Ed eccoci giunti al nuovo appuntamento di maggio, con una nuova geografia di proposte.
La voce d’autore è di Marco Marangoni, con la sua nuova raccolta poetica “La passione degli anni”; è quella del poeta sloveno Jože Štucin e i suoi haiku; ed è anche la narrativa di Enrico Grandesso con la sua raccolta di racconti “I dettagli sono importanti” e il viaggio narrato da Emilio Rigatti in “ Ichnusa. Guarire di Sardegna nell’isola di pietra”.
Il tempo presente e nelle poesie inedite di Michele Obit e nello scrivere di Michela Scarazzolo e Gabriele Via.
Le immagini sono quelle del progetto “NERO” di Edi Carrer, scultore e non solo….
Buona lettura.
Giovanni Fierro
(la nostra mail: farevoci@gmail.com)
Immagini ———————
Nido 1
NERO
di Edi Carrer
(Lamiera, stampa su plexiglas, matrice in zinco, cranio animale cm 55×80)
Voce d’autore ————————-
E la parola, e la pagina
Marco Marangoni, “La passione degli anni”
di Giovanni Fierro
Com’è necessaria e viva di desiderio la poesia di Marco Marangoni.
E anche questa sua nuova raccolta, “La passione degli anni”, è la dimostrazione di come sia un autore che si muove nel centro esatto dello scrivere.
Suona come una melodia che proviene dal profondo delle parole, dei significati, e che ogni volta, pagina per pagina, costruisce una appartenenza che sempre rivela uno sguardo intenso sulla nostra esistenza, sull’esistenza di ogni singola persona.
Perché è il dare e il riconoscere “ad ognuno la sua storia, che sola dà la morte, e dà a noi una gloria”.
Ed è una gloria che ha corpo ed anima, nome e cognome, che si rinnova con la forza del domandarsi e la certezza dello scrivere. Si interroga, e traccia una mappa per riconoscere ‘la passione degli anni’.
Perché è giusto ricordarsi che “non verrà mai un altro tempo, dicevi/ se non da qui”, e Marangoni il luogo del presente lo esplora e lo narra, centimetro per centimetro, respiro a respiro.
Scrive una poesia che si nutre della vita, e che alla vita sempre ritorna, con ulteriore generosità e precisione.
E questo libro ne è un’ulteriore ricerca, “in un mondo che esisteva lì vicino/ e che non c’era”, nel luogo esatto dove guardarsi dentro e pensare a ciò che si sente, a ciò che si ama e si vuole vicino.
Anche ogni piccola sfumatura che solo la delicatezza mette in evidenza, anche se è ogni volta un passo incontro alla fragilità umana.
Marangoni costruisce un tempo prezioso dove poter stare, un movimento di silenzio e attenzione che porta il lettore un po’ più lontano dalle proprie seducenti e limitanti sicurezze, perché “al confine… c’è un ‘farsi spazio’, una luce che brilla, che si apre dentro la forma delle cose”.
Sono poesie che si aprono, quelle contenute in “La passione degli anni”, che hanno già rinunciato al riparo e sono pronte per il mondo, sbocciando o aprendo la finestra, avendo fiducia nelle labbra o lasciando che il giorno non finisca mai, anche dietro gli occhi.
Sì, “benedetta luce/ degli occhi (e della mente)”, che si innesta in ogni momento del giorno, che ci cerca e ci vuole; a cui bisogna essere disponibili, e che ci invita a trovare il coraggio per riconoscerla e difenderla.
Si, caro Marco Marangoni, “… come brilla l’istante”.
Dal libro:
Ti vedo che scendi dal letto
e hai spalle a filo col mare;
hai una luce classica
mentre avanzi…
e getti lo sguardo
come si apre una tenda.
La vedo la statua che sei
(… nell’aria, nel vento)
ma tu che sei la forma, tu che sei
l’evento
*
Aver visto troppa realtà
e non poter apprezzare la polvere,
di cui si avvolgono
le cose e i giorni, i luoghi e le persone
………………………………………………..
che noi siamo un ponte istoriato,
sulla parete di un’antica grotta, nella volta celeste
che raggiungi ora
(…) mentre sei qui, in questo passo,
o nel metro geometrico della scrittura
*
Il ciliegio è un’aura, questa notte
di gelo;
mentre la luna lo illumina,
in solitudine e sulla collina;
è un cerchio
l’idioma notturno
che lo incanta;
in bilico tra la morte
e il mondo, tra il fiore
e la carta
*
Che la poesia non venda
è il segnale (…) mentre tutto è mercato,
apatia, e frammento
… ma di che? ti chiedi,
se anche gli oggetti
non sono più dell’uomo,
o la sua crisalide
spenta.
Ma questo fiato
è quel che mi resta,
ed è la porta del bosco, inselvatichita; la sola porta
aperta
Intervista a Marco Marangoni:
I testi di apertura del libro, la sezione “Ad ognuno la sua storia”, sono forse la ricerca di un dove stare, di un proprio tempo da vivere? E anche la ricerca di quale ‘scrivere’ da usare per farlo?
Sì, nella mia poesia si racconta sempre di una ricerca. Ricerca, credo, di un tempo che ci attende, cui si arriva non in modo scontato, ma lungo un’esperienza di prove, di vittore e sconfitte.
Il proprio tempo, che è nel gioco di destino e libertà, è comunque una conquista, il frutto di una maturazione; e mi sembra che sia come il ritmo di uno stile, non solo letterario: di un gesto completo, direi, umano. La pietas, infine come ideale, è il pathos estremo di una resistenza morale, nonostante tutti i limiti; e insieme è una comprensione che ascolta, include e interroga, non pregiudica, né giudica.
Poi il libro si apre ad altre domande, fondamentali. Come il chiedersi di cosa ha bisogno la poesia ora. Ecco, di cosa?
Ha bisogno di reagire alla perdita di creatività in generale, in un’epoca che prospetta come modelli l’omologazione e lo standard (più commerciabili nella globalizzazione); ha bisogna di ritrovare il ritmo creante (il salto, che meraviglia per la sua quasi impossibilità: dal niente alla posizione di un fiato, di un ek-sistente, di una vita-ora!); ha bisogno di aprirsi a un sentimento di condivisione creaturale con un universo di fiati unici, e abbandonati al mistero del loro tragitto che fa cenno a qualcos’altro: qualcos’altro che resta presso, e che resta lontano.
E nuovo, mi sembra, è anche il confrontarsi del tuo scrivere poesia con altre arti, come nel testo in cui parli di Fontana e dei suoi tagli. È così? E se sì, perché?
Penso che il poeta sia anzitutto un artista e quindi condivida il gesto creativo con altri protagonisti del suo tempo. Il poeta si accompagna dunque agli artisti, che in linguaggi diversi esprimono lo stesso gesto. Un poeta trae stimoli, alimento di formazione, dallo studio dalle arti tutte, e quindi non solo da quella che si impegna sulla lingua.
Penso a come il quadro dei saltimbanchi di Picasso (periodo rosa) abbia influito sul Rilke, nelle Elegie; o penso a come il chitarrista cieco, sempre di Picasso (periodo blu), debba avere influito – è una credibile ipotesi – su Wallace Stevens di The blue guitar.
Ma penso anche, come tu sai bene, quanta reciprocità ci sia tra la scrittura di Handke e il cinema di Wenders. Di questo passo, mi sento affine al modo di tagliare le prospettive, le superfici, o di aggirarle, scontornarle, di certi pittori che cercano di andare oltre la superficie piana delle cose: ho molto osservato, nella mia prima formazione, il primo De Chirico “metafisico” (che piaceva a Montale), e in seguito la pittura informale, spaziale come quella di Fontana.
Certo oggi la maturazione stilistica mi permette (e mi obbliga) di riconsiderare, in versi, la trama delle mie fonti, anche “visive”.
In questo libro sono presenti tanti segni diversi, a partire dai molti puntini di sospensione… quale il loro significato?
Il mio “dettato interno” inizialmente si faceva in modo lineare, previlegiando la scansioni nette dei piani, poi con il farsi del tempo interiore e autobiografico, più boscoso, lo spazio-tempo del senso-senso (geo-metria del verso) si è andato frazionando, mostrando resistenze, attriti, porosità della materia linguistica, ma anche una pluralità dei punti di riferimento, dei contesti in cui una voce transita, e muta; la verità muta, la voce muta, uno è anche due, il passato proustianamente dura o il presente si imbuca, si contamina; ma anche i tempi-modi verbali vedo che non stanno più per me dentro la grammatica: non ho scritto, ad esempio, in una poesia che riflette le difficoltà nel tradurre W. Stevens: “pensavo che la poesia fosse”, ma “pensavo che la poesia è”.
Si capisce, dalla difficoltà tecnica del dire in poesia, che la parola non dovrebbe ma essere accettata come neutrale rispetto alla cosa da dire: c’è un’ambiguità di linguaggio e realtà; una ambiguità come tra sogno e veglia, che i barocchi avevano colto.
Credo che, tornando all’arte figurativa, queste complessità siano al centro del cubismo di Picasso, fino alle “maschere” che ci guardano, mentre le guardiamo.
Affronti anche la narrazione. Da cosa è nato questo desiderio?
Da quanto già dicevo, la durata del tempo (su questo punto, considero Peter Handke un maestro) e l’ingravidarsi della “pagina”, mi ha portato a pensare che l’istante epifanico non sia sufficiente a esprimere la grana dell’esperienza, del passo umano: c’è bisogno di incedere, camminare, andare piano, raccontare; le circostanze sono ricchissime infatti, le zone di penombra ecc. (cito Maria Zambrano che ha “pensato” i “Chiari del bosco”).
E bisogna poter raccontare la peripezia poetica e non cartesiana dei pensieri, come fa Leopardi; sperimentare la contaminazione tra canto e prosa nel segno del prosimetro (penso alla Vita nova di Dante, ad esempio).
Nella sezione “Paesi e spaesamento” sono protagonisti luoghi che chiami per nome e fai vivere. Cosa hanno di così particolare, e cosa li accomuna?
Sono luoghi che hanno avuto una eco, un rimbalzo, un rinvio simbolico nella mia immaginazione e dunque si sono depositati in me come semi di creazione. La topologia nel poeta assume da sempre un ruolo di mito-racconto-favola: nei paesaggi descritti e ri-figurati dai poeti c’è il dato reale e “sur-reale”, per così dire, ed è questa ambiguità che ci affascina.
I luoghi entrano nella pagina in un modo, e ne risultano mutati da una fascinazione, per dirla con Blanchot.
I luoghi che mi catturano sono di solito “persi”, “de-funzionalizzati”, spaesati, “non giurisdizionali” (direbbe Caproni). La Grecia divisa tra la sua leggenda, la sua bellezza mediterranea e la sua emarginazione attuale, in seno a un Occidente che la opprima e abbandona… o L’Istria, sempre in un esilio, esodata, ridotta a traccia. I luoghi balneari, nella desolazione invernale
Ne “La passione degli anni” è poi la luce la protagonista assoluta. Cercata, evocata, accesa, bramata. È questo il nuovo epicentro del tuo scrivere? Il nuovo innesco culturale e sensoriale?
La “luce” è sempre stata credo, insieme al “tempo”, tema centrale nella mia scrittura.
“Luce”: certo il valore estetico della percezione visiva per me è importante, non a caso mi ha formato e mi forma la fruizione delle arti visive. Di formazione classica, la Grecia antica si è imposta inoltre su di me, dove lo stagliarsi netto della luce sul buio, sull’ombra, percorre metaforicamente la filosofia, il mito, l’architettura, la scultura, e la poesia ovviamente.
Mortale e immortale la grande dicotomia classica è inseparabile da quella di lucea/ombra. E quanto all’elaborazione di questa dicotomia in fondo si è dedicata la “modernità” scoprendo nuovi e inquietanti rapporti. Ma non dimenticherei che la luce è sempre un dato percepito in forma di sin-estesia, e dove l’ascolto (l’udito-la parola-il silenzio) entra fin dall’inizio in gioco.
L’innesco inoltre di cui ipotizzi l’eventualità si è prodotto senz’altro a fronte di un “oscurantismo” imperante nella globalizzazione che acceca le differenze, le abbaglia di falsa luce, come quella dei display, delle televisioni sempre accese, delle luci sparate nei cieli che oscurano le stelle e il colore dei paesaggi notturni e cittadini.
Di qui il tema della luce colta nel rapporto tra boschi e cattedrali gotiche, di cui dico in una poesia del libro; e di cui dico sì, ma come immagine ben poco consolatoria o nostalgica, ed invece quale appello ad una vigilanza e a una resistenza, ma anche a una ricerca di rifondazione degli impianti percettivi, e non solo a una lamentazione del loro stato sconvolto.
L’autore:
Marco Marangoni (1961), ha pubblicato i testi poetici “Tempo e oltre” (Campanotto Editore, 1994), “Dove dimora la luce” (I quaderni del Battello Ebbro, 2002), “Per quale avventura” (Raffaelli Editore, 2007) e “Congiunzione amorosa” (Moretti & Vitali, 2013), terzo classificato al Premio Gozzano 2016.
Suoi testi sono stati tradotti in vari Paesi. Come critico, è autore di diversi interventi, tra cui: “La poesia e la paura”, in ‘Griselda Online’, 2015; “Della lirica”, in ‘Punto. Almanacco della poesia Italiana’, 6-2016.
È segretario della giuria scientifica del “Premio di poesia San Vito al Tagliamento”.
Collabora con http://poesia.blog.rainews.it e con il Dipartimento di Italianistica e Filologia Classica dell’Università di Bologna, per cui ha ideato e cura ‘Ossigeno nascente. Atlante dei poeti contemporanei’, on-line.
(Marco Marangoni “La passione degli anni” Stampa editore, pp. 71, 12 euro, 2018)
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Archeologico
NERO
di Edi Carrer
(Marmo nero del Belgio cm 14x9x7)
Tempo presente ————————
È lasciare che i minuti muti
Quattro inediti
di Michele Obit
(Lo stesso respiro)
C’è qualcosa in questa vita imperfetta
di opprimente e così appagante
che quel né prendere né lasciare
tante volte si tramuta in un prendere
ogni cosa e lasciare che cada o scompaia.
Ci siamo lasciati e ripresi
riavvolti nella nostra coperta di scuse
e alle cinque del mattino rivisti
in un sogno e poi per minuti e ore
costretti al silenzio – la diga
che satura ogni intento.
Facciamo allora che in tutti
questi anni siamo stati lo stesso respiro
– facciamo che non ho paura di cadere
perché sarai sempre tu a rialzarmi
sempre tu a dirmi la pienezza delle parole
che sono voce dura e indifesa.
(Strada di Marciano)
I
Il giallo non è colore di carezze
non si lascia permeare o trasportare
sulla pelle – le pieghe del vento sì
che disperdono il dolce fico
e gli aghi del rosmarino. C’è qui sotto
un cimitero senza anime in pena
– quasi un presepe di nomi e di volti
che sono la mia fatica di ricordare.
II
C’è un cane che ha appena sparpagliato
i rifiuti che avevamo lasciato sulle scale –
lui scende e si avvicina – sta in mezzo
alla strada e si china. La mia unica punizione
è lasciare che i minuti muti
passino senza che un padrone
trovi la sua strada – senza il tepore
che lascia nel cielo una cometa.
(Invocazione)
Homo paulum di questi anni senza grazia
accogli in te le file dei poveri e di chi parla
lentamente e racconta una fine
che non riesce a finire – di chi ha perso
il tempo della durata e si tampona
le ferite aperte con belle frasi e singhiozzi
scendendo di corsa le scale mobili
salendo senza fiato i visi immobili
Uomo poco di questo tempo senza pena
fermati davanti alla stazione e dai la mano
allo storpio che attende i tuoi bagagli
per caricarli sulla portantina e sul cuore
non distrarti se una ragazzina muore
per overdose – non conoscevi il suo volto
così dissimile dal tremore che ora senti
Homo paulum di questi anni e questo orrore
santifica i generosi che non si piegano ai venti
e ricorda: polvere eravamo
e polvere già siamo.
L’autore:
Michele Obit (1966) vive a S. Pietro al Natisone (Udine).
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Notte delle radici” (1988), “Per certi versi/ Po drugi strani” (1995), “Epifania del profondo / Epiphanje der Tiefe” (Austria, 2001), “Leta na oknu” (2001), “Mardeisargassi” (2004), “Quiebra-Canto” (Colombia, 2004), “Le parole nascono già sporche” (2010) e “Marginalia/Marginalije” (Lubiana, 2010).
Ha curato e tradotto il volume “Quel Carso felice”, antologia di poesie dell’autore sloveno Srečko Kosovel, edita da Transalpina nel 2018.
È direttore del Novi Matajur, il settimanale sloveno della provincia di Udine.
Ha tradotto in italiano i più importanti poeti sloveni della nuova generazione e le opere degli scrittori Miha Mazzini, Aleš Šteger e Boris Pahor.
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Disegno
NERO
di Edi Carrer
(China su carta)
Voce d’autore ———————–
Tattoo trenutka, Tattoo of a moment
Jože Štucin, un racconto in haiku
di Gaia Rossella Sain
C’è qualcosa di lieve, intimo, eppure universale che ha portato l’haiku, genere poetico di origine giapponese, a conquistare negli ultimi anni sempre più poeti occidentali.
Questa piccola collezione di haiku dell’autore sloveno Jože Štucin, a titolo “Tattoo trenutka, Tattoo of a moment” e pubblicata nel 2008 con traduzione in inglese e prefazione di Josip Osti, è un interessante esempio di come questa forma poetica possa adattare il proprio canone e i propri stilemi attraverso differenti idiomi e culture, pur rimanendo fedele ai principi che la animano.
Il libro si divide in quattro sezioni, ognuna con un titolo che introduce le tematiche centrali dei singoli gruppi.
Il primo nucleo di haiku è “Salve Regina”, che già con il primo testo ci pone di fronte a molti dei temi che saranno ricorrenti sia in questi versi iniziali sia nel libro intero:
Triangel trikrat
udari, ko pade mrak –
bog je tišina.
Suona tre battiti
il triangolo nel buio –
Dio è silenzio.
Il contrasto fra il silenzio e la parola – umana, naturale o musicale – torna prepotente di pagina in pagina, così come la presenza di una figura divina nominata o accennata; una sezione iniziale di haiku quasi metafisici, che attraverso quesiti, dubbi e l’osservazione di piccoli dettagli indagano le profondità dell’animo umano, pur evitando sempre giudizi o patetismi di sorta.
“Tu tako piha!”, “qui soffia così forte”, è l’incipit di uno degli haiku della seconda sezione alla quale dona anche il titolo.
In questo gruppo di testi c’è un netto contrasto fra la lingua umana, anche poetica, che non riesce mai a raggiungere gli apici di bellezza della lingua naturale: qui il mare è una canzone, il vento sussurra, i canti sono quelli degli uccelli, il pettirosso ignora la prolissità… mentre l’uomo può solo continuare a parlare la sua inutile lingua.
“Deklica je po vodo šla”, “una ragazza andò a prender dell’acqua”, il terzo gruppo di componimenti, ci sbalza poi in un mondo materiale di amori e relazioni, una piccola collezione di haiku urbani che si chiude con la classica metafora dell’insetto ipnotizzato dalla luce:
Kresnica molči.
Hladen ogenj sporoča:
Pridi ljubezen!
Lucciola quieta.
Un fuoco freddo chiama:
vieni, amore!
L’ultima sezione è una chiusura d’opera che diventa inno alla natura, alle stagioni e alle creature viventi, come ci indica anche il titolo: “Polje, kdo bo tebe ljubil”, “campi, chi vi amerà”.
Negli haiku di questa parte finale si sente tutto l’influsso dei grandi Maestri giapponesi del genere: piccole gemme dipinte di colori, immagini, fiori, che rendono protagonista il macrocosmo che vive e ruota intorno all’autore.
Na pol poti do
popolnosti je poljie
polno poljskih rož.
A metà strada
verso la perfezione –
campo fiorito.
La scrittura di Štucin è estremamente musicale, soprattutto in questa ultima sezione: in molti componimenti ritornano spesso allitterazioni e paronomasie e l’autore si mantiene quasi sempre fedele al canone metrico classico della poesia haiku: 3 ku (versi) da 17 sillabe, con lo schema fisso di 5-7-5, dal quale la traduzione inglese invece si discosta per fornire una versione più poetica e lirica dei testi.
Questo piccolo libretto, piccolo nella forma ma non nel contenuto, è la dimostrazione che la poesia haiku può essere tutto ciò che noi vogliamo, pur rimanendo se stessa: in queste pagine ci sono morbide riflessioni sul valore della parola, domande che l’autore si rivolge perché il lettore possa poi farle proprie, istanti di gioia per la bellezza senza tempo della natura o per l’attimo di realtà quotidiana che si fa infinito pensiero… questa collezione di haiku è proprio il tatuaggio di un momento, “Tattoo trenutka”: come predicava il Maestro Matsuo Basho, “l’haiku coglie nella sua essenza ciò che semplicemente accade qui e ora”, proprio come un tatuaggio sulla nostra pelle che ci rimanda infinite volte al ricordo di un istante e dei suoi più reconditi significati.
Dal libro: (traduzioni in italiano a cura di Gaia Rossella Sain)
Triangel trikrat
udari, ko pade mrak –
bog je tišina.
Suona tre battiti
il triangolo nel buio –
Dio è silenzio.
*
Biti del jutra
kot ptica na drevesu –
čistilnica sanj.
Sto nel mattino
come uccello su un ramo –
sogni in tintoria.
*
Iščoč besedo
se znajdem pred tišino,
ki je Beseda.
Cerco parole
e mi trovo in silenzio,
che è Parola.
*
Kresnica molči.
Hladen ogenj sporoča:
Pridi ljubezen!
Lucciola quieta.
Un fuoco freddo chiama:
vieni, amore!
*
Zorana njiva
kot popolna grafika
brez hrbtne strani.
Un campo arato –
un grafico perfetto
senza un rovescio.
*
Žvižg na veji in
sonce pogasita zvezde.
Zamenjava sanj.
Dai rami un canto
e il sole oltre le stelle.
Scambio di sogni.
*
Prve meglice
mi odžirajo barve.
Oblak na zemlji.
La prima foschia
si porta via i colori.
Nuvole a terra.
*
Plasti neba so:
svetloba, zrak in misel.
Kje je lumin sij?
Strati di cielo:
luce, aria e pensieri.
Dov’è la luna?
L’autore:
Jože Štucin è nato nel 1955 a Cerkno, in Slovenia. È poeta, pubblicista e critico letterario e musicale.
Insegna musica a Tolmin, dove vive. È uno dei direttori responsabili della rivista letteraria Primorska srečanja (Incontri sloveni litoranei) e membro dell’Associazione degli scrittori sloveni e presidente del Club letterario di Tolmin.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesia (alcune sotto lo pseudonimo Regina Kralj), le più recenti sono “Na drugem bregu (Sull’altra riva)” 2004, “Zgoraj (Sopra)” 2004, “Čuja (Čuja)” 2005, “Haiku – Tattoo trenutka / Tattoo of a moment (edizione bilingue)” 2008, “Odhodi (Partenze)” raccolta in tandem con l’amico e poeta Edelman Jurinčič, 2008 e “Brez prič (Senza testimoni)”, 2009.
Tempo presente ————————-
Anche questo restare
Due scritti
di Michela Scarazzolo
1
Distese di campi interrotti dai pioppi e dai gelsi sulle quali i pensieri si sfaldano lievi.
Pianure di silenzi rotti da caffè corretti, grappe, cent’erbe, erbeluise, nocini, bianchi divini, rossi che ti assestano colpi di grazia illuminanti.
Nostalgia delle medicine semplici.
Nostalgia delle brume della mia terra, dove le parole di troppo si seminano e si impastano con le zolle.
2
Ma la primavera non è forse anche una lieve forzatura che rompe gli argini della diffidenza e dell’insicurezza? La contrazione di un tempo che pareva infinito quando, ecco, arriva un messaggio a sorpresa? E rivoltarsi come un calzino per imparare l’amicizia, indagarne la chimica e la fisica, provare ad essere fermi, non solo con sé stessi, rivedere le posizioni, riallinearsi ai blocchi di partenza? Non è un po’ anche questa luce radente che mostra le ammaccature e, sorridendo, scopri che le puoi coprire con un tappeto?
E poi la dolcezza di quel che resta, di chi torna, come le rondini.
L’autrice:
Michela Scarazzolo si definisce una “cabarettista timida”.
È una storica dell’arte. Ha fatto la libraia, la bibliotecaria e l’assistente museale.
Ora lavora in un ufficio ministeriale che affaccia sul Canal Grande, in attesa di approdare sui banchi di scuola. Fotografa, scrive su scontrini, fogli del macellaio, biglietti dell’autobus e sui social.
Vive a Venezia.
(le due foto sono dell’autrice)
Immagini ———————
Babel
NERO
di Edi Carrer
(Marmo nero del Belgio, ossa animali)
Voce d’autore ————————
“I dettagli sono importanti”
Enrico Grandesso, dodici racconti
di Giovanni Fierro
Dodici racconti per esplorare la crisi di una parte del nostro paese, per mostrare il fallimento di quel nord est veneto produttivo che ha illuso tutti al benessere, ha coinvolto con l’euforia del fare soldi e poi si è sgretolato in poco tempo, dentro un vento che non era più a favore, ma che ha portato tormenta e vuoto.
Enrico Grandesso con il suo libro “I dettagli sono particolari” ci porta esattamente qui, nell’accaduto rovinoso che ha lasciato un presente nel quale l’autore indaga e mostra, dà voce e attenzione, a uomini e donne illusi prima e travolti dopo, persi in ricordi luccicanti e ormai spaesati nei meandri del nuovo quotidiano, quello rimasto e sofferente dell’oggi. Quello dove il sopravvivere è il nuovo vivere. Ognuno come può.
“Nessuno sapeva cos’era, ma aveva un suono serio e vagamente mortale, così dovemmo cambiare zona e andare nel bosco vicino ai Palmieri, dove adesso c’è una strada di capannoni industriali. Tutti attivi fino al 2010, poi metà è stata chiusa; sembra che in alcuni ci dormano, de scondon, alcuni extracomunitari. L’odore di asfalto e di benzina, i macchinari, l’hanno uccisa la campagna….”, è il paesaggio che Grandesso racconta, e che fa da sfondo all’esistenza di ogni singolo protagonista del libro, il metro più immediato con cui misurare la nuova esistenza, dove “’A me il silenzio impaurisce’” le confidò lui, dopo qualche istante. “’Non lo vorrei mai, cerco sempre di scansarlo’”.
E a volte il silenzio diventa momento di riflessione, di incontro con sé, fortunatamente. Perché c’è sempre chi continua a lottare, e non vuole arrendersi alla superficialità imperante, quella dove i soldi/schei rimangono l’unica verità a cui essere fedeli.
“Però mancava del tempo, tanto tempo, e nell’incistarsi di quei giorni sfacciati il tempo sembrava non scorrere mai. Acqua! Ci fosse stata una pozza d’acqua, tra l’asfalto e le vetrine, tra i semafori e la rapsodia esangue del cielo senz’occhi. Senza un barbaglio la notte; senza il tocco di un dio si rimescolavano i colori dell’alba. Nel continuo, vorace fluire di un tempo esausto di non conoscersi e di dover proseguire. Verso dove?”.
Ed è un dove nel quale Grandesso con sapienza d’autore ci porta, accompagnando e accompagnati da ogni uomo e donna che sono le storie di questi racconti, calibrati in un equilibrio che è tessuto di coinvolgimento e attento sguardo critico. “Perché la gente qui non ride, semmai mastica amaro”.
Che poi i soldi/schei, comunque, tornano fuori sempre: “La fattura fu emessa, regolarmente, tre settimane dopo: 146.000 euro più I.V.A.. Soldi incassati dopo tre anni: 11.000”.
Ognuno cerca di salvarsi come può, chi andando incontro all’altro e cercando l’abbraccio, chi vedendo nell’altro solo un pericolo da eliminare. Ad ognuno la propria scelta.
C’è poco da fare, “Le giornate si erano mutate in una puntuale epifania della pena, le domeniche nel vortice feroce del nulla”. Da leggere.
Intervista ad Enrico Grandesso:
Il libro contiene tante storie: sono necessarie a narrare lo sfilacciamento di un tessuto sociale sempre più debole?
Sono necessarie nell’ambito narrativo. Testimoniano lo sfilacciamento di cui tu parli, sia da un punto di vista collettivo – vedi il gruppo di coscritti buontemponi e maligni che si ritrovano a pranzo nel primo racconto, Radio California – sia da quello individuale, come in Laura, la protagonista in crisi psicologica di Brezza d’agosto; o in Riccardo, il mediocre sempre sulle difensive, che va in crisi quando incontra il gruppo di volontari che assiste delle persone in difficoltà in Chiuso per ferie.
I protagonisti dei singoli racconti, cosa hanno vinto? Cosa hanno perso? E quando?
Hanno perso l’innocenza; e quella semplicità che, fino a qualche decennio fa, poteva colorare la vita di provincia italiana e certi suoi protagonisti. Oggi si vive (o ci si lascia vivere) tutti in un vortice inarrestabile di movimento, denaro, spese, mail, sms, whatsapp, TV, automobile, musica e pubblicità al bar, ecc. ecc., chi più ne ha più ne metta. Cosa si vince? La frenesia e la velocità esecutiva, se vogliamo. Ma dal punto di vista umano, questi presupposti fanno vincere ben poco.
Sembra che il motore della società siano sempre i soldi, i schei…
Per qualcuno lo sono ancora. Ad esempio, nel settimo racconto, Poca schiuma, mi raccomando, il divo di Roma – sbruffone e ignorante – viene invitato a gestire una stagione teatrale di una città di provincia per i suoi begli occhi azzurri e per la celebrità che gli ha dato la TV; ma poi è rispettato anche e soprattutto perché si fa ben pagare. Il rapporto cittadino-soldi passa invece da grottesco a drammatico nel penultimo racconto, Fare, il cui tema è la devastante crisi delle banche esplosa poco tempo fa.
Qualcuno cerca di resistere, sempre con le piccole cose, con i piccoli nutrimenti dell’anima. Pensi che possa bastare?
Non solo: direi che apre una direzione. E la possibilità ora di una crescita, ora di una nuova consapevolezza, ora di una catarsi. È il caso di Emanuele, protagonista del racconto conclusivo, Altrimenti. Ma è anche il caso dei volontari di Chiuso per ferie, che ho già nominato: non a caso la ragazza-clown del gruppo dice al “giornalista per caso” che pranza con loro, parlando degli adulti disagiati: “Loro sono una parte fondamentale della mia vita. Non puoi immaginare la gioia che mi dà vederli sereni, togliere loro un po’ di nuvole”.
Il Veneto, in cui sono ambientati tutti i dodici racconti, e l’Italia – che in questi racconti si specchia: de te in fabula traditur! – sono ricchi di umanità, di volontari, di altruismo. Ma i mass-media ne parlano raramente (tra le poche eccezioni, l’inserto del “Corriere della Sera” del martedì “Buone notizie”, curato da Ferruccio De Bortoli). Sono realtà di bene e di solidarietà che sono conosciute troppo poco rispetto all’energia costruttiva che creano – e al loro valore senza aggettivi.
L’impressione che ho avuto è che la società sembra non contenere più queste persone, che cerchi di espellerli, di cacciarli fuori.
Esaminando alcuni atteggiamenti, sì. Nella lingua impura e politicamente scorretta del libro si usano – meglio: traducono – anche termini razzisti, che circolano nell’Italia di oggi, assieme alle “idee” che li sorreggono. Come ha notato una scrittrice napoletana, Monica Florio, questi racconti narrano l’Italia imbarbarita di questi anni, riflessa in quella che Francesco De Nicola ha definito nella sua recensione come un’unica cittadina della provincia diffusa.
Ma chi riesce a portare avanti un percorso di vita autentico, con coraggio e determinazione – e sempre pagandone il costo – c’è: la realtà, grazie a Dio, non è così uniforme.
In questa atomizzazione di solitudini, fallimenti, invidie e lontananze, il dialetto è forse l’unico collante?
Il dialetto si frammista spesso con l’italiano (in verità i dialetti: non cito solo da molti dialetti veneti, ma anche dal romanesco, dal romagnolo, dal siciliano ecc.) perché la sua vitalità linguistica e psicologica è sempre vivissima: ancor più in una realtà inafferrabile e in perpetuo e incontrollabile divenire come quella odierna.
Anch’io, come Miljiana Cunta, ho scritto prose poetiche: ce ne sono due nel mio libro – benché diverse per temi e stile da quelle di Poesie di un giorno. La seconda, Nei portici lunghi, parla di Padova; nella prima invece, Mi e el can, ho scelto un titolo in dialetto – e la narrazione in prima persona – per condurre il protagonista, emigrato in Inghilterra, ad un salto nell’infanzia e nella sua realtà contadina.
Oltre a questo, il dialetto è una scelta letteraria, che richiama ad alcuni grandi della tradizione nazionale: Gadda, Meneghello, Calzavara e Zanzotto su tutti.
Mi sembra che ci sia un segreto, qualcosa tenuto nascosto, che vive in queste pagine.
Vedi, Giovanni, il tema del segreto è uno dei nuclei portanti di tutta la letteratura, dai poemi omerici in poi. Quando l’equipaggio di Ulisse, tornando verso Itaca, non lo ascolta più e gli nega l’autorità, oltre all’autorevolezza, i versi omerici cantano che è perché egli sa cose che loro non sanno. Così il segreto è vivo e fondamentale nell’Eneide, nella Commedia, nei Promessi Sposi, in Dostojevskji, in Joyce. Senza dimenticare quanto ha scritto il grande W. H. Auden: “quando vedo un uomo mi chiedo cosa non dice, cosa mi nasconde“.
Alcuni protagonisti de I dettagli sono importanti hanno i loro segreti – spesso meschini o turpi; ad esempio, l’autore della truffa operata da una grande banca, che verrà poi sistemato a dovere da un esponente del Potere ben maggiore di lui, non sa operare che nell’ipocrisia e nella falsità, che diventano violenza quando gli va bene, supplica di pietà quando è nella merda. Ci sono però anche dei segreti belli: quello che Suor Caterina svela a Riccardo; quello di Laura, nel finale di Brezza d’agosto; e la paternità di Emanuele in Altrimenti.
In questi racconti risulta evidente la mancanza di fiducia in se stessi e nella società, e la cattiveria che diventa un cibo comune. È questa l’eredità che i protagonisti lasceranno? Forse hanno fatto sogni più grandi di loro?
I racconti ritraggono un’Italia in crisi, epocale, culturale, di identità. Diventa evidente cosa si è perso, non quali certezze si possono costruire. L’altro lato della medaglia tuttavia, oltre all’indignazione e alla denuncia, è la resilienza con la sua altissima dignità; e i resilienti non hanno bisogno di parlare – nemmeno di urlare. La vita e l’amore sono, prima di esprimersi.
Infine, molti racconti hanno delle citazioni, letterarie soprattutto, all’inizio. Che significato hanno?
Spesso richiamano al genere del racconto: grottesco, drammatico, introspettivo, satirico. Un passo dei Viaggi di Gulliver di Swift, ad esempio, è di epigrafe alla satira eroicomica di Poca schiuma, mi raccomando, dove i “cavalieri della cultura” vengono rovesciati a dovere e la lingua, espressionisticamente e ritmicamente lavorata, crea contrapposti affreschi d’ambiente, fino a giungere alla parodia in romanesco della prima ottava del Furioso.
Altre volte le citazioni in epigrafe offrono uno spunto di riflessione: come nel racconto di chiusura, Altrimenti, dove riappaiono circolarmente i sette protagonisti del primo racconto, con in più il protagonista allora assente, Emanuele, che deve attraversare e superare un gravissimo lutto familiare, nell’indifferenza di chi credeva amico. Qui cito in epigrafe una massima della tradizione sapienziale ebraica (“È dalla tristezza che dovete liberarvi. La tristezza non è un peccato, ma non vi è peccato che indurisca tanto il cuore come la tristezza”) e sei versi dal primo canto del Purgatorio dantesco. Se vuoi… sono come una mano che aiuta a scavalcare il confine e ad entrare nel terreno di un racconto nuovo.
L’autore:
Enrico Grandesso, scrittore e studioso di letteratura, ha origini familiari veneziane.
Si è due laureato all’Università degli studi di Urbino (oggi “Carlo Bo”), dove ha tenuto seminari e ha preso parte per oltre vent’anni all’attività della cattedra di Letterature Comparate.
Dirige una collana di ricerche letterarie per la Marsilio. È nel comitato di redazione della rivista di cultura “Amicando Semper“.
Organizza, dal 1990, convegni di studi nazionali e internazionali, di rassegne ed eventi culturali.
Critico letterario, collabora dal 1992 con varie testate-stampa cartacee, internet e radiofoniche. È anche autore radiofonico per RadioRAI e autore teatrale.
Il suo primo spettacolo, “Vozi dal mar e dala tera” è stato rappresentato sui palcoscenici triveneti, a Roma e in Messico tra il 2001 e il 2015, con oltre 40 repliche. Altri suoi spettacoli sono: “Come el vento ne la laguna” (2002-2006) e “Schei, tera e memoria”, curato dal Cantiere Teatrale Nautilus (in scena nel biennio 2012-13).
(Enrico Grandesso “I dettagli sono importanti. Dodici racconti italiani”, pp. 145, 15 euro, Biblioteca dei Leoni 2018)
Tempo presente——————————-
È arrivata la luce di maggio
di Gabriele Via
È arrivata la luce di maggio
e cammino in attesa di una voce
tra sagome solenni di case mute
e muto è il Tevere il verde suo cupo
e il sole finalmente che cade
in altro verde ancora sui fiori
e il cielo distante come il nome
del suo colore che si stacca
all’infinito dai tetti delle case
malcapitate per una distratta grazia
dentro il nome della città
sopravvissuto agli eventi
e il gelsomino finalmente
aggrappato ad una feroce schiena
di ringhiera e aperto nel profumo
dei suoi fiori che delinque nell’anima
la promessa violata di una speranza
che geme, uguale, in questo vecchio sole
e voci di donne ferme ai crocicchi
e un corvo in santa pace in mezzo alla via
che strappa col becco le budella di un topo morto
e nel suo regale e lento masticare
pare ripetere l’oscuro mantra
del nome della città Roma, Roma, Roma
che sprofonda a cielo aperto
la sua antica luminosa verità.
L’autore:
Gabriele Via è nato a Bologna nel 1968. Poeta, filosofo, cercatore.
Si esprime e ricerca in versi, in narrazioni, con la voce, e con la fotografia.
Ha pubblicato con Roberto Roversi, Roberto Pazzi, Elio Pecora, Nicola Muschitiello.
Ha pubblicato diversi titoli di poesia, un romanzo e figura in numerose antologie.
Dal 2014 ha creato una pagina Facebook in cui propone la poesia come terapia.
(la foto è dell’autore)
Immagini ———————
Non sa quello che fa
NERO
di Edi Carrer
(Lamiera, collage e pittura su plexiglas, reperti bellici, cranio animale cm 85×95)
Voce d’autore ———————-
Guarire di Sardegna nell’isola di pietra
Emilio Rigatti, “Ichnusa”
di Antonello Bifulco
Emilio Rigatti approda nelle terre di “Ichnusa” con la sua fedele e poderosa “Vagabonda”, una Specialized Carve che non è altro se non una bicicletta da battaglia, due ruote in equilibrio a sostenere i sogni e le sofferenze del viandante, l’arma puntata al cuore di quel male che attanaglia l’autore.
L’arrivo a Ichnusa, l’antico nome della Sardegna, è per Emilio una sorta di purificazione dalle scorie del suo mal d’amore, amore che inaspettatamente trarrà da questa terra misteriosa, da questa regione arsa dal sole e dalle sue molteplici passioni, troverà un’Isola colma di ospitale genuinità, di quel generoso modo che hanno i Sardi di far sentire il viaggiatore non semplicemente un ospite.
“La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso…“, così diceva Fabrizio De André parlando di quest’isola e a leggere le parole di Emilio Rigatti forse anche lui ha toccato qualche lembo di paradiso nelle sue tappe ad Ichnusa…
Dal libro:
“Questo libro è anche una sorta di testimonianza d’affetto per i sardi che mi hanno sempre fatto sentire ospite e straniero allo stesso tempo. Sentirsi ospite è gratificante, ma lo è anche sentirsi stranieri, sentirsi altrove. Una volta essere straniero o incontrare uno straniero era di per sé un’avventura…”
“L’arrivo all’alba è, narrativamente, un simbolone azzeccato, ci sta bene come la navigazione sotto la luna da un luogo conosciuto a un altro sconosciuto, un viaggio notturno, lustrale e iniziatico, un transito da un dove a un altrove, e per di più scandito dal libro di Sergio Atzeni. Sarà un viaggio di pedali e parole, libri e paesaggi, perché, pedalando leggero, leggerò la Sardegna attraverso i suoi scrittori.”
“Il vento cavalca sulle strade, scuote olivastri e lecci, pini e roverelle, fa tremare come lame di coltelli appuntiti le foglie delle agavi, arroventa le distese di montagne dalle rocce più diverse che costituiscono l’isola. Mi fermo a staccare delle piccole e dolcissime pere che pendono da alberi di nessuno, ai bordi della strada. Sono acquose e calde, sembrano cotte…”
Intervista ad Emilio Rigatti:
La scrittrice Sarda Michela Murgia dice che: “Tutto diventa unico se sei tu l’unico che lo vede”, e spiega perché è meglio “costruirsi, cucinarsi, impastarsi” il proprio viaggio piuttosto che ridursi ad un acquisto nei supermercati delle Agenzie.
Emilio Rigatti come “costruisce, cucina ed impasta” ogni suo viaggio?
Dunque, sono diventato uno “sprogrammato professionale”. Nel senso che non programmo mai i viaggi nei minimi dettagli. A volte parto senza sapere bene l’itinerario, che mi costruisco strada facendo. Così è stato col viaggio in Sardegna. Ogni sera decidevo (e decido anche adesso, quando viaggio) dove restare, a sensazione. A seconda di chi incontravo, della bella atmosfera del paese, della mia stanchezza. Non guido il viaggio. Mi faccio guidare. In quanto all’unicità, il viaggio non comprato nelle agenzie di naufragio (del viaggio, appunto) è sempre unico. Cambiano gli occhi di chi lo vede, la stagione, l’umore, il cielo e le nuvole. Non bisogna aver paura di ripetere: non ci saranno mai due viaggi uguali, anche lungo lo stesso itinerario.
Emilio, cos’era la Sardegna prima della tua “viandanza”? E, dopo aver provato l’emozione d’esser allo stesso tempo ospite e straniero di quella terra, cos’è per te ora la Sardegna?
Bene: la Sardegna era uno dei posti dove volevo andare, che volevo conoscere. Lo sentivo vicino – è Italia – e lontano – è Sardegna-. Non riesco a capire come non ci sia andato in sessant’anni. Ma alla fine è stato meglio così. La sorpresa, le sorprese quotidiane sono state la benzina della mia pedalata. La Sardegna, che in un certo senso già avevo nel cuore, ci ha fatto il nido. In poche parole: è uno dei luoghi dove so che tornerò sempre.
Questa pedalata nell’isola che fu e permane la meta di numerosi viandanti, cosa ha sanato dell’animo e del fisico di Emilio?
Era un periodo brutto, la fine di una relazione coniugale, il senso di solitudine e disperazione erano il pane quotidiano. Una diagnosi di tumore alla prostata (è andato tutto benissimo perché mi son tenuto lontano dalla chirurgia e mi sono dedicato ad altre forme di cure del corpo e dell’animo), l’impossibilità di continuare a fare maratone e corse a piedi, mio figlio lontano. Il viaggio nell’isola di pietra mi ha equilibrato, mi ha fatto capire che le relazioni umane sono una scoperta continua, che c’è ancora tanto da vedere. In un certo senso, la Sardegna mi ha guarito. Almeno in parte, con la medicina delle sue rocce e delle sue querce.
La Sardegna un tempo, ora per fortuna è solo un brutto ricordo, saliva alla ribalta nazionale non per la sua cultura millenaria o per le sue bellezze naturali ma per l’infame privazione della libertà personale perpetrata attraverso i sequestri di persona. Ora il turista, visitatore o semplicemente ospite, da cosa viene “diversamente rapito”? E, per Emilio “ospite”, quale forte ricordo rimane in relazione a questi liberi ed ospitali “neo-sequestri”?
Bene, io ho trovato ovunque accoglienza e ospitalità. Credo che presentarsi impolverati, arrostiti e a bordo di una bici carica faccia su chi accoglie un effetto diverso da quello che produce uno che arriva con un SUV. Mi è capitato più volte di fermarmi per bere una birra e restare incollato in un posto per giorni e giorni. Ora non si tratta più di sequestro di persona, ma di “sequestro d’anima”. Nel senso migliore.
Quanto è importante, durante un viaggio in solitario, aver letto qualcosa sui luoghi che ci si appresta a visitare e quanto conta leggere libri di autori locali nel mentre?
Per me è importante perché, prima di usare i miei occhi, è viaggiare vedendo la strada attraverso quelli di qualcun altro che ha percorso lo stesso itinerario. Più prospettive accumulo su un determinato itinerario e più il viaggio sarà singolare. Perché? Perché ancora una volta mi rendo conto che un itinerario è narrabile mille volte. Quanti hanno scritto “Viaggio in Italia”. Centinaia di persone, forse migliaia. E non finiremo mai di viaggiarla.
Qual è, se ce n’è uno, l’autore Sardo che hai letto durante il tuo viaggio che più ti è rimasto dentro e perché?
Il mio autore preferito è Salvatore Satta. Il libro: “De profundis” parla molto del Friuli Venezia Giulia e pochi lo sanno. Anzi, di Pieris, dove Satta fu confinato. Ma il libro che amo di più di Satta è “Il giorno del giudizio”. Un capolavoro, un viaggio in una Sardegna che in gran parte non c’è più.
Nel tuo viaggio hai incontrato generosità, passione, convivialità, accoglienza e un’infinità di altri lati positivi nei Sardi. Quali i loro punti deboli, i loro lati negativi?
Sai, io non ho avuto occasione di trovarli, data l’accoglienza ricevuta. Me li hanno spiegati i Sardi: “siamo spesso campanilisti, individualisti, legati a tradizioni e a comportamenti che a volte sono anacronistici”. Ma avrò tempo di conoscere l’Isola in futuro. E, ovviamente, i suoi abitanti.
Finisce questa tua avventura in Sardegna con la promessa di tornare ad esser di nuovo ospite di queste terre e di queste persone alle volte un po’ “aliene”.
Nel tuo racconto fai un cenno a Calvino e alle sue Cosmicomiche, più precisamente dove si narra che un tempo la Luna si avvicinò così tanto alla Terra che quasi si sarebbe potuto saltare da una parte all’altra. Quanto sono alieni gli abitanti del “pianeta Sardegna” rispetto agli abitanti della Terra in “Continente”?
Bene, intanto ci sono già tornato svariate volte, l’ultima nel novembre del 2018, la prossima in settembre per un matrimonio, a Gonnesa. Che dire dei Sardi? Beh, un po’ l’ho già detto sopra, ma per riagganciarmi a Calvino la Sardegna e i suoi marziani sono sì una sorta di città invisibile, o di isola invisibile dove ci sono cose uniche. Che dire del brivido aggirandosi sotto le volte megalitiche dei nuraghi di Sant’Antine o Barumini? E del profumo del finocchietto selvatico, che strappavo al volo dai bordi delle strade per strofinarmelo sulla pelle e portarmi addosso la sua essenza? O del Pan di Zucchero, a Masua, con la sua massa bianca carica di gravità terrestre e di bellezza? Rispetto a noi continentali? Preferisco non fare “confronti tra popoli”, ma certamente in questa gente c’è una sorta di orgoglio isolano che in noi, per quanto amiamo la terra dove viviamo, è diverso. E credo perché ci manca l’abbraccio del mare, il senso di navigazione immobile che, forse inconsciamente, abita l’anima dei Sardi.
L’autore:
Emilio Rigatti, insegnante e scrittore, ma soprattutto cicloviaggiatore, ha pubblicato dieci libri dedicati all’andamento lento in bicicletta. Tra di essi ricordiamo quello d’esordio, “La strada per Istanbul“, premio “Albatros” per la letteratura di viaggio nel 2002; “Minima Pedalia. Viaggi quotidiani in bicicletta e manuale di diserzione automobilistica”; “Dalmazia Dalmazia. Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro” (2008); “Se la scuola avesse le ruote. Avventure di ragazzi on the road e manuale di pedalogia” (2010).
Del 2015 è il suo libro, “Gli alchimisti delle colline. Storie di uomini e orizzonti sul Collio” e nel 2017 ritorna con “Ichnusa. Guarire di Sardegna”.
(Emilio Rigatti “Ichnusa. Guarire di Sardegna nell’isola di pietra” pp. 208, € 17.00, Ediciclo Editore, 2018)
Immagini ———————
Disegno
NERO
di Edi Carrer
(China su carta)
Intervista ad Edi Carrer:
di Giovanni Fierro
Da cosa nasce il progetto ‘NERO’?
“NERO” inizia con una seriale produzione di opere collegate essenzialmente dal colore che le accumuna.
Scultura, composizione, disegni…. Come mai queste diverse forme espressive assieme? E cosa le avvicina?
I vari temi e le condizioni espressive necessitano di essere tradotte con diversi media, come appunto la scultura, le composizioni parietali etc …
I toni espressivi sono comunque molto riflessivi, sempre immersi in un silenzio totale, che avvolge e contiene. É solo una mia impressione?
Il filo conduttore al di là del loro rappresentante colore, è la necessità di far capolino sulla condizione esistenziale, la sua derivazione, i suoi riflessi e la ferma condizione di ineluttabile fine intesa come tale (dal nulla arrivati al nulla destinati).
Le sculture portano in evidenza ciò che rimane (ossa e teschi animali…). Cos’è, un lavoro sulla memoria, sulle tracce che rimangono, o su di una fine a volte solo rimandata?
Le ossa inizialmente mi hanno affascinato per la loro bellezza strutturale, ingegneria genetica capace di astrarre forme rendendo loro l’armonia del racconto, man mano son diventate necessarie al tradurre concetti di memorie, anche del presente.
Le composizioni rimandano invece ad un passo più narrativo, dove i ‘pezzi’ presenti sono delle indicazioni, degli inizi, da cui partire…. Può essere così?
Le composizioni diventano narrazioni, rebus, dove la sintesi dei vari oggetti inseriti vanno interpretati secondo una logica di conoscenza, ma lasciano spazio all’emotività arcaica, tentando di far rifletter in modo autonomo lo spettatore.
Nei disegni c’è una figura umana ricorrente, che sembra cercare un posto dove stare, nel suo mettersi in posa c’è dell’irrequietezza, o mi sbaglio? E chi è?
I disegni nascono da una convalescenza importante, necessario il dover agire in qualche modo ma limitato dalla malattia, il segno grafico mio alleato da sempre è stato come lo strumento voce per raccontare in forma di alter ego le varie emozioni di questo lungo viaggio nella sofferenza, a noi umana regalata condizione, il ciclo si conclude con la restaurata salute fisica, eppure il personaggio descritto in 250 disegni esce dal foglio per riemozionarsi della realtà!
L’artista:
Edi Carrer è nato a Pordenone nel 1974. Appena ventenne inizia un percorso artistico affidandosi inizialmente al linguaggio pittorico. Nel 1996 iniziano le prime esposizioni, di pittura e incisione, ma prosegue la ricerca di una nuova forma espressiva.
Nel 1998 affronta e si affida alla terza dimensione, partendo dal materiale ligneo per poi passare definitivamente al marmo.
Carrer non abbandona gli altri mezzi espressivi a favore della scultura. Inizia invece una libera ed efficace contaminazione tra linguaggi figurativi tradizionali e il riciclo di materiali di vario genere.
Nel 2012 è tra gli artisti selezionati per la rassegna “Sculpture by the sea” in Australia.
È chiamato a realizzare diverse opere monumentali sia in Italia che all’estero.
Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private.
(“NERO” è stata anche una mostra personale di Edi Carrer che si è tenuta negli spazi di StudioFaganel a Gorizia, dall’8 al 29 luglio del 2016, e in contemporanea nello spazio espositivo del Kinemax)
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Guido Cupani, Roberto Lamantea, Ilaria Battista, Antonello Bifulco
Livio Caruso, Salvatore Cutrupi, Gaia Rossella Sain.