Fare Voci settembre 2024

 

Dopo la pausa estiva iniziamo la nuova stagione con un numero denso di proposte e nomi di assoluto livello.

Ad iniziare da Cesare Basile, musicista siciliano tornato all’attenzione con il suo nuovo ed imperdibile album, “Saracena”, intriso di poesia e scrittura musicale di rara qualità.

E la bellezza della poesia è anche nei cinque testi inediti di Laura Corraducci, a titolo “Mater mea”, nuove coordinare del suo scrivere.

Piacevolmente ospitiamo il gradito ritorno su Fare Voci di Francesca Ruth Brandes, l’occasione è l’andare a scoprire la sua nuova raccolta poetica “Esodi”.

Cristina Micelli introduce, racconta ed intervista Alessandra Racca, a proposito di “Di pancia (e altri organi vitali)”, sua novità editoriale. Alla buona poesia si aggiunge altra buona poesia, con Enzo Martines e “Basta Attendere”.

E una delle novità più interessanti del panorama poetico è il libro firmato assieme da Antonello Bifulco e Sara Comuzzo, “Parlando su un’altalena arrugginita”, per originalità e carica espressiva.
Il mondo del fare libri (e libri di assoluta qualità…) è tutto nell’intervista a Paolo Celotto, per il suo progetto Neldubbiostampo, ovvero “poesia e tipografia, la ricerca della parola esatta”.

Il tempo presente è tutto in “La task force”, racconto inedito di Francesco Zorzenon, e il ti racconto è il “fare l’alba nella rabbia” firmato da Massimiliano Rotti, con il suo “Calcare. Cronache da Nordest”.

Le immagini sono i dieci lavori di Salvatore Munzi, artista da scoprire e seguire.

Buona lettura!

Giovanni Fierro

(La nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini       ————————-

Lettera

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————–

I petri si ficinu pinseri   Le pietre si sono fatte pensieri

Cesare Basile, “Saracena”

di Giovanni Fierro

È intenso e teso “Saracena”, il nuovo album di Cesare Basile. È un lavoro che ha il respiro dell’esigenza, di dire e raccontare. Perché parla di abbandono, di vuoto forzato, ispirato com’è alla Nakba, l’esodo forzato di 700.000 arabi palestinesi durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948, e inevitabilmente collegato all’attuale conflitto in corso.
“Saracena” è un disco registrato in appena una settimana, che nei suoi trenta minuti porta tutta l’urgenza espressiva del cantautore catanese.
Cesare Basile con questa manciata di canzoni, cantate in dialetto, mette a fuoco una narrazione dolorosa, che trova nella poesia un riferimento importante. Non solo per i poeti che lo hanno ispirato, dall’arabo Abd al-Jabbar Ibn Hamdis al contemporaneo Mahmoud Darwish, ma proprio per i testi che lui ha scritto, così significativi ed efficaci, così dentro al loro essere.
Già a partire dalla prima canzone, “Cè na casa rutta a Notu”, dove il suo raccontare è giù chiaro e definito, “Cè na casa rutta a Notu/ Non c’è ddiu ca a teni accura/ Non c’è neula ca l’abbirva/ Non c’è chiantu chi la sarva” (“C’è una casa rotta a Noto/ Non c’è Dio che se ne prende cura/ Non c’è nuvola che la irriga/ Non c’è pianto che la salva”), a cui fa seguito lo strumentale “Kafr Qasim”, doloroso nel suo incedere, doloroso nel suo rievocare il massacro del paese omonimo, situato al confine fra Israele e la Cisgiordania, quando la sera del 29 ottobre 1956 un commando della polizia di frontiera israeliana uccise 49 arabi israeliani, civili disarmati tra cui donne e bambini.
Esilio e separazione, negazione del diritto ad esistere e cieca violenza, tutto “Saracena” è un’immersione nel pozzo più profondo della Storia del nostro tempo, dove Cesare Basile accompagna l’ascoltatore con il suo scrivere musica che è gesto di poesia e di resistenza umana.
Strumenti tradizionali a corda e percussivi, anche autocostruiti dallo stesso Basile, elettronica che funziona da interferenza e sensibile pellicola emotiva. Questa la palette di colori con cui “Saracena” si mostra e si dona all’ascolto.
E in “Ciuri i cutugnu” questo amalgama si mostra in tutta la sua efficacia, canzone dalle tinte dissonanti, due minuti per raccontare “Ciuri i cutugnu/ Unn’è lu me unnè e iu cu sugnu/ Sangu ccu sangu e serpi a lu carcagnu” (“Fiore di cotogno/ Dov’è il mio dove e io chi sono/ Sangue con sangue e serpi al calcagno”), accento posato sul senso di smarrimento, mappa di sparizione che si domanda se non è l’umanità tutta a scomparire sempre di più.
“Prisenti assenti” è ipnotica e disturbante, voce narrata ad indicare di come “I petri si ficinu pinseri” (“Le pietre si sono fatte pensieri”) e “Assenti iu e tu/ Prisenti iu e tu/ Assenti” (“Assenti io e te/ Presenti io e te/ Assenti”). “Bbacilicò” è un minimo intarsio ritmico, “Caliti Ciatu” è magnetica, porta le melodie ad intrecciarsi, ha profumo di tempo antico, “Puntu i dumanna a carina si fa” (“La schiena si fa punto interrogativo”); il corpo si fa carico del proprio destino, del proprio vivere quotidiano, non serve aggiungere altro.
“U Iornu Du Signuri” è invocazione di sacralità e umanità da riconquistare e difendere, figura di Cristo da reinventare, “Di lu me ddiu non ci nisciti liggi/ È ‘n cristu a nuda chinu i sputazzati/ È ncurunatu ccu spini di praniu/ no nni sintenzia focu e mancu spati” (“Dal mio Dio non tirate fuori leggi/ È un Cristo nudo ricoperto di sputi/ È incoronato con spine di pero selvatico/ Non sentenzia fuoco e neanche spade”), parole che si aprono su di un tappeto di suoni e melodie che provengono da lontano, dalle pieghe di una dignità dello stare al mondo che ha costruito storie a cui appartenere, e che adesso sempre più vengono cancellate, nel nome del sopruso.
A chiudere c’è “Cappeddu a mari”, commiato raccolto e confidenziale, canto sospeso e affidato all’aria quando riesce a rimanere con il proprio destino, “Vola e va cappeddu a mari/ Vola e va unn’è c’ ha gghiri/ vola e perditi nta l’unna/ vola a l’ isula ca nciamma/ sulu non pozzu scurdari/ l’occhiu ca ti vitti iri” (“Vola e vai cappello a mare/ Vola e vai dove devi andare/ Vola e perditi nell’onda/ Vola all’isola che infiamma/ Solo non posso scordare/ l’occhio che ti ha visto andare via”).
Cesare Basile con questo suo “Saracena” trova il nervo scoperto della nostra contemporaneità. Lo indica e lo vive, lo rende partecipe di appartenenza e condanne. Non rinuncia alla poesia, anzi; le affida la responsabilità di testimoniare e documentare. Chiede alla parola la forza del trasmettere memoria. Trova nella melodia l’espressione del Tempo. Affida all’elettronica il disturbo del contemporaneo.
“Saracena” è il blues più profondo, è la verità di ogni Spartenza.

 

Saracena” di Cesare Basile lo si può ascoltare ed acquistare qui

 

Intervista a Cesare Basile:

Tutto “Saracena” è il racconto di una terra che vive una assenza forzata; e il riconoscere la memoria di chi ci ha vissuto…
È il racconto dell’esodo, di quella spartenza a cui sono costretti uomini e donne dal tritacarne della Storia, mai ineluttabile ma sicuramente feroce, quella ferocia figlia dell’esercizio morboso del privilegio, di razza, credo, interesse. Contro questo macello quotidiano può ergersi a volte la memoria.

In “Ciuri i cutugnu” canta “Fiore di cotogno/ Dov’è il mio dove e io chi sono/ Sangue con sangue e serpi al calcagno”. Mi sembra sia il narrare di uno smarrimento, anche qui la mappa di una sparizione si fa importante. Sparizione che forse riguarda proprio l’umanità stessa… E affida alla natura la voce per dirlo e raccontarlo. Perché? E quale è la valenza della natura in tutto “Saracena”?
La cancellazione degli individui passa spesso per la creazione di identità fittizie, avviene con la burocrazia non meno che la deportazione. Presenti/assenti, presenti per la punizione assenti per i diritti, presenti per la colpa assenti per la giustizia. Nel gioco del presente assente sei incapace di riconoscere la tua stessa voce.

Tutto l’album vive di una intensità significativa, sia nelle parti cantate che in quelle strumentali. E il fatto di averlo registrato in sole due settimane, di certo ha dato ancora più vigore al tutto. Ecco, cosa tiene assieme tutto “Saracena”? E cosa è successo in quelle due sole settimane?
“Saracena” è tenuto insieme dal bisogno poetico/politico di dare una storia a chi la Storia la subisce, è un poema appena sgrezzato nell’oscurità, ruvido, affidato alla prima voce dell’intuizione, senza correzioni o ripensamenti. Due settimane di passione.

Al mensile Rockerilla ha raccontato di come, durante la scrittura e la registrazione di “Saracena”, abbia spulciato fra i poeti arabi di Sicilia, Mahmoud Darwish, Pitrè, Michele Amari e altri ancora. In che modo questi poeti hanno influito nella creazione di ogni singola canzone? E in che modo la poesia nutre il suo fare musica?
La poesia è corda che vibra e costringe alla vibrazione per simpatia, non la considero una ispirazione, la avverto più come onda e in queste onde mi sono fatto vibrare dai poeti e dagli autori che hai citato.

La scrittura di ogni singola canzone è affidata al dialetto. Qual è il suo fascino, qual è la sua forza? Perché penso sia un qualcosa in più di una semplice senso di appartenenza…
L’ appartenenza è spesso, molto spesso, zavorra se non catena. Il siciliano, come tutte le lingue di terra, forza le regole, le riscrive, reagisce agli incontri, è Tradizione aperta che continuamente rinasce e crea nuovo cominciamento. Ho cercato il blues per tutta la vita ed era lì dove tutto comincia.

In “Caliti ciatu” c’è una frase emblematica, “La schiena si fa punto interrogativo”. Mi piace pensare che stia a sottolineare di come il corpo si faccia carico del proprio destino, del proprio quotidiano. È l’accorgersi del suo farsi luogo dell’accadere, lo spazio dell’esperienza, il vissuto che prende forma. Il nostro copro testimonia la nostra storia, in qualche modo. Può essere così?
Il nostro corpo è l’oggetto della persecuzione e dello sfruttamento, il corpo subisce e risponde. È al nostro corpo che chiediamo di fare un passo nell’accadere, in quell’essere che viene dalla carne e dalla presenza.

All’ascolto di “U iornu do Signuri” mi sembra ci sia un desiderio/invito a riappropriarsi di Cristo, ogni giorno, della sua figura simbolica ancor più che della sua verità dogmatica. In fondo tutto “Saracena” parla di poveri cristi che cercano di trovare una possibile dignità nel vivere di ogni giorno…
“Saracena” parla del popolo Palestinese costretto all’esilio in nome di un Dio degli eserciti di cui Israele si ritiene interprete, questo Dio scompare con gli umili nella figura di un Cristo dei perseguitati. Al giorno del furore ho preferito quello della croce.

Evocative e significative sono tutte le parti strumentali del disco. Sia se inserite nelle canzoni, sia se definite in momenti musicali a sé. Mi sembra che stiano lì ad assorbire – e poi mostrare – la temperatura di ciò che viene raccontato. Momenti quasi impressionisti che rilasciano nell’aria profumo e tensione, profondità e tempo. Mi sbaglio?
Volevo che “Saracena” suonasse come un’unica cantata, le parti strumentali sono quelle di un coro muto che crea la scena in cui si cantano i fatti.

Quali sono gli odierni punti di riferimento di Cesare Basile, per il suo fare musica e per il vivere di ogni giorno?
Il rumore e la capacità dell’elettronica di dar voce a un nuovo folk. Per quanto riguarda il vivere di ogni giorno provo a tenere gli occhi aperti.

 

Il video di “Cè na casa rutta a Notu” lo si può ascoltare e guardare qui

 

 

 

 

Immagini————————-

Aritmoi

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Tempo presente         ————————

Mater mea

Cinque testi inediti

di Laura Corraducci

a mia madre

non ti addormentasti dall’emozione
per il vestito della prima comunione
con il pizzo ricamato sotto la gonna
che girava intorno con il filo di perle
era stata scelta la sarta più capace
per le nozze dell’anima con Cristo
lei comprò il nastro blu per i capelli
in città dove nessuna poteva andare
eri la regina sulle panche della chiesa
avresti scucito la notte per quegli occhi
e sei sempre stata madre prima che figlia

*

c’era ancora l’innocenza sulle guance
nelle foto che conservi del matrimonio
forse era il trucco leggero per la chiesa
o il rossetto che sfuma col chiaroscuro
nel bacio sulla bocca davanti ai calici
sei una ragazza al primo appuntamento
con i sogni appesi asciutti a testa in giù
insieme a quel buco di madre sottopelle
che non scompare neanche con l’amore
la città d’inverno non l’avevi mai vista
e il mare a pensarlo ti faceva più paura
della tua infanzia partita senza voltarsi

*

darlo alla primavera ti costò un dente
e grida dal letto nel fondo della notte
eri sola in mezzo al sangue e al dolore
quando te lo misero piano sul seno
gli posasti la mano sopra i capelli
non dicesti nulla solo il suo nome
parevi la Madonna del quadro di tua madre
nel suo scialle turchino sotto il velo giallo
e con un pianto senza lacrime negli occhi

*

alla madre di mia madre

la macchina si fermò sulla strada
si alzò polvere sopra il suo camice
e una spada di luce sulla tua testa
i filari nei campi erano pieni d’uva
e le spighe già raccolte nei covoni
l’estate del ’50 scoppiò su un sedile
in un bacio fra le labbra e il mento
nascosto dagli alberi e dalla paura
solo le cicale a infrangere il silenzio
se c’è un istante che rovesciò la terra
fu quel tremare di mani al volante
e sul verde brillante del vestito

*

sei una diva del cinema in foto
e forse lo sei stata anche in vita
le onde dei capelli sulla fronte
guardi fisso alla destra del cielo
e con gli occhi tocchi l’universo
sei una Venere venuta dal futuro
la maestra di paese che aiutava
gli analfabeti a leggere le carte
guidando nelle nebbie dei campi
gli parlavi dei negozi giù in città
di quelle case grosse come querce
di quanto fosse blu il mare la sera
da bambina ero sicura ti voltassi
e scuotessi la testa per salutare
dicessi che un po’ ti somigliavo
e che avevamo gli stessi capelli
immaginavo il suono della voce
riempire la stanza dalla cornice
così restavo ferma per ore sperando
che dal tempo risorgesse la bellezza

 

L’autrice:
Laura Corraducci è nata a Pesaro nel 1974 dove risiede, è insegnante di inglese.
Nel 2007 pubblica il suo primo libro di poesie “Lux Renova”.
Suoi inediti sono apparsi su “Punto Almanacco della poesia italiana 2014”, edizione Puntoacapo, “Gradiva” con nota critica di Giancarlo Pontiggia, “Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea 2”, Raffaelli editore.
Dal 2012 organizza, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della sua città, la rassegna poetica “Vaghe stelle dell’Orsa”, dedicata alla poesia contemporanea italiana e straniera.
Nel 2015 per Raffaelli editore pubblica “Il Canto di Cecilia e altre poesie”, classificatosi secondo al “Premio di poesia Camposampiero 2016”.
Ha scritto e portato in scena i recital poetici “Dell’amore, della parola e di altri tormenti”, “Il rovescio della luce”, ispirato alle vicende storiche della Seconda Guerra Mondiale nella provincia di Pesaro, “Sopra di me soltanto il cielo. La poesia e la vita di Anna Achmatova”, “Marlene D. storia di un angelo azzurro” ispirato alla vita di Marlene Dietrich.
Sue poesie sono state tradotte in lingua spagnola, inglese, olandese, rumena, francese e portoghese.
Ha tradotto il libro “Dire sì in russo” della poetessa inglese Caroline Clark, le poesie della poetessa turca Muesser Yehniay e del poeta americano Bill Wolak.
È stata ospite in diversi festival internazionali di poesia.
Il passo dell’obbedienza” (Moretti e Vitali, 2020) è il suo terzo libro di poesie, vincitore del terzo premio del concorso “Premio Umbertide XXV aprile”.

 

 

 

 

Immagini       ————————-

Orbite

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Voce d’autore          ————————-

Per chi ha già visto troppo

Francesca Ruth Brandes, “Esodi”

di Roberto Lamantea

Un piccolo libro potente come una ferita. È “Esodi”, l’ultima breve silloge (22 testi) di Francesca Ruth Brandes. Il libro è nato dal massacro del 7 ottobre 2023 in Israele, durante la festività ebraica di Shemini Atzeret.
Ho dovuto scrivere questo testo”, confida la poeta veneziana, “‘Esodi’ nasce dal dolore, dalla rabbia sorda, dalla disperazione”. Viene in mente Nelly Sachs leggendo queste pagine, i versi e i diari degli ebrei che, in un’altra guerra, hanno dato voce a chi la violenza dell’odio e della storia ha trasformato nella “sabbia delle urne”. Ai bambini che non hanno più colore se non quello della cenere. Edith Bruck, Elie Wiesel sino a Paul Celan. Gli occhi dei bambini, bambini di cenere e terra. Ma non è Auschwitz qui, è Gaza. Sono i villaggi bombardati, gli ospedali dei bambini bombardati, bombardati i feriti che neanche più fuggono perché non c’è un luogo dove fuggire.
In copertina c’è una fotografia di Sandra Zemor, artista di origini franco-romene con una vita tra Parigi, Israele e Venezia: “Possiede uno sguardo fatato sul mondo: fede estrema e dolce, alle radici della mistica ebraica. Crede nel tikkùn, Sandra, nella ricostituzione dei frammenti dispersi”: l’immagine è un mare e sulla sabbia un cerchio perfetto.
Per scrivere questi versi”, scrive l’autrice nell’introduzione, “sono partita da lì, e dai cerchi lattiginosi che Sandra traccia sulla riva del mare: bianchi come la morte, quando la morte coincide con il vuoto. Eppure tondi, come il ciclo delle stagioni”. Il mare, la rena, sono vuoti: “Non c’è più posto/ né terra né fiori/ né pianto di nascita/ o vento sul mare. Non c’è orizzonte/ da valicare/ solo rombo di tuono/ ghiaccio sale/ perché non dia seme/ il mondo”.
L’ultima è forse la poesia più struggente: “Aviva Siegel/ è tornata a casa/ ma i suoi occhi/ sono ancora a Gaza.// Racconta di ragazze/ violate/ vestite come bambole/ nei tunnel.// Al kibbutz Be’eri/ intanto/ come ogni anno/ sono fioriti gli anemoni”.
Ha voce, la guerra? È la voce dei poeti, sulle pagine dei libri, o è la cenere diventata parola? Dov’è l’azzurro? E io, io sono una voce che canta, che parla, che racconta? “Sparisco come uno/ quando è solo/ ho un pensiero piccolo/ ignorante di voi/ un pensiero cavo/ sognato/ senza polvere”.
In queste pagine la guerra è cancellazione del futuro, non è testimonianza per la memoria come nei libri scritti dai sopravvissuti dei lager, non è invito alla riflessione come nei diari di Lia Levi. È come se il mondo oggi, violenza dopo violenza, non avesse più né la forza morale di immaginare un oltre né la fiducia nella parola come testimonianza.
L’orrore è troppo ed è un orrore anche di video e fotografie, di racconti in diretta rivolti a un pubblico che, rispetto a quello uscito vivo dalla seconda guerra mondiale, non ha più neanche la capacità di pensare, vive in una perenne anestesia, nell’indifferenza del ricco, quando basterebbe anche solo la foto di un bambino di Gaza per non dormire la notte.
Come può dire tutto questo la poesia? Quella parola già dilaniata, semanticamente esplosa che attraversa la letteratura del Novecento come un’ombra nera e si allarga dalle guerre all’identità al vuoto dell’esistenza? Titolo biblico, “Esodi” è il libro più duro di Francesca Brandes.
Eppure la parola rifiorisce, come steli d’erba sul cemento, la voce di cenere della Shoah oggi è quella del 7 ottobre, è quella di Gaza. Perché queste parole sono ungarettianamente scavate in noi come un abisso, ancora incise, graffiate nella lingua. Dio è parola, è canto. La Bibbia è parola. Risorge sempre, la parola, a cantare.

 

Dal libro:

Il sangue ha il medesimo
sapore di ferro
una dolcezza putrida.
Rossa è la morte
in cima ai nostri stracci.

Sogno di mettere i corpi
di traverso alla storia.

*

Chissà Noa, Aviv
chissà Edna
che abbracciava le notti

chissà quale odio perverso
quale bestia assetata
le trattiene
chissà quei bimbi nati
da donna
nel sudore dell’incantesimo
dove sbranati riposano.

Non nel mio nome
vi prego
la mia finta pelle
è troppo sottile
per schierarmi

amo i disertori

*

Edith fiore
Edith notte infinita
negli occhi selvatici
Edith che crede
al pifferaio
allo specchio indecente

Si è smarrita
amore caro
nell’inferno di ieri
fino a non vedere
che nebbia

*

Per quelli che non hanno
voluto combattere
canto
per chi ha avuto paura
(ragione ottima per scappare)

Per chi ha già visto troppo
e ce l’ha nelle ossa
il midollo dei morti

Canto la disillusione
di un amore cocente
la solitudine del tradimento
la consapevolezza
dell’errore.

*

Ogni popolo ha diritto a un posto
dove morire
dove sia giusto
seppellire i morti
l’odore della sabbia
al vento del deserto
tra i fiori gialli
sulle dune.

Qui è solo spazzatura
mista al sangue
dei sacrifici
pozzanghere di liquami
e nessun fiore

Ogni popolo ha diritto a un posto
dove partorire bambini vivi
e un posto non c’è
tra le macerie
nelle stanze segrete
dell’orrore.

Non c’è più posto
né terra né fiori
né pianto di nascita
o vento sul mare,
Non c’è orizzonte
da valicare
solo rombo di tuono
ghiaccio sale
perché non dia seme
il mondo.

 

Intervista a Francesca Ruth Brandes:

Ho dovuto scrivere questo testo. E scrivendolo risalivo alla coscienza, alla consapevolezza di un comune sentire umano”. Mi racconti la genesi del libro?
Ho scritto questi testi per necessità, emotiva e morale ad un tempo. Lo dovevo a me stessa, alla mia faticosa storia di ebrea eterodossa, al mio desiderio di apertura. Lo dovevo al sogno di un unico Stato per due popoli, un sogno di continuo frustrato dagli avvenimenti, dalle opposte responsabilità che fomentano l’odio in una catena infinita.
Non sono sola in questa convinzione (molti israeliani, ma anche persone apparentemente meno coinvolte, la pensano come me), non lo sono mai stata, nonostante le contraddizioni politiche e culturali che agitano l’Occidente. Così, dopo il 7 ottobre, mentre paura e sdegno, sempre più esacerbati, pervadevano i cuori,
ho compreso con maggior decisione che ogni voce, sia pur minuscola, può avere valore.

Sogno di mettere i corpi/ di traverso alla storia”: ma la storia è ancora una lezione?
Decenni fa ci si sdraiava per terra nel corso delle manifestazioni, come opposizione pacifica… nel mio cuore non è cambiata la forza di quel gesto.
Non è la Storia che insegna, sarebbe semplicistico. È la nostra anima, l’impronta della memoria a farlo; è il Talled insanguinato, l’installazione di Sandra Zemor che mi è apparsa all’improvviso e mi ha percorsa come un fremito. La commistione ineludibile tra un simbolo, intimo, dì religiosità come lo scialle di preghiera ebraico e quel sangue, ugualmente rosso per tutti.
Troppo sangue, mentre i torti si fanno assurdamente diritti.

Riusciremo a vivere,/ l’amore richiede più forza/ dell’odio/ per una volta rinunciamo alla bandiera”. Da sempre la poesia si oppone alla violenza della storia, all’avidità infinita e il delirio di potere che generano le guerre: è un altro sguardo, da millenni come armi la poesia ha solo la parola. Nel tuo libro c’è alternanza tra il crollo nella desolazione e un rifiorire timido, ma continuo, nella forza della parola, quindi dell’umano. Sei d’accordo?
Più che “crollare” nella desolazione, la mia parola vorrebbe raccontare, vorrebbe non arrendersi. Una poesia di opposizione. E il rifiorire, almeno nelle intenzioni, desidererebbe non essere timido, ma totalizzante, poderoso.
La forza della parola, credo, dovrebbe coincidere con la forza della vita che, nonostante tutto – l’orrore, l’equivoco, la sopraffazione – possiede una radicale potenza eversiva.
Penso che la poesia sia un’arma poderosa, quando denuncia l’abisso, perché è vita. Ogni forma espressiva – il teatro, il gesto, la voce, sono vita. E gli anemoni continuano a fiorire, dopotutto.

Quali sono i poeti che più ami, che più senti tuoi?
Amo i poeti di denuncia, anche se credo che la poesia denunci sempre: Anna Achmatova, l’israeliano Natan Zach, Danilo Dolci, Tomaž Šalamun, Primo Levi. Meravigliosi, inarrivabili.
Allo stesso modo, però, risuono con i versi di Philippe Jaccottet, con le voci di Chandra Livia Candiani, Fabio Pusterla, Stefano Raimondi, Anna Segre.

 

L’autrice:
Francesca Ruth Brandes è nata a Venezia, dove vive. Ha scritto e condotto per RadioRai programmi di attualità culturale e si è spesso occupata di tematiche ebraiche.
Giornalista e curatrice d’arte è medico psichiatra d’impostazione junghiana. Tra le pubblicazioni: “L’altra storia” (Eidos 1995), “La casa dei viventi. L’antico Beth Chaim di San Nicolò del Lido” (Atiesse 1997), “L’ultima farfalla a Terezìn” (testo teatrale, 1998), “Pacovska Magica Kveta” (1999), “Nagual o del non-visto” (2004), “La parte per il tutto” in “Pensare e insegnare Auschwitz” (Franco Angeli 2004), “Canto a più grida” (Venezia 2005), “Piccole benedizioni” (Padova 2006), “Tikkun” (Silvana Editoriale 2008), “Non appena avrò taciuto” (2009), “Trasporto” (LietoColle 2009), “L’undicesimo giorno” (LietoColle 2012), “Storie dal giardino” (La Vita Felice 2007). Ha pubblicato per Marsilio “Itinerari ebraici del Veneto”.

(Francesca Ruth Brandes “Esodi” pp. 56, 10 euro, Zacinto Edizioni 2024)

 

 

 

 

Immagini        ————————-

Oro povero di stella grande

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————-

Ora sei arrivato qui

Alessandra Racca, “Di pancia (e altri organi vitali)”

di Cristina Micelli

Nella sua ultima raccolta poetica “Di pancia (e altri organi vitali)”, pubblicata da Interno poesia, l’autrice Alessandra Racca sviluppa il tema autobiografico del diventare madre. È un percorso totalizzante narrato in prima persona, registrato cronologicamente nelle sue varie fasi e nelle relative implicazioni psicologiche. Nella scrittura, che procede in forma di diario, prevale il dialogo interiore con sé stessa, col feto prima e col bambino poi, con gli altri familiari, ecc.
Il linguaggio poetico è compatto, sia per il tema unificante della raccolta, che per l’approccio ironico ed autoironico che sostiene la narrazione. Per Alessandra Racca l’ironia è infatti parte integrante della sua produzione. A titolo di esempio, ricordiamo i titoli di alcune sue precedenti raccolte, edite da Neo Edizioni: “Poesie antirughe”, “L’amore non si cura con la citrosodina”, “Nostra Signora dei calzini, deluxe”.
Nel nuovo libro appare chiaro in apertura l’approccio conflittuale alla notizia dell’esito del test di gravidanza: “Ti dice una linea sull’altra, blu:/ linea sola, no/ linea su linea, sì/ Vinci sul meno,/ sei più./ Tremo”. Emerge dai versi la paura per l’incognita della novità, per l’imminente cambiamento del corpo e soprattutto per la perdita dell’autonomia e della libertà di movimento raggiunta in un’età in cui l’autrice si era già abituata a definirsi quella senza figli.
C’è l’attraversamento quotidiano dell’esperienza, in cui diventa necessario e stimolante fare spazio all’accoglienza: “Sono piccole, le tue future cose/ Eppure, mi pare, hanno una certa, silenziosa forza/ Muovono in noi le stanze/ il tempo e lo spazio/ scompigliano/ dentro i cassetti/ intere generazioni”.
Il corpo diventa “soglia”, segna uno spartiacque fra il prima e il dopo il parto: “Ancora aperta la carne/ fuori gli occhi, i tuoi”. È la scoperta del “bambino piumato” e del contatto primitivo dei corpi ad aggiungere tenerezza e un valore nuovo all’esperienza della maternità (“questa forma, fammifera, d’amore”).
L’ultima sezione “L’altra possibilità” è quasi una presa d’atto, la consapevolezza di essere diventati, madre e figlio, due soggetti distinti (“ora posso starti di fronte“). Si allenta la dipendenza, si può “sostare nell’altra possibilità” e “abitare dove ho dimorato prima“, riconquistarsi gli spazi propri, affidarsi con nuova intensità alla poesia.
Un libro che tocca una tematica attuale e apre una riflessione sulle dinamiche interiori e relazionali della maternità e che, nell’attraversamento quotidiano della nuova dimensione, fa intravedere un percorso, anche giocoso, per un nuovo equilibrio.

 

 

Dal libro:

Non farò più

Le quattro di notte in giro in città
i fattacci miei per primi
lunghi adulti discorsi
i sonni ininterrotti
le vacanze da sola
a meno di te
quella senza figli
insalata, scrivere per ore e tonno

Faccio una lista molto lunga, penosa

Intanto faccio te
mi faccio tutta nuova

*

Venezia, 16 Agosto

Al tavolo arriva un ragazzone
a domandarci cosa vogliamo mangiare
e per la prima volta penso
che potrei essere io, quella madre, un giorno,
così, il tuo corpo, in divenire

Mi immagino – forse grigia nei capelli – donna
che generò,
mi immagino ancora vestita di questo nero giocoso
con i gialli e rossi e verdi, che vedrai.
Mi immagino – chissà, degli abiti, che foggia – piccolo
corpo di donna che osserva lunghi muscoli, tendini
e falcate vigorose

Potrei, sì, potrei – Ma chi se l’aspettava! – in un tempo futuro,
essere madre di un ragazzone

Cerco sulla faccia di tuo padre
promesse del suo restare.
Ti va di diventare, gli dico, un giorno,
un bel vecchio barbuto?

Nel gioco dell’immaginare
nascondo la vertigine del divenire

Ho quarant’anni e tu, un feto

Una sera d’estate, a Venezia,
per reggere tutto questo futuro,
mi pare una grande fortuna
aver già molto vissuto

*

Parli

E adesso
abbiamo le parole

Me le porti sulle gambe incerte
te le restituisco per benino
ti dico la parola per il mondo
la ripeto giusta, te la sistemo per il futuro
ma è la tua, storta, quella che dice

Ora sei arrivato qui
ti aspettavo da tempo
tu sei stato per me come: sospeso nel suono

E ora che ci sei
sento che frana, la mia

la parola cede al piccolo
e al grandissimo, qui

è più del silenzio

è dove sono stata

è il posto della poesia

è dove sei tu, ora

e fai le parole nuove

*

Un’altra

Sistemo la carta di identità
dopo averla estratta, mostrata
sono in viaggio, da sola. Di nuovo.

Data e luogo di nascita
poi particolari meno importanti.
Nessun altro
su questo rettangolo amministrativo
nulla che dica di te.

Da quando ti ho visto la faccia
ti porto più dentro di quando eri
quella carne seconda che mi sei stato,
indefinita

Ora sei la forma magnifica del Tu
fuori perché dentro
dentro perché fuori

Un altro.
Un’altra.

Ora posso starti di fronte:
eccomi qui
sono anche quella che sono stata

Forse, un giorno, ti domanderai.

Ho bisogno, talvolta,
di sostare nell’altra possibilità
abitare dove ho dimorato prima
standomi senza di te

pur avendo te
Impossibile e possibile al contempo
qualcosa che attrae frasi grezze
“io so chi sono”

Sciocchezze, dette male.

C’è un tempo della mia vita in cui abito l’altra possibilità.
C’è nel passato e nel presente.
È quando scrivo – anche se scrivo di te.
È qualcosa cui tornare e fare nuovo.

È prepararsi alla morte
a quel fatto solitario.
Essere nata.
Amare.

 

 

Intervista ad Alessandra Racca:

Nella prima sezione del libro ci si imbatte spesso nell’emozione della paura, come spesso accade nei confronti delle cose che non conosciamo. Ce ne vuoi parlare?
Credo che la paura sia un tratto sostanziale dell’esperienza umana, soprattutto quando ci si ritrova di fronte alle grandi svolte, alle decisioni grandi e alla novità. Quello che a me interessava, però, portare alla luce con la parola – rispetto all’esperienza della gestazione, del partorire e del crescere un’altra persona – era l’ambivalenza dei vissuti e la complessità di ciò che si agita in noi, il fatto che la paura coesista – e sia coesistita in me – con una molteplicità di altre emozioni e stati psichici contemporaneamente.
Puoi provare una paura devastante mista alla più profonda tenerezza, percepire la forza di un’altra vita e al contempo sentire un nuovo e diverso sentimento della morte. Nulla di nuovo sotto il sole dell’umanità, ma credo che la sfida della scrittura stia anche in questo.
Quello che sempre provo a fare è guardare con la massima chiarezza possibile a un’esperienza e dire ciò che ci vedo, cercando un punto di vista netto, definito, che spesso mi è offerto dal gioco della lingua, dalla simmetria, dalla costruzione di una struttura o dal suono, da un’improvvisa collisione fra termini che rivelano a me, per prima, strati di realtà sottostanti.
La paura di vivere, di provare sentimenti, la paura che ci fa quello che proviamo vivendo, la trovo particolarmente affascinante, forse perché ci ho dovuto sempre fare i conti, per il tipo di persona che sono, per la tensione che sempre sento fra lo slancio e il bisogno di ritrarsi. Lì per me si crea un campo che ho necessità di raccontare perché è conflitto e il conflitto è interessante. La paura in questo caso era conflittuale, vitale, comica e colma di una tenerezza che mai ho provato prima.
E poi adoro i teatri interiori: osservarsi vivere, provare emozioni e restituire l’osservazione di tutto ciò. Una parte di me si osserva e osserva, non sono un essere umano eccezionale, non è per questo che mi racconto o ho raccontato un’esperienza come la maternità, è che ciascuno di noi non ha che quest’unico posto in prima fila sull’umanità. Non c’è nessun altro essere umano che tu puoi sentire da dentro. Puoi osservare gli altri, certo, la realtà, interessantissimi, infiniti, struggenti.
Ma sei comunque tu l’osservatorio più intenso che hai sul vivere e sentire umano. Limitato eppure vastissimo. Io sono stupefatta da ciò che osservo che siamo, da ciò che mi sento sentire e allora cerco di scriverlo. E nel gioco della lingua scopri altro.

Nella poesia “Pettinare le bambole” c’è un approccio particolare ai tuoi giochi d’infanzia e alle aspettative dei grandi. In che modo questo testo si lega con la nascita di tuo figlio?
“Pettinare le bambole” è un testo a strati, divertito e credo anche divertente, racconta ma è anche una sorta di presa di posizione su alcune questioni e condizionamenti sociali. In quel testo ho dato spazio a uno sguardo che io ho spesso, che è uno sguardo in qualche modo infantile.
Guardo le cose dei miei anni da adulta e mi dico: ma pensa un po’. Una parte di me non si identifica del tutto con questa donna che sono, è come quando da piccola guardavi i grandi e ti parevano incredibilmente bizzarri. Io posso essere pienamente dentro questa mia età, ma una parte di me, quella bambina, mi trova incredibilmente bizzarra.
Mi ricordo come guardavo gli adulti fare queste cose qua che faccio io e una parte di me mi vede come all’epoca vedevo loro. E così all’indietro. In quel testo ho restituito quel punto di vista, che è un ricordo, certo, ma è anche un punto di vista che ho conservato. L’esperienza dell’infanzia di un figlio ti fa guardare alla tua infanzia: vedi quella persona e la vedi passare da lì, da quel fare, da quella tappa e ti ricordi di quel momento per te, di come è stato per te passare da quel momento lì.
Così ho pensato al giocare, allo stare dentro il gioco, al sentire le avversioni e le attrazioni che sentono i bambini. Ho provato a restituire questa dimensione che in parte è molto viva ancora in me.

Pur trattando con intensità un tema complesso e sfaccettato come quello della maternità, il ricorso a un linguaggio ironico ti ha aiutato nella scrittura? Qual è in generale il tuo rapporto con l’ironia?
Il mio rapporto con l’ironia è tante cose. L’ironia è uno spazio di distanza che mi è necessario per guardare all’esperienza e poterla restituire, perché permette dei ribaltamenti, il gioco dello straniamento e dello sberleffo. E poi perché fa parte del mio lessico familiare: nella mia famiglia le cose “sensibili” si esprimono attraverso l’ironia: l’amore, la rabbia, la paura.
Senza l’ironia sento una goffaggine e una pesantezza che non so prendere in considerazione, è come sentire una voce non tua. E poi il peso lo avverti nel confronto con la leggerezza e viceversa.
Allora, per come son fatta, proprio per divertimento mio, per gioco mio, anche, preferisco costruire un marchingegno che mostri leggerezza per dire il peso. Mi pare più interessante.
Mi pare anche di mettere alla prova, forse, una certa “destrezza”, mi pare più onesto, più interessante, mi pare il mestiere che deve fare chi si misura con un’arte: non prendo “la cosa” e te la butto lì, ma costruisco un percorso, degli ingranaggi, una macchina.
L’ironia è un pezzo di questa costruzione, di questa cosa che mi piace e penso di voler e dover fare perché questa pratica dello scrivere e avere anche la presunzione di cercarsi un editore e pubblicare abbia un senso. E poi io sono profondamente grata a chi mi fa ridere, sorridere e ribalta la frittata.

Nella costruzione di questo libro, in particolare nella scrittura dei testi, hai proceduto in modo cronologico oppure a posteriori, al termine di un periodo di “sedimentazione”?
Ho scritto tanto durante l’attesa e poi, quando si sono accumulati un po’ di testi ho proceduto avendo in testa quella bozza di percorso, così ci sono testi che parlano di un’esperienza pregressa che ho scritto dopo. Poi ho composto assemblando anche testi che esulano dall’esperienza della maternità.
Questo libro ha delle parti: molte delle poesie che sono nella sezione “e altri organi vitali”, che parla del corpo, sono precedenti a quest’esperienza, ma mi sono parsi in stretta continuità. D’altra parte il tema del corpo mi interessa da tempo.

Visto il tema trattato, hai riscontrato una certa immedesimazione da parte delle lettrici, con riferimento alla conciliazione fra impegni familiari e realizzazione personale?
Sì, le persone con le quali mi sono confrontata si sono ritrovate in molti degli aspetti che ho cercato di restituire. Credo sia uno dei temi imprescindibili del racconto della maternità oggi.

Ci sono altri progetti che stai seguendo?
Sì, sto curando la selezione di testi di poesia per un’antologia scolastica, scrivendo delle poesie per bimbi e bimbe, delle storie e una serie di testi brevissimi sulla rabbia come dimensione sociale, per guardare al nostro mondo.
Poi ho un file pieno di “inizi” che vorrei tanto trovare il tempo di sviluppare.

 

Le autrici:

Alessandra Racca è nata a Torino nel 1979. Le sue precedenti raccolte di poesia sono: “Poesie antirughe” (Neo. Edizioni, 2011), “L’amore non si cura con la citrosodina” (Neo. Edizioni, 2013), “Consigli di volo per bipedi pesanti” (Neo. Edizioni, 2016), “Nostra signora dei calzini, deluxe” (Neo. Edizioni, 2018).
Alcuni suoi testi sono inclusi in antologie, fra le quali “Bastarde senza gloria” (Sartoria Utopia, 2014), “Matrilineare. Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi” (La Vita Felice, 2018), “Un anno di poesia” (Lapis, 2019), “Chissà se avrai i miei occhi” (Clementoni, 2019), “La reggia di Venere” (Sartoria Utopia, 2020).
Nel 2019 ha pubblicato per Emme edizioni, “Io, Alice e il buio buio“, albo con le illustrazioni di A. Castagnoli. Appassionata di poesia “ad alta voce”, l’ha esplorata attraverso reading, spettacoli, poetry slam, il coro poetico e progetti nazionali e internazionali. Tiene corsi di scrittura per adulti e bambini, collabora con la Scuola Holden di Torino.

www.signoradeicalzini.it

 

Cristina Micelli è nata a Udine e vive nel Medio Friuli.
Considera la poesia una forma di resistenza umana. Ha ottenuto diversi riconoscimenti a concorsi nazionali di poesia.
Sui testi sono presenti in alcune riviste, siti web e antologie, fra cui “I dialetti nelle valli del mondo” edizioni SEAM 2015, “Non ti curar di me se il cuor ti manca” Qudulibri edizioni, volume realizzato in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale 2015.
Ha pubblicato ”Stato di veglia” (ed. Dot.com Press –Le voci della luna, 2011), la plaquette ”Nuvola del pensiero” (ed. Culturaglobale, 2011), ”A chi scorre” (Qudulibri, 2017) e “L’ospite di spalle” (Qudulibri 2020).

(Alessandra Racca “Di pancia (ed altri organi vitali” pp. 91, 13 euro, InternoPoesia 2024)

 

 

 

 

Immagini      ————————-

Montagne cosmiche

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Voce d’autore        ——————————-

Aspettare fa solo invecchiare

Antonello Bifulco e Sara Comuzzo, “Parlando su un’altalena arrugginita”

di Giovanni Fierro

Temo quello che è l’oggi/ più del domani/ vivo l’incerto/ come fa la luce spenta/ prima di scendere le scale”. Eppure ci si muove, eppure ci si incontra, ad iniziare da quel luogo primordiale che è la parola, quando si coniuga nella verità della poesia.
Ed è quello che succede in “Parlando su un’altalena arrugginita”, raccolta di poesie scritta da Antonello Bifulco e Sara Comuzzo, in una vicinanza che si nutre della reciproca fiducia.
Perché le pagine di questo libro sono un incontro ed una condivisione, il momento fertile di quando la scrittura accende le percezioni e sviluppa ogni attenzione, “e non voglio più giocare a nascondino/ da quando ho imparato ad ascoltare/ il silenzio dei tuoi rami”.
“Parlando su un’altalena arrugginita” è raccolta di testi che trovano la propria identità nell’accorgersi di essere domande, necessarie per muoversi nel nostro tempo, bisognoso di una sempre più attenta riflessione: “Quanto sono disponibili/ a essere oneste le parole?”.
Antonello Bifulco e Sara Comuzzo hanno trovato questa alchimia di intenti che li ha portati a tratteggiare uno scrivere che non prende paura davanti alle storture di questa nostra società, anzi, la esplorano, misurano con precisione questo presente ampio, che tutto contiene. Invitano il lettore a collegare il prima, il durante e il dopo di ogni cosa, di ogni esperienza; “Siamo la punteggiatura di questa vita che ci sfoglia
la poesia che tace quando ci cresce l’odio/ c’è un posto in cui si cade sempre e il tempo sembra più lungo”.
È una risorsa continua “Parlando su un’altalena arrugginita”, quando esprime tutto il suo desiderio di uscire dagli schemi sociali e personali, indicando e sottolineando continuamente un vivo e deciso bisogno di libertà. Dove è ancora di più evidente il domandare la bussola necessaria per orientarsi: “Chiedere alla luna di gravitare oltre/ i vocabolari delle maree”.
Ed è questo riordinarsi su altre e nuove coordinate la forza più profonda di questo libro, coraggiosa nell’affidare al fare poesia il trovare e riconoscere nuovi punti di riferimento, a cui affidarsi. “Siamo spaventapasseri di un orizzonte verticale” o “Il segreto delle fragole non è certo la loro dolcezza” costruiscono di certo la nuova mappa stellare con cui orientarsi nella notte del nostro presente…
Perché tutto questo nuovo scrivere di Antonello Bifulco e Sara Comuzzo è un focus continuo su ciò che è vulnerabile e fragile, è l’avere l’audacia di esporre all’attenzione di tutti il cosa rimane di umano in ognuno di noi, giorno per giorno. Indicando anche la tenacia indispensabile per mantenerlo in vita: “Aprire la porta alla follia/ ha sempre portato i suoi frutti”.

 

 

Dal libro:

Portati avanti

La vita è un intruso che non sopporta le abitudini
e continui a girare attorno a quel tavolo
come dentro a una tangenziale di periferia

ogni tuo incontro è una sorpresa che non ammette repliche

è un dolore neuropatico attaccato a un sogno
è il tempo affollato in una clessidra deserta

portati avanti assuefatto dalle abitudini di gennaio
non chiederti dove sarai a primavera
portati avanti chiediti chi sarai a primavera.

*

Cateteri poetici

Scriverai sempre
perché non sai parlare

certi maestri sanno di sbagliare
anche quando toccano il fondo
della loro matita rossa

anche di fronte a un semaforo
credono che il rosso sia un loro giudizio

parlare era un trauma
un incubo come il sonno
che faceva stare sveglio

provare a svuotare le parole
slegava il discorso dal filo
al quale lo avevi appeso

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo
e tutti i pertugi da cui è uscito

si arrivava al punto
facendo tacere i perché,
i dove, i quando, i se solo sapesse,

se solo sapesse com’è difficile
moltiplicare il buio dentro
con la luce del mattino

e quanto erano alti quei gradini
lanciati alla porta della solitudine
a quel passero che aveva più amici di te

come si può amare Leopardi
le sue figure retoriche
e il suo bisogno di cateteri poetici?

Scriverò sempre perché non so parlare.

*

Sconnessi

Vetri, siamo solo vetri
vetri senza un muro
a cui dare le spalle
siamo luce attraverso
anche di notte

siamo vetri che aspirano
al fondo di uno specchio
a un punto d’appoggio
a qualcosa che sia palpabile

siamo invisibili ostacoli
il vento che si nasconde
la forma e il distacco
tra la vita interiore
e gli attimi senza sapore

siamo vetri sconnessi
lettere casuali che si aprono
alla cronaca del tempo
siamo il telefono che non suona
briciole sul davanzale
andate a male.

*

Anche i vicoli ciechi hanno un’uscita

Il parco giochi ha chiuso i battenti
non ci sono più alberi per le altalene
le pozzanghere seguono le stagioni
e si asciugano al sole anche quando piove.

Bambini fanno la conta con le ombre
palloni da basket orfani del due contro due
scivoli sedotti collezionano tramonti
zanzare confuse da un ragù perfetto.

Perdere a mosca cieca è un tocco di classe
e troppo spesso i silenzi non fanno notizia
ci sono viaggi destinati a non finire
perdere il treno potrebbe essere un buon inizio.

Anche i vicoli ciechi hanno un’uscita
sempre che tu non abbia perso la memoria.

 

Intervista ad Antonello Bifulco e Sara Comuzzo:

Cosa ha significato scrivere un libro di poesie in due? Perché scrivere poesia è avere a che fare con la propria intimità, con ragioni del proprio vivere che sono molto delicate…
Sara Comuzzo: È vero: scrivere poesia è qualcosa di intimo e personale. Scrivere un libro di poesie in due ha significato dialogo costante, rispetto reciproco e ascolto attivo. Alla fine dei conti sono due mondi che entrano in collisione e cercano un punto di incontro.
Le nostre scritture sono piuttosto diverse, abbiamo però cercato di parlare di disagi comuni che percuotono la società contemporanea, e, nel tentativo, abbiamo voluto tracciare i contorni di una sorta di andare alla deriva collettiva.
Antonello Bifulco: Molteplici sono state le emozioni provate. Personalmente avevo già scritto poesia con un altro autore, Vieri Peroncini, e provare a raccontarsi da dentro mostrando l’intimità del proprio scrivere ad uno “sconosciuto” non mi aveva spaventato. Anzi, anche con Sara è stato un valicare i confini di ciò che non si conosce, è stato come raggiungere l’estremo di un precipizio e piano caderci dentro, è stato come riempire un vuoto stando in equilibrio tra le difficoltà di conoscere chi hai di fronte ma, soprattutto, di fare i conti con se stessi, con le proprie paure, con le ragioni di un vivere che ci fa barcollare anche quando abbiamo i piedi ben saldi per terra.
Nello scrivere in due si crea un’intimità diversa della parola, c’è un sentire che travalica il pensiero di “se stessi” a favore di un “noi” forte che ha bisogno di parlare della vita, degli altri che sono lì fuori, il più delle volte distanti da noi.

E come si è costruito nel tempo?
SC: È iniziato un po’ per scherzo, una meteora che ci ha colti ispirati e reduci da una cena con altri poeti. Era il novembre 2022. Faceva freddo e nel parcheggio Antonello mi ha chiesto: “E se scrivessimo un libro insieme?”. Da lì è partito tutto.
Abbiamo usato un documento Google condiviso su cui ognuno metteva le proprie poesie e quindi c’è stata una scrittura individuale e a distanza. L’ultima sezione della raccolta, intitolata “Jazz”, l’abbiamo proprio scritta insieme, incontrandoci, ed è invece risultato un lavoro duale e a stretta vicinanza.
Poi c’è stato il processo di editing che ha richiesto quasi più tempo della scrittura stessa.
AB: Siamo partiti da una cena tra amici poeti e autori. In una serata che ci portava a costruire qualcosa in comunità ho sentito la necessità di chiedere a Sara se avesse voglia di progettare qualcosa insieme. Ho amato da subito lo scrivere forte e diretto di questa meravigliosa poetessa, il suo stare in equilibrio nonostante tutto, la sua poesia mi aveva insegnato che l’ottimismo era il luogo dove tutto è possibile e anche che “si può fermare la neve prima che atterri”.
Siamo partiti con alcune poesie lanciate su di un file condiviso e da lì è stato un rincorrersi, un aprirsi, uno scrivere che ci ha visto perdersi in qualche locale friulano a scrivere su di un foglio di carta, una frase a testa che andava a completare il pensiero dell’altro, un’esperienza che rifarei ogni giorno con Sara perché sa ascoltare come pochi amano fare.

“Parlando su un’altalena arrugginita” è sì una raccolta di poesie, ma ancor di più è una raccolta di domande… Sul vivere di ogni giorno, sul proprio stare al mondo. È così?
SC: Dici bene, credo che scrivere poesia equivalga sempre e comunque a porsi domande, scriverle su fogli di carta, trasformarle in aereoplanini e poi gettarle nella stratosfera, in oceani arrabbiati o in incendi indomabili. La poesia viviseziona le nostre quotidianità e i nostri molteplici modi di stare al mondo, di respirare, esistere, amare, scappare, mentire, essere felici, essere depressi.
In questo libro spariamo domande con un mitra, le risposte rimangono appese, spesso inaccessibili, ma credo che porsi delle domande sia già un buon punto di partenza per riuscire a metabolizzare quello che ci succede attorno.
D’altronde la raccolta s’intitola “Parlando su un’altalena arrugginita”, quindi è comunque una conversazione difficoltosa, sempre in movimento, sospesa tra oscillazioni ad alta quota, cigolii dati dalla ruggine e pericoli di cadute.
AB: Credo di sì, hai colto un punto che accomuna la nostra poesia in questo libro. Sono arrivato ad un’età dove sarebbe stupido avere una risposta per ogni cosa e come diceva Milan Kundera “la saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda”.
Allo stesso modo penso che si debba, come diceva Rilke, “Vivere le domande ora, forse poi, in qualche giorno lontano nel futuro, inizieremo gradualmente, senza neppure accorgercene, a vivere a modo nostro nella risposta”, ecco trovare il perché ad ogni cosa con altre domande potrebbe essere un luogo dove vivere senza mai perdere la voglia d’esser curiosi.

Tutto il libro è un presente ampio, che tutto contiene. Come se fosse un invito al lettore a collegare il prima, il durante e il dopo di ogni cosa, di ogni esperienza… Come mai?
SC: Il presente ampio che comprende in sé anche le dimensioni di passato e futuro credo sia una caratteristica propria di molte forme espressive, della scrittura in particolare. Scrivere è un atto momentaneo (io scrivo adesso) ma è comunque sempre una riflessione a posteriori (io scrivo di cose passate) e contiene inevitabilmente aspirazioni e progetti futuri (io scrivo di cose che vorrei o non vorrei succedessero).
La tridimensionalità temporale si dilata e prende forma all’interno della raccolta, chiedendo costantemente l’attenzione del lettore.
AB: È un libro che parla dell’oggi intriso di ciò che eravamo e di ciò che forse non saremo mai. È un presente che si prende le colpe di quello che era ieri e già si chiede scusa per ciò che faremo domani.
Il presente è un luogo, un suono, una parola che perdiamo ogni secondo e ci dimentichiamo che tutto ciò accade sempre anche adesso mentre sto scrivendo. Il presente è qualcosa che ci dimentichiamo di vivere il più delle volte, ecco forse con le parole alle volte riusciamo a fermarlo.

Mi sembra che dalle pagine si veda un chiaro desiderio di uscire dagli schemi, sociali o personali che siano; assieme a un deciso bisogno di libertà. Mi sbaglio?
SC: Sicuramente c’è il desiderio di uscire dagli schemi poetici canonici, missione che di mio ho sempre messo in atto da quando ho iniziato a scrivere.
La poesia è una danza tra personalità e società; è sempre un incontro tra esperienze personali che hanno luogo nel mondo, in eventi sociali. Inoltre, il libro è stato scritto a fine dell’emergenza Covid, quando il bisogno di libertà impregnava l’aria con una certa insistenza e le tematiche affrontate, post-apocalittiche, fragili e disperate, ne hanno inevitabilmente risentito.
AB: C’è nel desiderio di libertà la necessità di stare bene con se stessi, gli altri e ciò che ci lega agli altri. Ci siamo chiesti più volte se questo nostro scrivere insieme poteva esser causa di qualcosa, un malumore, un rumore di fondo, un pensiero sbagliato.
Nella poesia “Questa scrittura libera” ad un certo punto scriviamo: “Questa scrittura libera ci salverà forse le dita/ ma ci causerà dei nemici…/ Perdersi è un’opzione da non scartare”.
Non sappiamo se i nostri nemici sono aumentati oppure no, ma abbiamo imparato che una scrittura libera ha bisogno di passione e infinito rispetto, soprattutto se lo si fa in due.

Perché tutto questo vostro nuovo scrivere è un focus continuo su ciò che è vulnerabile e fragile… È il cercare il cosa rimane di umano in ognuno di noi?
SC: Trattando della società contemporanea con tutte le sue ansie e frustrazioni, le sue oscurità e problematiche, il focus su vulnerabilità e fragilità è innegabilmente continuo, come dici tu.
In mezzo alla miriade di cose che accadono nella vita di ogni giorno, cercare il cosa rimane di umano sembra essere un ottimo punto panoramico nonché un interessante spunto di riflessione.
AB: Ti rispondo citando una poesia del nostro libro dal titolo “Non parlo mai dei nostri giorni”: “I supermercati sono sopravvalutati e noi, disperati, a svuotare le scansie./ Non ho mai sopportato i luoghi chiusi/ e quelli affollati mi fanno sentire solo”.
Faccio un lavoro che mi pone davanti i problemi della gente ogni giorno, Sara se ne è occupata per anni, e ancora riuscire a capire cosa rimane di umano dentro di noi è difficile da spiegare in queste poche righe.
È più facile forse spiegare il perché questa società abbia il bisogno, la necessità di mantenerci tutti così fragili e vulnerabili.

In quasi tutte queste pagine ci sono frasi che sembrano essere delle incisioni, destinate a rimanere. (Come “Siamo spaventapasseri di un orizzonte verticale”, oppure “Il segreto delle fragole non è certo la loro dolcezza”…). Frasi che diventano delle affermazioni assolute. Sono il cercare un punto di riferimento possibile, una sorta di appartenenza comune? Non solo nella scrittura….
SC: Spesso mi hanno fatto notare la presenza di massime o sentenze nella mia poesia, affermazioni lapidarie o domande esistenziali. Mi piacciono molto le frasi ad effetto perché generalmente mi rimangono impresse e me le ricordo da poesie di altri o anche da conversazioni; per questo sto davvero tanto ad assemblare i versi tra loro, con frasi assolute sparse qua e là.
Non so se siano il tentativo di cercare un’appartenenza o un riferimento. Li vedo più come dei pugni che riportano la parte più narrativa della poesia alla realtà, che vogliono dare un senso alla danza tra elementi surreali e allucinatori.
AB: Devo ringraziare Sara per avermi insegnato a fare ancora tante domande, a dare risposte che non ti aspetti, a mettere dei punti fermi ad ogni riga, sapere che esiste un domani e un dopodomani da costruire, credere in ciò che abbiamo scritto perché siamo la punteggiatura di questa vita che ci sfoglia.
Cercare un’appartenenza comune, un riferimento possibile in questo nostro vivere è come quando ai saldi di fine stagione ci si arriva troppo stanchi e alterniamo i nostri sogni suonando ai campanelli delle farmacie notturne per restare svegli.

 

 

Gli autori:

Antonello Bifulco (Sassari, 1967) pubblica la sua prima silloge di poesie nel 2017 con il titolo “Isole a Nord Est” e nel 2022 la seconda, “A Sud di nessun Nord” (Qudu Libri), scritta a quattro mani con l’autore e amico Vieri Peroncini.
Finalista e vincitore di alcuni premi nazionali tra cui il Premio Poesia di Strada Città di Colmurano, il Premio Città di Genova, Il Premio di Poesia Internazionale Città di Chiaravalle e il Premio Città di Rovigo.
Nel 2019 insieme a Vieri Peroncini fonda il sodalizio Nessun Giorno Sia Senza Poesia, che si occupa di organizzare eventi culturali in collaborazione con gli enti e le attività commerciali della Bassa Friulana. Collabora con alcune riviste online tra cui Fare Voci.

 

Sara Comuzzo (Udine, 1988) ha pubblicato sette raccolte di poesie e una di racconti. Sue poesie appaiono su siti, riviste e blog letterari in Italia e all’estero e sono state tradotte in portoghese, spagnolo, russo e inglese.
Come critica e traduttrice cura la rubrica “Having a Coke with You – Bere un Coca con Te” per la rivista Pioggia Obliqua.
Ha studiato letteratura moderna e studi di genere alla Sussex University, con una tesi sul teatro di Sarah Kane. Per Brè ha pubblicato le raccolte poetiche “Dove i Clown Vanno Quando Sono Tristi” (2020) e “Invitare gli Spaventapasseri a Ballare” (2023).

(Antonello Bifulco e Sara Comuzzo “Parlando su un’altalena arrugginita” pp. 140, 12 euro, Brè edizioni 2024)

 

 

 

 

Immagini       ————————-

Orbite

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Tempo presente          ————————-

La task force

Un racconto inedito

di Francesco Zorzenon

Tutte le chiese della regione avevano il suo identikit, gli addetti se lo passavano l’un l’altro pur di riuscire ad incastrarlo.
Di solito arrivava nelle ore più inconsuete e dopo una rapida perlustrazione puntava dritto alla navata, sistemava lo sgabello e partiva con il pezzo.
Una potente voce d’organo riempiva la chiesa, le note uscivano rapidamente, come un fiume in piena; prendevano per la grande porta schivando il battistero, passando in mezzo a due file di banchi ed arrivavano fino ai bordi del piazzale, sotto l’ombra degli alberi di tiglio. Dopo ci pensava il vento ad indirizzarle verso la casa del curato e metterlo in allarme, oppure rovesciarle dal pendio della collina, giù fino al paese sottostante. Un vecchio furgone fiat 850 stava percorrendo la strada che dal piccolo paese portava su, alla cattedrale. Al suo interno espressioni dure, determinate: si trattava dell’Anonima Presepi, una famigerata banda di vigilantes della Conciliazione.
Emergevano da un lungo dejavu dove stavano osservando un aquilone oramai sbiadito, prigioniero, immobile tra i rami di un albero: ricordava loro un arcobaleno di tanto tempo fa.
Pomeriggi di rincorse e inconfessabili peccati, le bugie imparate con l’allenamento altrimenti la verità sarebbe venuta a galla.
Erano stati dei buoni ragazzi.
La donna baffuta che stava al volante aveva un aspetto da molosso e portava l’abito talare. Era una suora alfa, abituata a farsi obbedire e quello era il suo gruppo di fuoco.
Il suonatore sbagliò un bemolle, si fermò a ripetere e sentì il rumore del furgone; gli venne in mente quando da bambino suonava le sue prime note in chiesa.
Poi le messe, sempre più grandi, il coro, qualche concerto, una volta ci aveva portato la famiglia.

I tempi erano cambiati, ora steccava spesso, dimenticava dei passaggi ed alla fine il prete gli aveva dato il benservito.
Udì le portiere sbattere ed i passi sulla ghiaia del sagrato, si nascose dietro ad una tenda ed aspettò.
L’isolamento cominciò quel giorno, ignorando sempre di più tutto quello che gli stava attorno e concentrandosi solo su se stesso. Poi l’udito mancò completamente, ma già suonava con i movimenti nella memoria e gli occhi fissi sulle dita.
Sentiva quello che vedeva in quel momento e pensò a quanto era bello fosse stato sempre così.
Mi sono fermato a Piazza del Popolo, quella che una volta si chiamava Piazza dell’Impero, ora che la gente se n’è andata immagino mio padre. Passo in rassegna i volti di quelli rimasti, sotto ai portici del bar: tutti seduti e di una certa età. C’è il fascista che prima era leghista, quand’era comunista un giorno disse:
-Tuo padre lo ricordo, quando ero ragazzo lui già suonava l’organo per il prete della chiesa-
Ma il tono era beffardo e se non ci fosse stato Renzo, gli avrei tirato un bel pugno sul naso.
Il primo anno della materna lo avevo fatto lì, in quel paese immobile che mi pareva costruito con i mattoni della Lego; le case dal colore della fabbrica, come un incantesimo del tempo.
Dietro alla tenda si addormentò pensando ad un momento dell’aurora, sognò se stesso su all’alpeggio, prima di perdere i capelli. Il bestiame usciva piano dalle stalle, curioso per quel nuovo panorama.
Era un’alba dai contorni indefiniti, la luce era veloce; quando arrivò ai suoi piedi lui scese dal letto, staccò l’ossigeno e si fece trasportare.

 


L’autore:
Francesco Zorzenon, classe ’61, una vita da operaio metalmeccanico turnista, ora pensionato.
Viaggiatore, maratoneta, scrittore di versi e brevi racconti sui social, attivista dove può.
Prete spretato di una teologia della liberazione che ancora non arriva, ma che inevitabilmente arriverà.
Non ha ancora pubblicazioni in questo mondo di libri, ma giura e spergiura che ce la farà. Partecipa con il proprio scrivere a serate letterarie.

 

 

 

 

Immagini       ————————-

Senza titolo

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Tempo presente       ———————-

Poesia e tipografia, la ricerca della parola esatta

Paolo Celotto, Neldubbiostampo

di Roberto Lamantea

 

Per Emily Dickinson le poesie sono fiori. Nei suoi ultimi anni la poeta americana scriveva i suoi versi ovunque: biglietti, frammenti di lettere, buste; basta sfogliare la bella edizione di “Buste di poesia” che Nadia Fusini ha curato per Il Saggiatore per visitare un giardino delle meraviglie: parole-corolle, parole-petali, parole-foglie. Non c’è tecnologia che vinca: chi ama la poesia ama la carta. E di carta – simile a un tessuto anche nelle sue cromie – sono i fiori di una piccola raffinata iniziativa editoriale ideata a Treviso da Paolo Celotto e realizzata con il progetto Neldubbiostampo – tipografia filopoetica che raccoglie in minuscole edizioni testi di poesia, a volte solo pochi versi, con disegni e monotipie. Tre “collane” – ma è improprio chiamarle così – “Intessuti” a cura di Fabrizio Cavallaro e “pagineotto”, che è la numerazione. Le pagine si aprono a fisarmonica rivelando i versi che poi riaffiorano nei verdi e gli azzurri dei disegni. Il richiamo è a vecchie collezioni oggi nella storia dell’editoria come All’Insegna del Pesce d’Oro, le edizioni PulcinoElefante di Alberto Casiraghy o le Edizioni Henry Beyle o, più di recente, al delizioso progetto di Francesca Genti e Manuela Dago Sartoria Utopia, i cui libri sono legati da fili di lana. In una terra, il Veneto, che all’arte della tipografia ha dedicato il museo tipoteca di Cornuda.
Dickinsoniana è la poesia di Anna Cascella Luciani, il quadernino “Una parola ti ho scritto, versi” – o un unico verso – che scorrono lungo le 8 pagine del pieghevole, con un disegno di Roberta Battaglia: “– ha scritto che mi vuole bene -/ Per pudore non ne farò/ poesia – né ossimoro/ né rima -// né farò la domanda ‘ma come/ è questo bene che mi vuoi?/ lo penso grande come/ la vecchiaia – che ci lambisce/ ora – che ci tocca – fiore/ tardivo – imperlato di stanco/ e di vivo!// ha quel colore la rondine/ che da lunghe migrazioni/ arriva – il primo nato/ che riparte ha quel colore’”.

Stupendi i testi di Francesca Gironi, danzatrice, performer, poetry slammer e tanto altro, in “Come farò a sollevarti senza braccia”, con una foto di Francesca Tilio (2024): “Mia nipote ha gli occhi azzurri// e preferisce il mondo/ quando la sollevi:/ la giostrina delle api/ un tucano, un elefante, un ragno.// Non ha mai visto il mare/ e ce l’ha già negli occhi”; “Occorrono filastrocche e body senza maniche/ pagliaccetti e fazzoletti per la testa/ versi di animali (il gufo, la cornacchia)/ e un marsupio perché tu veda il mondo.// Occorre il suono della carta, croccante/ dell’uovo di Pasqua,/ occorrerà spiegarti perché scalda un raggio/ la posizione dei pianeti attorno al sole// che siamo di passaggio/ su un tappeto con le lettere/ a rotolare, a fare capriole”.
La sorpresa è la suite “Bambina corrente” di Alessandra Carnaroli, autrice di epigrammi feroci, sguardi-lame su come la nostra società accoglie i bambini migranti, l’immensa tomba del Mediterraneo e altri temi forti come i femminicidi. Autrice, tra gli altri, di “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti” (Einaudi) e “La furia” (Solferino), Carnaroli inaugura la terza collana del progetto, “Rogo di strega” (da un verso di Sylvia Plath) con “Bambina corrente”, con i suoi disegni: “la chiamano/ bambina migrante/ come una rondine/ solo che le rondini/ non nuotano/ meglio chiamarla/ bambina corrente”; “della bambina migrante/ si cerca la madre/ tra le conchiglie”.
Altro titolo le poesie di Gabriele Galloni con una monotipia di Riccardo Cavallini (2024); “Una parola ti ho scritto” (Pagineotto 2018).

 

Intervista a Paolo Celotto:

Che cos’è “Neldubbiostampo”: un gioco? La metafora della fragilità della poesia? Un atto d’amore alla poesia e l’arte della stampa? Il desiderio di realizzare l’utopia?
Neldubbiostampo è una tipografia filopoetica, un luogo, una stanza di cinquanta metri quadri con all’interno caratteri mobili, macchine da stampa e altro materiale che mi permettono di realizzare dei manufatti che hanno quasi sempre la poesia come centro motore.
Con questo materiale “gioco”, un gioco che ha delle regole e dei limiti dettati dalla fisicità dei materiali (caratteri, margini, spazi, interlinee, macchinari, inchiostri, carta, ecc.) necessari per poter stampare delle lettere in una pagina. È un gioco perché rimane al di fuori delle logiche del mercato e mi permette di avere un approccio “dilettantistico” e interrogativo, quasi ingenuo, sempre in divenire.
Questo non significa improvvisare, pensare di essere creativi – creatività è parola che detesto – liberi di far quello che si vuole, la tipografia esige del metodo e all’interno di quel metodo trovare con umiltà e precisione degli interstizi per infilarci la propria curiosità.
La parte che più mi piace nel processo tipografico è la composizione, l’atto di comporre il testo. Josef Weiss, editore e tipografo svizzero scomparso da qualche anno intervistato ha detto: “L’azione ripetitiva, il fatto di prendere una lettera alla volta e affiancarla alle altre… È come un bimbo che gioca con la sabbia: in quel momento è sollevato da tutti i suoi problemi. È lontano da quei problemi. Altrove appunto”.
Trovo la poesia come la forma che più si avvicina al mio intendere la tipografia, entrambe, poesia e tipografia, sono la ricerca della parola esatta per senso, per suono, per forma. Entrambe vivono di questa ricerca nella consapevolezza che la parola e la sua forma, come scrive Clarice Lispector, hanno il limite di non poter dire e rappresentare l’indicibile. In questo la loro comunanza e il loro carattere utopico.

Com’è nato il progetto?
Neldubbiostampo ha più nascite: nasce nel settembre 2002 quando vado all’inaugurazione di Tipoteca Italiana (fondazione e museo della stampa della famiglia Antiga) e mi innamoro della tipografia a caratteri mobili tanto da far realizzare il calendario 2003 per Valcucine; nasce nel dicembre 2012 quando torno in Tipoteca per fare un corso di composizione con i caratteri in piombo e stampo “Ernest Hyde” da “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Master; nasce un lunedì di febbraio 2013 quando conosco di persona il panettiere dei tipografi Alberto Casiraghi e ho l’onore di stampare una frase di mio figlio Pietro per l’edizione 8829 del Pulcinoelefante; e infine nasce nell’aprile 2105 dopo aver recuperato e raccolto materiale tipografico in giro per l’Italia e stampo il mio primo “Pagineotto” con due brevissime poesie di Samuela Barbieri.

La scelta degli autori: spiccano i nomi di Alessandra Carnaroli e Francesca Gironi…
Neldubbiostampo ha tre collane editoriali – anche se le collane editoriali presuppongono una casa editrice e io faccio fatica a pensare Neldubbiostampo come tale, mi piace molto la definizione che si è data Sartoria Utopia di “capanna editrice” – ognuna delle quali con un approccio diverso per la scelta degli autori. “Pagineotto”, la prima per nascita, vuole dar voce ai testi che abbiano come oggetto la parola, intesa sia come significato e significante, ma anche come insieme di lettere e glifi. Per questa collana chiedo direttamente all’autore dei testi preferibilmente inediti che possano essere interpretati tipograficamente.
“Intessuti” invece è una collana nata con l’idea di essere un punto d’incontro, incontro tra l’ordito di uno o più testi poetici con la trama non didascalica di un’opera d’arte (disegno, incisione, foto, monotipia, ecc.). “Intessuti” nasce dalla collaborazione tra me e Fabrizio Cavallaro: Fabrizio si occupa della scelta degli autori e del testo da stampare, mentre io scelgo l’artista, il tutto sempre con un confronto molto aperto e alle volte con lo scambio dei ruoli.
“Intessuti” è una collana con un peso specifico molto alto dove ho avuto l’onore di stampare e comporre testi di Bellezza, Penna, Pasolini, De Angelis, Deidier, Poletti, Galloni, Cascella Luciani.
“Rogo di strega” invece è un atto politico. In questa collana che prende il nome dal titolo di una poesia di Sylvia Plath, pubblico e pubblicherò solo voci femminili che abbiano uno sguardo preciso e tagliente verso l’oggi.
La scelta di Alessandra Carnaroli come prima poeta di questa collana mi sembra diventi il manifesto della collana stessa. In questa prima pubblicazione con il titolo “Bambina corrente”, la Carnaroli oltre alle durissime poesie che fotografano con spietata lucidità l’arrivo sulle nostre coste del corpo di una bambina migrante dopo l’attraversamento del Mediterraneo, firma anche i disegni stampati su carta rosa.
La seconda pubblicazione “Come farò a sollevarti senza braccia” con le poesie “performative” di Francesca Gironi e le foto di Francesca Tilio, racconta del rapporto tutto femminile tra la poeta e la nipote.
Spero a breve, ma di tempi con il mio modo di lavorare non me ne do, di stampare almeno altri quattro titoli con autori e autrici a cui tengo molto e mi hanno fatto dono di testi molto significativi (Alessandra Racca, Alessandra Trevisan, Roberta Durante e Gregorio Scalise)

Il più “povero” tra i generi letterari, la poesia, ha poco spazio nelle librerie, a parte le collane storiche di Einaudi e Mondadori, e oggi La Nave di Teseo, Marcos y Marcos, Crocetti-Feltrinelli… gli editori la snobbano perché la poesia “non vende”. Eppure – basta scorrere anche i social – la poesia ha una formidabile schiera di appassionati, riviste e gruppi online e il numero di libri di poesia che viene pubblicato è enorme. Come spieghi questa contraddizione?
Credo ci siano due fattori, tra loro collegati a parer mio, da tenere in considerazione. Un fattore è storico, dove in Italia, sembrano esserci stati sempre più poeti che lettori di poesia (vale lo stesso anche per la narrativa). Questo ovviamente si rispecchia anche sulla qualità dei testi pubblicati, mancando la lettura manca anche il giudizio critico verso quello che si scrive, manca una sana autocensura.
L’altro fattore invece è strettamente contemporaneo e legato alla fruizione dei contenuti attraverso i nuovi media, ma non solo. Velocità, semplicità, immediatezza e condivisione sono diventati gli elementi fondamentali perché un contenuto funzioni. Di per sé non sono elementi negativi, ma quello che emerge oggi è una banalizzazione del contenuto e soprattutto della forma del contenuto stesso.
Funziona ciò che emoziona nell’immediato e ripaga il mio ego sia da fruitore che da creatore di contenuti. Manca il tempo, ci facciamo mancare il tempo, per analizzare ciò che vediamo/leggiamo/ascoltiamo. Dovremmo porci con umiltà e curiosità verso ciò che non capiamo, analizzandolo, smontandolo cercando di trovarne una lettura, e restare ammirati davanti a ciò che non comprendiamo.
La forma del libro aiuta in questo, perché le parole restano, ma il libro è solo uno dei modi che si hanno a disposizione per fruire della poesia. Fortunatamente, come scrivi, esistono molti gruppi, pagine, riviste di appassionati di poesia che aiutano nell’analisi dei testi, ma temo che di lettori “esterni” a questa cerchia di appassionati siano pochi.
Vedo comunque dei tentativi interessanti che cercano di utilizzare questi nuovi media con un linguaggio nuovo e non banale.

Nella tua biblioteca quali sono i libri del cuore di poesia?
Questa è difficile e parziale, ma andrò a cuore e consapevole che molti ne mancheranno di quelli che ho letto e che leggerò.
Leopardi “Canti”. Emily Dickinson tradotta da Silvia Bre. Milo De Angelis “Incontri e agguati”. David Maria Turoldo “O sensi miei”. Silvia Salvagnini e Roberta Durante “Possiamo ancora dirci poesie”. Francesca Gironi “Abbattere i costi”. Alessandra Racca “L’amore non si cura con la citrosodina”. Nicoletta Bidoia “Scena muta”. Alessandra Carnaroli “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”.
E ovviamente i libri e gli autori che ho pubblicato con Neldubbiostampo.

 

L’artista:
Paolo Celotto è un grafico libero professionista dal 1998. Alla collaborazione professionale con aziende affianca l’interesse per l’editoria e le produzioni a stampa tipografica.
È iniziata così l’avventura di una propria stamperia, Neldubbiostampo – tipografia filopoetica, dedita alla produzione di libretti a tiratura limitata e manufatti in letterpress.

www.paolocelotto.tumblr.com

 

 

 

 

Immagini       ————————-

Triangoli

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Ti racconto        ————————–

Fare l’alba nella rabbia

Massimiliano Rotti, “Calcare. Cronache da Nordest”

di Anna Piccioni

Uno spaccato della Trieste degli anni ottanta-novanta, attraverso la vita di un gruppo di giovani quasi ventenni nati negli anni 70 in una città sospesa, già vecchia e statica.
Il calcare è la pietra carsica che circonda la città di Trieste, una pietra permeabile, l’acqua passa e non ristagna; così i vissuti dei personaggi, fatti ed eventi non hanno lasciato traccia se non nei ricordi degli stessi protagonisti.
Principalmente “Calcare” di Massimiliano Rotti è un romanzo sull’amicizia, sulla musica, sulle bravate di un gruppo di ragazzi che si comportano da bulli, ma che esprimono un forte disagio esistenziale. Si chiamano Gianca, Alan, Sandro, Caio, sono metallari, hanno le loro band e si vestono appunto da metallari per distinguersi.
Le loro bravate, inebriati da alcol e droga, li portano a fare l’alba con nessuna intenzione di ritornare nelle loro case: l’alba in una Trieste addormentata, aspettando sul molo, bevendo l’ultima bottiglia di vino scadente.
Sono accomunati da un sogno: poter sfondare con la loro musica e soprattutto un forte desiderio di andarsene, di fuggire da una città che tradisce la sua metastasi esistenziale. Ognuno di loro ha un difficile rapporto con la propria famiglia: padri e madri troppo presi nel solito tran tran, sviluppando incomprensione sia da una parte che dall’ altra.
Criticano le famiglie, non approvano, non vogliono essere come i loro padri schiavi del lavoro e incapaci di rapporti umani. Nessuno di loro pensa a emanciparsi da quella condizione, determinata dal fatto di essere nati e vissuti nei quartieri più popolari della città. Alcuni si accontentano di sopravvivere con lavori precari o chi può di farsi mantenere a vita, come Sandro che ha una famiglia benestante, ma che disprezza.
Nell’ultima parte del libro molti sono gli anni già passati, e gli amici si ritrovano. Pur avendo una certa età, sono poco cambiati nel loro modo di pensare e nel loro aspetto esteriore. Indossano ancora stretti pantaloni di pelle, portano i capelli lunghi anche se la calvizie incalza. Anche il loro atteggiamento rimane spavaldo. Quello che tutti riconoscono è che sono ancora legati dalla loro amicizia.
Per rendere verosimile la narrazione, l’autore usa il dialetto triestino, fa parlare i suoi personaggi con quello slang tipico di Trieste e non solo tra i giovani. Va ricordato che a Trieste il dialetto è la lingua ufficiale, lo si parla dappertutto, nel pubblico e nel privato, almeno tra coloro che hanno una certa età.
Tuttavia, anche se l’autore è stato criticato proprio per aver usato il dialetto, credo che il suo uso abbia il significato che aveva dato Pasolini nella storia dei suoi ragazzi di vita: usare il dialetto nei dialoghi serve al narratore per immedesimarsi nei personaggi e renderli vivi e concreti.
Leggere questo romanzo mi ha rattristato, anche se nelle sue pagine non mancano situazioni tragicomiche. A volte non si comprende cosa vogliano dimostrare, con i loro comportamento, i ragazzi protagonisti. Forse è semplicemente l’esprimere una grande rabbia.

 

Dal libro:

“Ho sbagliato Gianca, il problema non era questa città, io amo questa città, il problema era mio. Volevo uscire da Trieste e invece dovevo solo fare uscire Trieste da me”

 

Intervista a Massimiliano Rotti:

Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a scrivere questo romanzo?
La mia vera intenzione, quando ho iniziato a scrivere, era quella di ricalcare la realtà, senza giudizi, opinioni, solo la verità dei fatti, con l’aggiunta di una mia personale dose di cinismo. Così è successo.
È venuto fuori un romanzo di strada che parla la lingua delle periferie di nord est, ambientato intorno agli anni 90.
Ma per me “Calcare” non è solo una storia raccontata ma un pezzo di vita vissuta. È la cultura del mio territorio chiusa tra le pagine di un libro, il luogo dove sono nato e cresciuto.
Per questo ho cercato di ricreare più fedelmente possibile quelle situazioni tipiche che solo a nord est si possono vedere. È un luogo molto particolare. Per chi non conosce la città potrebbe essere una scoperta. La scelta di usare il dialetto nei dialoghi è stata obbligata. Diciamo che non avevo scelta, a Trieste nessuno parla italiano.
Il tutto non solo per renderlo più autentico ma anche perché il triestino ha una musicalità particolare, un ritmo incalzante e delle frasi allegoriche che in poche parole riescono a spiegare con semplicità anche concetti complessi. Tutto comunque risulta comprensibile, il triestino è fatto più di accenti e intonazione di parole italiane, anche per questo è molto difficile da imparare, bisogna nascerci.
Ho notato che chi legge questo romanzo ci trova spesso qualcosa di suo. Mi è successo anche che mi raccontassero luoghi che non ho descritto, situazioni che non sono state raccontate, battute che non ho messo.
Per questo lo vedo più come un servizio reso che come un prodotto commerciale. È qualcosa di più che scrivere e pubblicare, è conservare un mondo scomparso prima che venga sepolto dall’oblio del tempo. Un mondo di una particolare generazione, ambiguo violento e scorretto, qualcosa che forse nessun scrittore si sognerebbe di raccontare.
Devo dire che in questi mesi ho avuto soddisfazioni che non avrei mai pensato di avere, è stata veramente una bella esperienza.
Coloro che hanno letto il romanzo mi ringraziano e si vede che lo fanno con il cuore.
Mi dicono che potrebbe essere ambientato ovunque, il senso non cambierebbe. Mi dicono che è una magia. Mi dicono che è stato un tuffo nel passato, ognuno nel proprio, il tempo in cui erano tutti qualcosa d’altro.
Insomma, più parlo con le persone e più scopro che “Calcare” è stato paragonato ad un lungo viaggio in cui il lettore ci lascia un pezzo di vita dentro e questa non può essere che la mia più grande soddisfazione.

Il libro, quanto ti appartiene o ti lega alle “vite” raccontate?
I protagonisti di “Calcare” non sono eroi, hanno contraddizioni, difetti, sono incoerenti, pasticcioni a volte anche spietati. Anche se nessuno di loro mi rappresenta e fanno cose che io non farei mai, in realtà, hanno tutti qualcosa di autobiografico, naturalmente.
Sono ragazzi cresciuti nelle periferie triestine, con l’esigenza di rompere con il passato dei loro genitori in qualsiasi modo possibile. Gli eccessi ai quali si abbandonano, e i vandalismi inutili che ne conseguono, sono un’esigenza di identità o, meglio, una rivendicazione di esistenza.
Devono dimostrare di esistere a tutti i costi in una città muta, assente e piena di contraddizioni. Il concetto della fuga è il loro comune denominatore, anche se la verità è, che tutti ne parlano ma alla fine non se ne va mai nessuno da quella città. (“Phantom City”, la città fantasma.)

Non capisco nulla di musica rock-metal e perciò ti chiedo: i metallari hanno segnato un’epoca? E oggi?
La musica a quei tempi rappresentava qualcosa di importante. A prescindere dal genere, vi era una ricerca profonda delle proprie radici nello scegliere le band da ascoltare.
Ricordo le risse tra esponenti di retaggi differenti, Punk, Trash, Glam, Dark e le cariche della polizia per fermare i più agitati, qualcosa che oggi è impossibile anche solo da immaginare ad un concerto. Sembrava più politica, forse lo era. Un punto di vista sul mondo e il Rock – Metal con tutte le sue declinazioni era uno di questi punti di vista. Il più estremo forse.
Bisogna dire che i maggiori esponenti dell’epoca non avevano testi particolarmente profondi, il messaggio non era chiaro nemmeno agli autori. Erano artisti che non dicevano nulla, ma producevano suoni devastanti che rappresentavano la rabbia di una generazione. Tutto il resto lo faceva la gente.
Però “Calcare” non è un romanzo musicale. Il rock che accompagna costantemente tutti gli eventi è importante ma mai protagonista (Ogni capitolo è titolato con una canzone, scelta per argomento e anno di riferimento, come fosse un titolo vero e proprio. In tutto sono più di 150 capitoli/canzoni, raccolte in una compilation da scaricare con un QR code che si trova nella penultima di copertina alla fine del libro).
La musica è solo un simbolo, una identità, un leitmotiv; esiste ma non cambia le sorti della storia. La vedo come una nemesi che accomuna tutti i personaggi, il riscatto del rock inteso come unico mezzo possibile di fuga.

Gianca, Alan, Sandro, Caio sono principalmente musicisti, ma anche anticonformisti, ribelli e nella musica cercano la strada per uscire da un disagio esistenziale e sociale? Ma veramente vogliono uscirne?
Dunque, intanto direi che Gianca, Sandro e Caio credono di essere dei musicisti, ma non lo sono. Suonano solo uno strumento come riescono e sicuramente non bene.
Del resto come potrebbero, non hanno mai studiato musica, non gli interessa, sono contrari allo studio. Dicono che si perde naturalezza e istinto studiando. Mentre Piero Galanda detto Alan non ha mai suonato niente in vita sua.
Ribelli certo, sono tutti ribelli, ma a modo loro, anche in questo non c’è nulla di concreto. Non è una vera ribellione ragionata, non sono mossi da qualche idea, sono intrappolati e trasportati dagli eventi, è più istinto di sopravvivenza che ribellione.
Sono consapevoli di vivere in un buco dimenticato dal mondo e per questo si lamentano, ma poi non fanno nulla per cambiare. La realtà è che in fondo ci stanno bene.
E comunque, a parte questo, non potrei mai metterli tutti e quattro sullo stesso piano. Hanno caratteri molto differenti.
Tra chi alla fine si chiude in casa con le Benzodiazepine e chi invece scappa dall’altra parte dell’emisfero c’è differenza. È molto diverso il loro modo di affrontare la vita e i problemi.
Li accomuna appunto un disagio sociale dal quale sono partiti, ma poi ognuno ha il suo carattere e agisce in modo diverso.
Quindi bisognerebbe prendere le varie storie separatamente, e analizzare ciò che pensano e ciò che fanno i singoli personaggi, per capire chi di loro ha veramente la determinazione di uscire da una situazione e chi invece non lo farà mai. Ma sarebbe troppo complesso da spiegare e credo che sia meglio lasciarlo scoprire al lettore.

Le difficoltà dei rapporti famigliari sono solo da imputare ai genitori o forse anche ai figli?
Diciamo che il tema principale di “Calcare”, se dovessi dire una sola parola, potrebbe essere la rabbia. Rabbia covata in casa fin da piccoli.
Le famiglie dei protagonisti sono quasi tutte inconsapevoli. Sono il frutto del retaggio culturale degli anni cinquanta, hanno vissuto la guerra e le sue conseguenze, sono cresciuti in famiglie patriarcali. Le donne erano programmate per fare le casalinghe, sapevano che quello era il loro destino, mentre gli uomini lavoravano, erano violenti e affetti da problemi psicologici che nessuno diagnosticava, in una società compiacente che li copriva. Si sfogavano in famiglia, e questo comportamento inevitabilmente ricadeva sui figli.
Ma anche il padre di Caio era a sua volta vittima di disagio. Era un orfano che aveva vissuto in collegio, aveva dovuto contare solo sulle sue forze, fin da piccolo. Un uomo che era cresciuto con le sbarre alle finestre, era ovvio che le sbarre se le sarebbe portate dietro tuta la vita.
Ma poi c’è anche una altra rabbia, quella che nasce dalla differenza che intercorre tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che invece ci riconosce la società di essere. Rabbia che quando è troppa, in qualche modo deve essere sfogata, molto spesso con l’alcool. La soluzione più facile è lo spritz.
In questo romanzo ho voluto esplorare quale siano gli effetti della rabbia buona, quella che ti fa fare le cose che vuoi fare, e di quella cattiva che ti fa fare le cose che non vuoi fare.
Mi sono chiesto che senso potrebbe avere rompere una vetrina del centro alle tre del mattino con lo scopo dichiarato di non rubare nulla. Non esiste nessun vantaggio nel farlo, se non una perdita secca, ma è successo.
Domande che, proseguendo con la storia, aprono a varie argomentazioni che non hanno mai una direzione precisa, ma sempre dei punti di vista diversi e tutti plausibili.
Ogni lettore che vorrà avvicinarsi a “Calcare” potrà giudicare secondo il proprio retaggio culturale, cosa sia giusto e cosa lo sia meno, ognuno a suo modo. E un libro aperto che fa differenza tra i lettori.
Aporetico, quando sullo stesso testo ci possono essere argomentazioni opposte ma altrettanto valide. Sembra un paradosso e invece è una magia che può succedere nei romanzi.
Provare per credere.

 

L’autore:

Massimiliano Rotti, ex musicista e tecnico del suono con venticinque anni di carriera nel mondo dello spettacolo, live e televisivo, è nato a Trieste negli anni Settanta, dove ha vissuto fino all’età di ventisei anni. Oggi risiede nella provincia di Como. Nel 2012 ha pubblicato una raccolta di racconti e “Calcare. Cronache da Nordest” è il suo primo romanzo.

(Massimiliano Rotti “Calcare. Cronache da Nordest” pp. 432, 18 euro, bookabook 2023)

 

 

 

 

Immagini         ————————-

Aritmoi-Orbite

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————–

Si nutriranno ancora e per poco

Enzo Martines, “Basta Attendere”

di Antonello Bifulco

Il vuoto, che concettualmente rischia di essere scambiato per il puro nulla, nei fatti è il serbatoio di infinite possibilità”. Così il filosofo Daisetsu Teitarō Suzuki ci raccontava il vuoto nel suo viaggio attraverso l’occidente facilitando a questa parte di mondo l’approfondimento della filosofia e della pratica spirituale Zen.
C’è un Vuoto da colmare in questa nuova silloge di Enzo Martines, “Basta Attendere”, un vuoto che ti precipita attraverso la Poesia utilizzata come strumento di profondità. In una società, quella di oggi, dove il vero approfondimento è snaturato dalla presenza estenuante dei social che si mangiano attimi importanti della nostra vita, elevandosi a tutorial culturali dove il tempo dell’Attesa è negato dai ritmi frenetici, di notizie che non sono notizie e quando lo diventano il più delle volte sono delle fake.
La silloge, con una delicata e precisa prefazione di Antonella Gatti Bardelli, comincia nella liquidità diluita a specchio dell’anima poetica, “La punta del tuo dito allarga centri concentrici,/ spezza ogni riflesso nitido, all’apparenza./ Basta attendere, tornerà la calma su increspature/quiete”.
C’è una sensazione di calma subito proposta dall’autore che ne evidenzia la voglia di un’Attesa necessaria, di un luogo dove stare e mantenere ciò che è ora, ciò che è stato e, soprattutto nel vedere cosa sarà poi. Enzo Martines ti prende per mano e ti conduce in una maglia fitta in questa zanzariera che è l’esistenza dove i pallottolieri per i disillusi vengono distribuiti ai supermercati della vita per trattenerne la realtà, dove ci sentiamo schiacciati anche dalle piccole cose della realtà.
Silloge che ti pone davanti ad un bivio raccontandoti che si è stati in anticipo, in ritardo o comunque poco puntuali con la sorte, dove tutto questo rincorrersi tra illusioni e vita reale, sa più di scherzo ma non si capisce ancora da parte di chi.
Il libro si divide in due preziosi capitoli, il primo dal titolo “Basta Attendere – Poesie”, il secondo “L’Amore Adulto – Poemetto“. Capitoli all’apparenza diversi, capitoli che sono l’approdo ad una consapevolezza che la Poesia è un luogo dove stare, un luogo di ricerca continua che trascina l’autore ad evitare nascondigli che non gli sono più permessi, un luogo dove ogni velata certezza è già aria, “è un luogo la nostra vita dove convivono mondi disallineati, alle volte basta un saggio di sinistra sul comodino per aprire questo disagio”, poesie e poemetto liberi dall’ansia di primato aggrappati ai sentimenti in una società cannibale.
Il poeta appare colto dalla voglia di chiedere scusa a qualcuno, a qualcosa, forse a se stesso, ma più semplicemente ci si accorge che semplicemente si cimenta nell’allestire con cura i propri esercizi d’affetto.
Vi è la necessità di ringraziare con parole delicate alcune figure che hanno curato questo suo essere al mondo, anche quell’uomo seduto sulla panchina che il più delle volte non gliele manda a dire, quell’uomo che da un giorno all’altra quella panchina non la frequenterà più ed è una mancanza insopportabile, c’è Franca che sa cosa è l’amore, la gioia e l’orgoglio e che vive nella cura del sentimento assoluto e un po’ cieco.
Poesie che sono un rincorrersi di domande, chiedendosi sempre come si misurano le parole quando non le sappiamo pronunciare, “bisognerebbe guardare in silenzio, appartarsi nei pieni e nei vuoti del mondo”, c’è la necessità di raccontarsi al di fuori di schemi che ci rendono alieni rifuggendo tutti quei dubbi che si annidano nei terminali dell’affetto.
Quando Loredana Marano, poetessa Cervignanese, mi parlava della sua poesia, poneva sempre l’accento su quanto fosse necessario parlare di se stessi nascondendosi tra gli altri; il coraggio della parola deve essere rivolto al senso di comunità, di rispetto e appartenenza, deve essere il luogo dove l’attesa unisce le parole al nostro fare quotidiano.
Ecco, le parole che il poeta Enzo Martines usa in questo libro raccolgono il senso del pensiero poetico di Loredana.

 

Dal libro:

Liquida, diluita a specchio, la mia anima.
La punta del tuo dito allarga cerchi concentrici,
spezza ogni riflesso nitido, all’apparenza.
Basta attendere, tornerà la calma su increspature
quiete.

*

Ho comprato un ciclamino bianco, cinque euro
nei pressi della Caritas, fiori dello smalto dei denti,
da una signora straniera, vecchia maniera: sorrisi,

preghiere e ciclamini. Qualcuno custodisce
mercanzia profumata e documenti in vece sua,
per non farla fuggire ancora, mi fa capire.

Il suo italiano corretto mi sbiadisce,
scoloro nel pieno del terriccio invasato.
Si nutriranno ancora e per poco i fiori in cattività,

nonostante tutte le più buone intenzioni si batteranno
nel dolore, nella fatica, a cavallo tra la via di casa
e gli esercizi di chi attende il proprio turno.

*

Santorini

Sono stato dove i tetti diventano marciapiedi
dove la punta a occidente fa il tramonto soffocante,
il mare a picco, confine sulla Terra.
Se le strade sono tetti
i tetti terrazze, le finestre sono porte,
per porte tende, le tende zanzariere,
gli scalini crocicchi, su crocchi di gente muta
scavata dal sole e dal sale,
la mia complicazione scalza
scivola altrove senza inciampi.

*

Potrò dirtelo, parlarne.
Non subito, nemmeno puntualmente,
non quando. Potertelo dire.
Come si misura tutto questo rincorrerci?
mi sono chiesto
con questa lunga pausa che mi concedi
senz’affanno.
Dirò, saprai, sai, dirò
la pace è una conquista silenziosa,
l’attesa tenue del sorriso
o forse un abbraccio,
parole che condivideremo
di sicuro.

*

Vorrei continuare a entrare e uscire
furetto dei luoghi incantevoli
andarci, ritornarci
metterci il naso, annusare l’aria un po’ umida
della bellezza perenne. Sentirmi un po’ male,
sorpreso, come al mausoleo di Galla Placidia,
tuffo al cuore dell’indicibile.
Guardare in silenzio, appartarmi
nei pieni e nei vuoti del mondo senza fiato.
Ogni volta che lo faccio ricordo a me stesso:
l’universo io l’ho visto, frequentato, proprio così,
toccato con mano e, poi, immaginato.

*

Tu che dici,

i conti tornano sulle dita della mano?
sui polpastrelli, pallottolieri dell’esistenza,
che esercizio può essere? le scelte tue e mie
si sono aggrappate alla nostra storia.

Gli artigli reggono la tenda dell’anima,

eremiti, accampati in un soggiorno open,
nella più spartana delle dimore, nuda,
accessibile all’intimità più elementare.

Meravigliosa la libertà lucida negli sguardi,
nelle immagini commoventi, storie da raccontare,
ogni volta ascoltarle è un premio
alla santità di giornate sfuggenti, irrisolte

nella pace, liberi dall’ansia da primato,
con l’affanno srotolato sulle poltrone,
lasciamo spazio alla patina della malinconia
sana, su vecchie faccende, a occhi sempre accesi.

*

Sai cosa ti dico?

Dovessimo ricominciare daccapo
dire perché stiamo qui, al nostro mondo,
dovrei scavare nelle trame di storie imbastardite.
L’essere gentile, però, ti ha incontrata

tu gentile con me, un bruco nella mela,
bruco, cane e gatto, io, per ricostruire
il cunicolo profondo delle vite, la tana,
la cuccia, il giaciglio curato nel silenzio composto.

 

 

Intervista a Enzo Martines:

Nel saggio “L’arte dell’attesa” Andrea Köhler si mette sulle tracce dell’attesa di quello spazio di tempo in cui ciò che deve compiersi è ancora un’idea e il nostro cuore è sospeso tra un qui e un altrove. Per te cos’è l’attesa e come nasce “Basta attendere”?
È un’epoca, la nostra, di crisi perché in forte mutamento. Il primo quarto di questo seco-lo ci ha consegnato eventi che stanno cambiando il modo di stare al mondo di noi umani. Dalla crisi climatica, al sovrappopolamento; dalle migrazioni, alle guerre “novecentesche” nei contenuti e nelle intenzioni, ma destabilizzanti e fuori dagli schemi geopolitici del passato; e le pandemie o l’avvento dirompente dell’Intelligenza Artificiale, ci propongono domande su questioni mai affrontate prima nella storia dei sapiens.
Abbiamo bisogno di pensiero e di profondità, di prenderci il tempo giusto dell’attesa che ha in sé la grandezza dell’esistenza. Saper attendere significa avere la forza di scoprire se stessi e condividere la necessità di azione.
Ho notato che la parola “attendere” era presente spesso nella stesura e organizzazione di questo libro, come dire: basta attendere e si apriranno gli spazi della comprensione e della necessaria partecipazione. Un invito a reagire a una società occidentale obnubilata dalla ipertrofia di informazioni che sembrano spiegare, in tempo reale, ciò che ci accade attorno e invece, spesso, disorientano, offrendo “verità” mai del tutto chiare o chiarite. Meglio prendersi il tempo della riflessione autentica.
Basta attendere, in questo senso, ha il sapore di una esortazione che ho fatto prima di tutto a me stesso.

Due capitoli per questa tua nuova silloge, il primo dal titolo “Basta Attendere – Poesie”, il secondo “L’Amore Adulto – Poemetto”. Quale il filo conduttore per entrambi e cosa unisce o divide un capitolo all’altro?
C’è un tema che mi ha accompagnato e accompagna la ricerca che ho provato a proporre e che afferisce al rapporto con l’incertezza, che è una caratteristica della vita in questo periodo storico. Le vecchie certezze si sgretolano e ogni giorno, a qualsiasi età, facciamo i conti con un futuro poco comprensibile.
Vale soprattutto per le nuove generazioni, le più esposte a questo argomento, vale per me che cerco spazi di analisi e riflessione da condividere per sopravvivere.
Di certo i sentimenti, l’amore, sono approdi indispensabili per trovare un minimo di pace. C’è molto sentimento in questa silloge, me ne sono accorto strada facendo. Il poemetto (sul quale ho lavorato circa una decina di anni) ha un titolo perentorio: L’amore adulto, inteso come punto di arrivo di una (anche) faticosa attesa. Ma più che dare certezze, il poemetto è un dialogo con l’altra (o l’altro), costruito sulle domande, domande maturate per essere condivise, per fissare piccoli grandi principi di convivenza.

C’è un vuoto di cui il Poeta Enzo conosce spazi, colori, altezze. Leggendole ci si ritrova in una voragine emozionale nel quale è bello stare. Questo vuoto dopotutto è bene che resti così soprattutto perché hai vi-sto cosa potrebbe riempirlo, ce ne vuoi parlare?
La nostra è una società che ostenta pienezza. È colma di cose, di parole, di immagini, di tempi sincopati, di questioni apocalittiche. Il vuoto è spazio, è respiro, è la dimensione dell’abbandono ed è forse il posto del tempo sospeso, quello della attesa meditata. Certo è anche specchio dell’abisso e fa paura, può fare paura. Ma chi vuole riempire per forza e a forza i nostri vuoti, con le certezze della contemporaneità, spesso lo fa per toglierci il respiro e quindi la possibilità di trovare le alternative a una vita soffocante.
Allora è bello, come suggerisci tu, stare nel vuoto, magari per quel tanto che basta a riprenderci e di solito è nel rapporto con la natura che si può trovare il modo di riconciliarci con i vuoti, oppure nei sentimenti condivisi, nei dialoghi profondi, nella ricerca di sé.
In questo senso per me la poesia scritta e letta, è capace di misurarli quei vuoti e di dar-gli la giusta consistenza. Le pause, i silenzi significanti, sono architravi della comprensione nella lettura delle poesie e come dico sempre: la poesia non è fatta per essere letta, ma per essere riletta, va affrontata rileggendola per farsi cullare dalla sua complessità, frequentando sempre più in profondità il suo spazio, ricco di umanità e di belle risposte a alle domande difficili.

Ognuna di queste poesie racconta, potrebbe raccontare o essere lei stessa un esercizio zen involontario e inevitabile?
Le culture orientali ci insegnano a curare la meditazione. La meditazione è, in un certo senso, la capacità si sospendere il tempo. E di certo noi occidentali abbiamo molto da imparare da quelle pratiche, perché di fatto non facciamo altro che confrontarci con il tempo fino ad esserne ossessionati.
Eh sì, la poesia la si può considerare alla stregua di un esercizio zen, lo è la lettura più in generale, ma la scrittura in versi è, in particolare, ritmo, respiro, suono e immagini, insieme … sennò non è poesia.
Il messaggio universale della scrittura in versi ha la necessità di portarci in un’altra dimensione in cui le parole sono i suoni che spiegano l’indicibile. Poeti e poete a questo si dedicano, a questo provano a dare forma e, quando ci riescono, permettono di respirare meglio l’aria che ci sta attorno e capirne la rilevanza. La raccolta “Basta attendere” è stata una ricerca per offrire spazi di riflessione alle tante domande che ci facciamo ogni giorno, nel rapporto con noi stessi e nel rapporto con chi si ama, con chi si stima e con ciò cui aneliamo, in particolare in questo scorcio d’epoca.

Ci sono molte dediche sparse qua e là tra queste tue pagine, sicuramente ad alcune persone, a Franca (tua madre), ad un uomo sulla panchina, forse a se stessi e a chi altri?
Sì, più che dediche a qualcuno, parlerei di presenze che paleso in modo esplicito, anche senza farne il nome, ma dando loro la rilevanza di persone indispensabili per capire il presente, il tempo passato e quello da costruire. In un certo senso sono veri esempi, nel bene e nel male.
Una galleria di individui che frequento, ho frequentato e che mi hanno dato modo di comprendere e comprendermi meglio. E poi li considero compagni di viaggio, per questo “amici” con cui condividere ciò che è stato e ciò che sarà.
Ho spesso bisogno di rivolgermi a qualcuno per avere a specchio le risposte che cerco. È il filtro è la poesia.

In questa tua silloge sembra che tu debba chiedere scusa a qualcuno, se non addirittura a te stesso, a chi devi chiedere scusa? Dici poi che si rimane aggrappati ai sentimenti in una società cannibale e ci si limita a diventare “il caffè di fine portata”, ce ne vuoi parlare?
A pensarci bene, in effetti, direi che si può notare, nella silloge e nel poemetto, una forma di timidezza. Un sentimento di attenzione e delicatezza a ciò che sta attorno, spero si colga la tenerezza che cerco di mettere nel trattare le cose della vita, a volte così complessa, a volte così stupefacente.
Più che chiedere scusa io busso delicatamente alla sensibilità di ognuno per condividere lo sforzo a essere un minimo utili alla causa della sopravvivenza e per dare un significato profondo a ciò che facciamo.
Mi sembra che la cultura occidentale con i suoi agi (per chi può permetterseli), con le sue promesse di benessere, spesso effimero, ci riduca a comparse.
La società è cannibale perché utilitaristica, utilizza il precetto secondo il quale tutto quello che si fa deve servire per forza a qualcosa. Il mio invito a considerarci “caffè di fine portata” è un richiamo all’aroma, al senso della bellezza, a tutto ciò che è apparentemente inutile, come lo è apparentemente l’arte, la poesia, i sentimenti, capaci però di spiazzare l’ideologia utilitaristica da cui siamo governati e proporre così piani di convivenza e interpretazioni alternative per affrontare le nuove sfide.

 

L’autore:
Enzo Martines è nato nel 1964, vive e lavora a Udine. Scrive e interpreta poesie e testi poetici per il teatro e performance dal vivo. Nel 1991 vince il premio “P(R)OESIA” di Sesto Fiorentino; nel 1995 pubblica il primo libro in versi “Poema libertino”.
Nel 2005 pubblica il CD dal titolo “Siamo Esili”, un progetto di poesia in musica di cui è autore e interprete. Scrive per il teatro e tra le altre nel 2012 (debutto al Mittelfest) è coautore del testo teatrale “Lady Europe” .
Nel 2015 pubblica “Viaggio nell’anima in tre canti”, nel 2018 “L’arte di sopravvivere”, nel 2021 “Vite Aliene”. È stato inoltre pubblicato in alcune antologie di poeti contemporanei.
Nel 2021 esce il suo primo romanzo “Una solitudine perfetta”, che ottiene il premio Ginevra all’interno di Switzerland Literary Prize edizione 2022 e nello stesso anno il premio “Enrico Morello” al festival Etna Book.
Nel 2022 pubblica il saggio “Il Friuli a un Bivio”.

(Enzo Martines “Basta Attendere” pp. 82, 13 euro, Edizioni AttraVerso 2024)

 

 

 

 

Immagini         ————————-

Aritmoi

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

Intervista a Salvatore Manzi:

di Luigi Auriemma

Caro Salvatore, il tuo percorso artistico inizia nel primo decennio del nuovo secolo con lo pseudonimo di ZAK, poi passi a ZAK-MANZI e si arriva nella fase attuale che ti firmi con il tuo vero nome e cognome. Mi parli di questi passaggi e del perché?
Nel 1997 con l’amico artista Peppe Irace, realizzammo la mostra Wall paper a Casa Scognamiglio sul Petraio. Chi però si presentò al giorno e all’orario del vernissage, trovò il portone dello spazio chiuso ma dipinto allo stesso modo dell’invito: bande verticali color arancio che ricordavano un modulo di carta da parati.
Gli artisti e le opere erano assenti e agli spettatori, ripresi da una telecamera nascosta, non rimaneva che appuntarsi l’indirizzo internet posto affianco al citofono e tornare a casa per connettersi e trovare un testo sull’assenza dell’autore scritto da me e Peppe.
Pensammo, successivamente, di realizzare una secondo atto da intitolarsi Wall Paper Japanes: cento giapponesi, circa, avrebbero dovuto occupare lo spazio espositivo, mentre un’operatrice turistica avrebbe offerto agli spettatori dettagliate informazioni circa un viaggio in Giappone. Anche in quel caso gli artisti e le opere sarebbero stati assenti e gli invitati, magari, avrebbero iniziato a fotografarsi tra di loro.
Per ragioni che più non ricordo, l’operazione non andò in porto ma tuttavia nel corso dell’anno successivo (1998), proprio durante la progettazione grafica dell’invito di Wall Paper Japanes, il computer, per qualche misteriosa ragione, propose il nome “Zak” al posto di “Salvatore” Per Peppe “Zak” era di certo il nome giusto per me, da quel momento in poi iniziai a firmarmi Zak Manzi.
Dal 2006, a seguito di alcune riflessioni di tipo identitario, ho poi ripreso ad utilizzare il mio vero nome creando non poche perplessità e reazioni avverse tra coloro (mercato dell’arte) che avevano già investito sulla firma “Zak Manzi”. Con il nome “Salvatore” ho dovuto iniziare tutto da capo ed è stato un bene.

Le tue opere sono caratterizzate da una concezione aniconica dell’arte, da quale esigenza o percorso proviene la scelta di tale stile?
L’esigenza coincide con la mia conversione alla fede evangelica. Per noi protestanti la rappresentazione delle immagini è un tema molto delicato. Sostanzialmente il nemico del II comandamento, cioè quello che ordina all’uomo di non farsi “immagine alcuna”, è l’artista. Chi in effetti, da sempre, ha il compito di fare immagini, di dare ad esse un significato?
In un primo tempo avevo addirittura deciso di chiudere con la pratica artistica, poi durante un culto e l’ascolto di una predicazione del pastore che mi aveva avvicinato alla fede, mi ritrovai a scarabocchiare qualcosa.
Uno schizzo che inaspettatamente mi suggeriva un possibile nuovo lavoro: una stanza di mattoncini, immersa nel buio ricoperta da una lamiera e al centro di essa un lampadario conico posizionato bassissimo, a pochi centimetri dal pavimento.
Quello schizzo, ispirato al passaggio evangelico in cui Gesù invita a non mettere la lampada sotto il moggio, si tradusse poi nell’installazione Nascondiglio che proposi in una rassegna d’arte contemporanea a Scampia curata da Pina Capobianco e Stefano Taccone.
Pian piano ho poi trovato possibili soluzioni aniconiche per riappropriarmi anche della pittura. In realtà anche il tema del sacro riserva non poche tensioni per un credente evangelico. Cos’è sacro? Neanche la Bibbia, cioè il libro, inteso come oggetto lo è.
Le nostre chiese, ad esempio, non hanno oggetti sacri, lo stesso tempio (locale di culto) non può considerarsi sacro. Dico questo per esprimere la scivolosità con la quale un protestante può accostarsi al concetto di sacro.

Costruisci le tue opere con dei segni apparentemente semplici, ma che hanno la complessità di un modello di pensiero meditativo, quasi come se fossero delle preghiere silenziose. È vero? E se sì, a chi sono rivolte?
Mi approccio alla pittura adempiendo una liturgia che si accosta all’esperienza della preghiera, della lode. Considero molti miei dipinti preghiere dipinte, il fatto che spesso siano incomprensibili avvalora la tesi, nel senso che non dipingo concetti, visioni, rivelazioni… semplicemente dipingo secondo la formula della preghiera:
invocazione, lode, ringraziamento.
In ogni punto o linea, o carattere, mi pongo in armonia con le forze cosmiche che regolano lo spazio. Mappe celesti di luoghi celesti, ordinati secondo il bisogno dell’uomo di capire senza capire, di essere parte pur senza esserne l’origine.
Certo, oggi esistono molti modi efficaci e veritieri per “vedere” e rappresentare l’universo, credo che esista però un modo, certo non scientifico, non utilitaristico, di conoscere il Cielo, di descriverlo.
Ciò che “segniamo” del Cielo è ciò che ci ricorda quale sarà la nostra futura dimora. Ogni mia preghiera è rivolta come una lode al Padre, Signore del cielo e della terra, che ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.

La serie di opere intitolate “Cosmizzazioni”, termine che ha relazione con varie discipline, dalla filosofia all’antropologia, dalla biologia alla religione, ecc. A quale di queste se non tutte ha relazioni il tuo concetto di cosmizzazione?
Il termine cosmizzazione scaturisce da una riflessione di tipo antropologico, in particolare ho approfondito le preziose considerazioni che Mircea Eliade sviluppa nel volume Il Sacro e il profano.
Sono ricorso alle “cosmizzazioni”, per sanare una “nostalgia” del sacro, cioè ho ritenuto necessario, in termini simbolici e psichici, recuperare un senso del sacro, sperimentando ipotesi anti-idolatriche o pre-idolatriche.
Un processo che avviene ogni qualvolta provo – è quello che da sempre l’uomo fa – ad uscire dal caos, cioè ad “ordinare” l’indistinto: trasfigurare il caos in cosmo.
Probabilmente per certi versi queste esperienze potrebbero ritenersi in contraddizione con la mia fede. Ma è una contraddizione che mi pone al riparo da ogni forma di radicalizzazione della mia esperienza religiosa.

Un altro concetto che sta emergendo nel tuo essere artista è il “Deposito del fallimento”, cos’è per te il fallimento in arte e perché questo avviene?
Considero “deposito dei fallimenti” il mio studio che di fatto è anche un deposito, il luogo dove conservo le mie esperienze artistiche, per lo più pittoriche.
Non penso di essere arrivato a particolari traguardi nella mia ricerca, tantomeno inseguo una strategia di affermazione o di successo. Il fallimento è il concetto che più si confà alla pratica artistica. Ogni artista non fa che fallire e tutto quello che produce è un deposito di fallimenti.
I testi biblici mi hanno insegnato la bellezza del ribaltamento: la sterile che diventa madri di stirpi, l’ultimo che diventa primo, il Re che si fa Servo. Questa logica mi pone al riparo dagli inganni del mondo, dalle sue lusinghe, dai meccanismi premianti, soprattutto dai dilaganti imperativi del dominio, della conquista, del successo.
Questi insegnamenti mi hanno ulteriormente insegnato che non siamo soli nei fallimenti e che dai fallimenti possono nascere verità inesplorate e inimmaginabili.
Il fallimento avviene per spostarci dal “luogo” che volevamo per trasportarti nel luogo che ci attendeva.

Oltre ad essere docente all’accademia di belle arti e artista, sei anche un Pastore evangelico, come convivono questi tre aspetti molto impegnativi e come incidono uno sull’altro?
Credo che l’identità dell’artista sia quella che attraversa tutti i vari ambiti in cui mi trovo ad operare, a prestare servizio. Nello specifico non saprei immaginare il mio ruolo di docente senza attingere dalla personale pratica di artista, così come non riuscirei ad identificarmi nel ministero pastorale senza rifarmi alla mia sensibilità
artistica.
Chi mi conosce come docente all’Accademia di Belle Arti non potrà fare a meno di notare le mie immancabili incursioni teologiche, chi mi conosce come pastore invece avrà fatto l’esperienza di ascoltare la Parola di Dio anche attraverso paralleli alle vicende della storia dell’arte, soprattutto contemporanea.
Una cosa è certa: Dio si usa anche degli artisti per annunciare il suo Regno di misericordia e di giustizia.

Progetti futuri?
Mi piacerebbe riuscire a pubblicare delle cose a cui sto lavorando. Una pubblicazione di carattere pastorale che ho già in forma di bozza e un volume che raccolga, in modo indipendente, esperienze legate alla performance art.
Non c’è un campo in cui posso ringraziarti. Uso questo caro Luigi. Grazie!
Chi fa domande si pone in ascolto e chi ascolta riconosce ancora la bellezza della relazione, mette al riparo il suo prossimo dall’angoscia dell’incomprensione e dell’indifferenza.

 

L’artista:
Salvatore Manzi nasce nel 1975 a Napoli.
Con tesi in Storia dell’arte “Assenza dell’autore nell’opera d’arte contemporanea”, con la professoressa Adachiara Zevi, consegue a pieni meriti il percorso accademico presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, specializzandosi in Pittura.
Ha conseguito poi una laurea in Scienze bibliche e teologiche presso la Facoltà di Teologia valdese di Roma con tesi in Teologia Pratica con il professore Enrico Benedetto dal tema “Aniconismo nell’arte contemporanea. La “pratica religiosa” nelle arti visive in Europa e negli Stati Uniti“.
Interessato fin dagli esordi all’iniquità del sistema e del mercato dell’arte dal 1999 al 2002 intraprende un difficile percorso di azzeramento creativo. Prende parte e organizza diversi collettivi, atti a sviluppare processi di spersonalizzazione artistica, singolare risulta la ricerca che l’artista affronta nel progetto “Zak Manzi” che mette in discussione il ruolo della firma e della produzione nel prodotto artistico.
In seguito si volge ad una ricerca più ampia e nei suoi lavori, compaiono numerosi riferimenti al disagio sociale, alla psichiatria, alla politica, alla libertà d’informazione.
Dal 2006, in seguito alla sua conversione alla fede evangelica, la sua ricerca si infittisce di contenuti spirituali, le opere sottendono una indagine sull’analisi dell’invisibile e della cosmizzazione.
Insegna Installazioni Multimediali e Tecniche Performative per le Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Lecce.
Vive e lavora tra Napoli e Lecce.

I lavori di Salvatore Manzi proposti in questo numero di Fare Voci:

Lettera tecnica mista su cotone, 18×28 cm, 2023
Aritmoi tecnica mista su tela, 80×80 cm, 2021
Orbite tecnica mista su tavola, diametro 50 cm, 2024
Oro povero di stella grande acrilico su tela, diametro 50 cm, 2024
Montagne cosmiche tempera su tela, 30×27 cm, 2014
Orbite tecnica mista su tavola intelata, diametro 15,5 cm, 2024
Senza titolo acrilico su tela, 140×180 cm, 2015
Triangoli tempera su tela, 15×15 cm (dittico), 2017
Aritmoi-Orbite acrilico su tavola, diametro 50 cm, 2024
Aritmoi acrilico su tela, 80×80 cm, 2013
Aritmoi acrilico su tela, 15×15 cm, 2016

 

Immagini         ————————-

Aritmoi

Undici opere

di Salvatore Manzi

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso, Ilaria Battista, Laura Mautone.

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Fare Voci. Contrassegna il permalink.