dove vive.
Ha pubblicato le raccolte di poesia “Un profondo delicato” (2002), “Il tempo ci attraversa” (2006), “La delicatezza di un piacevole mistero” (datata 2004 – edita 2007) sulla rivista istriana di Fiume “La battana”.
La sua raccolta “I cedri del Libano” (2007) è risultata vincitrice al concorso nazionale di poesia “Pubblica con noi 2008”, organizzato da Fara Editore (Rimini).
Nel 2009 ha pubblicato “Cercavi tra l’erba le parole”, e poi le raccolte “Per disperata ostinazione” (2014) e “L’andare illogico” del 2016, edito da Qudu di Bologna.

(Roberto Marino Masini “Respiro” pp. 86, 12 euro, Qudu 2020)

La copertina di “Respiro” è opera dell’artista Roberto Cantarutti, che firma anche le tre immagini contenute nel libro. Da questo confronto con Roberto Marino Masini, Cantarutti ha poi elaborato un ulteriore percorso di creazione e ricerca, che lo ha portato a realizzare altri lavori nati da questo incontro.

 

 

 

 

Immagini        ————————————

Senza titolo

di Alessio Russo

 

 

 

 

Tempo presente       —————————–

Poesia è forma della cosa

Sei testi inediti

di Gabriella Musetti

 

 

poesia è forma della cosa
non mia non tua
neppure sua
ritmo mentale
si dispiega formale
parola-immagine
di un conversare
nella durezza estrema

*

chi dice: – voi fate – voi immaginate
– voi dite – e prende le distanze
come vivesse in altra dimensione

io preferisco – noi – a voi
noi poveri umani difettosi
con i sospetti arcani / puntigliosi
e le manie individuali

nessuno è così puro
da stare fuori da ogni mischia
così gentile sempre innocente

*

intima

ho avuto due figli
con parto cesareo
non io l’ho voluto
non ho mai spinto/lacerato
spremuto le mie membrane
ho amato curato
e pianto alle volte
e molte vite – vivo
tenendomi di lato
e ancora scrivo

*

ci sono voluti trent’anni
perché dicessi madre
– a mia madre –
perché riconoscessi
la fragilità di lei
parte integrante di
umana consistenza
perché accettassi
il ruolo genitoriale
tanto precario
soggetto a ogni temporale
squassamento

*

l’anello non l’ho portato
per tanti anni
ma ora non lo tolgo
ora che più non segna
un legame
rimane vincolo
non concluso
storia diventata pietra

*

da qualche tempo sogno
mia madre – la ricordo
con memoria fresca
come quando in cucina
si voltava a me seduta
chiedendo: questo ti piace?

 

L’autrice:
Gabriella Musetti è nata a Genova, ora vive a Trieste. È socia della Società Italiana delle Letterate. Ha fondato nel 2014 insieme ad altre, la casa editrice Vita Activa (www.vitaactivaeditoria.it).
Collabora a diverse riviste letterarie. È presente in alcune antologie critiche.
Ha scritto libri per la scuola e curato pubblicazioni saggistiche tra cui: “Donne di frontiera. Vita società cultura lotta politica nel territorio del confine orientale italiano nei racconti delle protagoniste”, voll. I, II, con Silvana Lampariello Rosei, Marina Rossi (2007); “Sconfinamenti. Confini passaggi soglie nella scrittura delle donne”, con Adriana Chemello (2008); “Guida sentimentale di Trieste” (2014); “Dice Alice. Racconti autobiografici di donne” (2015); “Oltre le parole. Scrittrici triestine del primo Novecento” (2016); “15 Racconti + 5. Scritti a Trieste e luoghi del nord est” (2021).
In poesia ha pubblicato alcuni libri tra cui: “Obliquo resta il tempo” (Lietocolle 2005); “A chi di dovere” (La Fenice 2007); “Beli Andjeo” (Il Ramo d’Oro 2009); “Le sorelle” (La vita felice 2013) e “La manutenzione dei sentimenti” (Samuele Editore (2015).

 

 

 

 

Immagini        ————————————

Sun Dance

di Alessio Russo

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————

La cortesia di qualche indizio

Giovanna Dal Bon, “La sola andata”

di Roberto Lamantea

 

A sei anni dal suo primo libro “Naufragi”, con prefazione di Milo De Angelis, Giovanna Dal Bon pubblica, nella nuova collana “Cardini” dell’editore Amos di Mestre, “La sola andata”, con cui l’autrice veneziana conferma l’originalità – e la tensione – timbrica e sintattica che caratterizza la sua raccolta d’esordio. Per “Naufragi” avevamo citato Zanzotto come numen della tessitura linguistica e ritmica di Dal Bon: è alle prime indagini l’eredità del poeta di Pieve di Soligo sulla poesia degli ultimi decenni; il centenario della nascita (1921) e i dieci anni della morte (2011) al di là delle celebrazioni di rito hanno stimolato finalmente una riflessione su Zanzotto maestro di scrittura, non tanto per le fascinazioni che il suo stile ha esercitato ed esercita sui testi di oggi – a lungo misconosciuta, chissà perché, rispetto ad esempio alle sperimentazioni del Gruppo ‘63 – quanto per la ricchezza di timbri, ritmi, luci, tessitura fonetica, immagini e l’innovazione radicale della lingua poetica nel terreno arato dalla tradizione (dalla lirica greca e latina alla letteratura italiana e la tradizione del Novecento a quella tedesca, quest’ultima non molto frequentata dai poeti italiani).
La scrittura di Giovanna Dal Bon è affilata e nello stesso ha la trasparenza liquida dei sogni, l’apparenza della visione rinvia sempre ad altro. La parola va ricostruita da dentro e a Celan rinvia l’esergo: “Chiedo aiuto per l’affilato/ per il soccombere/ stare in griglie d’esatto/ nell’esatta parola”: è la “sprachgitter”, la grata di parola di Paul Celan (uno dei poeti che Zanzotto amava di più).
Alla ‘parola esatta’ invita Cesare Viviani in un delizioso libretto del 2018, “La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…”: “La poesia non sbaglia parola, dice la parola esatta, ovvero quella che non può essere sostituita da un’altra e non può occupare nel testo un’altra posizione. Ed è la visionarietà che non fa sbagliare parola alla poesia”.
I versi della Dal Bon non hanno punteggiatura, sono graffiati sulla pagina, rare le rime, quasi tutte interne, l’oggetto fisico si trasforma nella visione mentale e viceversa: “Non poter più dire franati massi/ la frase che affratella e dismette/ trascorsi decenni/ perse le nostre tracce/ solo impronte in luce divampano”.
Attraverso la grata delle parole affiora la tensione etica (c’è una bella pagina su prigioni e prigionieri): “Parliamo la lingua dei disadatti a stare/ abitiamo un suono interno/ pre-linguaggio”.
Ha una tonalità zanzottiana una delle poesie più belle del libro: “[…] dura fino a qui il nostro inverno/ e solo ritiro/ non sapere-non conoscere/ mai e poi mai uscire// poca sera/ poca terra/ mordi l’acqua/ bevi il pane / fai del tuo giorno eucarestia”.
Una delle dieci sezioni del libro s’intitola significativamente “Nel non dire”, dove Dal Bon dipinge (è il verbo giusto) un testo ‘cromatico’, con suggestioni morandiane, con l’occhio e la penna di chi, come lei, si dedica da anni alla critica d’arte: “C’è tenue luce/ verde bottiglia/ la mano che scorre e non piglia/ l’ombra produce/ un balbettio tutto bianco/ la vasta accoglienza della carta”; in un’altra poesia leggiamo: “bianco lattigine il cielo/ il sole è bianco/ senza poter dire che bianco è l’istante”. Incastonate tra i versi anche citazioni, evidenti quelle da Pavese e Lalla Romano.

 

Dal libro:

Stai qui
nel centro morente del mondo
in collisione di campi e campielli
città del dolore rappreso
crampo
potente inghippo-flebile memoria
città di bordi corrosi
dello squarcio e della nascita
vagito d’acqua morta
lento eros di spegnimento
città devastata dai passi
da occhi spalancati che non sanno guardare
città che manca allo sguardo
votata all’ancoraggio mancato
alla mano bucata di chi è rimasto
capovolta e trafitta
immobile su fondali fangosi
città dell’adagio che estingue
dei migliori che mai sono esistiti
impresa da mar senza l’onda che sferza e purifica
città infetta da pesti sempre sventate
di scirocco malato odoroso d’alga
riversavano su te granaglie da porti baltici in albe incandescenti
città di navi ingombranti e scomparsi carichi
percorsa da un’insensata ansia di ritorno
per far di noi gli ultimi
i combacianti con la tua fine

*

Restare in casa
primi giorni di novembre
preparare il letargo
la lunga trattenuta d’inverno
il lento dei pomeriggi
in quel senza sole che solo piace

*

D’un tratto si fa grigio ardesia l’esistenza
il giorno accorcia i suoi orli in luce
non più riposo nelle amache
l’ocra e il castagno
la foglia venata
è fine anche per l’autunno
trascinare il giorno fino a quella panchina
il portale in bronzo
la sposa goffa in discesa
la cortesia di qualche indizio
nel ritorno a casa
in una giornata che doveva essere pioggia

*

Si emerge da curvature strane ed esuli
dal punto cruciale
ferita inferta esatta
la svolta nel vasto
di deità taciuta
nel grido che è dell’uomo
e ci imbaratra
scoscende

 

Intervista a Giovanna Dal Bon:

“La sola andata” è il tuo secondo libro di versi, a sei anni da “Naufragi”. Il libro rivela una raffinatissima cura della scrittura. Diversi autori/autrici confidano di scrivere di getto, poi lasciano “a riposo” il testo, lo riprendono anche molto tempo dopo la prima stesura, tagliano, molto cestinano. Al contrario, un verso o una serie di versi può nascere già definitiva. Qual è il tuo metodo di lavoro?
La parola scritta nel mio caso procede da un lungo silenzio. Si potrebbe dire quasi alimentata dal silenzio, che non è necessariamente assenza di suono. Un silenzio attivo, pulsante, raggiunto a tratti da echi, suoni interni, richiami non sempre rassicuranti. Nel suo divenire scrittura la parola si nutre di questo silenzio frastagliato che comporta un’attesa. A volte un’interminabile attesa, anche di lunghi mesi, quasi una diserzione, senza poter sapere se mai raggiungerà uno stato di emergenza, di allerta tale da farla precipitare in scrittura. La parola scritta in quel poco consentito che non sia racconto o rassicurante fraseggio ha bisogno di vigilanza. Di forze attente che la contengano, a darle argine, misura. Un’urgenza vigilata dall’attenzione come unico metodo, se dovessi riconoscere un metodo. Un’attenzione ferma, che sa restare, a tratti implorare, ma sempre in attitudine di ascolto. Un rapido tragitto fino a raggiungere il terminale neurologico che è la mano, il gesto che è il premere, infine lo spazio che la accoglie; un foglio rigorosamente bianco. Unica scelta volontaria di questo divenire scrittura è la matita (una faber-castell rigorosamente affilata) e la consistenza della carta.

Leggendo i tuoi versi si sente una forte sensibilità cromatica: i colori delle cose, anche i colori – le declinazioni, trasparenze e opacità – dell’aria. Quanto il tuo lavoro di critica d’arte incide sulla tua scrittura poetica?
I colori inchiodano all’istante. Li vivo anche come suoni all’interno della scrittura: il viola che emette segnali, il grigio ardesia di un’esistenza, l’ocra biblico, le terre d’ombra; minerarie. La sabbia, il fango elettrico, certi abbagliati bianchi. Venezia è un lento assestarsi di grigi: nei lunghi rettilinei di fondamenta, i masegni, nelle facciate pietrose, i lastricati sconnessi, la densità plumbea dei canali colmi di marea. Ma è la luce a dare consistenza alla durata e materia ad un momento veramente vissuto.

Se dovessi confidare i tuoi amori letterari, del passato e del presente, chi nomineresti?
Le mie letture nel tempo sono andate riducendosi, sono sempre quelle, le poche a cui ritorno, a volte con assalti, altre con arrendevole dimestichezza. Estrapolando magari una sola parola e ruminandola per un giorno intero. I testi che considero definitivi, le scritture di chi va “verso un deserto”; ne posso citare alcuni: la mistica renana del XIII secolo, le lettere assetate ed insaziabili di Marina Cvetaeva, quel rullo compressore che è “La libellula” di Amelia Rosselli, “Il nulla divino” di Meister Eckart, il pensiero poetante di Maria Zambrano in “Chiari del Bosco”, Peter Handke nell’ “Epopea del baleno”, i padri cappadoci, i libri di Edmond Jabès che interrogano la perdita e l’assenza…

Una poesia del libro è dedicata a Venezia (ma la città traluce anche da altri testi). Come vedi la tua città oggi?
Venezia in questo momento è restituita ai suoi tratti originari. Non più luogo di saccheggio deprecabile ed invasivo, di scellerate orde riversate ogni giorno nei suoi fragili spazi senza alcun senno ad impedirne il respiro e il passo. Ritrovo la Venezia vivibile della mia infanzia. Riemerge la sua pietrificata geometria, lo sguardo che può arrischiare involi nei comignoli carpacceschi, a scoprire altane e sempre nuovi dettagli. Nei canali guizzano i pesci, addirittura l’arrampicata di qualche granchio, meduse violacee. Zero moto
ondoso. La luce e l’equilibrio che le erano stati sottratti negli ultimi decenni. Sarebbe magnifico vederla risorgere da questo azzeramento imposto, come la “Venezia salva” di Simone Weil, sventato l’agguato di quel manipolo di usurpatori che volevano sabotarla. Una città aurorale, accesa da nuove prospettive, chissà…

 

L’autrice:
Giovanna Dal Bon è nata a Venezia nel 1968. È autrice di saggi d’arte e letteratura.
Nel 2006 ha curato il carteggio Cadorin-D’Annunzio. Del 2008 è “Doppio ritratto”, da cui è stata tratta la mostra alla Estorick Collection di Londra (2011).
Nel 2009 ha curato la mostra “Zoran Music. Estreme figure” all’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti di Venezia.
La sua prima raccolta poetica è “Naufragi”, pubblicata da Amos Edizioni nel 2014.

(Giovanna Dal Bon “La sola andata” pp. 160, euro 12, Amos Edizioni 2021)

 

 

 

 

Immagini        ————————————

Uova nere

di Alessio Russo

 

 

 

 

Voce d’autore       ———————————-

Ho delle domande, alcune domande

Jude Luciano Mezzetta, “Longitudini”

di Giovanni Fierro

È sempre una piacevole sorpresa quando il primo passo nella lettura di un libro trova, già dalla prima pagina, l’accendersi di una limpidezza. Di sguardo, di scrittura, di suono.
E questa esperienza, immediata e totale, nasce posando l’attenzione sulla raccolta poetica “Longitudini” di Jude Luciano Mezzetta.
Un vento bellissimo: la carne/ della mela della nettarina/ che schiocca nella pelle/ aperta che mi trovo dentro”. È questo il benvenuto che da subito l’autore pone a chi vuole scoprire la sua scrittura.
Incanto e significato, che per tutte le pagine di questo libro coinvolgono il lettore, lo invitano a sviluppare ogni senso del proprio essere. E grazie ad uno scrivere che si fa corpo e respiro, ma anche vento ed acqua, suono e ritmo.
Perché ci sono delle magie in queste pagine. Jude Luciano Mezzetta è capace di far diventare Roberto Rossellini un paesaggio in cui incamminarsi, dona nuova luce alla natura e riesce a creare musica dalla carezza delle sue parole.
“Longitudini” parla di quanto sia necessaria la poesia per vivere, e di quanto sia fondamentale la vita per scrivere poesia.
Perché poi stupore e quotidianità si incontrano, ecco una nuova magia, per trovare la scintilla unica e irripetibile: “Ogni giorno/ quelli che odiano/ quelli che odiano la vita stanno vivendo/ e quelli che amano/ quelli che amano la vita stanno morendo// e quelli che vogliono/ essere liberi/ loro sono liberi”.
“Longitudini” è la nudità e la trasparenza che mancano sempre, la forza solo quando è necessaria, il silenzio quando si riconosce la bellezza.
È un canto continuo, a volte sussurrato altre intonato con più vigore, è libertà artistica di riconoscere le melodie che animano il proprio essere, nei suoi pensieri e nei suoi desideri.
Jude Luciano Mezzetta sa nutrire lo stupore, lo fa crescere, gli fa imparare che appartenere ad un orizzonte significa sempre, anche adesso, costruire il vero. Qui.
Come dice bene Alessandro Agostinelli nella postfazione, quella di Mezzetta è “poesia dell’esistenza”.
E allora è un gesto che sa di segreto da custodire, il volere bene a questo autore e alla sua poesia: “(Sto pensando allo spazio, voglio leggere di meno/ voglio spazio, voglio il vento che soffia da ovest,/ voglio i punti cardinali, voglio il vento freddo, non voglio niente oltre il reale,/ voglio il reale, quello esatto preciso, voglio il viaggio)”.

 

Dal libro:

Punta Coyote

Al crocicchio di mezzanotte
un uccello e un altro volano, e
si accoppiano a mezz’aria,
mentre i miei piedi affondano nella melma
e si sollevano con un sonoro risucchio
come midollo strappato da un osso.
Quel che si appiccica è verde e umido.

Cammino sulla striscia di punta Coyote
fino ai cardini del mare.

Quando le tombe saranno scoperchiate
saremo l’uno il fantasma dell’altra,
amore mio.

*

Ogni giorno il gatto trotta per Via della Repubblica.
Ogni giorno incontra la curva e il crocevia.
Ogni giorno le probabilità aumentano enormemente contro di lui.

Ogni giorno piscia dove serve che pisci.

Ogni giorno
quelli che odiano
quelli che odiano la vita stanno vivendo
e quelli che amano
quelli che amano la vita stanno morendo

e quelli che vogliono
essere liberi
loro sono liberi.

*

26 marzo 2009

Stamattina dopo la grandine
e la pioggia di ieri
niente si sta muovendo sulla strada del promontorio
o in mare

è così silenziosa, così dolorosa da vedere
la pagina bianca come la fame

questa pagina si eleva sulle macchine dei turisti
o sulle barche a vela o sui panfili
di solito
tranne che a mezzogiorno del 26 marzo 2009
quando tutto è bianco, azzurro e verde

e lo sai
tu lo sai

ho delle domande, alcune domande
che hanno bisogno
di risposte
e comunque
non c’è nessuno qui tranne me,
credo.

 

 

Intervista a Jude Luciano Mezzetta:

Il viaggiare che emerge dalla sua biografia, che influenza ha avuto nella sua scrittura?
Ho vissuto metà della mia vita in Italia e metà in California. Le longitudini sono diverse fra di loro, sia fisicamente sia psicologicamente.
E le longitudini sono sempre più difficili da conoscere delle latitudini.
Sono d’accordo con il poeta statunitense Paul Vangelisti che ha detto “per Mezzetta il luogo (o lo spazio) è sostanzialmente il fine che definisce e sostiene il poeta“.

“Un vento bellissimo”, che apre la raccolta, è da subito un invito a vivere la gioia, la natura, l’esistere. La poesia che ruolo ha in tutto questo?
“Un vento bellissimo“ è una poesia che esalta il reale, che esalta il tocco del vento sulla pelle, che esalta la bellezza della flora, e che esalta il respiro profondo dell’aria fresca più dell’arte letterale.

E proprio la natura, in queste pagine, ha sempre una presenza importante. Che significato le dà? Qual è la sua importanza?
La natura, preferisco dire la geografia, supera ogni erudizione. Ossia, è più importante conoscere il nome della via dove uno abita che conoscere il titolo di un libro.

Testo dopo testo, si ha la netta impressione che queste sue poesie preparino il lettore allo stupore, al meravigliarsi. Che mi sembra possa essere una possibilità in più, per ‘accorgersi’ di sé, degli altri, del tempo in cui siamo immersi. Può essere così?
Non c’è mai fine allo stupore. Albert Einstein diceva che ci sono due tipi di persone, quella che crede che niente nell’universo sia un miracolo, e quella che crede che tutto sia un miracolo. Io appartengo a quest’ultimo tipo.

Anche Roberto Rossellini diventa un ‘paesaggio’…
Rossellini per me è stato importante perché era scarno. Lasciava l’immagine parlare per sé, senza strati sopra strati di significati nascosti e soggettivi.

Una cosa che colpisce da subito, è che queste sue parole e frasi hanno un suono che si fa ascoltare, una ‘musica’ che dà ancora maggiore forza al loro significato. Può essere così?
Ho sempre insistito sulla musicalità nella mia scrittura. Da giovane sono stato un fan del jazz moderno. Ho cercato di incorporare il suo ritmo sincopato nella mia poesia.
Per esempio, la poesia “Via della Repubblica” è basata in gran parte sugli assoli di John Coltrane. Una poesia senza ritmo non è poesia. Infatti, spesso leggo la mia poesia accompagnato da musicisti jazz.

Sì, tutto “Longitudini” è un continuo viaggiare, non solo geografico, ma anche temporale, viste le varie date a cui fanno riferimento i testi. È l’intreccio di un presente ‘allargato’, dove poter stare? O cos’altro può essere?
“Longitudini” è anche un viaggio nel tempo, viaggio nei più di 50 anni di scrittura di poesia.
Però non sono sicuro di cosa significhi la parola “tempo”. Il fiume è sempre lì, ma le particelle dell’acqua che fanno il fiume cambiano sempre luogo.

C’è un desiderio di incontro continuo, un cercare il confronto che mi sembra veramente importante. E mi sembra che questa ‘ricerca’ abbia il proprio stare in una solitudine necessaria, di riflessione, di scoperta…. Mi sbaglio?
Il desiderio di incontrare quello che è veramente reale è fondamentale per me. Non so cosa significhi la vita, ma forse riuscirò a capirlo se vivo veramente.

Ci sono immagini, e situazioni, (come nel testo “Il gorilla verde nel luglio infuocato”) che mi sembrano abbiano una matrice ‘cinematografica’. Il cinema è ‘entrato’ in questo suo scrivere?
Il cinema mi ha molto influenzato, come mi ha molto influenzato la poesia di William Carlos Williams.
Sono d’accordo con Williams: “Dillo! Non con l’idea ma con le cose”.
E sono d’accordo con Rossellini quando dice “l’importante è dare informazione”.

A leggere e rileggere “Longitudini” si ha quasi un giramento di testa, piacevole perché portatore di nuove sensazioni. C’è una viva fisicità che lega questi testi, ha pelle e carne, respiro e battito cardiaco. È il corpo della poesia?
Con “Longitudini” intendevo dare intensa fisicità alle cose, come fa il poeta californiano Jack Spicer.
Volevo scrivere affinché la luna nella mia poesia fosse una luna vera, affinché il limone nella mia poesia si potesse tagliare ed assaggiare, affinché il sangue, come un fiume in piena, scorresse nell’aorta del cuore che batte nel corpo della mia poesia.

 

L’autore:
Jude Luciano Mezzetta è nato in Italia alla fine della Seconda Guerra mondiale, poi, piccolissimo, si è trasferito con i genitori a San Francisco, dove ha vissuto la maggior parte della sua vita e dove ha preso parte alle ultime avventure poetiche del post Beat Generation.
Ha pubblicato le sue poesie sulla preziosa rivista letteraria “Invisible City” diretta da Paul Vangelisti.
I suoi lavori poetici hanno condiviso quelle pagine assieme agli scritti di Diane Di Prima, Charles Bukowski e Jack Hirschman.
Da qualche anno vive a Lerici, nel Golfo dei Poeti.
Alcune sue poesie compaiono nell’antologia “Poets West”, assieme a quelle di Gary Snyder e Kenneth Rexroth.
Le sue letture dal vivo, assieme a musicisti jazz, sono vere e proprie esperienze di ascolto.

(Jude Luciano Mezzetta “Longitudini” pp.68, 10 euro, Edizioni ETS 2017)

 

 

 

 

Immagini           ————————————

Bull is coming

di Alessio Russo

 

 

 

 

Voce d’autore         ———————————

I fiori accompagnano

Alessandra Maltoni, “La poesia cambierà il mondo”

di Salvatore Cutrupi

 

Il libro “La poesia cambierà il mondo” di Alessandra Maltoni è una silloge composta da 31 poesie. Il denominatore comune delle liriche è l’osservazione e l’esaltazione del creato in tutto il suo splendore.
La poetessa guarda attentamente tutto ciò che la circonda e, dalle emozioni che sorgono, trae la linfa per scrivere i suoi versi.
Le sue poesie hanno una visione di futuro pieno di speranza che lei attribuisce alla bellezza della natura e all’energia positiva che ne consegue. Questa visione di un domani migliore per l’umanità nasce soprattutto dalle conoscenze di fisica quantistica, che hanno contrassegnato il suo percorso di studio e adesso caratterizzano quello professionale.
Per Alessandra Maltoni le parole che viaggiano nella nostra mente, e che poi diventano poesia, somigliano alle particelle quantistiche che ancor prima di partire sanno già dove andare.
L’autrice ci suggerisce che la poesia racconta sogni, ed è una possibilità, un’occasione per abbandonare le nostre titubanze, per rigenerarci, per prendere coscienza della bellezza del dono della vita e del suo valore. Per lei ogni verso è capace di trasmettere quella carica spirituale che, quando ci colpisce, produce effetti benefici ed arricchisce il nostro corpo e la nostra anima.
Alessandra Maltoni sa che la poesia è necessaria per farci intraprendere un cammino di scoperta, e ci aiuta a vivere meglio; perché parla di noi e spesso dice ciò che anche noi vorremmo dire. Ci conduce al di là della nostra ripetitiva quotidianità ed è uno stimolo per migliorare le nostre azioni, per cercare di cambiare il mondo in meglio, per salvarlo.
Si può dire che queste sue liriche sono un inno alla vita, alle sue infinite meraviglie, e ci indicano una strada da percorrere in simbiosi con la cultura, con le persone, con gli affetti veri, con la natura.

 

Dal libro:

Grotta urlante

Sotto un vecchio ponte
il “Poeta” scrive,
una voragine inghiotte il fiume
tra rumori assordanti, trasporta detriti.
Sotto un vecchio ponte,
il “Poeta” scrive,
tra indifferenza,
malevolenza,
sogghigni,
sull’utilità della poesia,
ma, le parole sulla carta
abbracceranno l’eternità del tempo,
portando luce,
dove regna il buio.

*

Poeta Turoldo

Il silenzio delle piante
nasconde zampilli
d’acqua fresca;
provengono
da tre sassi scuri.
Il getto li lava,
li leviga,
la luce dona splendore
alla materia inanimata,
la risposta è nello sguardo.

*

Il lessico dei fiori

I fiori accompagnano sempre una sensazione
riceverli e donarli
è un gesto semplice,
il significato è comunicato dalla loro bellezza.
Ogni fiore è unico e profondo,
composto di colori,
fragranze,
forme e percezioni,
connotano il valore simbolico
di un momento esistenziale
sono un omaggio,
d’amore,
d’amicizia,
di ringraziamento,
di saluto,
d’affetto,
arrivederci alla stagione dei fiori.

*

Poetic energy

L’amore vive e germoglia
spesso nelle condizioni
più faticose,
come un fiore selvatico
che non ha bisogno
di cure per sbocciare.
Il silenzio
è la voce dell’anima,
la spontaneità,
l’abbraccio naturale,
il bacio impulsivo,
sono l’espressione gestuale
dell’energia vera,
lei, si trasforma in poesia,
vive e muta il mondo.

*

Papaveri blu

Chinano il capo
al cadere della pioggia,
le gocce d’acqua
sono come lacrime della vita,
ma, la poesia
alza il capo ai papaveri blu,
li erge al sole,
verso l’infinito, sull’Himalaya…

 

Intervista ad Alessandra Maltoni

Il titolo del tuo libro” La poesia cambierà il mondo” fa sorgere spontaneamente una domanda: in che modo la poesia può riuscire a cambiare il mondo e farci guarire dai malesseri del vivere?
La poesia è una tecnica di comunicazione che fa rinascere le nostre qualità migliori, la nostra umanità, il rispetto per la vita e la natura, può modificare il nostro modo di pensare e di conseguenza di agire, se le azioni sono empatiche, il mondo può guarire dal malessere e migliorare la qualità di vita.
Bellezza e poesia sono come “armi” per tornare ai valori importanti di legalità, fratellanza, giustizia e soprattutto amore.
La poesia (come una grande personalità) è il frutto di molte generazioni – di molte rare combinazioni. Per avere grandi poeti occorre avere anche un grande pubblico”, sono parole di Walt Whitman, considerato il più grande poeta americano.
Pare che Whitman abbia scritto in riva al mare i versi “La poesia salverà il mondo”, ho letto i suoi versi dopo aver pubblicato la silloge “La poesia cambierà il mondo” e sono rimasta contenta di avere inconsciamente camminato sulle orme di un grande poeta.
Quello che mi differenzia da Withman sono le mie nozioni di fisica quantistica acquisite in anni di studio solitario, e sono convinta che porti benessere all’uomo la parola poetica.
La poesia è una tecnica utilizzata in psicoterapia, per i malati di disturbi cognitivi.

Le tue poesie sono un inno alla speranza e fanno immaginare un futuro migliore per l’essere umano. Quando e come si è fatto strada in te questo pensiero positivo?
Questo pensiero positivo si è fatto strada tanti anni fa, con la scomparsa prematura di mio padre, dei miei zii, delusioni affettive personali.
Scrivere in fogli bianchi versi è stato come dipingere la vita di nuovi colori e dare un senso positivo all’esistenza.

Nella copertina del libro è rappresentato un papavero blu e nella silloge ci sono anche altre poesie dedicate ai fiori. Da dove nasce questo tuo amore per la natura?
Fin da bambina ho sempre camminato molto in mezzo alla pineta, al mare, alla campagna, alla montagna.. trovai pure una stella alpina.
I miei genitori mi hanno insegnato ad apprezzare la natura, mio padre coltivava rose. La natura fa parte dell’energia universale, va rispettata e amata.
Leggendo diversi testi di fisica quantistica ho capito quanto sia importante l’energia nelle nostre vite e i fiori sono una fonte di energia naturale. Se ami i fiori, ami la vita.

Tu sei laureata in ingegneria e ti occupi di fisica quantistica. Quale è stata la molla che ti ha spinta verso una direzione poetica che appare lontana dalle tue competenze, e che peso hanno avuto ed hanno le tue conoscenze scientifiche nella caratterizzazione del tuo percorso poetico?
L’ingegneria fa parte della mia formazione, studiare la fisica classica può far scattare la molla di studiare fisica quantistica, se si è curiosi.
Sono una donna curiosa, e leggendo un libro edito dalla Borighieri scoprì che Einstein aveva scritto per il suo cinquantesimo compleanno una poesia a tutti i capi di stato.
Trovai questo episodio bizzarro e cercai di capirne il perché. Le mie competenze scientifiche sono il faro del mio percorso poetico, sto cercando di comprendere la correlazione tra l’espressione poetica e l’energia.

Le tue poesie sono ricche di energia vitale. Quale è il messaggio che vuoi lasciare a chi legge i tuoi versi?
Il messaggio è quello di un mondo migliore, grazie alla nostra comprensione umana e al nostro intuito che è legato al nostro sistema energetico; la considerazione della poesia come un mezzo il cui fine è una crescita personale e un possibile benessere collettivo.

 

L’autrice:
Alessandra Maltoni vive a Ravenna.
Il suo racconto “Domande tra il porto e il mare” ha vinto il premio nazionale “Il Delfino” 2010, nella sezione mare.
Nel 2007 ha pubblicato “Da Ravenna racconti tra i numeri”. E’ coautrice dell’antologia poetica “La parola e i suoi approdi”.
Con la raccolta poetica “Tracce di riflessione poetica” è stata finalista al Premio Internazionale “Trofeo Penna d’Autore 2004” di Torino.
È stata tradotta in spagnolo dal centro poetico di Madrid e in inglese da Book editore.
Recensioni dei suoi libri sono apparse in diverse riviste.
Attualmente è titolare del Centro Servizi Culturali, con attività poliedriche nel campo della cultura e della didattica.

(“Alessandra Maltoni “La poesia cambierà il mondo”, pp. 42, euro 9,90 Edizioni La Zisa 2019)

 

 

 

 

Immagini        ————————————

Protesta

di Alessio Russo

 

 

 

 

Da qui        ———————————–

Paul Celan, “Non separare il no dal sì”

A cura di Elisa Biagini

di Roberto Lamantea

 

Paul Celan parlava sette lingue. La sua lingua madre è il tedesco, e in tedesco ha scritto le sue poesie; a scuola ha studiato il romeno, l’ebraico e l’ucraino; poi ha imparato il russo, all’Università di Bucarest l’inglese e il francese.
Nato a Czernowitz in Bucovina il 23 novembre 1920, Paul Antschel (solo dal ‘47 anagrammerà il cognome in Celan) abitò a Bucarest, Vienna, Parigi. Il poeta della vertigine, che vide la sua famiglia ebrea sparire nei lager, a Parigi scelse il silenzio annegandosi nella Senna la notte tra il 19 e il 20 aprile 1970.
Ci ha lasciato i suoi libri, scritti nella lingua di Hölderlin e di Goethe, la lingua delle visioni allucinate di Georg Trakl, Stefan George, Gottfried Benn. Lingua che più di ogni altra nella letteratura europea ha cantato l’idillio romantico e l’abisso.

È la più celaniana delle autrici italiane, Elisa Biagini, a tradurre ora per Ponte alle Grazie un piccolo libro-gioiello, dalla copertina bellissima, “Non separare il no dal sì”, testi dalle raccolte che il poeta pubblicò in vita – “Mohn und Gedächtnis” (Papavero e memoria, 1952); “Von Schwelle zu Schwelle” (Di soglia in soglia, 1955), “Die Niemandrose” (La rosa di Nessuno, 1963), “Atemwende” (Virata di respiro, 1967), “Fadensonnen” (Filamenti di sole, 1968) – sino a composizioni postume.
Vittorio Sereni chiese ad Andrea Zanzotto (prima del suicidio di Celan) di tradurre le poesie dell’autore rumeno, ma il progetto naufragò.
In Italia bisogna attendere il 1976 per l’antologia curata da Moshe Kahn e Marcella Bagnasco per lo “Specchio” Mondadori, del ‘93 è il Meridiano cesellato da Giuseppe Bevilacqua.
Oggi sono diverse le traduzioni (anche controverse) e le analisi critiche. Tra le nuove versioni questa di Elisa Biagini è una delle più limpide: traduttrice dal tedesco e dall’inglese – sua l’antologia einaudiana “Nuovi poeti americani” del 2006 – l’autrice di Firenze ha pubblicato nella “bianca” Einaudi alcuni dei libri più intensi della lirica italiana dei nostri anni: “L’Ospite” (2004), “Nel Bosco” (2007), “Da una crepa” (2014), “Filamenti” (2020).
Nella breve ma magnifica nota finale del libro Elisa Biagini scrive che la poesia di Celan “è appuntita, petrosa, spigolosa, densa ed intensa: è viva e ha i piedi ben piantati per terra. Ma sa anche camminare sulla testa e chi lo fa, nelle parole di Celan,costui ha il cielo come abisso sotto di sé’”.
Chi scrive, aggiunge l’autrice toscana, “sa che la parola deve essere precisa, tornare alla radice di sé stessa, diffidare del bello e della melodiosità per ricercare il suono del vero”.
Paul Celan poeta ‘oscuro’? “Questa oscurità non è mai incomprensibile, persa in un gratuito gioco intellettualistico, ma un luogo reale e chi scrive non scrive del buio ma nel buio, gli resta accanto e qui respira”: sono ‘parole-tattili’.

Oggetti concreti – occhio, pietra, luce, ombra – agiscono con concetti astratti: “Dalla mano mi bruca l’autunno la sua foglia: siamo amici. / Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli insegniamo a camminare: / il tempo ritorna nel guscio” (‘Corona’). Si legga ‘Fiore’:

La pietra,
la pietra nell’aria, che ho seguito.
Il tuo occhio, cieco come la pietra.

Eravamo
mani,
abbiamo svuotato le tenebre, trovato
la parole che risaliva l’estate:
fiore.

Fiore – una parola per ciechi.
Il tuo occhio e il mio occhio:
pensano
all’acqua.

Crescita.
Il cuore parete per parete
ci mette foglie.

Una parola ancora, come questa, e i martelli
oscillano all’aperto.

Famoso per la “Fuga di morte” (Todesfuge, 1948), Paul Celan è più di tutti il poeta della vertigine.
Le sue ‘parole erranti’, la sua “Sprachgitter” (Grata di parole, la silloge del 1959) definiscono l’impossibilità del linguaggio di ‘cantare’ ma da dentro la lingua.
Celan non agisce sul museo della lingua ma su una parola che, dopo Auschwitz, è frantumata, ai confini dell’afasia e della disintegrazione sillabica, ma è dura come una pietra. “Parla anche tu,/ parla per ultimo, di’ la tua.// Parla -/ ma non separare il no dal sì./ Da’ al tuo detto anche il senso:/ dagli ombra”.; “Scuoti via/ i cunei di luce:// la parola che fluttua/ ce l’ha il crepuscolo”; “Dialoghi con cortecce d’albero: Tu/ scorzati, vieni,/ scorzami dalla mia parola”; “va’ ora,/ parola, rimasta troppo a lungo con il mondo, rotola/ fuori”.
La parola offesa dalla storia rinasce fuori (hinaus) di nuovo libera di dire: “La parola allora si spezza e questo non genera silenzio ma possibilità di una nuova nascita” commenta Biagini nella postilla.
E tremendo è il grido, la vertigine della conoscenza cancella la preghiera (nel testo seguente l’ultima quartina per il ritmo e le rime è intraducibile, “O einer, o keiner, o niemand, o du:/Wohin gings, da’s nirgendhin ging?/ O du gräbst und ich grab, und ich grab mich dir zu,/ und am Finger erwacht uns der Ring”):

Era terra in loro e
loro scavavano.

Scavavano e scavavano, così trascorreva
il loro giorno, la loro notte. E non lodavano Dio,
che, così avevano sentito, tutto questo voleva,
che, così avevano sentito, tutto questo sapeva.

Scavavano e niente più sentivano;
non divennero saggi, non composero nessun canto,
non idearono alcuna lingua.
Loro scavavano.

Venne una quiete, venne anche una tempesta,
vennero i mari, tutti.
Io scavo, tu scavi, e scava anche il verme,
e ciò che là canta dice: loro scavano.

O uno o nessuno, o niente, o tu:
dove si andava, giacché non si andava in nessun luogo?
O tu scavi e io scavo, e io scavo fino a te:
e al dito ci si risveglia l’anello.

 

La curatrice:
Elisa Biagini vive in Italia dopo aver studiato e insegnato negli Stati Uniti per vari anni.
Sue poesie sono uscite su varie riviste e antologie italiane, americane e non solo.
È tradotta in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese, giapponese, croato, slovacco, russo, sloveno, arabo, serbo, turco e cinese. Ha partecipato ad importanti festival italiani e internazionali.
È traduttrice di poesia americana.
Insegna Storia dell’Arte e Scrittura Creativa (Poesia e Scrittura di viaggio) a NYU Florence e all’estero.
Collabora con il quotidiano La Repubblica.

www.elisabiagini.it

(“Paul Celan “Non separare il no dal sì” pp. 112 pagine, 12 euro, Ponte alle Grazie 2021)

 

 

 

 

Immagini         ————————————

Il cane Blacky sogna libellule e surfisti

Ricordi di viaggio in Sri Lanka

di Alessio Russo

 

 

 

 

  omaggio a Pier Paolo Pasolini

 

 

Da qui       ——————————

Ladies and Gentlemen

Alessandro Del Puppo, “Pasolini Warhol 1975”

di Giovanni Fierro

 

Pier Paolo Pasolini ed Andy Warhol, un possibile incontro? È questo il tema che Alessandro Del Puppo, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Udine, esplora nel suo recente libro “Pasolini Warhol 1975”.
Perché è proprio nel ’75 che Pasolini è invitato a scrivere un proprio intervento critico sulla serie di lavori di Warhol “Ladies and Gentlemen”, una serie di ritratti di donne transgender, che di lì a poco Warhol avrebbe esposto a Palazzo dei Diamanti a Ferrara.
Uno strano ed inaspettato ‘incontro’, perché “Warhol pareva il più intonato cantore della società dei consumi e del neocapitalismo. Pasolini si stava imponendo come il più accanito e addolorato denunciatore del ‘genocidio culturale’ così prodotto”; ma entrambi “temuti, rispettati, criticati, talora derisi, fra successo e scandalo, clamore e censura”.
E quindi cosa succede? “Quando Pasolini mise mano al testo per commentare i travestiti ritratti da Warhol manteneva una sua idea della società americana, e la volle intrecciare all’azione culturale, straordinariamente intensa, dei suoi ultimi anni”.
Con efficacia e sapiente narrazione Alessandro Del Puppo in queste sue pagine racconta in modo approfondito e stimolante questa occasione di ‘dialogo’ fra due figure così importanti, ancora capaci di allungare il loro sguardo anche sul nostro presente.
In queste pagine emerge anche la visione dell’Italia (e del mondo) di allora, del suo apparato critico-culturale, del suo nervo sociale, dove emerge la considerazione che “il Sessantotto aveva fatto molto, ma non aveva fatto tutto. Specie per i diritti civili. Nell’Italia del 1975 alcuni temi erano relegati all’underground e alle controculture”.
Bello, intenso, articolato ed approfondito, “Pasolini Warhol 1975” è la possibilità per saperne di più di un episodio della nostra storia culturale, che nasconde significati e letture di un contemporaneo che può ancora insegnarci molto. “O si possiede il mondo, o se ne è posseduti. Warhol aveva deciso per la seconda ipotesi. Pasolini si struggeva nel difendere la prima, convinto di poterne ricavare ancora bellezza”.

(Il libro ha anche una seconda parte, “Sapendo parlare, insegna a tacere” che ben racconta la stagione del ’77 in Italia. Periodo dove si muovono nuovi linguaggi della critica d’arte e realtà importanti come la Transavanguardia, il movimento studentesco, Radio Alice, Bologna…. argomenti che ben si intrecciano all’incontro (non incontro) Pasolini-Warhol).

 

Intervista ad Alessandro Del Puppo:

Andy Warhol e Pier Paolo Pasolini. La presentazione a “Ladies and Gentlemen” sancisce tra loro una possibile vicinanza o la certezza di una distanza? Comunque, ci sono dei punti di contatto tra i loro mondi?
È al tempo stesso la misura di una vicinanza – lo sguardo sul tempo presente – e di un’incolmabile distanza data dall’interpretazione che ne viene offerta. Punti di contatto diretti non ve ne furono.
Non si conobbero né si parlarono. Direi piuttosto che vi fu la condivisione problematica di universi comuni (il cattolicesimo, l’omosessualità, il corpo, la modernità, l’immagine, la poesia) però abitati e vissuti in termini tra loro irriducibili. E ciascuno con le proprie stelle.
È abbastanza chiaro che lo star system tratteggiato Warhol non poteva in alcun modo corrispondere al catalogo dell’italiano pasoliniano.

E adesso, a distanza di tanto tempo, cosa rimane delle loro ‘poetiche’, dei loro ‘sguardi sul mondo’?
Rimane il fatto di non voler distogliere lo sguardo, o meglio gli sguardi sul mondo e di voler restituire una forma di visibilità a quei mondi.
C’è stato un artista, Alighiero Boetti, che in quegli stessi anni lo ha detto dando un bel titolo a certi suoi lavori: “Mettere al mondo il mondo”.

Cosa ne pensi della serie “Ladies and Gentlemen” di Warhol? In che ambito artistico e sociale, del fare arte di Warhol, si collocava?
È anzitutto il prodotto di un’operazione speculativa, cioè di fare molti soldi sfruttando il talento di Warhol che finalmente era tornato a dipingere con i ritmi impressionanti della Factory. Nel libro ho cercato anzitutto di ricostruire questa storia.
E poi c’era da raccontare tutto un mondo che stava emergendo, anzi era già emerso: la scena queer newyorkese, il travestitismo, l’estrema carnevalizzazione dell’estetica camp, il mondo della disco gay. L’eccesso come forma di disperata vitalità, in una città come New York che si stava avviando al collasso. Bastava volerlo guardare e volerlo rimettere in scena. Oggi lo abbiamo un po’ perso di vista, ma quelli erano gli anni che dalla crisi petrolifera al Watergate fino al ritiro dal Vietnam avevano alimentato più di uno scenario apocalittico, da fine del mondo. O perlomeno, di un certo mondo.

E che ‘mondo’ si trova di fronte Pasolini? Come vi si pone? Ne è più coinvolto o estraneo?
È incuriosito dal mondo dei giovani travestiti che Warhol si mette a fotografare e a dipingere. Altrimenti non avrebbe avuto alcun motivo di mettersi a scrivere un testo così singolare, nell’estate del 1975, quando è impegnato nel montaggio finale di “Salò” e nel bel mezzo degli scritti corsari.
Prova cioè a capire se è possibile un accostamento tra le figure tragiche e “dialettiche” della Storia (e cioè quello che aveva appena raccontato in “Salò”) e le figure, a suo moralistico giudizio non meno tragiche, della cronaca della downtown Manhattan.
Ma Pasolini accettò quella proposta anche perché di mezzo c’era Dino Pedriali, il compagno di Anselmino, quello che in quelle stesse settimane scattò le famose foto del poeta nella torre di Chia. Le abbiamo viste tutti.

Che Stati Uniti ha visto Pasolini, attraverso i travestiti protagonisti delle immagini di Warhol?
Li vide a modo suo. Cioè non li volle vedere. Pasolini intese proiettare le figure delle drag queen nello schema interpretativo sin lì adottato per argomentare il mutamento antropologico degli italiani del boom. Soltanto che quelli esposti nella mostra “Ladies and Gentlemen” erano uomini impressionanti, neri e portoricani, pittati come delle battone e resi ancora più insolenti grazie alle monumentali tele di Warhol. Non erano certo gli emaciati accattoni o i riccetti borgatari scovati nelle affamate periferie degli anni cinquanta. Tantomeno i giovani consumisti e capelloni, omologati alle merci e al “coito come consumo”, che Pasolini addocchiò dopo il ’68 e che stigmatizzò nei famosi (e direi anche non di rado sopravvalutati) articoli corsari.

La seconda parte del libro, “Sapendo parlare, insegna a tacere”, ‘indaga’ un po’ il cuore italiano degli anni Settanta, vissuto dalla parte del mondo dell’arte e delle strutture che la supportavano. La mia impressione è che, assieme ad una certa febbre creativa, ci fosse anche una certa confusione nel saperla leggere e valorizzare…
Per quel testo sono partito da una frase buttata lì dal critico Achille Bonito Oliva, che a un certo punto scrive di “nuclei di sensibilità armata”.
Siamo alla fine del 1977, c’era stata Bologna, c’erano stati i raid fascisti come i regolamenti di conti a colpi di Hazel 36; c’era l’Autonomia operaia, i “bisogni” contrapposti all’austerità invocata da Berlinguer, la struttura clandestina di Potere operaio che entra nelle Br…
C’erano artisti che assecondavano la teoria del “rifiuto del lavoro” di Tronti (e del Balestrini di “Vogliamo tutto”). E c’erano parole e frasi che vagavano nell’aria per poi ricadere nelle pagine dei critici e degli scrittori.
Ma c’erano anche storici dell’arte di inappuntabile formazione accademica che, come Maurizio Calvesi, si sforzavano di scovare motivi engelsiani, cioè insomma dialettici e “di classe”, in certe pitturacce di Umberto Boccioni. Si politicizzava un po’ tutto. C’era di tutto, di sicuro c’era anche troppo.
Quello che colpisce il lettore odierno è la straordinaria complessità e contraddittorietà di fatti sociali e politici a fronte di strumenti culturali molto spesso tanto inadatti quanto presuntuosi. Quello che mi ha più colpito è il fatto è che tutti, a partire dagli scriventi, apparivano sempre così sicuri di sè.

Mi pare di capire che il tutto è sempre una tensione fra chi (artisti, critici, galleristi…) ha bisogno di identificarsi in una realtà ben definita – ai limiti dell’omologazione – e chi invece (altri artisti, critici, galleristi…) sente la necessità di rimanere nella propria assoluta libertà….
Il problema diventò tale proprio quando la richiesta (o la pretesa) di assoluta libertà, qualunque cosa potesse voler dire, prese la forma di omologazione.

E quindi chiedo, di quel fermento che comunque ha messo radici profonde nell’Italia degli anni Settanta, cosa rimane di visibile e vivibile ai giorni nostri? Quali le sue tracce?
Quelle tracce in effetti si possono seguire nella cosiddetta controcultura degli anni Ottanta. La resistenza all’omologazione che prese non le strade dell’autodistruzione (o, che è lo stesso, della cieca assimilazione: il ’68 realizzato da Mediaset, come ha scritto una volta Magrelli), ma percorse almeno due forme.
La prima fu di natura politica e militante, e passò attraverso le lotte antinucleari, quelle contro l’USAF, contro i vari G7 e G20; e poi, su un altro piano, tramite le mobilitazioni studentesche e universitarie, la questione ambientale e in fin dei conti fino all’odierna attenzione verso il cambiamento climatico e agli stili di vita “alternativi”: come si diceva un milione di anni fa.
La seconda forma fu quella di una creatività consapevole di aver perso la partita ma rifiutò l’arrendevolezza, e usò l’ironia. Nella chiusa del libro ho citato gli Skiantos proprio per quello.
Da dogma l’ideologia divenne uno stile possibile e praticabile. Pensa soltanto a cosa hanno davvero significato per noi i CCCP in quegli anni. L’incazzatura nei casi migliori venne incanalata in quel modo. E per questo divenne un estremo e interessante rumore di fondo. Non più slogan gridati; piuttosto, un grumo di acufeni. Che erano poi la cosa più bella da ascoltare, in quegli anni.
Secondo me, molti di noi si sono salvati proprio grazie a questo. Con la musica punk e new wave, con quelle tremende fanzines fotocopiate in bianco e nero con cui tutti siamo cresciuti. Con quei centri sociali puzzolenti e sgarruppati e con tutta quella insolente creatività sostanzialmente priva di mercato e a reddittività zero, ce lo ricordiamo tutti, perché in fin dei conti quello era, fra le altre cose, il costo da pagare alla propria rabbiosa autenticità. E poi certamente anche un’estetica di strada, prima che arrivasse Prada a mercificare pure quella.

Quale il ruolo di Achille Bonito Oliva in tutto questo, il critico che in queste pagine è molto presente?
È fin anche troppo presente. Fece un uso disinvolto della propria intelligenza, un’ammirevole concezione predatoria dei flussi culturali, della moda, del costume; un istrionismo mediterraneo.
Lui nudo su “Frigidaire”: il brevilineo poeta neoavanguardista e di mezza età in posa oscena da odalisca, disteso sul canapè con l’uccello di fuori. Teorizzava il “ritardo” manierista, ma lui intanto aveva capito tutto in anticipo. Annusava l’aria, partecipava alle feste, stava sulle terrazze con la gente con cui si doveva stare. Fece circolare i suoi artisti indifferentemente fra il generone romano, l’aristocrazia nera e, finché la cosa funzionò, sul mercato internazionale.
Ha inventato tutto un certo sistema dell’arte degli anni Ottanta. Certo, non tutti i suoi libri sembrano essere invecchiati bene, ma lui riuscì a mettere insieme alcune mostre memorabili. Che non è poco. Gli odierni “curatori” non essendo altro che i suoi impari nipotini.

 

L’autore:
Alessandro Del Puppo insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università di Udine.
I suoi interessi di ricerca comprendono il futurismo (“’Lacerba’ 1913-1915. Arte e critica d’arte”, 2000; “Le livre futuriste italien. Écritures et images”, 2020), la scultura italiana del Novecento (“Modigliani scultore”, 2010) e le relazioni tra arte, ideologia e sistemi culturali (“Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento”, 2012; “L’arte contemporanea. Il secondo Novecento”, 2013; “Egemonia e consenso”, 2019).

(Alessandro Del Puppo “Pasolini Warhol 1975” pp. 162, 10 euro, Mimesis 2020)

 

 

 

Le altre note        ———————————–

Radice quadrata di Pier Paolo

Autostoppisti del Magico Sentiero, “Pasolini e la peste”

di Giovanni Fierro

 

C’è bisogno di ritornare a Pasolini, c’è una estrema urgenza di trovare la sua voce e il suo pensiero, per creare un confronto capace di produrre un attrito critico con cui leggere il nostro presente.
E questa necessità ha dato linfa vitale agli Autostoppisti del Magico Sentiero, creatura di Fabrizio Citossi che ne è anima e progetto, che ritornano dopo il loro recente esordio, con questo intenso e acceso “Pasolini e la peste”.
Mezz’ora dedicata al ricordo e alle parole di Pasolini, che si impastano con un magma sonoro dove il jazz, nella sua forma più free, crea un continuo bagliore che a volte illumina ed altre brucia.
“Pasolini e la peste” è un incontro anche di tanti autori e poeti del nord est italiano, ma non solo, ospiti in questi sette momenti che sono il disco, assieme ad alcuni musicisti di primissimo livello come Francesco Bearzatti e Bruno Romani ai sassofoni, Giorgio Pacorig al fender rhodes, Marco Fumis alla chitarra e altri ancora, che infiammano con i propri interventi il tessuto sensoriale che gli Autostoppisti del Magico Sentiero hanno tessuto per accogliere questa nuova scommessa.
Ed è la voce dello stesso Pasolini a fare da spina dorsale a questo lavoro, nuova occasione per riflettere sulla nostra società, la cui infezione era già stata evidenziata e indicata dal poeta di Casarsa, e che ora più che mai ha bisogno di essere nuovamente interpretata e capita. Con sempre più maggiore volontà di invenzione e analisi.
Slancio, riflessione, conflitto, sintesi, discussione, attenzione. “Pasolini la peste” è un invito, che si propone con titoli come “Mossave attack”, “La sospensione del tragico”, “Blues dell’idroscalo”…
“Pasolini e la peste” è questo atto d’amore verso il puro resistere umano, in questo nostro tempo malato e sofferente. Un gesto liberatorio e libertario, a cui affidarsi.

Si può ascoltare e comprare “Pasolini e la pestequi e qui.

gli Autostoppisti del Magico Sentiero:

Fabrizio Citossi, chitarra, organ, armonica e voce
Federico Sbaiz, collage sonoro e chitarra
Marco Tomasin, tromba
Martin O’Loughlin, didgeridoo
Franco Polentarutti, voce

 

Intervista a Fabrizio Citossi:

Quale la necessità, o il desiderio, di fare un album ispirato a Pier Paolo Pasolini?
L’idea di base è partita da un incontro poetico in quel di Schio qualche anno fa, dove ho avuto modo di conoscere il poeta friulano/altoatesino Renato Sclaunich che aveva scritto dei versi dedicati alla morte di Pasolini (“Balot crot”); l’idea originale era appunto quella di musicare questa sua poesia.
In seguito, vuoi per la distanza, vuoi per idee opposte su come le cose dovessero svilupparsi, il progetto ha preso una piega completamente diversa e lentamente un’altra direzione.
In questo disco non esce tanto il Pasolini poeta quanto piuttosto il Pasolini giornalista d’inchiesta.

Nello specifico, quale spunto da Pasolini ha innescato questo progetto?
L’idea che in seguito dette linfa al tutto è stata la lettura disordinata ed incompleta di tutto ciò che Pasolini scrisse negli ultimi anni di vita.
Da ogni libro abbiamo estrapolato ciò che più ci sembrava attinente ad una visione di critica sociale profonda, scoprendo quanto l’uomo Pasolini fosse vicino al nostro modo, credo non ipocrita, di leggere il presente.
Lo scoppio dell’attuale pandemia poi ci ha dato la forza di andare avanti con coraggio, trovando spunti di stretta correlazione fra quanto avevamo selezionato e il momento attuale.
La cosa strana, che poi appartiene alla nostra storia di gruppo in modo continuo, è che tutto ciò è avvenuto sempre spontaneamente, senza forzature, e si sovrappone al presente in modo naturale.

E cosa di Pasolini manca nel nostro presente?
Sicuramente non mancano le contraddizioni che lui mette in luce.
Mancano gli intellettuali in grado di accusare il sistema, senza allo stesso tempo sembrare troppo intellettuali, e quindi in un certo senso tecnocrati.
Pasolini fu un uomo coraggioso, sicuramente scaltro ma di una onestà intellettuale sorprendente, che oggi è purtroppo quasi completamente assente.

Il disco è un magma bollente di voci che si ascoltano e si rincorrono. Cosa c’è alla base di questa decisione?
È capitato di partecipare un giorno ad un reading poetico sul Carso, organizzato da Fare Voci Gorizia, dove abbiamo avuto la possibilità di incontrare molti validi poeti provenienti da diverse parti d’Italia.
Ho pensato che fosse importante che il messaggio arrivasse chiaro, e chi meglio di chi vive con il linguaggio avrebbe potuto declamare con forza e coraggio tali affermazioni?
Abbiamo registrato tutto in modo rudimentale. utilizzando un vecchio cellulare.
Tutti hanno partecipato molto calorosamente, scegliendo loro stessi cosa recitare, fra i fogli svolazzanti che gli si paravano dinnanzi.

Impetuoso e allo stesso tempo riflessivo. È fra questi due poli che si crea la tensione vitale di “Pasolini e la peste”?
Sì, credo ci sia una forte tensione anche nei momenti più riflessivi. Questo disco è una bomba ad orologeria…. potrebbe esplodere da un momento all’altro…. tante anime diverse suonano e declamano, e le loro forze vitali si sono unite in questo lugubre canto della memoria, che suona straordinariamente attuale….
Non capita sempre di poter dire di essere soddisfatti, ma personalmente credo che questo lavoro sia uscito bene proprio perché potente anche nei momenti più riflessivi.

Si, gli Autostoppisti, ma in questo lavoro ci sono diversi altri musicisti – Francesco Bearzatti, Bruno Romani, Giorgio Pacorig…. – di primissimo rilievo nel panorama italiano. Cosa ha significato coinvolgerli e come è proceduto il tutto?
Durante il primo lockdown ero un’anima in pena, perchè non riuscivo ad andare in studio da Federico Sbaiz (il Rick Rubin della faccenda) per completare il lavoro…. così utilizzando messenger e whatsapp ho scritto a questi grandi musicisti se avessero voluto registrare con un cellulare le loro parti strumentali…. tutti sono stati più che entusiasti di poter partecipare, e nel disco questo entusiasmo si sente, eccome.

In “Pasolini e la peste” le voci narranti fanno parte di un panorama poetico che appartiene a questo nord est friulano-isontino-veneto. Cosa c’è alla base di questa scelta? Come vedi questa realtà letteraria e culturale?
Vedo queste persone come una sorta di cavalieri della luce. Personalmente, quando ho la possibilità di partecipare alla presentazione di qualche libro, oppure ad un reading poetico, ringrazio dio di avermi dato la possibilità di conoscerli.
La situazione culturale in Italia è molto grave.
La superficialità ormai sembra essere il valore imperante/dominante e quindi per me il mondo della poesia, pur nelle sue mille contraddizioni, appare sempre e comunque come un’oasi alla quale abbeverarmi.

 

 

 

Da qui        ———————————-

Pier Paolo Pasolini, “I giovani infelici”

Primi giorni del ’75

di Roberto Lamantea

Pasolini è stato ucciso la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975. Non ha visto il ‘77, il naufragio del movimento libertario del ‘68, dei sogni e delle ribellioni degli anni ‘70 nella lotta armata e nel terrorismo rosso, in un’Italia dove le stragi di matrice fascista erano coperte dalle maggiori istituzioni dello Stato.
Non ha visto gli anni ‘80, l’ascesa di una televisione – una cultura – fatta di programmi leggeri, di spot pubblicitari a martello, di slittamenti progressivi al disimpegno e al culto di ciò che Pasolini odiava di più: il consumo dell’altro, il simbolo delle libertà – su tutte il sesso – trasformato in feticcio, corpi da usare, sino a YouPorn.
Non ha visto il dominio digitale, i Nokia e gli smartphone, la sostituzione anche psicologica della realtà fisica con la realtà virtuale, i gradi crescenti di anestesia della coscienza e del pensiero critico, la trasformazione – ecco il nodo centrale del pensiero dell’ultimo Pasolini – del popolo in massa.
Anche Alberto Asor Rosa ha riscritto un suo volume fondamentale del 1965, “Scrittori e popolo” (Samonà e Savelli) aggiornandolo in “Scrittori e massa” (Einaudi 2015): anche la letteratura è diventata strumento di evasione e intrattenimento e non di pensiero e coscienza, sul modello anche linguistico delle fiction televisive.
La realtà di questi ultimi 50 anni è andata molto oltre le fosche previsioni pasoliniane tratteggiate negli scritti degli ultimi anni, poi raccolti nei due volumi “Lettere luterane” e “Scritti corsari”, testi apparsi in gran parte sul Corriere della Sera e il settimanale Il Mondo.

I giovani infelici” (scritto, ha annotato Pasolini, ai “primi giorni del ‘75”) – sebbene legato alla dialettica tra borghesia e comunismo oggi superata, è di un’attualità drammatica.
Le pennellate con cui lo scrittore friulano disegna i giovani di allora (i sessantenni di oggi!), la loro iconografia, è in anteprima il ritratto di tanti ragazzi di oggi, quelli che nei casi estremi finiscono regolarmente nelle pagine di cronaca dei giornali, che uccidono a calci e pugni chi è più debole di loro, che hanno il culto della violenza. Pasolini ha saputo vedere questa mutazione antropologica di massa con mezzo secolo di anticipo. Non si tratta solo di casi estremi o di quel fenomeno, non nuovo nella storia, delle “baby gang”, si pensi ad Arancia meccanica di Kubrick, che è del 1971, dal romanzo di Burgess (1962).
Si tratta della trasformazione dei giovani ‘dagli occhi ridarelli’ in ragazzi dagli occhi spenti, perennemente immersi nei loro schermi virtuali, isolati dal muro dei decibel sparati direttamente nel cervello da auricolari e cuffie (i ragazzi, ma anche gli adulti, oggi sono terrorizzati dal silenzio).
Partendo dallo stilema del teatro greco per cui i figli pagano le colpe dei padri, scrive Pasolini: “I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. […] Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. […] L’integrazione non è più un problema morale, la rivolta si è codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. […] Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. […] Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare”.
E queste caratteristiche antropologiche riguardano tutti, aggiunge Pasolini, con una terminologia oggi desueta, ‘sia i figli borghesi che i figli proletari’.
È proprio in quegli anni che questa differenziazione di classe ha cominciato a scomparire, inghiottita nel comune amalgama della civiltà dei consumi, del mito dello sviluppo: “C’è un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese”.

Va detto però che oggi è difficile applicare la lettura desolata sui “giovani infelici” a tutto il “pianeta giovani”. I nostri anni rispetto agli anni ‘60-’70 del Novecento hanno visto anche la generazione Erasmus, i ragazzi parlano le lingue, studiano all’estero (e spesso trovano all’estero il lavoro che in Italia non c’è).
Né va dimenticato che i giovani sono i protagonisti dei movimenti per i diritti e l’ambiente che, al contrario del ‘68, escludono la violenza come pratica politica: dal movimento degli ombrelli a Hong Kong a Fridays for Future al dissenso in Russia.
L’analisi di Pasolini è perfetta ancora oggi invece per la violenza che nasce dall’analfabetismo affettivo e dal degrado spesso più psicologico che sociale.
Negli stessi mesi Pasolini ha scritto – il 15 giugno 1975, pubblicato dal Corriere della Sera il 9 novembre di quell’anno – uno dei testi più disperati del Novecento italiano, “Abiura dalla ‘Trilogia della vita’”, cioè dai tre film (Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte, usciti nelle sale tra il 1971 e il 1974) dove il sesso era il simbolo stesso della libertà e dell’anarchia popolari, i cui luoghi iconici per il regista friulano erano Napoli e il Medio Oriente. Anche il sesso stava diventando merce.
Salò o le 120 giornate di Sodoma” era il primo capitolo della “Trilogia della morte”. Un dettaglio è però importante, spia forse di una speranza non cancellata del tutto: quel cupo film si conclude – è proprio l’ultima scena – con un raggio di luce e il sorriso di un ragazzo e una ragazza.

 

 

 

Tempo presente          ————————-

Pasolini, la scelta di una libertà

di Franco Polentarutti

 

Pasolini è ancora una ferita aperta nella coscienza collettiva, non si sa quanto cicatrizzata, ma certo ancora dolorante. I singoli fatti ed episodi possono essere dimenticati. L’adesione al P.C.I. in tempi e ambienti, come il bianco Friuli del 1946, poco propizi a ciò, poi la scelta di usare il friulano come mezzo di comunicazione politica, scandalo nello scandalo per lo stesso partito che lo aveva accolto.
La scelta di una libertà sessuale non occultata, inusuale allora (e ancora oggi), scandalo nello scandalo, e l’espulsione dal partito; dopo, a Roma, in una società che cercava le vie del benessere urbano, la ricerca filologica del mondo delle tradizioni contadine e dialettali, e la ricerca umana e artistica nell’ignoto e ancora povero mondo delle borgate romane; e, di nuovo, le polemiche con il potere laico-comunista per i suoi romanzi, per le scelte stilistiche contro corrente, e inoltre i suoi film, che danno voce ad una Italia umile da cui la gente aspira a fuggire, le prese di posizione contro il conformismo dei primi anni sessanta, l’assunzione di un compito pedagogico da tribune sempre più ampie e risonanti, un compito che apparve stravagante agli occhi di molti, non di chi lo conosceva, Leonardo Sciascia, per esempio, suo grande amico, amava dire che Pasolini ebbe profonda la vocazione alla formazione di coscienze, intelligenze e personalità, fu insegnante e maestro, in senso propriamente serio.
Pasolini è stato un infaticabile sperimentatore di linguaggi diversi: parola, disegno, teatro e cinema, canzone, musica e sport.
Negli anni Sessanta aveva personalmente percorso e utilizzato da attivo creatore, e anche da critico e studioso, i più differenti tipi di codici comunicativi ed espressivi di linguaggi.
La parola scritta in pose creative di romanzi, in poesie, in saggi, in articoli memorabili, in idiomi diversi come il friulano, il romanesco di borgata, l’italiano poetico e letterario.
La stessa varietà si trova nella produzione cinematografica, da ‘Accattone’ a ‘Il vangelo secondo Matteo’, a ‘Salò’, a ‘Medea’.
Esorto perciò tutti ma soprattutto i giovani a leggere le opere di Pasolini e a sentire e vedere in lui un fratello coraggioso e lucido, generoso e infaticabile. Grazie Pier Paolo!!

 


L’autore:
Franco Polentarutti scrive poesie. Nasce e vive a San Giorgio di Nogaro (Ud) dove storicamente si è sviluppata una delle comunità “alternative” più strepitanti del Friuli tra la festa degli indiani, i collettivi, l’ecologia sociale e molte altre sfumature.
È appena uscito il suo primo catalogo di poesie, “Polente Against the Machine”.

 

 

Immagini       ————————————

Capitol Hill Impressione

Riassunto visionario dell’assalto

di Alessio Russo

 

Intervista ad Alessio Russo.

Questa selezione di tuoi recenti lavori colpisce soprattutto dopo un secondo sguardo. All’armonia, che li contraddistingue da subito, si somma anche la sensazione che queste immagini trattengano in sé un qualcosa che dice del tempo che verrà. Una sorta di presagi, di tensioni che hanno bisogno di sciogliersi, di allentarsi e spiegarsi…. È così?
In questi lavori su carta ho lasciato fluire sensazioni, punti di vista, emozioni; in alcuni ispirandomi a fatti concreti e di attualità.
Il lavoro a titolo “Protesta”, un piccolo schizzo fatto di pancia, è stato un qualcosa che si è incanalato, premonizione di una vera protesta, successa qualche giorno più tardi.
Più di qualche volta mi è capitato che uno schizzo o un’espressione di un volto ritratto, siano stati premonitori, perché hanno rivelato qualcosa che doveva ancora succedere. Forse sono immagini avvolte nella nebbia, che possono rivelarsi attraverso un pennello o una matita.
Ma capita più spesso che nel ‘vuoto’ la via giusta mi trova, ed è lei a creare attraverso me, mentre lascio scorrere il tutto.
Purtroppo, mantenere questo stato di ‘grazia’ non è semplice.

Soggetti di questi lavori sono anche la natura, il paesaggio, alcuni animali. Che importanza e che significato hanno nel tuo fare arte?
Faccio spesso animali perché li amo. Ma i temi sono spesso casuali, non ho una regola.
Difficile che faccia abbondanti serie che riguardano gli stessi soggetti, perché mi stufo presto.
Non riuscirei mai a fare come certi artisti, che riprendono lo stesso soggetto per tutta la vita. È una noia pazzesca, come avvitare tutta la vita lo stesso bullone. Quasi così, dai….

Da cosa sono nati? Era un progetto già definito in partenza, o qualcosa che poi ha preso forma man mano?
Questi lavori che hai scelto, qui proposti, hanno tutti più o meno trovato la propria via, o si sono costruiti ‘facendosi’, come “Uova nere” dipinto mesi fa, quando non pensavo ad una gallina e nemmeno ad una futura Pasqua nera. Beh, visto il periodo è forse troppo facile indovinare… Anche il titolo, è venuto fuori da non so dove….

E mi sembra che abbiano una intensità che ha a che fare con l’astratto, ma che poi si racconta invece con il figurativo. C’è un bell’incontro fra queste due forme d’espressione. Quale il tuo parere a riguardo?
Ho sempre voluto unire astratto e figurativo nel mio modo di esprimermi.
E grazie al complimento di questa tua domanda, sembra proprio che ci stia riuscendo….

 

L’artista:
Alessio Russo è nato a Gorizia nel 1968, città dove vive.
Dopo aver studiato clarinetto, si è avvicinato alla pittura da autodidatta, sviluppando presto uno stile astratto espressionista astratto, con periodi nella figurazione, e con un proprio interesse specifico per il dipinto di paesaggio. I suoi viaggi in Africa e in Asia sono stati una preziosa fonte di ispirazione per la sua ricerca artistica.
Di lui Tania Coceancig ha scritto che “anima e plasma le sue emozioni a seconda dell’umore vissuto al momento dell’azione” e che “un notevole amalgama di suggestioni mette in scena il Russo, con una tecnica, inoltre, che dal debordante qualche volta si prosciuga in una sintesi formale di rara efficacia. Egli dimostra così un particolare istinto di libertà creativa, uno slancio che oltrepassa la sua propria esperienza
creativa”.
I suoi lavori sono stati esposti in diverse mostre personali, in Friuli Venezia Giulia e in Slovenia.

I lavori qui proposti:
Senza titolo”, “Capitol Hill Impressione”, “Uova nere”, “Protesta“, “Paesaggio” e “Capitol Hill Impressione” sono inchiostri su carta; “Bull is coming” e “Il cane Blacky sogna libellule e surfisti” sono acquerello e inchiostro su carta, “Sun Dance” acquerello su carta.

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Livio Caruso.

 

 

 

 

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