Andiamo incontro alla primavera con il numero di Marzo di “Fare Voci”.
Ed è un bell’andare, ricco di spunti e di germogli, con la promessa artistica e sociale di petali e polline.
Ad iniziare da una delle firme più autorevoli della poesia italiana: Vivian Lamarque con la sua nuova raccolta poetica “L’amore da vecchia”, e il suo raccontarci nell’intervista del suo essere autobiografica. Ma non solo….
Ospite speciale di questo numero è lo scrittore moldavo Iulian Ciocan. Il suo romanzo “Prima che Brežnev morisse” è esercizio utile per apprendere dal passato e avere uno strumento in più per leggere quello che sta succedendo in questi giorni. Ce lo spiega anche nell’intervista.
La voce d’autore è sempre ricca ed eclettica. Ad iniziare da Valerio Cuccaroni con il suo libro d’esordio “Lucida tela”, dove gli sguardi si mescolano perché “non aspetti l’incastro, hai una scala stellare”, per poi immergersi nella luce di “Enchiridion celeste”, l’atteso ritorno di Alessandro Ramberti.
Preziosi anche gli inediti di questo numero: “La strada verso il canto”, ovvero cinque testi di Rossana Jemma, e il racconto “A Marcolino-Lajšče” di Luca Buiat.
Mentre i “Margini. Di poesia ed altro” sono quelli di Fernando Marchiori con “Alburno”, e il suo canto ferito della barena.
Il tempo presente guarda anche al passato, con Francesco Filippi e il libro “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”.
Il viaggio è il tema portante dello scrivere, e del vivere, di Jasna Tuta. Ce lo racconta in “Un Oceano di emozioni”.
Le immagini sono le installazioni e le opere di Franco Nuti.
Buona lettura.
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini —————————–
Diastema
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Voce d’autore ————————–
Finito, già finito l’incantato tempo dei rami in fiore?
Vivian Lamarque, “L’amore da vecchia”
di Roberto Lamantea
Diario, canto, poesia verso la prosa ma mai prosa, ma anche giocoleria, filastrocca. Lo stile di Vivian Lamarque è inconfondibile. Diario? Sì, anche journal intime. Autoironia dolcissima. “[…] mai/ un bell’albero in fiore una fogliolina gialla guarderà/ (anzi, ben lo sappiamo cosa combina d’autunno/ un albero alle foglie)”. È lei la fogliolina gialla. Vivian, come si fa a non volerti bene? Tu che hai lo sguardo di Emily Dickinson sul più minuscolo dei fiori (che bel titolo “Poesie con foglie”), che abiti nel nido con i pulcini dei passeri, e che senti il tempo scivolare via, è come l’acqua, il tempo, non lo stringi tra le mani, è un treno che passa, passano quelle finestre illuminate dove forse qualcuno studia, un altro cucina, o già sogna. “Non potrà mai smettere d’amare chi non ama”.
“L’amore da vecchia” è il titolo del nuovo libro di poesie di Vivian Lamarque, pubblicato da Mondadori nello “Specchio”. È una coltellata, quel “vecchia” buttato lì, proprio nel titolo. “Alla sua età/ è normale morire./ Nessuno si meraviglia/ se uno alla sua età/ muore./ Nessuno./ Ma lei sì!/ Lei che sarei io, sì./ Sì, lei si meraviglierà,/ io mi meraviglierò./ Tanto”.
Vivian è una bambina che canta. Vivian è una vecchina. Vivian è una fiaba. Sì, è una fiaba. Lei le scrive le fiabe. Scrive anche filastrocche cantilene ninnenanne, rovescia i personaggi – così c’è anche una bambina che mangia i lupi e, alle fine, diventa un lupo lei stessa. Vivian scrive poesie che si leggono come fiabe, cantilene, dove le rime giocano, gli accenti danzano: la metrica è perfetta.
Certe volte chi è solo, al mare, fa finta di salutare qualcuno, è laggiù, tra le onde. O finge di suonare un campanello: sono io, apri! O parla al cellulare spento. Milano, la filovia numero 90. Lo sguardo sul mondo, la folla di immigrati, ciascuno con la propria storia scolpita sulle pelle del viso e gli occhi stanchi: “Hanno attraversato mille e uno mari/ e uomini-squali per approdare infine/ su questa casa mobile che apre le porte/ che le chiude, fiumi che salgono,/ che scendono, che da generazioni/ e generazioni, anche per noi visi pallidi,/ al mille per mille d’interesse pagarono/ in anticipo il biglietto”.
Vivian Lamarque è unica. I suoi “timbri” stilistici sono come le nervature di una foglia, li vedi controluce: la sua amata Emily Dickinson – c’è qui una poesia, bellissima, dedicata a lei – Gozzano, Saba, Penna (lo cita: “il dolce rumore della vita”), Pascoli, acquarelli dall’infanzia. Vivian è oltre tutti i confini: sa essere una giocoliera sull’orlo del dolore (ah, la poesia dei clown), amara in piena cantilena, si prende un po’ in giro con una tenerezza struggente: “Finito, già finito/ l’incantato tempo/ dei rami in fiore? Come quando/ sul più bello del ricamo/ finisce il filo da ricamo?”.
Poesia giostra, poesia fiaba; poesia con cui giocare, poesia da amare: vedi sbocciare le parole l’una dall’altra per assonanza e rima, nascere come da semini gettati dal vento.
Dolce Vivian, incantata Vivian. Tu che guardi il tempo come una bambina ammira e un po’, un pochino solo, ne ha paura, uno strano giocattolo, tu che sei così tenera con la vita che la vita, per ricambiarti, ti fa ancora innamorare.
Miryam, mia bambina, mia rima
mia infinita mattina.
Su verso la tua stanza d’infanzia
papà chiamava dal giù del giardino
Myriam, mia assonanza mia rima
erra l’intatto tempo del prima.
[…]
Bambina magrina, figlia bella, puella,
bambina sonetto col tuo clarinetto in arrivo
domani, bambina che ride con bambino al balcone
calzina una su una giù, bambina con corda
che salti mentre lassù dai rami più alti
una vedetta vedeva lontano i lontani domani
le future stagioni. Alberella mia in fiore, fiorita,
in sala d’aspetto ti sedeva la vita.
Dal libro:
Fiori di lino
Tinti d’azzurro chiaro
rari e delicati i fiori:
plumbago, fiordalisi, fiori di lino,
ortensie, non-ti-scordar e pochi altri.
D’azzurro chiaro tinti
pochi anche i pensieri:
ma per il tempo di questa poesia
duri l’azzurro – più che in cielo neve.
*
Nel giardino di Emily D.
Quando entrai nel tuo giardino
era tutto fiorito di cosmee
vietato cogliere pensai.
Ma poi –
le colsi!
Prezioso bottino!
Ma poi –
sulla tua tomba pensai
non sono mie sono tue
e molto a malincuore
te le resi.
Ma poi –
poi a mani vuote pensai e io?
e a me cosa resta?
Allora dalla tua tomba strappai
un’erbetta con zolla e in Italia
mi portai lei, ecco.
Ma poi –
sopravviverai pensai?
Per sicurezza appena arrivate
le feci una fotografia
e poi le lessi una tua poesia.
*
Se dietro le fotografie
Se dietro le fotografie non scriviamo nomi
e cognomi, già nel giro di due
generazioni sarà tutto un coro
un infinito coro di chini sulle foto
a dire e questo? e questa? e questo
bambino? fratello? cugino? ma di chi?
Nelle stagioni delle finestre spalancate
usciranno nell’aria infiniti echi
di domande, di punti di domande.
E questo? e questa? forse uno zio
lontano? una lontana zia?
Ma quale zia e zia!
Ero io io io!
Sono io la mia fotografia!
*
Quando dal treno di sera
Quando dal treno di sera vedi passare una casa
quella fila lunga di luci sarà forse una famiglia numerosa?
Forse uno in una stanza scrive?
In un’altra accanto forse si cucina?
Luccica nel bagno la bianca porcellana
mentre di là occhieggia la tv azzurrina?
E le camere del sonno? Zitte al buio attendono
che una a una tutte si spengano le altre
che il treno che sta passando passi
sia passato, che la sera ritorni silenziosa.
*
Come nel film “Mamma Roma” (1962)
Come nel film Mamma Roma che nel finale
Ettore Garofalo sul letto di contenzione sta per
morire e dice tante volte aiuto aiuto e nessuno
lo sente e mentre muore dice
non ce la faccio più mamma
Così tanti non sono sentiti da nessuno
come erba che dice acqua invano
come naufrago che invano dice terra.
Intervista a Vivian Lamarque:
Una sezione del libro s’intitola “Io sono autobiografica”, nella raccolta ci sono testi tratti da altri tuoi libri: la tua poesia è un diario in versi?
Non so, sì, un po’? Mi fa ricordare il bel libro di Giovanni Giudici (l’anno venturo centenario della nascita) “La vita in versi”.
Sì, io sono autobiografica ma parlo di voi. “Quando dico Miryam è di ogni figlia di ogni figlio il nome, quando dico foglie del mio balcone sono anche del tuo, la mia finestra è la tua, lettore, è affacciata proprio sulla tua via la mia poesia”. Come dice Orazio “mutato nomine, de te fabula narratur”.
Il tuo libro è una dichiarazione d’amore: al mondo, alla vita, agli altri, ai fiori, anche a chi – come nella filovia numero 90 – dalla società viene guardato con sospetto, come gli immigrati. E la malinconia, leggera e delicata, del tempo che passa e il pensiero della morte, ma in punta di matita. È così?
Si sa, vince chi fugge. Ora che ho 80 anni (veramente 77 ma a dire 80 ti fanno più festa) la vita mi sfugge, la inseguo, mi manca, la amo. L’amavo anche prima ma ora di più, ancora di più.
Sto molto alla finestra, ho lasciato case silenziose per questa su strada, anzi su strade, su otto, c’è persino un cavalcavia, per vederla e sentirla la vita. Vedo tram, filovie, auto, posteggi anche pensili e vetrine e gente, tanta gente che passa che passa che passa, proprio come la vita.
Anche da questa raccolta filtrano i tuoi amori letterari: Emily Dickinson su tutti, Saba, Caproni, Gozzano… Scrivi: “Sono una poetina di coccio/ normale, su un carretto di poeti/ di ferro, che male”.
Sì, quei nomi e tanti altri. Ma quei poeti dall’aldilà non mi fanno male, mi fanno benissimo, anche alla salute. Più li leggo meglio sto. Il male a volte lo sento seduta sul carretto dei poeti contemporanei, alcuni se ti avvicini troppo sono acuminati, appuntiti, spinati, che male.
Leggendo i tuoi libri “per bambini” – “Poesie di ghiaccio”, “Poesie della notte”, “La bambina che mangiava i lupi” e “Mettete subito in disordine” – e le raccolte, come l’antologia negli Oscar Mondadori, si nota la continuità stilistica. Che cosa vuol dire per te scrivere per i bambini o per gli adulti?
A scrivere poesie ho iniziato a dieci anni, a scrivere fiabe quando già ero madre. La penna è la stessa, ma certi giorni mi sveglio che ho 7 anni, certi altri che ne ho 700 o 7000.
Ora è appena uscito “Animaletti vi amo”, un risveglio toccato dal dolore che infliggiamo alla fauna indifesa. I fili si incrociano, fa capolino la morte anche nei libri per bambini, fanno capolino filastrocche anche nei libri per grandi.
Quanto deve la tua poesia al fatto di abitare a Milano?
Le grandi città ti mettono sotto gli occhi più mondo, più ferite del mondo. Sulla affollata filovia milanese, la denigrata 90, in dieci minuti di viaggio si incrociano continenti, popolazioni, “fiumi che salgono che scendono, che da generazioni/ e generazioni anche per noi visi pallidi/ al mille per mille d’interesse pagarono/ in anticipo il biglietto”. Mi viene in mente Caproni: “Amore, com’è ferito il secolo”.
L’autrice:
Vivian Lamarque è nata a Tèsero (Trento) nel 1946. Di origini valdesi (il nonno Ernesto Comba, pastore, fu autore di un’opera importante, “Storia dei Valdesi” del 1935), è stata data in adozione a nove mesi a una famiglia cattolica milanese. A quattro anni ha perso il giovane padre adottivo, un vigile del fuoco. A dieci ha scoperto di avere due madri e ha iniziato a scrivere le prime poesie.
Vive a Milano, dove ha una figlia e due nipoti. Ha insegnato italiano per stranieri e materie letterarie. Ha tradotto La Fontaine, Valéry, Prévert, Baudelaire. Il suo primo libro, “Teresino”, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima nel 1981. Tra gli altri premi il Premio Pisa (1990), il Montale (1993), il Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo (1996) nella sezione poesie, Camajore (2003), Elsa Morante (2005), Cardarelli-Tarquinia (2006), Carducci (2016), Dessì (2016), Bagutta (2017).
Autrice anche di molte fiabe, ha ottenuto il Premio Rodari (1997) e il Premio Andersen (2000).
Gran parte della sua produzione poetica è stata raccolta nell’Oscar Mondadori “Poesie 1972-2002”.
Nel 2018 è stata insignita della laurea Apollinaris Poetica dall’Università Pontificia Salesiana di Roma, premio alla carriera per i migliori poeti italiani viventi.
Il regista Silvio Soldini ha realizzato nel 2008 un documentario su Vivian Lamarque, “Quattro giorni con Vivian“.
(Vivian Lamarque “L’amore da vecchia” pp. 160, 18 euro, Mondadori 2022)
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Il segno come parola
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Tempo presente —————————
La strada verso il canto
Cinque testi inediti
di Rossana Jemma
Giornate novembrine
Nelle giornate novembrine
della casa di Parigi
– rifugiata nel tepore –
sola mi cullava
la tua musica incessante
e i riccioli baldanzosi di bimba
L’anima mia distesa
avvolta in un cuoio ceruleo
– quasi umano nel sogno –
si innalzava alta
sulle pene sui dubbi
sulle ombre che attendono
Spostava la conta dei giorni
nell’assoluto del primo preludio
– onda che sale inesorabile –
e di crome travolgeva i pensieri
nell’acume romantico
insieme ristoro e sofferenza
Poi ricadeva
in uno schianto finale
e l’essere speranzoso restava muto.
*
Figlia del canto
Sono figlia di un canto di maggio
un canto libero che si dirama
in ogni gemma sbocciata
e poco dopo piega
Sono figlia del canto di madre coraggio
un canto che m’insegnò
nel suo grembo vernale
a sfiorire per poi rischiudersi
*
In sogno sveglia
Stanotte nel sonno
ho ancora parlato con te.
Senza nome ma così attento
di voce vera -eri-
di sguardo limpido,
di carni fragili e languore
che veglia tanto reale mai fu.
Vivida nel sopore
di un sogno palpabile,
quale dei due me è veritiera vita ?
Il risveglio -ogni dì-
possibile nell’incedere
delle ore illusorie ?
E perché non -ogni sera-
la chimera incurante
che non preclude niente?
Attendo ancora
l’apparizione che Morfeo concede
nutrimento di corpo e mente
e troppo mortale -col giorno-
indossare gli abiti
del rinascere -talvolta-
mi è insufficiente.
In questo pulviscolo d’incontro -forse-
ci uniremo veramente.
*
Corpo infranto
Il corpo mio infranto
sbrecciato sui bordi
da un angoscioso male
ho cercato invano d’amare
raccogliendone i cocci
in un palmo di mano
Sotto dita di ghiaccio
e pelle marmorea
facevo nascer fiammelle
accarezzando amici e viole
fasciandomi d’arpeggi
di sole e di vivifico mare
Delle membra di vetro
volli lenir le ferite fidandomi
di oggetti fraterni
di abbracci bambini
del sorriso di un uomo
Ma la cura -oramai smarrita-
era volontà d’amore sconfinato
implorato con strazio
e solamente vero e eterno
nella memoria antica del Poeta
Così la cataratta della notte
che ricopre le piaghe
dà conforto al mio corpo scavato
e dolcemente il verbo
lo avvolge nel suo miele
E al di là dei margini
delle cellule sfiorite
io sento – sicura solo allora-
la mia intima presenza
farsi avanti tra i tormenti
a ricomporre il mosaico
della mia figura
sparpagliata al suolo
in grandi architetture
composte di suoni e di parole.
*
Strade
Ho lasciato le mie impronte
sulla rena rosata del deserto
quello colmo d’insetti scuri e sassi
Quello che pareva il carro
carico della mia sorte
di camminatrice senza meta.
Ora prendo un’altra strada
lungo un precipizio assolato
ricoperto di melodie di fiori e foglie
Strada battuta a stento verso il canto
quello sarà il giaciglio odoroso
della mia spoglia e del mio pianto.
L’autrice:
Rossana Jemma vive e lavora a Parigi. Docente di lettere, traduttrice, mediatrice culturale e poeta, ha tradotto e collaborato con diversi artisti, drammaturghi e poeti.
Anche in qualità di traduttrice-correttrice e studiosa di poesia, ha collaborato a molte pubblicazioni (su Pascoli, Marinetti, A. Pozzi, Buzzati, Zanzotto, Bontempelli, Caproni, ecc..) e a diversi incontri culturali.
Ha inoltre partecipato a diverse rassegne, festival e incontri poetici internazionali.
Nel 2021 ha ottenuto la menzione d’onore al Mediterranean Poetry Prize.
Sue poesie sono state lette e presentate in occasione di performance, rassegne e reading poetici, e pubblicate in diverse riviste e antologie, quali VersoLibero, Circolare poesia, Nova, Le città al tempo del coronavirus, Versi di Pace (ed. VdJ ), SignorNò (ed. Pellicano Libri), I luoghi della memoria (Bertoni ed.).
Ha in preparazione la silloge “La strada verso il canto” da cui sono tratti i componimenti qui presentati.
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Diastema
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Tempo presente ————————–
Vivere in una bugia
Iulian Ciocan, “Prima che Brežnev morisse”
di Giovanni Fierro
Di certo l’era Brežnev è stata una delle epoche più buie e grottesche di quello che è stato l’Impero Sovietico. Con lui, dopo il periodo dell’apertura per l’URSS permesso da Krusciov, che aveva ‘svelato’ i crimini commessi da Stalin, la Federazione Sovietica fa un passo indietro, creando una realtà che nel vivere di ogni giorno non esisteva più.
Una sorta di restaurazione più di immagine che di sostanza. E proprio nel crepuscolo del rinnovato ma decrepito regime, si muove lo scrivere di Iulian Ciocan, con il suo “Prima che Brežnev morisse”.
Il suo raccontare anima un luogo che è la periferia latina dell’Impero Russo: la Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia.
Protagonista è il piccolo pioniere Iulian, l’autore stesso, che vive a Chişinău con i suoi genitori in un appartamento di quaranta metri quadri, assieme alla zia Sanja.
Tramite il suo stare al mondo Iulian Ciocan mette in scena l’Homo Sovieticus, che cerca di sopravvivere ogni giorno, nelle sue varie possibili ed impossibili identità.
Perché in queste pagine così ricche di uno sguardo attento e dettagliato, incontriamo il veterano-da-poco-pensionato Polikarp Feofanovic, il facchino Ionel Pislari, il difensore di Stalingrado Aleksej Petrovic, che se ne va in giro con le medaglie appuntate al petto, e tante altre persone che ogni giorno fanno i conti con se stessi e con una società in cui si riconoscono sempre di meno.
Il loro è il vivere in una bugia di stato, in una messa in scena che Brežnev (a capo dell’URSS dal 1964 al 1982) accuratamente alimenta e idealizza.
Grazie anche agli scrittori del popolo, megafoni sordi che questa bugia l’amplificano, la rendono convincente, la portano in ogni dove. Complici di un degrado sociale e di una presa in giro che non ha eguali.
La scrittura di Ciocan è acuta, necessaria e coinvolgente, sa portare il lettore nel vivo di ogni accadimento, svelando i lati più umani, e quelli più terribili, di una semplice umanità che si è trovata stritolata all’interno di un meccanismo ideologico che non ha avuto pietà. Ma che non è stato capace di trovare una propria salvezza, una possibile via d’uscita o di trasformazione.
“Prima che Brežnev morisse” cammina in questa realtà, dove il lavoro – quando c’è – non regala alcuna soddisfazione, ognuno è solo un’ombra di ciò che era e poteva diventare, l’alcool è l’amico più fidato, invidie e recriminazioni sono il linguaggio in cui incontrarsi.
Tutto questo diventa così anche un passato con cui fare i conti, da affrontare per poter nuovamente definirsi e capirsi. È lo stesso Ciocan ha spiegarlo, quando scrive “Non sono affatto capace di esorcizzare i miei fantasmi. È per questa ragione che li frequento, dominando a malapena il disagio, e nel momento di scrivere li lascio parlare. Credo che solo in questo modo sia possibile accettare e comprendere il passato”.
Un passato che si riconosce però anche nell’eco della contemporaneità.
Perché è di questi giorni la preoccupazione che si respira in Moldavia, nata da una frangia di moldavi filorussi, che stanno cercando di destabilizzare l’ordine pubblico, e di appoggiare il Cremlino creando nella società moldava ulteriore caos.
Leggere “Prima che Brežnev morisse” e la narrativa di Iulian Ciocan è un ottimo esercizio per frequentare la Storia al passato e portarla, nelle sue rappresentazioni più significative, nel nostro tempo presente.
Dal libro:
“Lo scrittore G.M.: Ognuno si prende cura del benessere altrui e tutti hanno a cuore il benessere del singolo. È mai esistito al mondo un Paese simile? Mai! Venne a malapena intravisto nei sogni dei sapienti del passato.”
“Un’unica certezza, nonostante tutto, li aiutava a eludere le insidie della disperazione. Al mondo c’erano persone più sfortunate di loro, famiglie che abitavano in camere di dodici metri quadrati, in alloggi che puzzavano di boršč, la tipica minestra a base di barbabietola, e urina, genitori che avevano visto morire i figli in un incidente, uomini soli e miserabili.”
“Iulian si annoiava. Aveva già esaminato fino alla nausea la mappa politica del mondo, constatando ancora una volta che i territori controllati dagli imperialisti risultavano più vasti, almeno per il momento, dell’Unione Sovietica.”
“Ma almeno la domenica voleva rilassarsi, dimenticare la cautela e la paura di dire qualcosa di sconveniente.”
“Gli appassionati agricoltori moldavi lavoravano notte e giorno per raggiungere gli obiettivi del nuovo piano quinquennale prima del termine stabilito. Uno scrittore del popolo aveva fatto visita all’allevamento di vacche nella fattoria di Tirşiţei. Il giornalista spiegava come la letteratura rafforzasse i legami con la vita del popolo e riflettesse in modo veritiero la realtà del socialismo, grazie ad un’elevata ispirazione e alla maestria artistica.”
“Sta accadendo qualcosa di preoccupante ai nostri giovani. Sono pigri, impertinenti e privi di ideali. Sa che tutti gli adolescenti ascoltano musica occidentale? Quanti leggono ancora Marx e Lenin nel loro tempo libero? Ai giorni nostri si finiva in galera per un comportamento del genere! Pensi a cosa succederà se il nostro Paese verrà governato da questa gioventù sbandata!”
Intervista a Iulian Ciocan:
In tutto il suo libro i protagonisti sono semplici persone del popolo, le esistenze più difficili e fragili. Con la fine dell’Urss, e con l’indipendenza della Moldavia, per loro cosa è cambiato?
Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 fu un evento che nessun homo sovieticus avrebbero mai immaginato ai tempi di Breznev, sebbene già allora i quotidiani sovietici mostrassero indizi sufficienti dell’imminente disintegrazione.
Nel romanzo “Prima che Brežnev morisse” ho cercato di riesaminare proprio quei segni di decadenza che preannunciavano il successivo crollo dell’Impero sovietico.
Il protagonista del romanzo, il pioniere Iulian, si diverte a lanciare dal balcone pomodori in testa ai veterani dell’esercito sovietico. Ebbene, ai tempi di Stalin, sarebbe stato improbabile.
Certo, la Repubblica di Moldavia apparsa nel 1991 non è più l’Unione Sovietica ma, per molti versi, è un’estensione naturale dell’URSS, è un’emanazione dell’Unione Sovietica.
Se non ci fosse stata l’invasione sovietica del 1940, se i russi non avessero occupato la Bessarabia romena dopo la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, oggi non ci sarebbe stata la Repubblica di Moldavia.
Cosa è cambiato per i moldavi sovietici dopo il 1991? Allo stesso tempo molto e poco.
Sì, il controllo totale da parte del Cremlino è svanito, ma il Cremlino ha alimentato lo scoppio di una guerra sulle rive del Dniester e la creazione della regione separatista della Transnistria.
Per anni una buona parte della classe politica moldava è stata obbediente a Mosca, e ha sabotato le riforme che avrebbero dovuto avvicinarci all’Unione Europea. Tuttavia, è altrettanto vero che molti occidentali vedevano, e vedono tuttora, lo spazio post-sovietico come un’area di influenza da parte di Mosca, come un territorio che deve essere alla mercé del Cremlino.
La Repubblica di Moldavia è attualmente uno dei paesi più poveri d’Europa, e la nostra povertà è anche causata dal fatto che siamo stati guidati fin dall’inizio da alcuni ex comunisti, che hanno pensato solamente alle proprie tasche. La corruzione, che è probabilmente il più grande vizio della Moldavia, ha le sue radici nel passato sovietico. Il furto era di casa nei collettivi agricoli e nelle fabbriche sovietiche.
Anche l’abitudine, di molti moldavi di oggi, di chiedere sempre aiuti allo Stato e la loro incapacità di cavarsela nell’economia di mercato sono handicap originati dall’URSS.
E adesso, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Moldavia è in grave pericolo. Pensavamo di esserci allontanati dal Cremlino, ma ora il Cremlino è molto vicino.
Cosa ha significato quindi, per ognuno di loro, vivere la propria vita all’interno di una bugia di partito, che ha inventato un mondo che non coincideva minimamente con la realtà?
Vivere in una bugia, in una finta realtà è qualcosa di molto serio. È qualcosa che ti mutila l’anima, reprime i tuoi desideri naturali, ti rende più ipocrita o più stupido.
Alcuni di noi nel 1980 hanno sì creduto che l’Unione Sovietica sarebbe crollata. Sembrava eterna. E quando è crollata, quando il capitalismo selvaggio ci ha travolto, qualcuno semplicemente non ha saputo come sopravvivere. Invece di lottare, cercando delle soluzioni, si è fatto ricorso alla furbizia e al fare danno altrui; oppure si è voluto ritornare nella gabbia sovietica.
Nel libro ci sono diversi interventi dei cosiddetti scrittori del popolo. In verità omologati e asserviti al regime sovietico. Che pensiero ne ha oggi, del loro operato letterario e politico?
Li compatisco. Sono dei perdenti. Di loro non è rimasto praticamente nulla. Erano dei pupazzi. Allo stesso tempo, sono disgustato da questi cosiddetti scrittori del popolo. Ci hanno inculcato nella testa la menzogna sovietica, ci hanno disumanizzato proprio come ha fatto la nomenclatura del partito.
È curioso di come alcuni di questi scrittori siano riusciti a trasformarsi, dopo il 1991, in promotori dei valori e della libertà della Romania. E, paradossalmente, molti moldavi hanno dimenticato che proprio questi scrittori hanno aiutato e promosso la propaganda sovietica.
Nella vita di ogni giorno, adesso in Moldavia, cosa è rimasto dell’impero sovietico? E come lo si vive?
La mentalità sovietica è rimasta. È decisamente un qualcosa di più serio dell’architettura e degli angusti condomini dell’era Krusciov. C’è ancora chi vuole ritornare all’URSS.
Ora, dopo il 24 febbraio 2022, ci sono anche persone che vogliono che arrivino i carri armati di Putin. Ma perché dovremmo stupirci di questo, se anche in Occidente ci sono fan di Putin?
Nelle pagine di “Prima che Brežnev morisse”, si avverte una completa differenza fra la vita e le possibilità dello stare in città e il vivere in provincia. È ancora così? O in che modo si è trasformata questa differenza?
Questa distinzione tra città e villaggio si è mantenuta nel tempo. A Chişinău ora ci sono condomini simili a quelli occidentali, con tutti servizi ed utilità. Ma abbiamo ancora villaggi senza acquedotto, senza gas.
Sì, chi sta in provincia ora ha il telefono cellulare, ma è difficile trovare un lavoro, e ti devi spostare in città o andare in Italia. E in Italia sono arrivati migliaia di moldavi, che si sono adattati facilmente, per via della somiglianza tra la lingua italiana e quella romena.
Adesso lei scrive in rumeno, dopo che il russo è stata la lingua del suo narrare. Cosa significa questo per lei?
La lingua è solo uno strumento. Di sicuro potrei scrivere romanzi in russo, ma è meglio lo scrivere nella propria lingua.
Il rumeno è una lingua molto bella, e lascia allo scrittore molto spazio di manovra, in termini di stile e di aspetto espressivo.
La buona conoscenza della lingua russa è uno dei pochi vantaggi che mi ha offerto l’URSS. Mi piace parlare russo, ma non voglio che il mondo russo di Putin mi venga addosso.
Cerco di vedere le cose dall’alto. Sono uno scrittore rumeno, post-sovietico, e in qualche modo mi interessa la mia esperienza di ex cittadino sovietico.
Recentemente sono stato intervistato da un giornalista francese, e gli ho raccontato di come dall’esterno, in effetti, il tempo post-sovietico viene percepito solo attraverso gli scrittori russi – che si parli di Ludmila Ulitskaia o di Evgheni Vodolazkin.
Gli ho detto che in questo modo non si potrà mai capire cosa è successo in questo tempo post-sovietico. Ulitskaia non ha idea di cosa sia successo in questa periferia latina dell’ex Unione Sovietica. E neanche Vodolazkin.
Per capirlo davvero bisogna guardarlo e vederlo da prospettive diverse, non solo dalla prospettiva degli scrittori russi.
In alcune interviste lei si è detto molto preoccupato per la Moldavia, di come Putin stia affrontando la guerra in Ucraina, e di come il suo paese potrebbe correre il rischio di essere forzatamente annesso alla Russia. Da cosa nasce questo suo timore?
Mi piacciono le distopie. E penso che non si possa parlare di maturità di una certa letteratura se in essa c’è assenza di distopie.
D’altronde da noi c’è questa paura, i vecchi a volte mi dicevano “signore, potrebbero venire i russi“. E può essere. È successo nel 1812, è successo nel 1940.
Quindi penso che potrebbe ripetersi – in una forma diversa, ovviamente – e perché non ipotizzare una possibile distopia proprio su questo tema?
Ho avuto davvero questa convinzione, che i russi potessero giungere. E ho scritto nel 2015 il romanzo “E al mattino i russi arriveranno”, che uscirà ad aprile in lingua francese, a Parigi.
Ho iniziato a scriverlo prima che la Russia annettesse la Crimea. Penso che se i russi dovessero conquistare Odessa, verranno anche da noi, è a due passi da Chişinău.
Gli ucraini, almeno, hanno un esercito, hanno una difesa antiaerea, noi non abbiamo niente. Non so se qualcuno poi verrà ad aiutarci – penso alla NATO, alla Romania. Sì, il primo pensiero va alla Romania. Se ci fosse bisogno la Romania dovrebbe aiutarci. Sarà in grado?
L’autore:
Iulian Ciocan è scrittore e giornalista. Nato nel 1968 a Chişinău (Repubblica di Moldavia), è uno degli autori moldavi contemporanei più tradotti.
Parallelamente alla sua attività di scrittore, si occupa di giornalismo e critica letteraria. Collabora inoltre alla programmazione culturale di Radio Europa Libera nella sede di Chişinău.
È autore di una “trilogia moldava” inaugurata nel 2007 dal romanzo “Prima che Brežnev morisse” – tradotto in ceco, inglese e serbo.
Ciocan è stato ospite del PEN World Voices Festival di New York e della European Literature Night di Amsterdam.
(Iulian Ciocan “Prima che Brežnev morisse” pp. 134, 17 euro, Bottega errante Edizioni 2022)
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Il segno come parola
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Voce d’autore ——————————–
Non aspetti l’incastro, hai una scala stellare
Valerio Cuccaroni, “Lucida tela”
di Giovanni Fierro
È un laboratorio aperto e in continua evoluzione lo scrivere poesia di Valerio Cuccaroni. E questo suo libro d’esordio, “Lucida tela”, mette in evidenza ogni sua peculiarità e dinamica.
La sua è una scrittura che non rinuncia a mostrare il suo lato più sorprendente, pur rimanendo in radice ad ogni possibile necessità di espressione.
Ad iniziare dalla prima sezione, quella “Cartomanzia” che contiene invenzione e sorpresa, che ci ricorda che “Per diventare un cosmonauta/ non serve un nuovo allunaggio/ basta una maschera subacquea/ già calzata a occhi aperti sulla faccia”.
Ecco, le coordinate di “Lucida tela” non sono punti fissi, ma inchiostro in insistente movimento. Che permette una maggiore presenza di ossigeno, tanto indispensabile quanto capace di far girare la testa: “Ci rigireremo come le mele/ abbracciati a pezzettini/ sempre più minuti/ fino a scioglierci/ in questo amoroso frappè:/ io con te tu con me”.
E anche il semplice andare in bicicletta si trasforma in un qualcosa di inaspettato e speciale, perché “Non tocchi terra con i piedi/ mentre tu cammini in aria/ ma vai sospeso sui pedali/ in volata immaginaria”. A volte c’è bisogno anche di un semplice cambio di prospettiva.
Ancor di più Valerio Cuccaroni si immerge nelle possibilità di scardinare l’ordinario, quando in “Psichedelia” – la seconda sezione del libro – va ad esplorare il gioco collettivo surrealista cadavre exquis, realizzato per la prima volta a Parigi nel 1925 (si fa con più partecipanti, scrivendo un verso ciascuno, gli uni all’oscuro dei versi degli altri) e lo mette in pratica con i carcerati di Ascoli Piceno e durante il simposio poetico con Nanni Balestrini, organizzato al poesia festival La Punta della Lingua.
In queste due occasioni, questa sua scrittura trova passaggi capaci di sottolineare desideri e accensioni, quando si scopre che “La rivoluzione è organizzazione/ correva veloce senza spinta/ le mani, le gambe, la pancia la rima/ non fermare il caos, libera l’entropia e cogli la poesia”.
In questo tourbillon di sensazioni, visioni e fughe in avanti, Valerio Cuccaroni sa anche quando è il momento di fermarsi, a trovare la fine dello slancio, la formula che contiene il tutto, il passo indietro che riporta alla partenza. Ed è un attimo a far sì che questo sia un momento di “Disincanti” (terza sezione del libro), quando “Mangiare la banana ti ricorda/ di essere una scimmia in maschera/ ma mentre mastichi l’angoscia/ dubiti della reale discendenza”.
Ma “Lucida tela” prosegue comunque, in questo continuo esplorare – Il mondo? Lo sconosciuto? La realtà irrealtà? Tutto qui è un interrotto domandare – ed anche i “Riflessi” (quarta sezione del libro) sono occasione di riflessione e spinta autoriale. “Nello spettacolo d’autunno gli alberi/ indossano parrucche da pagliacci/ rosse e gialle per l’applauso delle ali/ in volo verso un’altra estate” e “dalle fonti fino alle bocche/ scorri nelle dita e negli occhi/ e nelle nubi celi i tuoi ritratti”. Con nonchalance Cuccaroni fa saltare ogni certezza, ne taglia la verità fino al midollo (Raymond Carver ne sarebbe proprio molto contento) anche solo per vedere con curiosità cosa rimane, o cosa emerge dal buio più profondo di ogni esistenza.
Ma l’andare di “Lucida tela” non finisce qui, perché in conclusione di libro l’autore ci fa salire sulla giostra poetica finale. Ovvero le sue “Covers”: la riscrittura in dialetto agontano della poesia “La ricamatrice” di Giorgio Caproni, la sua traduzione di “Bohémiens en voyage” (“Zingari in viaggio”) di Charles Baudelaire, e la riscrittura di “Dedica”, firmata da Tito Lucrezio Caro, “De rerum natura”.
“Lucida tela” è questo e molto altro, è creatura sensibile e irrequieta, è occasione di confronto se si vuol delineare le traiettorie possibili della poesia italiana contemporanea. E Valerio Cuccaroni in tutto questo ci ha messo la propria firma.
Dal libro:
All’alba il sole non si leva,
non sorge: l’orizzonte
è il bordo di una carta
che scivola sull’altra.
In un poker cosmico
o una briscola terrestre
la terra ogni mattina
scivola sul cielo
e il segno atteso appare
non cuori non quadri
non fiori non picche
ma la fonte di tutti i colori.
Non ti lasci giocare
da quell’unico astro,
non aspetti l’incastro,
hai una scala stellare.
*
Street Rave Parade
Teste ciondolanti, orecchie tese
alle enormi casse dei camion-navi
su cui troneggia in un tripudio
di pirati il dio dell’ebbrezza.
– Anfetamine? –
mentre ti avvicini
ai meccanici velieri
nei viali eleusini.
Poi torni ai margini
con spazzini e guardie
ma non punisci, né
pulisci. Disincanti.
*
Psyco Haiku
A Natalia Paci
Li chiamano matti, li imbottiscono
di psicofarmaci, li imbavagliano,
li ingabbiano come criminali
in finte case familiari, in reparti
ospedalieri, in recinti
da cui non si deve fuggire.
Perché arrossisci? Perché non capisci
dove hanno sbagliato, qual è e se c’è
un ingranaggio rotto? Io guardo
l’orologio a muro, tu forse pensi
al loro cervello, alla carica
che con tre versi vorresti ridargli
*
Guardi le buste piene di provviste:
comoda la vita del consumatore
prendere prede dal congelatore.
*
L’umanità è natura che si pensa
nella lotta per la sopravvivenza.
*
Prendi un diapason per accordarti
con la musica celeste, su note,
scritte dall’ellittico Keplero
più gravi all’altezza dell’afelio
e più acute nel minimo perielio.
Intervista a Valerio Cuccaroni:
La prima impressione, a lettura di “Lucida tela” completata, è che ci sia in ogni sua pagina la volontà, e la necessità, di proporre uno sguardo diverso da usare sul nostro presente. È così?
Nel corso dell’elaborazione ventennale di questo libretto, a un certo punto avevo aggiunto alle poesie una serie di prose aforismatiche. In una di esse scrivevo: “Spólverino le cose: le ripuliscano dai loro nomi polverosi. La sedia non è una sedia, ma un residuo di bosco nella stanza. Si lucidino le pupille e si preparino a strabiliarsi a ogni battito di ciglia”.
Quindi è così, in effetti: è necessario uno “sguardo diverso”, ma è uno sguardo comune a tutti, perché in tutti “è dentro noi un fanciullino”, come affermava Pascoli, e “senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente”.
Quando vivevo a Bologna, all’inizio del Duemila, andavo a casa di Andrea Marcellino, un amico filosofo, a notte fonda, dopo le riunioni della nostra rivista Argo (www.argonline.it). Li chiamavamo “aperitivi notturni”: si beveva, si ascoltava musica elettronica, ci si abbandonava a riti sciamanici.
Che la sedia non fosse una sedia ci apparve chiaro una di quelle sere, quando, guardando i muri e i mobili della stanza, ci rendemmo conto che noi sapiens ancora viviamo in caverne, sebbene di cemento armato, e ancora ci serviamo di alberi, sebbene ridotti a mobili, per le nostre necessità, come i nostri parenti ominidi. Eravamo stupiti, come il fanciullino di Pascoli, ma il nostro stupore era misto a un‘amara consapevolezza, uno stupore malinconico: ci sentivamo strabiliati.
Il verbo strabiliare, in effetti, ha un’etimologia incerta: forse è derivato dall’incrocio di stra- e visibilio, ma non è da escludere che derivi da bile, l’umore il cui eccesso, nella variante nera (atra-bile), era all’origine della malinconia (dal greco melancolia, “melas”, nero, e “cole”, bile), secondo gli antichi.
Durante quegli aperitivi notturni fondammo una nuova avanguardia, sconosciuta a tutti tranne che a noi: la strabiliatura.
Negli anni a seguire, non ho mai smesso di pensare a quelle intuizioni, ma affinché prendessero la forma cristallina della poesia ci è voluto un tempo che direi, rispetto a quelli della nostra epoca, geologico.
Ed è uno sguardo che, mi sembra, porta la propria attenzione verso chi sta ai margini della nostra società. Penso ai malati psichici raccontati in “Psycho Haiku”, i carcerati di Ascoli Piceno autori di “Cadavere squisito in carcere”, o anche al testo “Street Rave Parade”. Ecco, cosa succede ai margini della nostra società ufficiale? E perché raccontarlo?
I margini sono il luogo su cui si muove l’umanità che ha perduto o non ha mai posseduto la maschera, la nuda materia. Quando si entra in carcere, si è di fronte al processo originario che conduce all’umanizzazione: l’addomesticamento. Le sbarre dietro cui chiudiamo chi ha violato le leggi della società sono analoghe a quelle dietro alle quali chiudiamo gli animali. I lacci con cui i pazienti vengono legati al letto, nei reparti psichiatrici, sono analoghi ai lacci che legano i cani alla cuccia.
Siamo animali sociali che possono vivere insieme solo se si tengono a bada e fingono di non essere animali. I carcerati, i pazzi sono animali che non fingono o fingono lo stretto indispensabile, sono la materia nel suo stadio primigenio, dominato dall’istinto e dal sentimento.
In quanto scarti della società sono lo specchio su cui la società si riflette: chiariscono che è necessario addomesticarsi, indossare delle maschere sociali, applicarsi da soli dei lacci psicologici, chiudersi da soli dietro sbarre mentali perché non siano altri ad addomesticarci, a imporci delle maschere (la maschera del carcerato, la maschera del pazzo, la maschera del tossico), a legarci e a rinchiuderci dietro sbarre di ferro.
Chi abbandona detenuti, pazienti psichiatrici, tossici al proprio destino cerca di dimenticare il lato bestiale della propria umanità, si illude di non essere un potenziale criminale, un pazzo che si crede saggio, un drogato di caffeina, nicotina, alcool. Stare vicino a detenuti e pazienti psichiatrici, lottare perché non siano discrimanati, renderli partecipi e farli partecipare al gioco sociale è un modo per esercitare un impegno civico che ritengo necessario per raggiungere la felicità materiale collettiva.
“Lucida tela” è anche un continuo laboratorio di scrittura, di poesia intesa come condivisione (le scritture multiple dei due “cadaveri squisiti”…). Cosa muove questo suo interessamento a questa dimensione della poesia?
Mi sono formato studiando letteratura a Bologna, dove insegnò Luciano Anceschi, il mallevadore del Gruppo 63, della neoavanguardia, il fondatore della rivista il verri, a cui ha collaborato il professor Guido Guglielmi, con cui mi sono laureato e ho iniziato il dottorato. Guglielmi e la sua allieva, Niva Lorenzini, mi hanno aiutato a comprendere il linguaggio e gli obiettivi delle avanguardie storiche e della neoavanguardia. Inoltre, a Bologna ho conosciuto il collettivo di scrittori Luther Blissett, poi ribattezzatosi Wu Ming, leggendo la rivista Quaderni rossi di Luther Blissett, che compravo alla libreria Grafton 9, il romanzo Q e gli altri, infine collaborando in particolare con uno di loro, Wu Ming 2, che ho coinvolto sia nelle esplorazioni di Argo sia in altre attività.
Infine, a Parigi, dove ho vissuto per due anni, ho potuto leggere in lingua le opere di André Breton, che nel 1925 inventò con gli altri surrealisti il gioco del cadavere squisito.
Io ritengo che il lavoro debba essere collettivo perché l’intelligenza è collettiva, il sapere è collettivo, così come lo è il bene, ciò che a me, a te, a noi fa stare bene e ciò che contribuisce al bene dell’umanità.
Per molti anni, dalle medie alla fine delle superiori, ho disegnato. Era più che altro un divertimento: con il mio migliore amico, alle medie, a fine anni Ottanta, quando iniziò il dominio dei brand, disegnammo un fumetto, I cavalieri delle firme, che era ispirato alla serie televisiva anime giapponese I cavalieri dello Zodiaco.
Ho continuato alle superiori, disegnando un fumetto, ispirato ai supereroi Marvel e ai miei compagni di liceo, intitolato Scientific Men, ma, per quanto condividessi i disegni con il mio amico, era un lavoro solitario e io ho sofferto a lungo di solitudine. Ecco, le opere letterarie collettive sono anche state un modo per lenire quella solitudine sofferta.
Nei testi di “Covers” – traduzioni e riscritture di testi di altri autori – viene sottolineata la necessità di una continua trasformazione della parola, il suo desiderio di trovare sempre nuovi abiti ai propri significati. Mi viene da dire per stare meglio dentro al tempo di adesso, per essere più aderenti al nostro presente. Mi sbaglio?
La traduzione è un esercizio indispensabile per chi scrive. Trovare le parole che possano tradurre nella lingua madre i capolavori della letteratura che hanno formato il nostro immaginario è un modo per confrontarci con i nostri limiti e cercare di superarli. Pensare in un’altra lingua trasforma la mente, la fa pensare in un altro modo.
Le quattro lingue che ho più praticato sono state la lingua del popolo, il dialetto anconetano; la lingua nazionale, l’italiano; una lingua morta, il latino, e, come lingua straniera, oltre a un rudimentale inglese, il francese, perciò mi è sembrato giusto inserire tre esercizi di traduzione dal latino, dal francese e dall’italiano al dialetto.
In particolare, tradurre Lucrezio mi ha permesso di trovare il titolo del libro, un titolo che salvasse altri titoli i quali, per una ragione o per l’altra, non avevano retto alla prova del tempo né alla mia incapacità di trovare un editore.
A lungo avrei voluto adottare un nome d’arte, Valerio Lucidi o soltanto Lucidi, che è il mio cognome materno. Era un modo non solo per ripudiare l’identità patriarcale e per rendere omaggio a mia madre, che ha contribuito, insieme alla mia amica scrittrice Maria Grazia Maiorino, alla mia formazione sentimentale. Era anche un modo per non smascherarmi.
Ho iniziato a dubitare del nome de plume quando Gabriele Frasca mi ha spronato a “metterci la faccia” e a pubblicare le poesie con il mio nome anagrafico, perché in alcune di esse, come “Il gioco del pasto”, a suo avviso, prendevo una posizione netta ed era giusto che si sapesse chi fosse a prenderla. Ho potuto rinunciare, però, con convinzione, solo quando ho trovato il verso di Lucrezio in cui parla dei dardi lucenti, i “lucida tela”.
In effetti, “Lucida tela” si fa notare anche per una aperta critica sul mondo della poesia, dei poeti che la vivono, in particolare proprio nella poesia “Il gioco del pasto2. Cosa, e come, si salva di questa nostra società poetica, guardandola come autore, come giornalista e come organizzatore del festival “La Punta della Lingua”?
Nella società poetica si salva quello che si è sempre salvato, dai tempi di Orazio fino a Dante, a Montale, a poeti del Mulino di Bazzano, a Patrizia Vicinelli e alle poetesse che hanno costituito con lei un sodalizio. A lungo ho pensato che il problema della poesia italiana fosse legato a una scarsa propensione del nostro popolo a leggere, alla nostra decadenza culturale, alla convinzione di gran parte dei poeti e dei lettori che la poesia sia solo quella lirica. Vedevo la questione da critico letterario, da giornalista culturale, da organizzatore di festival.
Per una ventina di anni ho pensato che il mio ruolo fosse quello; continuavo a scrivere poesie, ma il massimo che mi sarei concesso era di pubblicare con uno pseudonimo, perché le mie due identità restassero separate. C’erano fin troppi poeti che facevano i critici in modo ambiguo: recensivano chi li avrebbe recensiti. Volevo mantenere un distacco che ritenevo necessario per essere neutrale.
Quando finalmente mi sono deciso, grazie soprattutto a Geraldina Colotti, a pubblicare le mie poesie, ho potuto finalmente vedere la questione anche dal punto di vista dell‘autore: dice Orazio, nella decima ode del primo libro, che mentre altri scrivono tronfi poemi, lui compone i suoi canti, non destinati a risuonare nel tempio per le gare, né ad esser più e più volte applauditi nei teatri, a lui basta che ad approvare le sue poesie siano Vario, Mecenate, Virgilio e pochi altri amici poeti.
Ecco, da autore ho scoperto che la società poetica è composta da poche persone che si stimano, come sosteneva Orazio. Poi c’è la generica società letteraria e per ogni genere le varie sottosocietà, che sono dominate dalle stesse logiche di ogni comunità competitiva umana.
L’autore:
Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con Le Monde Diplomatique – il manifesto, Poesia, Il Resto del Carlino e Prisma. Economia società lavoro.
È direttore editoriale di Argolibri e direttore artistico del poesia festival La Punta della Lingua.
Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e di Guido Guglielmi “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016).
Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine.
“Lucida tela” è il suo primo libro di poesia.
(Valerio Cuccaroni “Lucida tela” pp. 50, 15 euro, transeuropa 2022)
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Il segno come parola
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Margini. Di poesia ed altro —————————–
Il canto ferito della barena
Fernando Marchiori, “Alburno”
di Roberto Lamantea
Il paesaggio è l’infanzia. È il teatro delle nostre prime fughe nello spazio che ci circonda, la scoperta della prospettiva, la geometria delle lontananze, i colori e il respiro, la terra e il cielo, la prossimità degli altri nella città o nel paese, la natura con i suoi inviti alla bellezza. È la paura e nello stesso tempo il fascino magico dell’ignoto. Il paesaggio è la nostra storia.
Così quando il paesaggio viene violato, avvelenato, deformato è l’infanzia ad essere ferita. La scoperta e lo sguardo sullo spazio intorno, dalla culla alla casa al paesaggio, ci segna per sempre. Quando l’adulto percorre ancora quel paesaggio, ma la pianura è bucata e ingrigita da cemento e asfalto, il bosco è stato tagliato, la barena è inghiottita dal veleno, è l’infanzia ad essere ferita. Il nostro essere stati bambini si allontana non nel tempo ma nell’immaginario, il paesaggio-amnio, il paesaggio-culla, è una fiaba lontana, irraggiungibile anche quando quella collina è ancora lì, qualche albero sopravvive, l’acqua non è più la misteriosa e scura trasparenza verde dove guizzano i pesci ma una chiazza grigia e morta.
In letteratura il paesaggio diventa canto ferito, i nomi degli alberi, gli anelli del legno, canne, arbusti, i nomi delle folaghe, parole come “ghebi”, “velme”, “salicornia”, “anguane”, dalla lingua-dialetto passano al museo del vocabolario. Quanti giovani veneziani usano ancora queste parole per nominare – battezzare – il paesaggio che dalla terraferma da Mira verso Marghera si affaccia su Venezia?
È significativo che il Veneto abbia una tradizione letteraria che parla di questo, da Zanzotto e Meneghello al canto ferito di Francesco Targhetta, la mutazione dei luoghi in anonime “località” tutte uguali nel romanzo “Era primavera d’amaranto” di Valentina Pasquon, lo sguardo limpido e i versi di cristallo, il canto dei dialetti, di Luciano Cecchinel, Renzo Franzin, Pier Franco Uliana, e si potrebbe continuare.
Lunga premessa per accogliere un piccolo bellissimo libro, “Alburno” di Fernando Marchiori, pubblicato da Il Ponte del Sale di Marco Munaro di Rovigo.
La mutazione del paesaggio è mutazione dello sguardo, innamorato e ferito: “[…] appena saliti in macchina, i finestrini aperti/ sullo stupore verdolino del cielo,/ sul gioco di nuvole gialle delle ciminiere,/ nel sentore aranciato dell’acetilene,/ sopra gli orti abbandonati,/ sopra le ultime sparagiaie rinsecchite,/ sopra il deserto delle montagne rosse”.
Le “montagne rosse” sono le migliaia di tonnellate di ceneri di pirite e altri residui tossici del Petrolchimico di Porto Marghera scaricate illegalmente lungo la gronda lagunare e trasformate dai ragazzi in piste da motocross.
Eccolo oggi l’ex incantato paesaggio dell’infanzia: “[…] sotto nuvole basse come vele/ ammainate in fretta, gonfie/ di veleni e di lamenti,/ di presenze inquiete, di presentimenti,/ solo l’incanto arrugginito dei pozzi,/ delle reti, delle fiocine sdentate/ contro una balena spiaggiate nel cielo,/ bianca di convulsioni, striata di lividi”. Il paesaggio era la scrittura, una scuola dello sguardo, la grammatica del vedere: “Vivevamo di paesaggio e il paesaggio/ era la scrittura dello sguardo”; “[…] abbiamo intinto il pennino nel verde/ e fatto scorrere la scrittura/ come una carezza al mondo,/ un graffio sulla creta”.
Scrive Fabio Pusterla nella postfazione: “E se naturalmente, ragionando sulla triangolazione io/paesaggio/scrittura subito si pensa al grande magistero di Zanzotto, si potrà anche ricordare, come anello di congiunzione sempre d’area veneta, il “Discorso ai bambini della pianura” di Fernando Bandini. E tuttavia, proprio come in Zanzotto, nella poesia di Fernando Marchiori non è esattamente questione di elegia, di nostalgia e di idillio […] Oggi, la partita di vita e scrittura si gioca tutta invece “tra i fanghi del petrolchimico” e le oscene montagne rosse fatte di scorie tossiche […] Ma è proprio qui, in questa nuova realtà senza “nessuna grazia del luogo e dell’ora”, che l’io e il suo non più verde pennino, sostituito da tastiera e schermo, deve trovare le ragioni dell’essere e quelle della parola”.
Il paesaggio rivive nei germogli della scrittura, come il pioppo “tutto spampanato/ ma ancora flessuoso cresciuto/ chissà come al bordo del foglio, tra le righe/ trattiene parole di secoli. […] Albero rimasto lì da solo,/ muto, sperduto,/ senza il bosco della lingua,/ morte le fibre del linguaggio,/ senza paesaggio, senza sguardo”.
La scrittura di Fernando Marchiori, raffinatissima, colta e popolare nei lemmi, dà a questo piccolo libro la forza desolata e innamorata di un addio rinviato.
Il libro è diventato anche uno spettacolo, con Alvise Camozzi, musiche originali eseguite dal vivo da Giovanni Dell’Olivo, andato in scena il 9 luglio 2022 a Piove di Sacco per il festival “Scene di paglia. Festival dei casoni e delle acque” di cui Fernando Marchiori è direttore artistico.
Dal libro:
Barena salicornia
durame cineraria
alburno dulcamara.
Vi porto dentro, vi ripeto
come parole di una lingua morta,
ascolto risuonare in me la vostra assenza,
la voce di un paesaggio cancellato.
Cerco di stare, dicendovi, ancora
un poco sui segni della cancellatura,
sulla punta estrema della natura.
Limonio tamerice
gramigna sanpierota
dulcedo gracilaria.
Ritrovo incise sulla corteccia
dell’anima le voci paludose,
il sapore materno della resina,
l’amarognolo dei carletti e dei bruscandoli,
l’erba beségola che sfrigola sulla lingua,
l’intrico di radici dello sparto,
e il verso magro del fagiano,
lo sguardo del germano, il tuffo
improvviso di un martinpescatore.
Riesco ancora a sentire di essere
venuto da lì, oltre il ponte dei lièvori,
di essere stato battezzato in un secchio
di quelle acque, svezzato su quelle rive,
lasciato sgambettare lungo un’alzaia
che assecondava le curve di un canale
già salmastro sul finire della terraferma,
sul cominciare incerto della barena.
[…]
*
Per noi che abbiamo pianto di rugiada
e riso di grano, che facevamo il sangue
con le bacche di sambuco
e le sigarette con le barbe del granturco,
tutte quelle cose intorno,
le nuvole nel cielo, gli alberi in fiore,
l’acqua del canale erano la forma stessa
della vita che s’agitava in noi.
Vivevamo di paesaggio e il paesaggio
era la scrittura dello sguardo,
e sempre tutte quelle cose intorno
che leggevamo come un testo segreto,
come un testamento che ci conteneva,
ma ci contentava senza volerlo, senza saperlo.
E noi da parte nostra lo leggevamo
senza bisogno di capirlo, ma sempre capiti,
sempre contemplati.
Non dovevamo interporvi interpretazione.
E questo era il nostro modo di fare esperienza,
era stare al mondo, essergli parte riconoscente,
esserci parte riconosciuta.
[…]
L’autore:
Fernando Marchiori è autore di studi che incrociano letteratura e teatro, tra i quali “César Brie e il Teatro de los Andes” (Ubulibri 2003), “Mappa Mondo” (Einaudi 2003), “Il Teatro Vagante di Giuliano Scabia” (Ubulibri 2005), “Beckett & Puppet. Studi e scene tra Samuel Beckett e il teatro di figura” (Titivillus 2007), “Con i poeti” (L’Obliquo 2008), “Megaloop. L’arte scenica di Tam Teatromusica” (Titivillus 2010), “Negli occhi delle bestie. Visioni e movenze animali nel teatro della scrittura” (Carocci 2010), “Media teatro memoria” (Cue Press 2020).
Fra i suoi testi narrativi “Per forza di cose” (Fonèma 1989), il romanzo “Scritto dentro” (Poiesis 2012) e il racconto “Berta è scappata” (con disegni di Franco Hüller, Titivillus 2013).
(Fernando Marchiori “Alburno”, postfazione di Fabio Pusterla, pp. 64, 14 euro, Il Ponte del Sale 2022)
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Verità
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Voce d’autore —————————-
Vorresti farti luce
Alessandro Ramberti, “Enchiridion celeste”
di Giovanni Fierro
Trovare la dimensione del qui ed ora, raccontare il vitale abbandonarsi alla fede, attraverso una spiritualità che si esprime anche nella verità della natura, per poter misurare e mettere in evidenza ciò che di sacro si manifesta in ogni vita.
È ciò che succede nelle pagine di “Enchiridion celeste”, la più recente raccolta poetica di Alessandro Ramberti.
“Ci è chiesto un equilibrio -/ fidiamoci dell’angelo/ il nostro aggancio al dopo”, e il confine dell’esistenza si trasforma in una frontiera dell’appartenenza al tutto; dove in ogni giorno “incorniciare dubbi/ è mettere in tensione/ la tela della vita”.
Ramberti in queste pagine, con assoluta semplicità ed efficacia, costruisce un continuo confronto con se stesso e con il mondo, nutrendo questa ricerca con dubbi e domande, e riuscendo allo stesso tempo a far mettere radice ad ogni certezza: “ci accoglie un firmamento/ di stimoli e sussulti// non sai che la bellezza/ si dispiega-rifulge/ se c’è una dedizione?”.
Con lo svolgersi in due tempi – “Idilli” e “Piccolo manuale per abbracciare il cielo” – il nuovo scrivere dell’autore riesce ad avere anche la freschezza dell’haiku, “la luna sul sentiero/ il rumore dei sassi/ un niente di respiro”, che intarsia il suo fare poesia con la stessa incisività con la quale riesce a trovare forma all’intensità della fede, “con le radici scandagliando il campo/ della memoria il pozzo che conserva/ l’intrico luminoso della vita”.
“Enchiridion celeste” è la possibilità di trovare nuove vie di accesso ad un qualcosa di più profondo ed ampio, un respiro celeste che si manifesta e si svela, però, sia nel corpo dell’autore che nel corpo dell’esistenza stessa: “ecco sento nuove scosse – esplosioni -/ magari ce ne fosse almeno una/ che generasse una crepa anche piccola// perché uno spillo di luce si insinui…”.
La natura qui mostra il proprio vigore, la propria capacità di farsi significato e simbolo, temperatura dello stare al mondo, per riconoscere “cosa ti anima quando/ resinosi cipressi/ sconvolgono i ricordi// portandoti spogliato al/ centro della mancanza”.
Questo libro è un sentiero che porta lontano, un avventurarsi in una mappa che è ancora da definire, una cartografia dell’anima che si disegna passo dopo passo, dove si può riconoscere “le sue isole a volte/ grandi come deserti”, e farti accorgere che “ti estendi laddove il sole attira/ ti fai vecchio anello dopo anello/ maturi da solo o in compagnia”.
Perché “perfino più veloce/ del nostro procedere è il pensare/ l’immaginare mete”.
Dal libro:
Umanità
La nostra pesantezza
i nostri errori sono
il baricentro, il basso
continuo dell’umano
la cassa che dà un timbro
diremmo il dienneà
la silhouette concreta
del lato spirituale
che senza carne evapora.
*
Armanda
Ora che stai svanendo
il sangue senza moto
lo sguardo trasognato
i muscoli sfibrati
sei già il tuo testamento
sulle rughe si posano parole
come passeri poche e rimbalzanti
il cielo è piombo livido
all’imbrunire siamo cassa armonica
per soffi che se ne vanno lontano
come ascende la massima sequoia
portando la sua linfa sulla cima
con le radici scandagliando il campo
della memoria il pozzo che conserva
l’intrico luminoso della vita.
*
Ricomposizione
Facciamo combaciare
il lato seghettato
dovuto alla rottura
di quel pezzo d’argilla
che siamo e non dimentica
com’è negli altri e altrove
che sempre si commette:
siamo le ossa di un cranio
in cui risuona il cosmo.
Intervista ad Alessandro Ramberti:
Quanto la natura è importante in “Enchirion celeste”? Perché il suo è un silenzio che parla molto di più di tante parole… e allora che silenzio è?
Il silenzio è il foglio bianco senza il quale le parole non potrebbero essere scritte. Musicalmente è il non suono che permette alle armonie di dispiegarsi, alle melodie di disporsi ritmicamente, ai nostri orecchi di percepire e congiurare con i suoni.
La natura contiene noi, ciò che ci nutre (in tutti sensi), è la stessa possibilità del nostro essere al mondo. Fornisce lo spazio e il tempo in cui si sviluppa il nostro arco vitale, in cui intessiamo le nostre relazioni, in cui crescono le nostre domande, si lamentano le nostre emozioni e i nostri desideri.
Da sempre la poesia trova negli elementi naturali, piccoli, grandi o immensi che siano, il correlativo oggettivo di sentimenti, trasporti emotivi, sensazioni che sono poi archetipi in cui ciascuno, con il suo timbro, con la sua personalissima impronta, può riconoscersi.
In questo tuo volume i dubbi diventano momenti necessari ed affidabili, per conoscere meglio sé stessi e il mondo. Da cosa nasce questa considerazione?
Dal fatto che siamo fatti per ascoltare. Per riconoscere umilmente che nessuno ha risposte/verità assolute. Risposte e verità sono diffuse in vario modo in ciascuno di noi e vanno in qualche modo trovate/costruite assieme.
Il punto di vista personale è prezioso e insostituibile, ma inerte se resta isolato. La relazione è sempre quindi necessaria, anche per individuarci e valorizzarci in quanto singoli.
In una prospettiva di fede, l’altro non è poi mai disgiunto dall’Altro, da un Dio che ovviamente non possiamo né contenere, né definire ma che si rivela (per i cristiani) nel Figlio dell’Uomo.
Ma il dubbio è sempre bene ci sia. Ci ridimensiona. Ci fa essere appunto disposti all’ascolto, a fare (amorevole) attenzione a chi incontriamo lungo il cammino. Ci spinge ad esporci per quello che siamo, a chiedere aiuto al prossimo e all’Alto, e evitare fanatismi, a divincolarci dalla idolatria di noi stessi.
Tutto questo tuo scrivere mi sembra un continuo intarsio nel corpo della poesia e nel corpo della fede. Ti ci ritrovi in questo?
Bellissima gratificante icastica definizione. Non desidero rovinare queste tue parole aggiungendone altre che sarebbero pleonastiche.
Ecco, il corpo diventa esperienza, luogo e verità. Mi sbaglio?
Non ti sbagli. Senza carne non avremmo storia, né passioni, né tensioni. Il corpo ci permette di spendere i nostri talenti, di sbagliare, di fare gesti che possono rallegrare, rendere bella la vita.
Certo è anche il luogo della prova, il crogiolo con cui veniamo vagliati nella nostra “verità”.
Possiamo anche usarlo per arrecare danno, opprimere, fare del male (che prima o poi si ritorce contro chi lo fa) ma appunto per questo è prezioso perché è il “luogo” in cui possiamo esprimere la nostra libertà, è quel grumo di sangue e di fiato che registra le nostre coerenze e incoerenze, tiene traccia del nostro agire, memorizza nelle ossa, nella pelle, in tutti i suoi organi ogni pulsione, ogni evento.
In che modo il sacro (la vita stessa, il vivere, il mistero dell’esistenza, la fede…) ha trovato spazio e messo radici in “Enchirion celeste”?
Fin da piccolo la dimensione del sacro mi ha affascinato. All’inizio in maniera anche “paurosa” o almeno timorosa. Poi crescendo si impara ad accogliere i propri limiti, ad accettarci per quello che siamo, ad affidarci appunto a Chi si fa vicino in modo particolare a chi va fuori strada e si perde.
Così anche i nostri errori, il nostro insaccarci in labirinti spesso autocostruiti ma pericolosissimi (a volte ci si affeziona al nostro lato oscuro anche se stiamo male, perché è un malessere conosciuto e non siamo certi che uscirne ci faccia stare meglio), i nostri fallimenti… possono essere tappe di una conversione.
La fede è appunto prendere atto che le nostre ferite sono già abbracciate dalla grazia, se lo vogliamo. Questo ovviamente è più facile a dirsi che a farsi, ma l’aiuto, se lo chiediamo, ci arriva, in varie forme.
La tua scrittura si è fatta ancora più definita. Sia per la ricerca delle parole che per la costruzione delle immagini. C’è di sicuro in questi due ambiti una ulteriore messa a fuoco. Cosa ne pensi di questo?
Sono felice che traspaia quanto dici. Avendo ormai raggiunto una certa età, forse anche un processo di affinamento, la scelta di forme chiuse come il settenario che obbligano di per sé a una sintesi di senso e di ritmo, portano a una maggiore e più evocativa essenzialità.
Cosa ti è rimasto dopo aver concluso la scrittura di queste pagine e averle fatte diventare libro?
L’aver riscontrato in diversi lettori dei veri compagni di viaggio, ciascuno ha arricchito di sé le pagine di questo “Enchiridion” facendolo vibrare a suo modo e rivelandomi, tante sfumature, immagini, sapori, che mi erano sfuggite o non avevo proprio notato.
L’autore:
Alessandro Ramberti (Santarcangelo di Romagna, 1960) è laureato in Lingue orientali a Venezia, ha vinto una borsa (1984-85) per l’Università Fudan di Shanghai. Nel 1988 consegue a Los Angeles il Master in Linguistica presso l’UCLA e nel 1993 il dottorato in Linguistica presso l’Università Roma Tre.
Ha pubblicato in prosa “Racconti su un chicco di riso” (Tacchi 1991) e “La simmetria imperfetta” con lo pseudonimo di Johan Thor Johansson (1996).
In poesia, tra i titoli più recenti, “Vecchio e nuovo” (2019), “Faglia” (2020) e “Medèla” (2021).
Con la poesia “Il saio di Francesco” ha vinto il Pennino d’oro al Concorso Enrico Zorzi 2017.
È direttore della casa editrice Fara.
(Alessandro Ramberti “Enchiridion celeste” pp. 53, 7 euro, Fara Editore 2022)
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Verità
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Tempo presente ————————-
A Marcolino-Lajšče
Un racconto inedito
di Luca Buiat
Il piccolo segnale blu posto sulla strada bianca, indicava un’altra possibile meta, ma l’avevo da sempre lasciata dietro alle mie spalle. Uno sguardo sfuggente sulle prime lettere in bianco: MARC… poi il corrispondente nome in lingua slava, come spesso capita in questa area di confine. Ma io ero impassibile e continuavo a correre con le gambe “piene” lungo la valle, le gomme “pelavano” l’asfalto, stavo con lo sguardo fisso lungo la linea del fiume con la natura addosso.
Non riuscendo nemmeno a leggere il nome di quel luogo, me ne dimenticavo in fretta, perché la voglia di correre libero cercando nel cielo alto le zone più aperte, mi facevano fuggire il più possibile lontano da quel bivio posto accanto allo scorrere del fiume.
Nelle mie corse, a volte, compare una stranezza, come una specie di “cosa” invisibile, mi manifesta il desiderio di allargare lo sguardo lungo l’immenso versante candido del monte Krn. Questa montagna si stende sopra i bordi innevati delle Alpi Giulie, facendomi perdere alcuni luoghi ignoti, senza accogliere l’invito celeste di alcuni sentieri che si perdono nelle profondità sognanti di verde persiano.
Il monte Krn è un enorme tempio naturale roccioso, sta adagiato sopra le colline ad una manciata di chilometri dallo Judrio. Guarda tutti quanti con un’aria celebrativa dall’alto dei suoi 2000 metri di altezza, come se fosse una primordiale divinità fatta di rocce nude ed erbe selvatiche. Anche quando è oscurato dalle nuvole, sappiamo che continua ad osservarci, a vedere ciò che facciamo.
La “cosa” mi solletica ancora e mi ricorda che un giorno, gli piacerebbe che lo portassi a raggiungere quel versante cristallino fino alla vetta, per poi filare via come una barca a vela fino in basso, ai piedi della grande montagna bianca, per arrivare fino a Drežnica, uno dei paesi più belli della Slovenia, posto al centro del mondo come una perla in una conchiglia.
Poi arrivò un pomeriggio avanzato di gennaio, il suo respiro mi tirava i brividi, erano aliti compatti, fatti di freddo filo di ferro che mi stringevano la pelle del corpo.
Negli occhi avevo il miraggio di un tè caldo, una bella tazza blu fumante stava sopra ad un paracarro grigio gelido e tagliente di quella riva del bordo della strada turistica di Podresca, la traccia più vicina e selvaggia di questo “mio” infinito nord-est ciclo-meditativo.
Ma era ancora troppo presto per tornare a casa, per tonificarsi, per calarsi in quella bolla vaporosa profumata di spezie indiane.
Ero appena partito e mi trovavo in una località desolata dello Judrio dove gli alberi in inverno si raccolgono dentro i loro corpi spogli trattenendo lungo il midollo tutto ciò che rimane nelle linfe, cercando con le punte delle radici qualche baleno del calore autunnale precipitato nell’abisso della terra, qualche essenza benefica per resistere ancora qualche settimana al martello e all’incudine dell’inverno.
Attorno, radure gelide e deserte, piccoli altopiani dove i fogli di corteccia grigio alba proteggono la vita dei faggi dalla furia della Bora, dal grufo dei cinghiali, dal fragore di affamate motoseghe.
Qui si aprono spazi inattesi perché quando l’inverno ritorna, riduce al minimo le poche ore di luce quotidiana e riesce ad accendere con il suo breve chiarore, profili, forme e gole che in estate si nascondono, soffocate dalla foga vegetale della bella stagione.
Nel gelo i margini del bosco si fanno vedere solamente agli animali, come se fossero orridi allo sguardo umano.
Iniziai ad intravedere il sentiero, lasciai il Ponte Mišček e passai finalmente oltre a quel piccolo segnale dove c’era scritto: Marcolino-Lajšče, il posto si presentava con un accogliente strada forestale, così mi inoltrai in quel bosco fitto e sconosciuto.
A terra si trovavano delle tracce del passaggio di una automobile sopra un singolare fango di colore nero, poi lo sterrato che piano piano saliva sulla collina, in alto un bagliore dorato del sole tramontino incendiava i boschi rivolti verso sud.
Sul bordo sinistro un torrente sconosciuto suonava d’acqua e muschio incandescente, portava le sue dolci melodie ad accompagnare lo Judrio.
Il torrente era un affluente minimo del fiume che scorreva placido sulla pianura vicino a casa nostra a Brazzano. In quel momento sul sentiero c’era un incontro di luci sulla terra che si legavano intrecciandosi al crepuscolo.
Decisi di fermarmi, appoggiando il manubrio a terra, mi dimenticai di spegnere il faro della bici.
Iniziai a guardare quelle pozze di acqua vivissima, sfumature simili che avevo visto lungo l’Isonzo.
Pensai per un momento di andare a cercare le sorgenti di quel torrente ma la notte gelida e nera mi stava affondando dentro il bosco. Il riflesso luminoso del fanale alternava i suoi flash alle oscurità notturne, dove i rami degli alberi danzavano al ritmo della luce intermittente della lampada del manubrio, apparendo e svanendo, apparendo e svanendo come fantasmi bianchi e neri.
Continuai a guardare gli specchi verdissimi che venivano alla luce da piccole cascatelle che scendevano dal monte che ardeva, proprio da dove camminava il sentiero che avevo appena scoperto. Un tronco rotolato tra le due rive stava sospeso sopra la corrente, era divenuto un osservatorio naturale per tutto ciò che stavo guardando. Poco lontano gelide lande silenziose dove un groppo di case abbandonate, si stavano preparando al dolce riposo per l’eternità. I loro muri grattati mi dissero sottovoce di riprendere la bici in mano e tornare a casa, dove non vedevo l’ora di lasciarmi andare in quella bolla di zenzero e cannella, nella pace calda del loro vapore acqueo.
L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons nel 1971.
Il piacere nei libri lo scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse.
Dopo questo libro inizia a scrivere piccoli racconto e poesie.
Appassionato di paesaggi naturali che preferisce attraversarli a piedi o in bici, Buiat pensa che sia già tutto scritto. Occorre a “noi” osservatori percepirne la lingua che sentiamo in mezzo ai nostri passi.
Da qualche anno ha iniziato a frequentare i corsi di scrittura creativa che si tengono all’UNITRE di Cormons.
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Il segno come parola
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Tempo presente ———————
Quando c’era Lui i treni arrivavano in orario
Francesco Filippi, “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”
di Laura Mautone
La genesi di questo interessantissimo libro è fatta risalire da Francesco Filippi stesso nei ringraziamenti finali alle conversazioni tra amici sulle tristi battaglie combattute sui social tra ammiratori e detrattori del duce. […] “Quando poi tirano fuori la storia delle pensioni e delle bonifiche mi va il sangue alla testa! Ci vorrebbe un libro che raccogliesse e smascherasse tutte queste bufale, così la smetterebbero di dire bugie sul fascismo!”. È Giosuè a pronunciare queste parole e Filippi lo ringrazia per avergli dato lo spunto. Aggiunge poi lo storico: Non la smetteranno, probabilmente, ma almeno è un inizio. L’idea è quella, anche su ispirazione della frase che Nora Joyce ripeteva al marito James: “Perché non scrivi libri che la gente possa leggere?”, di scrivere in modo che i lettori possano leggere e capire.
In origine si trattava di un agile vademecum di 35 pagine per i tutor dell’associazione Deina, che ogni anno accompagnano migliaia di studenti sui luoghi della memoria in un viaggio che è fatto anche di riflessioni storiche e di approfondimenti, oltre che di empatia e emozioni.
Attraverso un’efficace azione di debunking delle “bufale” sul fascismo Filippi smonta efficacemente la macchina della propaganda, spesso nata e alimentata già da Mussolini e dai membri dello stesso fascismo: le pensioni date agli italiani, la bonifica delle paludi, la casa per tutti, la legalità durante il fascismo, la lotta alla mafia, la ricchezza diffusa, il rispetto del ruolo della donna, le doti strategiche, militari e umane di Mussolini sono alcuni dei temi trattati con dovizia di riferimenti alle fonti e clamorosamente rivelati in realtà come falsi. La pensione, o per meglio dire il sistema previdenziale per vecchiaia e malattia, fu in effetti un’invenzione tedesca, comparsa per la prima volta in Germania grazie al cancelliere Otto von Bismarck. Si data nel 1888. Il governo italiano adottò un primo sistema di garanzie pensionistiche nel 1895, 27 anni prima della presa del potere da parte del fascismo, grazie al governo Crispi.
Ciò che il duce fece fu accentrare nelle mani del partito tutte le funzioni del governo, tra le quali anche il lavoro e la previdenza. Ogni azione aveva lo scopo di rendere controllabile il sistema direttamente dai vertici del potere.
Nel 1933 venne cambiato il nome della “Cassa Nazionale” in “Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale”: oltre al nome la struttura venne verticalizzata e la nomina del presidente passò direttamente nelle mani del capo del governo. L’acronimo INPS è rimasto ancora oggi con la sola cancellazione dell’aggettivo fascista. Se passiamo alla bonifica delle paludi, Filippi illustra che i provvedimenti in questo senso erano già al centro dello sforzo governativo prima della marcia su Roma.
Anche qui, come in altri casi, Mussolini non inventò nuove vie di approccio ai problemi, ma riuscì nell’operazione di riunificare le molte iniziative già in essere per poi prendersi il merito della loro attuazione. […] Secondo gli studi della commissione preposta al coordinamento delle azioni di bonifica, negli anni venti in Italia erano 8 milioni gli ettari di terra bonificabili. […] Il fascismo promise di aumentare di un terzo la superficie agricola utile del paese. Anche in questo caso la propaganda la fece da padrona: […] dopo dieci anni di lavori e denaro pubblico il governò dichiarò di aver raggiunto l’obiettivo che si era prefissato, proclamando redenti all’aratro 4 milioni di ettari di terreno. In realtà la metà, ma se si guarda nel dettaglio, la metà della metà. […] Quindi, dato che sui 4 sbandierati, due milioni di ettari non erano altro che lavori in corso d’opera, o immaginati, e un altro milione e mezzo era frutto di bonifiche prefasciste, si può concludere che l’obiettivo di 8 milioni di ettari di terra da redimere fu mancato di ben 7 milioni e mezzo. Un vero successo!
Dunque, come si può dedurre Filippi dimostra in modo fattuale ed efficace che il fascismo e Mussolini sono stati abilissimi nel prendersi il merito di riforme o azioni in realtà attuate da altri prima di loro.
Potremmo continuare con tutti i temi indicati e altre leggende metropolitane (per esempio, quando c’era Lui i treni arrivavano in orario: certo, semplicemente perché la censura non permetteva la diffusione di notizie che oscurassero l’auspicato e necessario successo del regime), ma lasciamo al lettore il piacere di scoprire come sono nate e si sono sviluppate le fake news (idiozie) sul fascismo che ancora oggi circolano in rete, a prova di utenti con scarse competenze storiche e logiche, evidentemente, se non vogliamo pensare a operazioni manipolatorie vere e proprie.
dal libro:
Una delle grandi favole che circolano riguardo il fascismo è quella che, nonostante tutte le storture e le prevaricazioni tipiche di un regime totalitario, il fascismo, e in particolar modo Mussolini, siano stati una parentesi di onestà e dirittura morale nella vita politica del paese. Il paragone che porta avanti questo tipo di bufale è ovviamente quello con le classi politiche dell’Italia repubblicana: ai presunti ladri e malfattori che dominerebbero la scena odierna, il nostalgico del duce contrappone una figura di statista illuminato e incorruttibile, che aveva forse come unico difetto quello di colpire con castighi troppo severi chi sbagliava. Una condotta integerrima e quasi austera che non ha però fondamenti storici.
(Francesco Filippi “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” pp. 43, 12 euro, Bollati Boringhieri 2019)
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Il segno come parola
Installazioni ed opere
di Franco Nuti
Ti racconto ————————-
Continuo a inseguire orizzonti
Jasna Tuta, “Un Oceano di emozioni”
di Anna Piccioni
Il mare per Jasna Tuta è TUTTO: è vita, è spirito, è scoperta, è emozione, è sperimento, è orgoglio, è rispetto, è sfida, è indipendenza, è disperazione, è libertà, è semplicità, è gioia, è pazienza, è solidarietà, è soprattutto l’insieme di tutti i valori fondamentali.
Nell’ultimo capitolo del suo libro “Un Oceano di emozioni“, Jasna scrive “Nessun navigatore ti chiederà quale scuola tu abbia frequentato… a nessuno interessa quanti soldi hai, come ti vesti…”. In mare conta l’Essere e non l’apparire e non ci sono differenze di genere… Ai “Nomadi del mare”, come si definisce Jasna, interessa la gentilezza, la disponibilità ad aiutarsi.
Con uno stile fresco e vivace, Jasna ci racconta la sua esperienza dell’attraversata del Pacifico dal Messico alla Polinesia Francese, con Rick il comandante e suo compagno, sulla barca Calipso, un cutter in vetroresina di 36 piedi del 1984.
Con le sue parole dimostra che quando le emozioni sono vissute intensamente con anima e corpo diventa facile trasmetterle a chi legge: il lettore si trova vicino a lei durante i suoi turni di guardia la notte.
Il titolo è ben azzeccato, “Un Oceano di emozioni” non è una metafora ma intende proprio l’immensità di emozioni che un’avventura come questa ti riversa addosso, come immenso è l’Oceano.
Hanno avuto un gran coraggio Rick e Jasna; certo non sono degli sprovveduti, non si sono messi in gioco per una sfida o un capriccio: quella attraversata durata un mese in mare aperto è stata pianificata, programmata, organizzata, preparata con serietà e impegno. Hanno preparato i loro corpi e anche il loro spirito.
Mi hanno fatto venire in mente la lunga preparazione a cui deve sottoporsi chi vuol scalare gli 8000. Sfidare le montagne e il mare non è cosa da poco: sono imprese titaniche per le quali conta molto il rispetto per la Natura, la conoscenza dei nostri limiti di fronte alla loro grandezza: stare un mese in mare aperto, sapere leggere le nuvole e le stelle, vedere il mare ingrossarsi e sapere seguire i suoi movimenti.
Jasna confessa che “nessuna barca può essere mai troppo pronta…la cosa più difficile in questo viaggio è stato convivere perennemente con la preoccupazione che qualcosa sarebbe andato storto”.
E non solo preparazione fisica e tecnica, è necessario anche provvedere alla cambusa calcolando le quantità necessaria e saper conservare la frutta e la verdura.
Per chi non ama il mare navigare per tanti giorni non è comprensibile, roba da pazzi; lo spettacolo che circonda quella piccola barca potrebbe sembrare noioso, sempre uguale.
Ma non è così: i quadri che Jasna descrive quasi giorno dopo giorno, o meglio notte dopo notte, sono sempre diversi: a volte l’apparire dei delfini suscita una gioia quasi infantile, o la compagnia di una sura è un fatto eccezionale, e anche danzare nudi sotto la pioggia… E poi su una barca ci sono molte cose da fare e non ci si annoia mai.
A una data ora si avvia il contatto radio con altre barche che non si vedono ma si sentono, e si è tutti partecipi dell’avventura dell’altro, ma anche delle disgrazie: in mare si è una grande famiglia.
La tecnologia è importante, ci si può concedere di guardare un film con il portatile, leggere le mail, visto che l’energia è data da cinque piccoli pannelli solari e un generatore eolico.
Ma quando poi si avvista la terra la gioia è indescrivibile, come appunto lo scalatore quando raggiunge la vetta: i sentimenti sono esplosivi. E s’immagina la gioia degli antichi naviganti.
Appena messi i piedi sulla terra ferma si ha una gran desiderio di correre e si è storditi dai profumi di frangipani, manghi, tiarè e banane: l’isola di Hiva Oa. La Polinesia francese è un enorme frutteto che accoglie a braccia aperte i due giovani naviganti, pronti ad altre avventure.
Intervista a Jasna Tuta:
La grande attrazione: il mare! O meglio l’orizzonte: quella linea che divide cielo e mare e non si raggiunge mai! Lei l’ha raggiunta?
L’orizzonte non è fatto per essere raggiunto, ma inseguito. Ed è questo che sto facendo, da anni ormai: continuo a inseguire orizzonti, reali e metaforici, sapendo che non li raggiungerò mai, ma sapendo anche che la gioia non sta nell’arrivare a destinazione, ma nel godersi il viaggio.
E da quando l’ho capito, dove navigo è diventato relativo. La Polinesia dove ho navigato per anni è stupenda, ma quella sensazione di libertà e gioia che mi regala la vela posso provarla anche nel Golfo di Trieste, non è detto si debba andare in capo al mondo.
Decidere a 29 anni di prendere un biglietto di sola andata! Una decisione improvvisa o meditata?
Ci ho meditato tanto. Penso siano passati almeno tre anni tra l’idea di partire e il farlo veramente. Tanti hanno l’idea, il desiderio di mollare tutto e andarsene senza sapere esattamente dove e per quanto tempo. Ma pochi lo fanno, perché le paure sono tante. Anch’io le ho dovute affrontare, una ad una, finché non mi sentivo pronta. Poi sono salita su quell’aereo e la mia vita è cambiata per sempre.
Costretti per tanto tempo a condividere la vita in spazi limitati, come si risolvono i conflitti?
I conflitti devono essere risolti subito perché non è che puoi scendere e andare a farti una camminata per calmarti. Questo coabitare in uno spazio molto ristretto è una sfida per ogni coppia, non tutti ci riescono. Nel nostro caso credo il segreto sia stato il rispetto reciproco, soprattutto il rispetto dello spazio altrui. Bisogna rendersi conto che ognuno di noi ha bisogno di tempo per stare da solo. Bisogna saperlo trovare questo tempo, che può avere la forma di meditazione, scrittura, lettura, yoga, musica ecc.
E poi bisogna anche rispettare la solitudine dell’altro, senza disturbarlo.
Scegliere o decidere di fare la guardia nella navigazione notturna è più confacente al suo spirito “d’avventura”?
No, non credo, io adoravo fare la guardia dalle 2 alle 8 semplicemente perché mi piace andare a dormire presto e quindi dormivo dalle 8 alle 2. Però sì, le guardie notturne mi hanno regalato tanti momenti splendidi, forse sono il ricordo più bello delle mie traversate oceaniche.
L’importanza dei viveri: sapere calcolare la quantità, ma soprattutto come conservare frutta e verdura….
Fare la spesa per una traversata di più settimane è molto complicato. Si trovano liste già preparate, ma così si finisce per comprare cose che di solito non mangiamo e poi restano in sentina a marcire.
Io ho fatto un menu di 10 giorni che ho ripetuto per 5 volte e ho preso gli ingredienti necessari per sopravvivere 50 giorni.
Per la frutta e verdura è molto importante comprarla fresca, mai refrigerata, e prendersene cura. La frutta si lava con amuchina e si asciuga bene, poi bisogna fare attenzione a dove la mettiamo – idealmente sarebbe un posto buio, freddo e ben ventilato, che però in barca non esiste.
Bisogna trovare compromessi e soprattutto controllare tutto spesso, perché un solo limone che ammuffisce può comprometterli tutti. È un lavoraccio.
L’autrice:
Jasna Tuta è nata a Sistiana, in provincia di Trieste.
Ha frequentato il circolo nautico YC Čupa, iniziando facendo l’assistente ai corsi di windsurf, poi ha deciso di fare il corso istruttori della FIV, passando così le estati a fare scuola vela, con i bambini su Optimist e con i ragazzi su tavole a vela. “D’estate ero al mare, d’inverno invece studiavo a Lubiana in Slovenia“, dove nel 2005 si è laureata con una tesi sul metodo Gioco Sport applicato alla vela.
Dopo nove anni ha deciso di lasciare il suo lavoro di insegnante e di partire per un anno sabbatico.
Ha quindi comprato un biglietto di sola andata ed è partita per l’Asia. Un paio di mesi dopo, in Australia ha incontrato Rick che viveva in barca.
Hanno navigato insieme per nove anni, esplorando l’Australia, il Messico, la Polinesia Francese, le Tonga e le Figi.
Nel 2016 ha pubblicato il suo primo libro in inglese dal titolo “A Drop in the Ocean”, ambientato a bordo di Calypso durante la traversata del Pacifico.
Nel 2019 ha pubblicato “All the colours of Polynesia”, contenente 180 foto a colori.
I suoi libri sono stati presentati in tantissime occasioni ed incontri, sempre di grande successo.
(Jasna Tuta “Un Oceano di emozioni” pp. 168, 18 euro, il Frangente 2021)
Intervista a Franco Nuti:
di Luigi Auriemma
Caro Franco, nell’osservare le tue opere, in special modo le installazioni, come ad esempio “Verità”, dove l’osservatore tende a entrarci in punta di piedi per non rompere il silenzio che regna sovrano. Un silenzio che “parla”; spieghi di cosa “parla” il silenzio delle tue opere?
Nel divenire del tempo cambiano i rapporti sociali e quindi la socialità; tutto questo è dovuto alla caduta dell’impero romano d’Occidente. Le popolazioni si rifugiano in montagna sia per l’opportunità dell’interiorità fisica che per la riflessione sulla esistenza e quindi sulla propria interiorità.
Giganteggia la figura del monaco che nel suo eremo o monastero fa la scelta, quasi socratica, della conoscenza di sé: conoscenza della propria ignoranza. La sostanza di questa conquista è rivolta a Dio e alla sua riscoperta.
L’incontro con Dio impone all’uomo quindi un silenzio doveroso, che non ha il sapore della sudditanza, ma della meraviglia, di una attrazione dialettica che non si tramuta mai in una conoscenza piena nei confronti di Dio; non è una frustrazione questa, ma la molla e quindi la spinta ad una scalata piena di insidie, ma nel contempo affascinante e salvifica.
Nell’installazione realizzata nella chiesa rupestre di S. Maria in Grotta (l’installazione “Verità” – ndr), si avverte questa atmosfera satura di sacralità che dalle pareti della grotta sembra condensarsi direttamente nelle tue opere. Qual è stato il percorso mentale e spirituale per relazionarti con un luogo così forte?
Nella mia prima visita, forte della frequentazione della Basilica inferiore di San Clemente in Roma, recandomi nella Chiesa Rupestre di Santa Maria in Grotta ho appena assaporato quel valore della sacralità, che richiama in sé tutto ciò che è semplice, e umile.
Sembra essere una contraddizione ma semplicità ed umiltà rappresentano il complesso; sicuramente la sacralità si può avvertire, vivere, ma non tramutare in un concetto.
Forte di questa conquista con una intuizione colorita di semplicità la mia installazione è composta di oggetti di argilla cruda, vettovaglie che riconducono all’acqua e al pane. Le lucerne integrano e ammiccano a qualcosa di straordinariamente risolutivo.
Per un periodo della tua vita hai insegnato in un laboratorio artistico di un centro mentale di Roma. Quanto questa esperienza ha arricchito la tua sensibile personalità di artista?
Per quanto concerne la mia esperienza di insegnante all’interno del laboratorio creativo del Centro di Salute Mentale della ASL Roma 2, mi ha formato intensamente.
La prima riflessione che è insorta dirompente nella mia coscienza è quanto sia falso la diversità del valore morale e civile del cosiddetto normale rispetto a chi soffre di problemi psichiatrici.
Sono stato colpito dalla tenuità e dalla meraviglia fa insorgere in essi la conoscenza intesa come capacità e perizia dell’uso delle mani.
Una esperienza fantastica, tra tutte, è stata la costruzione di una culla in legno; sostenuti in questo dalla presenza di un esperto intagliatore, che giorno per giorno levigava in senso simbolico la distonia dell’uso degli scalpelli e parlava di come la forma dell’oggetto in questione stesse nella sua complessità determinandosi.
La mia gioia non è stata quella di scoprire soltanto e solamente la manualità che esiste in quei pazienti – allievi, ma soprattutto percepire con loro un grande entusiasmo che in altri contesti così detti normali non è facile provare.
Oltre a ciò sono rimasto anche soddisfatto di come io abbia riscontrato, per lungo tempo, lavorando con loro sull’uso dei colori e sull’idea di essi.
Vorrei sottolineare al di là dell’esperienza visiva, il colore sia nel suo in sé un’astrazione della psiche umana. Arrivare poi al passo successivo dell’uso che ne ha fatto ognuno di loro nei vari oggetti prodotti apre e consolida l’idea, seppur lentamente, alla capacità di tramutarla in realtà.
Un altro concetto fortemente presente nelle tue opere è la memoria (memoria individuale, memoria collettiva e memoria atavica) rappresentata con segni, colori, parole, etc… Quanto è importante per te il concetto di memoria?
La memoria intesa come fenomeno storico giunge a noi attraverso l’arte, il tipo di società, la tecnologia, anche se primordiale, determinata dagli uomini nel corso del tempo.
Essa diviene un baluardo essenziale per lo sviluppo della società moderna, è il “Sancta Sanctorum” da cui attingere valori esperienze ed anche errori. Mi sembra improprio differenziare la memoria individuale da quella collettiva se non si tiene conto della coscienza, dal rapporto che ognuno di noi ha con l’universalità delle cose.
Tenendo per fermo quell’idea dell’uomo che espresse Grazia Deledda e cioè siamo canne al vento da ciò per evidenziare il travaglio, l’impegno è opportuno citare Giacomo Leopardi che nello Zibaldone disse “già vivere è un fatto eroico”.
L’essere umano proprio per questo è magnifico pur nella sua precarietà, perché conosce la morte dei suoi cari defunti ed anche la sua ogni giorno che vive; quando la realtà gli nega intendimenti, proposte, idee che sono la parte più profonda della sua realtà.
Non è una visione negativa la memoria di tutto ciò, ma è il tragitto dignitoso, onorevole di un uomo probo. Per concludere senza memoria non c’è prospettiva.
Quali sono i tuoi riferimenti filosofici e spirituali?
Il punto di osservazione da cui soppesiamo un fenomeno determina la dinamica dello stesso, da cui si evince che la conoscenza è una questione in divenire e che non esistono fenomeni o porzioni della realtà che noi conosciamo in assoluto.
La ragione è l’organo fondamentale per percepire attraverso i sensi un oggetto, un fatto, una situazione in movimento; ma di per sé la conoscenza della ragione non contiene tutti gli elementi per determinare i contenuti e i limiti di un oggetto osservato.
Due filosofi e poeti dell’antichità, Ovidio e Lucrezio ci aiutano; il primo con la sua opera le Metamorfosi in particolare, la storia dell’età del mondo (libro I) ci parla dell’uomo che attraverso la natura con i suoi frutti, senza uccidere gli animali per mangiare, può nutrirsi e vivere, ma soprattutto che lo stesso è parte di essa, in un’unità straordinaria da cui si traggono valori.
Efigenia sacrificata da suo padre Agamennone per ingraziarsi la divinità per l’esito positivo della battaglia, è questa la tragedia da cui muove le sue considerazioni Lucrezio nel De rerum natura.
Elementi determinanti per comprendere la scelta del re sono in una religiosità fondata sulla superstizione, l’ignoranza, e sopra ogni cosa lo spiccato e disumano senso del potere.
Sono in oltre convinto come affermò Freud in una lezione tenuta a Londra, la questione che riguarda l’uomo economico è da una parte esorcizzare la morte e dall’altra la sopraffazione con la guerra per determinare il dominio di un popolo su un altro.
Un filosofo di nome Carlo nei suoi scritti giovanili mette in luce la contraddizione del danaro, definendolo l’ente onnipotente che media me e i miei bisogni.
Già dall’antichità Epicuro ci aiuta a capire proponendoci una soluzione del problema, mai assoluta ma perfettibile, nel dominio delle proprie pulsioni come l’avidità del piacere edonistico spostando l’interesse dello stesso in quello catastematico.
A tutto questo Epicuro giunge con il suo pensiero raccomandando di non estraniarsi dalla dialettica della cosa pubblica, mantenendo quella pregiudiziale della conoscenza di sé e del proprio per sé.
Realizzi le tue opere con varie tecniche e materiali. Che importanza dai alla scelta di una tecnica o l’utilizzo di determinati materiali?
Ci sono stimoli per un possibile lavoro che mi appaiono e che avverto con una certa frequenza. Mi sembra giusto tenere conto di tutto ciò che può darmi contezza intorno alla questione che voglio affrontare.
Come per il carpentiere usare ferro e cemento così nel mio lavoro scelgo gli opportuni materiali a seconda del lavoro che intendo determinare.
Spesso nell’arte, e non solo, si fa confusione tra forma e contenuto, nel senso, a mio avviso, che tra i due ci deve essere una profonda e sostanziale identità: ciò che esprimo e dico deve essere identico a ciò che penso.
Non mi piace determinare lavori ad effetto, ma certamente ciò che progetto deve essere sostenuto da materiali e tecniche che contribuiscono a rendere l’interpretazione del lavoro più chiara e semplice possibile. Questo deve essere il discernimento che comporta la scelta in questione.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho in preparazione una mostra personale che si terrà a Roma nel prossimo autunno, con una serie di lavori nuovi. Lavori che ho iniziato a realizzare su teli in grande formato a partire del 2020.
L’artista:
Franco Nuti è originario di Roma, città nella quale si è formato presso l’Accademia di Belle Arti. Vive e lavora tra Roma e Napoli e concentra la sua ricerca intorno al tema della memoria, un tema insito in tutta la sua produzione, che l’artista tratta secondo una prospettiva etica, unendo spesso due diverse dimensioni, individuale e collettiva.
Gli oggetti che compongono le sue installazioni sono infatti parte del vissuto, pitture o disegni, talvolta accartocciati o resi visibili solo parzialmente o, ancora, raccolti dentro il limite trasparente del plexiglas, “contenitore-contenuto”, spazio ermetico deputato a conservare, ma soprattutto a fare dell’oggetto il luogo mentale che custodisce la parte più intima del nostro essere, i nostri ricordi.
Nella realizzazione dell’opera per Nuti è dunque fondamentale il processo, un percorso cioè secondo il quale l’opera si realizza nella realtà ed insieme ad essa, nel contatto con le cose; un percorso fatto di gesti intensi, pregni di significanze, in cui si sublimano i pensieri e dall’orizzonte personale si estendono oltre, diventano discorso di tutti, riflessione dell’umano.
Le foto delle installazioni e delle opere di Franco Nuti sono di Maristella Campolunghi.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.