Il caldo dell’estate iniziata ha anche lo spazio giusto dedicato a Fare Voci.
Ed è uno spazio che trova le sue espressioni, le sue autrici e i suoi autori.
Ad iniziare da Max Ponte, che ritorna con la sua raccolta poetica “Il mio paese è una stella”, geografia sentimentale a cui appartenere, con devozione.
Franca Mancinelli con “Ci attraversa una visione” ci regala sei suoi testi inediti, nuova occasione per costruire il suo prezioso fare poesia.
La bellezza di questo mese è anche nei testi di Francesco Verni, contenuti in “Marlboro rosse morbide” con le illustrazioni di Milo Manara, e la troviamo nello scrivere di Lucianna Argentino, con ben due libri: “Corpo di fondo” e “Appunti di un canto controverso”. Con lei facciamo davvero un viaggio nella profondità di ogni perché della poesia…
La poesia continua, con l’omaggio a Ciril Zlobec curato da Michele Obit, con Veronica Chiossi e il suo “Il coltello sul vassoio”, e con Massimiliano Lancerotto, la sua poesia “8 giugno” è da imparare a memoria….
La narrativa è firmata da Marco Fregonese con il racconto “Il labirinto dei topi” e da Saverio Merzliak con romanzo “Linee Confuse. Storie di genti e di confini”.
Le immagini sono quelle proposte dal laboratorio creativo curato dall’associazione Mitteldream-ArteGorizia, nell’ambito del progetto “Le porte accanto. Alda Merini Gli artisti La gente” proposto ed organizzato dall’associazione Mongolfiere Tascabili.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Arianna Simcic
Voce d’autore ——————————
I miei versi sono vesti che cadono lungo ai tuoi fianchi stretti
Max Ponte, “Il mio paese è una stella”
di Giovanni Fierro
Scrivere del proprio paese è sempre una dichiarazione d’amore. È quella capacita di fare di un luogo il corpo di appartenenza, che si vuole stringere, cantare, abbracciare. Anche quando sembra che il gesto più immediato sia quello del dimenticare. Ma di dimenticanza non c’è traccia in “Il mio paese è una stella”, la nuova raccolta poetica di Max Ponte, dedicata alla sua Villanova d’Asti.
“Il mio paese è una radice che s’aggrappa, uno strumento che fende la terra, il mio paese è schivo, accoglie i potenti, ma sempre con una certa diffidenza, il mio paese conosce i campi e le placide attese del bestiame”. Sono tratti decisi ed armoniosi, sono parole che trovano subito la radice dello sguardo che costruisce l’appartenenza. Da subito Max Ponte ci affida una confidenza con il suo paese in cui chi legge si sente accolto, si sente invitato ad entrarci, per stare bene e per condividere un sentimento vero e coinvolgente.
“La nostra casa/ sarà screpolata come le mani/ che lavano i piatti la nostra casa/ sarà di mattoni crudi come gli attimi/ che ci fondano”, e qui l’intimità trova tutta la sua forza espressiva, è un guardarsi allo specchio, riconoscere la propria identità ed indicarla, nutrendo un immaginario che si fa importante.
Villanova d’Asti vive in quella frontiera che si apre tra le province di Torino ed Asti, è luogo e paesaggio dove le cose minute, anche dimenticate, hanno il loro significato, anche quando si mostrano in una fragilità che le sorprende, che le costringe al silenzio. Ma è proprio in quel taglio del tempo che Max Ponte pone il proprio sguardo di poeta, cogliendone i significati più profondi e necessari, trovando l’attenzione per dire “Questa notte ho abitato/ tutte le camere e tutte le stive/ tutti i sacchetti e tutti i rintocchi/ tutti i litigi e tutti gli amori”, “Passerò tutta/ la notte ad ascoltare/ il ticchettìo sui coppi e i/ porticati negli interni dei/ cortili”. Rispetto allo scrivere dei precedenti libri, qui i toni espressivi di Max Ponte sono maggiormente delicati, ancora più definiti, in un fare poesia che ha l’attenzione per ciò che è prezioso ma che bisogna stare attenti a non sciupare.
“Il mio paese è una stella” è anche una considerazione a riguardo di una società che è cambiata, “Così esci dalla fabbrica installata/ nella vasta pianura in cui/ nei lividi giorni subalpini/ prima si trainavano i buoi/ ed ora si produce olio per motore”, e che forse è anche uscita da un sogno a cui era bello appartenere: “Era un mondo in pratica/ Che finiva sulla statale/ Ma credeva nell’America”.
Un mondo insomma che ora è immerso in un presente in cui il presente ha altri accenti sociali, si muove con altre coordinate economiche, come ben racconta lo stesso Max Ponte nell’intervista che segue poco più sotto, ma in cui c’è ancora il bisogno di ritagliarsi un spazio tutto per sé, privato, dove “Tu preghi e preghi/ santi cristi madonne/ ignoti beati gesù bambini/ fra le madonne quelle/ della neve”, o che si apre alla coscienza di sé più sincera, quella in cui aprire meglio gli occhi, per riconoscere che “la durata dei fiori è la durata/ del passaggio la ricerca del gesto/ indelebile che ricongiunga il cielo/ con la terra e infranga il miraggio”.
Perché, a volte, del luogo in cui si abita basta accorgersi di quanto il suo è il bisogno di essere esplorato, nella geografia e nel tempo, per trovare quelle vicinanze che sono state, che sono ora e che saranno, la scoperta continua da sostenere anche con lo scrivere: “Ho trovato una corriera/ impolverata delle promesse/ finite in questo tempo oscuro/ avevano il sorriso di mio nonno/ e le borse di mia zia e mia madre/ che andavano a lavorare a Torino”.
Perché è questa confidenza che si costruisce, poesia dopo poesia, poesia dentro la poesia, è questa la possibilità di un sentimento sincero e profondo, dove “i miei versi sono vesti/ che cadono lungo/ ai tuoi fianchi stretti”. Il corpo perfetto di un paese.
Dal libro:
La cura del fuoco
Quanto era grande
nei giorni d’inverno
nei ceppi di legno
nei cerchi di ghisa
la cura del fuoco
addomesticato e
imboccato, il fuoco
prima neonato
poi incendio tenuto
in cucina blandito
e sovrano irridente
il calore che sale
per aria e i tubi
della nave invernale
quanto era grande
la cura del fuoco
le bucce d’agrume
l’acre profumo
d’arancione memoria
sul far del Natale
*
Nei giorni più tersi
Nei giorni più tersi
si ergono i rilievi
i bianchi confini
le ragioni degli
inverni certi stati
d’animo miei e
delle mie genti
così gelidi e così
resistenti da dar
alla terra piatta
vertici celesti
*
Le mie lande scapigliate
Queste, o lettore, sono
Le mie lande scapigliate
La zazzera dei terreni
Che daranno fieno il cui
Sentore arriverà in paese
L’unica realtà, sai, è la terra
Che consiste e non si spegne
Accoglie le ossa delle vecchie
Plasma il fiato del nascituro
Lambisce le falde ingloba
I fossili e tutti i secreti
Delle sue terre mio nonno
Ricordava tutte le “tavole”
Certissimi incolti fragmenti
Queste, o lettore, sono
Le mie lande scapigliate
Verdi di verzura subalpina
E ora sul ciglio della ciclabile
Le ritraggo e le macchio
Mentre giunge un velocipede
Con la mia ombra
*
Mia nonna creava draghi con le zucchine
La legna d’estate era fatta per giocare
i salici diventavano armi arboree
e le zucchine animali dai piedi
sottili con gli stuzzicadenti che
mia nonna infilava alle verdure
poi le guardava compiaciuta come
una bambina guardava i suoi draghi
in uno dei momenti trasognati
la legna d’estate era fatta per giocare
per i gatti e le schegge nella pelle
tutti essendo virgulti si poteva
diventare alberi nel cortile con le
bici si facevano grandi tour di pochi
metri perché il tempo è circolare
e noi ritornavamo sempre con
il sudore le ginocchia sbucciate
le giornate con i ghiaccioli e i compiti
da fare che poi cosa sono serviti
questi compiti se non a dimenticare
di essere piccoli e che tutto poteva
scomparire per poi riapparire
vivendo con i propri morti
tutta l’estate
*
Tutte le poesie imparano a tramontare
Tutte le poesie
all’imbrunire son fatte
della bruma delle colline
finiscono davanti al mulino
del casale con fumi rossastri
sul crinale, è il gran cinema
dell’albero e del pilone
la discesa nei fondali
della foresta che estende
le radici sui fossili dove
c’era il mare, tutte
le poesie all’imbrunire
aspettano i bambini
davanti alle scuole
hanno la forma delle
foglie e imparano
a tramontare
Intervista a Max Ponte:
Cosa significa scrivere del paese dove si vive?
Significa stabilire un legame forte col proprio territorio, dare quasi una dimensione geografica ai propri versi (cosa che hai fatto anche tu col tuo “Gorizia On/Off”), renderli allo stesso tempo più concreti, calati nella realtà, vicini alle persone; e non per questo meno universali in potenza e capaci di parlare a cittadini che stanno dall’altra parte del mondo.
In particolare, cosa di Villanova d’Asti pensi abbia maggiormente influenzato le poesie di “Il mio paese è una stella”?
Credo che quello che si ritrova in questa raccolta sia l’atmosfera da piccola capitale di un mondo rurale dimenticato, di confine anche questo, non tra due stati, ma fra due province (quella di Asti e quella di Torino), eppure miracolosamente viva e resistente alle intemperie.
Villanova D’Asti, come altri piccoli centri italiani, vive in una bolla, con le proprie dinamiche, le proprie feste, i propri personaggi, quelli del presente ma anche quelli del passato, ha molti tratti anacronistici, lo si vede dal mercato del giovedì che è un rito dal sapore della festa che si ripete da secoli.
Questi testi sono anche un paesaggio dentro il quale costruisci un sentire che è a sua volta un paesaggio, emotivo e di evocazione certo, ma comunque sempre un paesaggio. Che ha secondo me dei tratti pittorici, nel modo in cui usi le parole, le immagini che evochi, l’atmosfera che costruisci. Ti ci ritrovi in questo?
Sono assolutamente d’accordo, infatti molte poesie sono nate da un’immagine, da una visione, da una percezione, e credo che la poesia e la pittura siano sorelle. Sono tornato a vivere a Villanova nel 2019 dopo tanti anni vissuti a Torino con frequenti spostamenti anche a Parigi, ed è stato un ritorno che mi ha legato soprattutto ad un paesaggio che dimorava segretamente nella mia infanzia, un paesaggio in senso lato, fatto non solo di natura ed edifici ma di ricordi, di sensazioni persino di odori e suoni.
Perché mi sembra anche che, rispetto al tuo scrivere dei precedenti libri, in “Il mio paese è una stella” i toni espressivi siano maggiormente delicati, ancora più definiti, in un fare poesia che ha l’attenzione per le cose fragili, per ciò che è prezioso ma che bisogna stare attenti a non sciupare. Mi sbaglio?
Sicuramente la mia scrittura ha intrapreso, in questa raccolta, una strada diversa, forse maturata già con “Ad ogni naufragio sarò con te”. Un’attenzione per il margine, il fragile, il piccolo, le sfumature, gli oggetti abbandonati, le case disabitate. Un’attenzione mossa dal ricordo dei miei nonni ma non solo, da una sorta di impegno anche politico in senso lato: quella di chi abita in provincia e ha continuato a starci stabilmente è, a conti fatti, l’epopea degli emarginati, di chi ha lavorato duramente nei campi e nelle fabbriche locali fuori dalle luci e dalle possibilità cittadine.
Se scendi a Villanova in treno per andare in paese rischi di farti due chilometri in mezzo ai campi perché non esistono trasporti frequenti. Il cinema più vicino è a 14 km ed esiste una sola edicola che sopravvive grazie a due sorelle. Molti negozi hanno chiuso, compreso l’albergo in centro e i giovani trovano rifugio nei bar. Questo libro quindi è mosso, anche e necessariamente, dalla simpatia per chi è stato dimenticato.
I tuoi nonni sono un riferimento importante per te, difatti in questi tuoi nuovi testi sono molto presenti. Quale il significato della loro presenza?
La loro presenza è il vero motivo del mio ritorno a Villanova, un motivo anche materiale, perché vivo nella loro casa. Credo che mi stiano aiutando ancor oggi e che l’ottimismo che possiedo derivi anche dalla loro caparbietà e dalla volontà di non smettere di guardare al domani.
A Villanova d’Asti è importante anche il tuo impegno sociale e politico. Quale il senso di appartenenza che vivi, rispetto al tuo fare comunità e al tuo senso di partecipazione?
Vivo una condizione in cui sono attivo in paese dal punto di vista culturale e anche dal punto di vista amministrativo essendo un consigliere comunale, seppur di minoranza. Credo che il paese, 5500 abitanti circa, stia attraversando un periodo positivo e costruttivo e che stia uscendo lentamente da una condizione di difficoltà, guardando un po’ di più al patrimonio storico e artistico e al turismo.
Anche la poesia può essere parte di un disegno per rilanciare un territorio e credo che “Il mio paese è una stella” stia dando un contributo in questa direzione. Durante la presentazione a Parigi ad esempio abbiamo parlato di Villanova e abbiamo stappato anche una bottiglia di barbera per onorare l’astigiano.
Un supporto grandissimo al libro è arrivato dalla Professoressa Delia Cortese della Middlesex University di Londra che ha firmato la postfazione alla raccolta e che sta facendo moltissimo per far conoscere Villanova.
l’autore:
Max Ponte, poeta, narratore e ricercatore, è nato ad Asti. Ha studiato a Torino dove si è laureato in filosofia e a Parigi dove ha intrapreso studi letterari.
Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, l’ultima delle quali si intitola “Ad ogni naufragio sarò con te” (La Strada per Babilonia 2020).
Ha curato con Andrea Laiolo la riedizione dell’opera alfieriana “La virtù sconosciuta” (Paginauno). Nel 2023 Federico Sirianni ha messo in musica la sua poesia “La promessa della felicità”, brano finalista alla Targa Tenco 2024.
È stato incluso da Alfredo Rienzi in “Poesia a Torino – Cent’anni e quaranta volti” (puntoacapo 2024). Ha partecipato a vari eventi letterari e culturali. Le sue poesie sono state tradotte in francese, spagnolo e rumeno.
Max Ponte è anche autore di racconti, un suo testo fa parte di “Astigiani narranti”.
(Max Ponte “Il mio paese è una stella” pp. 54, 12,90 euro, Letteratura Alternativa Edizioni, 2024)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Martina Picotti Fabbroni
Tempo presente —————————————-
Ci attraversa una visione
Sei testi inediti
di Franca Mancinelli
ci attraversa una visione
di cannocchiale rovesciato
–dal centro della fronte
oltre la nuca si spalanca
fino ai barbagli in danza
pupille nel pulviscolo del sole.
*
tutto ruota sopra di me
in equilibrio – immobile
giocoleria da mani aperte.
*
seduta in compagnia delle mie mani
ai margini del letto
di transito dei sogni, chiedo
e dono a palme vuote
piene ciotole per chi viene
col becco a picchiettare
la vita come pioggia.
*
con il corpo del fiume
nel suo letto ascolto
il battere di un cuore la pioggia
fitta nel buio, terminerà nel sole.
Tutti i passi: schiocchi di baci
a un tratto fermi. Bruciati
o inumati nell’amore.
*
ecco ora i coriandoli
del tempo che scende
nelle mie mani – una festa
del qui per sempre.
*
ali le sopracciglia
nelle correnti della mente
e al centro l’occhio
da cui la luce entra
e a volte si affaccia Dio
come un viaggiatore da un oblò.
L’autrice:
Franca Mancinelli è nata nel 1981 a Fano, dove vive. Si è laureata in Lettere moderne con una tesi sulla poesia di Paolo Volponi.
Suoi testi sono compresi in diverse antologie tra cui “Nuovi poeti italiani 6” (Einaudi, 2012) e nel “Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea” (Marcos y Marcos, 2017).
È redattrice della rivista Smerilliana e del blog Interno poesia. Fa parte della giuria del premio “Pordenonelegge poesia. I poeti di vent’anni” e “Esordi“.
Il suo primo libro di poesie è “Mala kruna” (2007) a cui sono seguiti “Pasta madre” (2013) e “Libretto di transito” (2018) che è uscito nello stesso anno in traduzione inglese, come “The Little Book of Passage“.
La sua raccolta di poesie più recente è “Tutti gli occhi che ho aperto” (Marcos y Marcos, 2020).
Le sue prose sull’infanzia, il paesaggio e la scrittura sono raccolte in un libro inedito in Italia, “The Butterfly Cemetery. Selected Prose (2008-2021)“.
https://www.francamancinelli.com/
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Vito Ancona
Voce d’autore ———————–
Tutto vero tutto falso
Francesco Verni, “Marlboro rosse morbide”
di Roberto Lamantea
Ti arriva un libro di poesie d’amore e pensi subito ai grandi, da Catullo a Saffo, Lorca, Prévert e mille altri, l’intera storia della poesia, versi scritti con una piuma o con un bisturi, testi esplicitamente erotici a cui di recente ha dedicato una deliziosa antologia Nicola Gardini (“Voglio fare l’amore con te. Poesie erotiche dall’antichità classica”, Ponte alle Grazie 2025, 144 pagine, 10 euro).
L’autore è un critico musicale ed è un’”enciclopedia vivente” di fumetti, amico dei più grandi disegnatori dei nostri anni, da Giorgio Cavazzano a Milo Manara. Ironico, coltissimo, Francesco Verni pubblica da una piccola casa editrice di Padova, la sua città, LittleBoyLost, “Marlboro rosse morbide”, il suo secondo libro dopo “Il fido elastico delle tue mutande”. È un libro d’amore e amore è, inevitabilmente, illusione, inganno, voli alla Chagall, e aghi, e spine, e persino sarcasmo. Verni affronta il rischio del déjà vu e lo evita grazie a improvvise virate del verso, all’irruzione del quotidiano – un’immagine di città, un letto sfatto – dove l’immaginazione amorosa lo porterebbe al lirismo.
Il libro ha una prefazione illustre, quella dello scrittore padovano Matteo Strukul, “D’amore e fumo” (titolo che richiama un’infinità di film). Strukul individua nelle pagine di Verni “echi di beat generation e canzoni, amori come proiettili nello spazio di una pagina dove le parole compongono un’avventura, e l’efficienza della lingua è portata all’estremo. Eppure, allo stesso tempo, esce dalle righe, prepotente, una musicalità che pare strappata a certe ballate di Bob Dylan. Poesie come storie, dunque, con il piglio di Kerouac e con l’ironia sorniona di Bukowski”. Con qualche frustata che vira l’intonazione di un verso stilnovista: “Se Amore un giorno riuscirò a catturare/ gli regalerò una lieve carezza/ prima di tirargli il collo”.
O un distico che è una frustata: “Ti ho vista passare/ bellissima e non mia”. Bellissima sì, Irene, l’amata, la dèa, la chimera, la sirena di questo libro: è perfetto quindi l’accostamento dei versi ai disegni seppia di Milo Manara, il re del fumetto erotico; di Manara anche, naturalmente, un pacchetto di Marlboro rosse accanto a uno straripante posacenere. L’amore è una sigaretta? Sì, è anche veleno.
Verni poi in queste pagine è così intelligente (e ironico) da mascherare le citazioni: leggendo “Che cosa rimarrà” è inevitabile pensare a una delle canzoni più belle di sempre: “Che cosa rimarrà/ fra cent’anni o trenta/ di tutto quel noi”: “Que reste-t-il de nos amour”, Charles Trenet (ma anche Tenco, Paoli, Brel, Ferré), un “amore fatto col terrore/ che potesse essere l’ultimo”.
Non si può scrivere d’amore senza ironia, si finirebbe nel patetico, ma questo non significa che non sia vero dolore e, a volte, l’addio definitivo alle illusioni: “Solitudine non è aver/ finito il pacchetto/ ma avere le sigarette/ e aver perso l’accendino”, quattro righe alla Woody Allen che ricordano un po’ i più famosi, desolati versi del poeta veneziano Mario Stefani: “Solitudine non è essere soli/ è amare gli altri inutilmente”. C’è anche una citazione da Meneghello.
Tutte le poesie del libro hanno la traduzione inglese a fronte, opera di Fabio Pacino: a volte la versione inglese è più lirica dell’originale.
Dal libro:
Da poeta
Sarebbe proprio da poeta
piangere in treno ascoltando Dylan
evitando che le luci di riflesso
colpiscano gli occhi, senza ferirli
i tuoi, ora, così subiti e lontani
che non so più che cosa guardino.
I miei li perdo su tutto
miagolano ai cani
sul volo sospeso delle eliche degli alberi
corrono ogni notte a un concerto più lontano
fanno finta di non cercarti sempre
in qualsiasi posto.
*
La quantità e la media ponderata
C’è una quantità di ragazze bellissime in città.
C’è una quantità di ragazze bruttissime in città.
Tutto vero tutto falso.
Pomo pero pomo pero
È la fine interminabile di banalità
tutti a masticare sul mondo in quantità
a caccia cieca di anniversari e felicità
con sorrisi larghi di volgarità
o anestetici pungenti di contrarietà.
C’è una quantità di ragazzi buonissimi in città.
C’è una quantità di ragazzi cattivissimi in città.
Tutto vero tutto falso.
Pomo pero pomo pero
*
Prove di superamento di un dramma
Ti ho vista passare
bellissima e non mia.
Io che amavo te
più del tuo culo
e lo sapevi che intorno a tutto
non c’era solo quello
che guardavi, vedevi e rivedevi
e alla fine fissavi così forte
che ci siamo persi
l’unica cosa buona della vita.
*
Mi impegno pure
Mi impegno pure
ad ascoltare la musica migliore
a visitare città da sogno
a stappare vini d’annata
a girare musei di lusso.
Ma che ci posso fare
se quando incontro la bellezza
mi vieni in mente tu
che così perfetta non sei mai stata?
Solitudine non è aver
finito il pacchetto
ma avere le sigarette
e aver perso l’accendino.
Intervista a Francesco Verni:
Ci racconti la genesi del libro? Quando ti accorgi che le poesie scritte nel tempo possono diventare una raccolta?
Questo mio libro, a differenza del precedente “Il fido elastico delle tue mutande” e di altri lavori che non ho voluto pubblicare, nasce per avere questa forma. Robert Lee Frost diceva che “La poesia è quando un’emozione ha trovato il suo pensiero e il pensiero ha trovato le parole” e, in questo caso, il pensiero alla base di “Marlboro rosse morbide” è stato semplice; mi sono chiesto: ci sono punti di contatto tra un sentimento come l’amore e un vizio come il fumo? Oltre a dire che ne ho trovati molti che vanno oltre alla dipendenza che entrambi creano, all’assuefazione o alla comune intangibilità, ho provato ad andare in miniera e scavare lungo questa vena concettuale. Mi ci sono voluti dieci anni.
Se infatti magari una poesia può nascere da un’intuizione, un verso, o un’illuminazione, per renderla tale, per dare una forma che corrisponda o si avvicini a quello che ho in testa, c’è bisogno di un lavoro costante, minuzioso e faticoso che, in almeno l’80% dei casi porta dritto al cestino. Quello che hai letto è quello che ho salvato. La chiusura del cerchio, il momento in cui ho capito che il libro era finito, è coincisa con il ritrovamento dell’ultima poesia del testo, “Père-Lachaise”, che nella sua immediatezza mi ha comunicato un senso di conclusione definitiva.
Leggendo “Marlboro rosse morbide” si sentono gli echi della tua passione per la musica, i vari registri, dall’ironia al patetico alla malinconia fino all’unghiata sarcastica: quanto influisce la musica nel tuo comporre versi?
Penso che musica e poesia siano indissolubilmente legate. Non trovo differenze tra ascoltare buona musica e leggere buona poesia. Euterpe è la musa sia della musica che della poesia lirica e, ancor di più, Erato è la musa del canto corale e, allo stesso tempo, della poesia amorosa. Gli aedi cantavano, letteralmente, i testi omerici, poesia eccelsa.
Così ritengo che Bob Dylan sia il più grande poeta vivente e che il Nobel per la letteratura che gli è stato tributato sia sacrosanto. Le cadenze dei versi, la metrica e gli accenti, sono, per quanto mi riguarda, una forma musicale. Rispondendo alla tua domanda, ogni verso che scrivo ha, o vorrebbe avere, una sua musicalità, una sua musica, e per me è una cosa fondamentale, così come lo è continuare a ricercarla.
Se tu dovessi dichiarare pubblicamente i tuoi amori – musica, letteratura, fumetti – quali sono i primi nomi che ti vengono in mente?
Ti rispondo in maniera sintetica scrivendoti tre nomi per ogni “settore”: per la musica Bob Dylan, Leonard Cohen e Francesco De Gregori, per la letteratura Yukio Mishima, Italo Calvino e Cesare Pavese, per i fumetti Osamu Tezuka, Sergio Toppi e Hugo Pratt. Li amo infinitamente.
Che consigli daresti a un lettore che voglia avvicinarsi alla poesia?
La poesia, così come l’arte in generale, ha la capacità unica di offrire lenti nuove per guardare al mondo. Il consiglio è quello di farsi un regalo e, con un libro di poesie in mano, di farsi trovare vulnerabili, di permettere alla poesia, soppesando ogni verso, di entrare e scavare nella propria anima. Insomma di darsi la possibilità di provare emozioni.
Non è una cosa scontata perché la società impone di mascherare il più possibile i propri sentimenti, di stare sempre attenti a non abbassare la guardia. Invece un buon libro di poesia insegna ad amare, a soffrire, a ridere, a pensare, a porsi domande e a commuoversi: senza vergogna alcuna. E il mondo grazie ad essa risulterà diverso, se non migliore, almeno più interessante.
La poesia in Italia è di nicchia, i libri di poesia vendono pochissimo eppure a scrivere sono in tanti: come spieghi questa contraddizione?
Scherzando dico sempre che occuparsi di poesia in Italia è, effettivamente, come occuparsi di entomologia o numismatica. Tornando seri, penso che la contraddizione sia spiegabile essenzialmente con due elementi. La poesia è una forma di espressione e comunicazione che ha a che fare con la parte più profonda del proprio io, come ogni altra forma d’arte.
Per questo c’è chi riesce a esprimersi o raccontare sé stesso solo attraverso un quadro, una canzone o, appunto, una poesia.
D’altra parte ogni arte ha una propria grammatica e una propria tecnica da studiare e assimilare, così anche nella poesia. Per scrivere un verso di valore bisognerebbe averne letti milioni e, a mio giudizio, aver sviluppato una profonda, originale e personale visione di quello che ci circonda.
In più in prima, superficiale, istanza la poesia può sembrare alla portata di tutti; in molti pensano che mettere su carta di getto i propri pensieri o i propri afflati sia fare poesia. Io non la penso così.
Per risponderti, tutti scrivono poesie perché lo ritengono facile, in tanti non acquistano o fruiscono di poesia perché sarebbe compiere un passaggio successivo (e più impegnativo) che esula dalla personale soddisfazione e impone un confronto, anche con la realtà di un’arte millenaria.
L’autore:
Francesco Verni (Padova 1980), laureato in Scienze della comunicazione, giornalista da oltre vent’anni, si occupa principalmente di rock e fumetti, collaborando con alcuni degli artisti più importanti della nona arte, scrivendo e curando saggi per Feltrinelli, Sergio Bonelli e altre case editrici.
Ama Parigi e Tokyo, dove vorrebbe vivere. Ha pubblicato la raccolta di versi “Il fido elastico delle tue mutande”, migliaia di articoli e recensioni di concerti, saggi sul vino, musica e fumetto.
(Francesco Verni “Marlboro rosse morbide”, illustrazioni di Milo Manara, prefazione di Matteo Strukul, traduzione in inglese di Fabio Pacino, pp. 126, 20 euro, LittleBoyLost 2025)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Giovanna Morassutti
Voce d’autore ————————-
Da tempo ha nelle mani la poesia
Lucianna Argentino, “Corpo di fondo”, “Appunti di un canto controverso”
di Giovanni Fierro
È una educazione alla poesia, è la scoperta attenta e profonda dell’uso della parola e del suo sapere stare nella verità, ancor più che nell’accadere. È “Corpo di fondo”, raccolta poetica di Lucianna Argentino, che traccia la costruzione di una crescita, una biografia nella quale lo scrivere è midollo osseo della propria esistenza. Fin dalla più giovane età, con i suoi stupori e le sue scoperte, per arrivare all’età adulta, dove tutto questo da fioritura si trasforma in frutto.
“Sentiva nel corpo l’autunno finire e l’aprirsi di una stagione di sconosciute attese. Stava dentro silenzi impazienti, mentre lungo le strade le foglie, piccole fiamme aduste, spogliavano gli alberi”. È questo guardare fuori che prepara il guardarsi dentro, fino a far maturare quel “Crepacuore. Fu questa la prima parola nuova del suo vocabolario di bambina”.
La parola, il suo significato, l’aderirvi con la propria esistenza, adesione completa con il proprio stare al mondo, “Avrebbe voluto un silenzio equivalente alle parole quando la gioia sfumava in malinconia – a volte, invece, le arrivavano parole equivalenti al silenzio”.
Tutto “Corpo di fondo” è un canto alla poesia, corpo che si innesta nel proprio corpo, respiro e capillari, circolazione e fibre, battito cardiaco e pelle.
Sin da bambina, con il capire che corpi e pensieri erano “lì ad aspettare, a sperare nell’abbraccio leggero di chi crede nell’attimo e nell’attimo adagia il suo domani”, a riconoscere un tempo che è già poesia, se lo si vuole vivere con il desiderio che possa essere un assoluto, un irripetibile.
Fare così il primo passo dentro un presente da cui non si esce più, per sempre: “Sentire l’anima sfaldarsi nel dire io – crollare di muri e di confini, migrare di genti e di stupori nell’immenso spazio dove io è solo un pronome, un indizio che pure non indica nulla, se non lo stare in bilico tra ciò che cede e ciò che resiste”.
Lucianna Argentino, in questo suo mirabile libro, accompagna il lettore in un condividere che trova la luce del senso più profondo, in una chiarezza che aiuta, che ti prende per mano, “Perché scrivere è stare non dove le cose accadono, ma dove si fanno vere”.
E così, pagina dopo pagina, ci si trova in una continua epifania devota alla causa della poesia, dove l’importanza e la forza della parola è esplorata e raccontata, portata in evidenza e difesa, perché la parola “le cose le scuce, le separa dalla loro utilità, le ricuce sulla pagina per altra necessità”.
“Corpo di fondo” contiene anche molto altro, la precarietà di ogni esistenza e la realtà di una società ferita; è un autoritratto con vista sull’infanzia, è la curiosità dell’indagare l’Io e il silenzio.
Settanta pagine, per costruire una bussola necessaria, indicatore di direzioni e provenienze, luogo di sentimento e pensiero, dove “Le rondini a primavera mangiarono le briciole che l’inverno aveva lasciato per noi – qualcuno giura che fummo noi stessi a mangiarle. Non avremmo comunque ritrovato la strada perché il vento che ci si era rintanato in petto aveva sparpagliato le coordinate geografiche del mondo”.
(Quasi a corollario di “Corpo di fondo” esce anche la raccolta, quasi una plaquette, “Appunti di un canto controverso”, che di questo libro sembra quasi una gemmazione, una naturale prosecuzione, ulteriore gesto poetico in cui “conquistiamo il più che della vita avanza/ e si fa avanti nel lutto/ che è veglia dei morti sui vivi”, “Se anche le poesie sono case/ che altri abiteranno”)
da “Corpo di fondo”:
Quando il tempo era comunione perfetta tra le mani e il cuore e gli occhi, liberi, pulsavano magia, l’infanzia somigliava al grande ciliegio che sua madre aveva disegnato con i colori a cera sulla parete della loro stanza, colmo di foglie e rossi frutti con cui lei nutriva i suoi giorni acerbi. Per questo pure se, ormai cresciuta, il ciliegio venne ricoperto da diversi strati di vernice e carta da parati, è ad esso che torna nei giorni di carestia, tra i suoi rami s’annida per l’incanto e per la nostalgia.
*
A sedici anni sognava l’Africa o Calcutta. Voleva mettere le mani nel dolore, dividere il raccolto dalla gramigna – qui dove il di più viene dal maligno. Da tempo ha nelle mani la poesia e con le parole separa il bene dal male, esplora l’ordine matematico dello spirito, ma a volte bene e male le si confondono negli occhi, tra le mani fanno a meno degli occhi così come fa la poesia.
*
Sosta a lungo nel farsi luogo della parola. Impara ad accendere fuochi che ripetano sulla terra il volto delle stelle – un loro tratto almeno – e siano di ristoro allo sforzo di perdurare che ogni cosa ed essere compie. Insegna al pensiero l’uso domestico e quotidiano del silenzio, il suo mutare di sostanza attraverso la liquida sonorità dell’inchiostro.
*
Come i cani segue la traccia chimica della realtà, annusa l’odore emotivo degli umani – la paura, la gioia e ne fa traccia alfabetica sulla pagina. Scompagina il silenzio, lo attiva perché nella parola sia parola trasparente che lasci passare la luce come fa la vita, a sorpresa, quando si materializza e appare improvvisa in un giovane cervo che dal bosco attraversa la strada e nel bosco di nuovo scompare.
da “Appunti di un canto controverso”:
Una palla e dei bambini
sul prato incompiuto del mattino
tirano giù il cielo
ne mettono alla prova la pazienza
sparpagliano il silenzio.
E non importa se non è tutto qui
perché qui è tutto
perché come un granello di polvere
è d’inciampo alla luce
è in simili granelli di luce
che il male inciampa
e cade.
Intervista a Lucianna Argentino:
Leggere “Corpo di fondo” è trovare l’infanzia e la poesia protagoniste assolute di queste pagine. Due epicentri che anche si contengono, che dialogano. Che rapporto c’è tra di loro? Cosa le fa emergere così prepotentemente, tanto da avvicinarle in una prossimità che è la vita stessa?
Tra infanzia e poesia a mio avviso c’è una stretta e profonda relazione e sono quanto di più vicino sia possibile al nucleo incandescente e puro della vita. Sono le radici della nostra umanità perché entrambi riconducibili all’innocenza che, nonostante tutto, permane nel fondo di ciascuno di noi.
Con innocenza intendo la capacità di stupirci, di guardare alle cose come se fosse la prima volta e ogni volta trovarvi l’incanto. È qui che infanzia e poesia si compenetrano, diventano quasi un’unica cosa perché hanno questo sguardo in comune, uno sguardo senza pregiudizi, senza sovrastrutture mentali, che accoglie le cose per come sono, nella sostanza della loro apparenza che non è un ossimoro, ma è la forza della parola poetica e dell’infanzia.
I bambini, infatti, hanno una loro poesia naturale che gli viene, secondo me, anche dalla non conoscenza del male, da un sentimento più vivido del mondo. Non dico che l’infanzia sia per questo una stagione solo magica, fatata, perché è piena anche di cose che fanno paura, che non si comprendono.
Mi viene in mente l’amico immaginario di molti bambini, ecco in qualche modo anche la poesia è questo amico immaginario e nello stesso tempo reale che del reale ci svela gli aspetti più segreti e con cui i poeti sono in continuo dialogo.
Nei testi dove il tempo dell’infanzia è punto focale, il silenzio è un paesaggio che tutto contiene. In quelli dedicati alla poesia e alla scrittura è invece presenza nominata, chiamata ed indicata. Come si è evoluta, cambiata e modifica, la percezione del silenzio nel crescere della propria esistenza?
Il silenzio è per me fondamentale tanto che gli ho dedicato un piccolo saggio, “La parola in ascolto”, dal momento che silenzio e poesia sono inseparabili. Non c’è poesia senza silenzio. La poesia nasce dal silenzio ed è parola che fa silenzio così che possa essere accolta, ascoltata nella pienezza del suo dire e continua a vivere nel silenzio di coloro che la leggono, la ascoltano.
Durante l’infanzia il silenzio quasi non esiste perché tutto parla, si è dentro un regno pieno di fantasia dove anche le cose sono animate. Nell’adolescenza il silenzio diviene una sorta di amico/nemico. Più spesso lo si rifugge, a volte lo si cerca per quell’alternarsi degli stati d’animo tipico di quell’età.
Per quanto mi riguarda l’ho sempre amato e lo cerco come fosse ossigeno per l’anima, per non perdere l’intimo dialogo con me stessa che il silenzio mantiene e cura. Perché il silenzio e la poesia sono stare in ascolto, e la capacità di ascolto è tra le doti principali di un poeta.
All’inizio del saggio di cui accennavo prima, un saggio sul potere creativo del silenzio, scrivo: “L’ascolto è il terreno da cui nasce la parola poetica perché il silenzio è per l’anima ciò che lo spazio è per il corpo. Apertura. Esercizio. Intimo movimento di ciò che dà voce all’essenziale”.
Tutto “Corpo di fondo” è scritto in terza persona. Eppure tutto il libro mi sembra abbia un respiro autobiografico, un nutrimento che proviene dal proprio vissuto. Perché in queste pagine non c’è la presenza di un Io?
È vero, “Corpo di fondo” ha un respiro autobiografico evidente soprattutto nella prima parte del libro. Il fatto che sia scritto in terza persona è stato un qualcosa di non premeditato, mi sono venute così quando ho sentito l’esigenza di riallacciare un dialogo con mio padre dopo un anno dalla sua morte avvenuta nel 2009.
Probabilmente per via di quella distanza invalicabile tra il nostro passato e il nostro presente che fa sì che quando guardiamo a noi stessi è come se guardassimo a qualcun altro. Distanza che la parola poetica, tuttavia, riesce a colmare dando un senso al nostro vivere o almeno tentando di farlo penetrando nel magma denso, profondo e imperscrutabile che è l’esistenza umana.
Quindi si può dire che c’è un io che ha indossato l’abito della terza persona perché in quel momento evidentemente rispondeva ad una esigenza interiore inconscia. Mi ha colpito molto leggere poi che per i grammatici arabi la terza persona è colui che è assente ed è così, la bambina, la lei che si dipana nelle pagine di “Corpo di fondo” in qualche modo è assente e nello stesso tempo presente per quanto del passato in noi permane.
Il tempo storico s’innesta in questo dire e raccontare, basta pensare a pagina 19, dove ci si immerge nella società italiana ferita dal massacro del Circeo, dal DC9 di Ustica, dalla bomba della stazione di Bologna… È questo un volere dare peso specifico al vivere che in “Corpo a fondo” viene esplorato e mostrato, creando un legame profondo con la dimensione sociale dello stare al mondo?
Raccontando, guardando al proprio passato non si può non fare riferimento anche ai fatti storici e sociali che lo hanno segnato perché entrano nel nostro vissuto, ci toccano, vanno a depositarsi nel nostro inconscio e ci modificano come ci modifica ogni esperienza di vita vissuta.
Nulla di quanto accade nel mondo ci è estraneo e quindi anche la poesia, direi soprattutto la poesia, non è estranea a questa intima relazione tra la dimensione sociale e quella diciamo privata che poi privata non è perché la poesia è apertura, è stare esposti a quanto della vita ci arriva e di cui la parola poetica opera una riscrittura che ci rende leggibile la realtà o comunque ce ne dà una visione più ampia e profonda così da riuscire ad orientarci in un mondo tanto vario e complesso.
Perché poi la morte inevitabilmente si innesta nel vivere quotidiano degli affetti, come la morte della nonna descritta a pagina 15, andando a sottolineare la provvisorietà di ogni cosa e di ogni presenza. “Corpo di fondo” è anche questo parlare di questa precarietà che ci coinvolge in prima persona?
Sì, certamente. Il senso di precarietà non ci abbandona anche se cerchiamo di zittirlo in tutti i modi. Penso che la poesia in sé sia un tentativo di parlarne e anche di esorcizzare il senso di precarietà della vita e dei rapporti umani. Senso che permea un po’ tutta la mia produzione poetica.
La poesia cerca di andare al cuore del nostro essere “temporali”, come scrivo nella prosa di pag. 50. La consapevolezza di saperci provvisori e di passaggio fa sì che riusciamo a sentire e a godere della ricchezza e della bellezza della nostra esistenza, unitamente al suo essere unica e irripetibile all’interno del mistero che l’avvolge.
In “Corpo di fondo” questo senso è acutizzato dal racconto di eventi luttuosi (nella prima parte) vissuti nell’infanzia e di silenzi come muri invalicabili che a volte caratterizzano le relazioni umane rendendole fragili e vulnerabili (nella seconda parte). Quindi la poesia può essere uno strumento che ci aiuta a vivere e a comprendere la ricchezza che rende la vita degna di essere vissuta e quindi ad accettare il nostro essere mortali.
Scrivere è mettere a posto le cose, gli accadimenti, il tutto e il nulla? È fare ordine? In che modo lo scrivere i testi di “Corpo a fondo” ha dato il suo contributo all’essere autrice, con la propria storia personale?
In una poesia di “L’ospite indocile” dico che scrivere è togliere spazio al male e quindi sì, è un mettere a posto le cose, dare voce a ciò che ci accade. Ma è anche sparpagliarle, dare loro un ordine diverso, nuovo rispetto a quello che abitualmente hanno.
Ecco, la poesia cerca di togliere quel velo di abitudine che a volte copre il nostro sguardo e ci rende opaca la vista. Scrivere “Corpo di fondo”, oltre a quanto già detto, è stato anche un tenere insieme i movimenti della mia vita, ossia creare un racconto unitario e significativo, dove le diverse esperienze e i vari aspetti della mia biografia interagissero armoniosamente, formando un tutt’uno.
Processo che implica non solo la narrazione di eventi, ma anche la riflessione sui loro significati e le loro connessioni, creando un’immagine più completa e consapevole non solo di me stessa, ma del mondo che ci circonda.
Nel leggere questi testi affiora una dimensione sacrale, ma non religiosa, della poesia, che rende tutto così importante, assoluto nel suo mostrarsi. È così? E se sì, da cosa nasce?
Nella mia vita ho fatto tante cose, ma la poesia è l’unica costante, l’unica che mi è stata sempre vicina e attraverso la quale sono riuscita a tenere insieme le varie esperienze, posso dire, quindi, che è stata una fedele presenza nella ricerca, anche, del senso spirituale della nostra esistenza. Io sono credente e quindi sento e vivo la vita come un dono prezioso, sacro appunto come è sacro nell’essere umano tutto ciò che tende al bene, alla verità e alla bellezza (e anche alla giustizia per dirla insieme a Simone Weil, filosofa che amo molto). La poesia in sé non è il sacro, direi che lo cerca e nel cercarlo lo crea.
Le poesie raccolte in “Appunti di un canto controverso” mi sembra siano un laboratorio aperto, dove coltivare lo stupore, dove generare fiducia. Mi sbaglio?
No, non ti sbagli affatto. In esse è racchiuso il senso pieno sia di ciò che intendo per poesia sia il mio modo di viverla. Perché tante cose ho detto rispetto a ciò che per me è la poesia e altrettante potrei dirne, dato che è un qualcosa cha ha a che fare con l’intima essenza di ogni essere umano e quindi con una fonte inesauribile di stupore e di amore.
Ho già detto in altre occasioni che per me la poesia è un atto d’amore e un atto di fede verso la parola, il linguaggio e verso il mio prossimo in cui nonostante tutto credo. Mi interessa indagare gli aspetti luminosi dell’anima umana anche là dove è toccata dal male, dal dolore, dalla sventura, proprio per non perdere la fede nell’umanità minacciata da più parti da quanto ci sta sotto gli occhi quotidianamente e ci procura angoscia e incertezza.
E questa raccolta la leggo e la vivo come una diretta gemmazione di Corpo di fondo”… Può essere (anche) così?
In realtà “Appunti di un canto controverso” è stato scritto tra il 2020 e il 2021. È nato durante la clausura impostaci con il covid, ma come hai potuto vedere non ne parla. Le poesie di questo libro, frutto del premio Libero De Libero, sono solo ventotto mentre in totale sono circa ottanta.
Il sospendersi del tempo ordinario, se così si può dire, è come se avesse aperto in me una sorgente da cui è scaturita la poesia. Ne scrivevo anche due o tre al giorno in quel periodo di isolamento e sospensione della solita routine quotidiana. E forse è stato anche per via dello stupore di cui tu hai giustamente accennato nella domanda precedente.
Stupore di sentire, anche in quel triste momento, la vita nella pienezza del suo splendore, la primavera, il sole, le persone che cantavano dai balconi, le rondini tornate ad abitare i nostri cieli, il senso di appartenenza a qualcosa che, pur se brevemente, ci ha uniti.
Sarà che anche la poesia in quel momento per me, aveva bisogno di riprendere fiato per aiutarmi a respirare meglio, a dare il giusto ritmo al mio respiro soffocato dalle tante faccende che ci distolgono dal nucleo originario e vero del nostro essere. Ma certamente per un poeta lo scrivere non è a scomparti, nel senso che tutta la sua opera è una gemmazione (mi piace questa parola) poetica da un libro all’altro o anche da una poesia all’altra, quindi sì, certamente può essere anche così.
L’autrice:
Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Tra le su più recenti raccolte poetiche, “L’ospite indocile” (2012) con una nota di Anna Maria Farabbi, il poemetto “Abele” (2015) con la prefazione di Alessandro Zaccuri, “Le stanze inquiete” (2016), “Il volo dell’allodola” (2019) con la prefazione di Gianni Maritati, “In canto a te” (2019) con la prefazione di Gabriella Musetti, “La parola in ascolto” (2021), “La vita in dissolvenza” (2022) con la prefazione di Sonia Caporossi.
Nel 2019 le è stato assegnato il Premio Caro Poeta 2018 durante la quinta edizione di “La parola che non muore” Festival a cura di Massimo Arcangeli e Raffaello Palumbo Mosca.
(Lucianna Argentino “Corpo di fondo” pp. 70, 14 euro, peQuod 2024)
(Lucianna Argentino “Appunti di un canto controverso” pp. 45, edizioni Confronto 2024)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Francesca Morassutti
Tempo presente ———————–
In me obsojate, ker nisem tak kot vi E mi giudicate perché non sono come voi
Omaggio a Ciril Zlobec
di Michele Obit
Il 4 luglio di quest’anno Ciril Zlobec avrebbe compiuto cent’anni. Quante cose è stato Zlobec? Tantissime, e tutte vissute da protagonista.
Nato nel 1925 a Ponikve, sul Carso sloveno, da bambino e ragazzo fu costretto a frequentare scuole italiane, dove lo sloveno era bandito. Scrisse, nelle sue memorie, di quando, a passeggio con il padre per Trieste, una camicia nera sputò in faccia al genitore perché parlava la sua lingua.
Dal 1942 fu attivista del Fronte di Liberazione nazionale della Slovenia. Conclusa la guerra lavorò come giornalista e redattore di riviste. Divenne poeta, scrittore e traduttore.
Amò particolarmente la letteratura italiana, tanto da tradurre classici di Dante, Petrarca, Ariosto, Foscolo, Leopardi, Carducci, e poeti della sua generazione come Quasimodo e Ungaretti.
Fu grande amico di Leonardo Sciascia. Nel 1990 fu eletto alla Presidenza del primo Stato sloveno indipendente.
Riguardo la sua poesia, la critica ha rilevato che dal surrealismo degli inizi maturò poi una poetica personalissima, basata su concetti cosmologici e sulle sue esperienze umane.
È stato considerato soprattutto poeta d’amore, inteso nel senso più ampio e autentico del termine: “L’amore è la mia religione laica”, ebbe a dire.
Ciril Zlobec ci ha lasciati il 24 agosto 2018.
Poet
In me obsojate, ker nisem tak kot vi,
ker sem otrok, ki mu v temi,
če pade mu kresnica v dlan,
ves strah skopni,
ker misli, da je dan …
Ste kdaj že šli v poletnem soncu prek poljane,
ko zdi se, da narava spi,
ko travna bilka, hrastov listič se ne zgane,
a topol šelesti? …
Ujel je sapo, ki je ni.
Poeta
E mi giudicate perché non sono come voi,
perché sono un fanciullo a cui nel buio,
se una lucciola in mano gli scende,
tutto lo spavento gli passa
perché pensa che il giorno già splende…
Siete mai andati nel sole estivo per i piani
quando pare che dorma la natura,
quando il filo d’erba, la foglia di quercia è immota
e solo il pioppo sussurra?…
Ha preso un respiro che non c’è.
*
Sveta mesta tvojega telesa
V ljubezen verujoč kot plah kristjan
v boga nad sabo ves čas mislim nate,
z zaupanjem vse stiske, vse zagate
srca in duše predte dan na dan
razgrinjam in te strastno molim:
v telo s poljubi vžigam ti svoj križ
pripadnosti, in ti pod njim goriš,
jaz dogorevam, vendarle nikoli
ne ugasnem v medel romarski spomin
na sveta mesta tvojega telesa,
še zmerom vabijo me iz višin
nečesa lepega, globin nečesa,
kar je kot čudež čudežev. Morda
spet stara vrtoglavica srca.
I sacri luoghi del tuo corpo
Nell’amor come timido cristiano credendo
nel dio sopra di sé sempre ti penso,
con speranza ogni miseria, ogni scompenso
di cuore e anima giorno per giorno stendo
davanti a te e con passione ti invoco:
nel corpo coi baci infiammo la mia croce
d’appartenenza, e tu sotto essa bruci,
io mi consumo, ma mai nel fioco
ricordo da pellegrino mi spengo
sui sacri luoghi del tuo corpo,
dall’alto mi allettano e ne sovvengo
di qualcosa di bello, di una profondità,
come fosse prodigio dei prodigi. Forse
di nuovo la vecchia vertigine che il cuore ha.
(Le traduzioni delle due poesie di Ciril Zlobec sono a cura di Michele Obit)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Dorina Scandurra
Voce d’autore ————————
Il poeta pranza di spalle
Veronica Chiossi, “Il coltello sul vassoio”
di Roberto Lamantea
Immaginate un vassoio: oro, argento, legno, osso, plastica, quello che volete. Sul vassoio un coltello: acciaio, oro, argento, ma affilato. Nient’altro che un coltello. Siamo in un giallo alla Agatha Christie? È la prima pagina di un romanzo con Poirot, Miss Marple, Nero Wolfe, il buon Sherlock nella nebbiosa brughiera inglese? Il coltello sul vassoio, invece, è il titolo perfetto di un libro di poesie. Dopo l’esordio bilingue di “Candeggina” (2019) la mestrina Veronica Chiossi è alla seconda silloge con “Il coltello sul vassoio”, appunto, pubblicato dall’editore veneziano (e scrittore per Sellerio) Andrea Molesini nella collana BiancaBlu.
“Il coltello sul vassoio” è pronto per essere ghermito da una mano femminile e scorticare, ferire, uncinare l’uomo che, quella donna, l’ha, più che delusa, ingannata. Almeno nella prima parte del libro Il coltello sul vassoio è un canto del disamore, o dell’amore accoltellato, quello della donna-straccio, donna-ornamento, donna-abbigliamento della vanità maschile.
Avvertenza: sì, è un libro all’acido solforico almeno nella prima parte, spennellato di sarcasmo fino all’invettiva (il modello? Il buon Dante), poi l’autrice alza lo sguardo e quella ferocia diventa la chiave per leggere altre torture, non ultima quelle contro gli animali: una poesia struggente su un maiale in un allevamento intensivo, un pesce grigio senza occhi pasto per un airone, un topolino che sta per annegare nel lavello e viene liberato in giardino; nell’unico testo in dialetto, un mastro vetraio di Murano che è vissuto a “pane e vetro”, e tutto si trasforma, allora, in un leopardiano canto sulla fragilità della vita, sino al dolore di una donna in tre versi struggenti: “In cimitero una donna portava/ un mazzetto di fiori al marito/ come si porta un figlio in grembo”.
Nella prefazione Daniele Piccini parla di “una poesia da maneggiare con cura […] non è innocente, ma comporta una dose di minaccia”. Anche nel paesaggio: “Il fetore estivo di rifiuti e cassonetti/ la luce lanuta di albicocca// Il caldo che annuncia terremoti/ a suon di schiaffi di sole”. Qualche testo ricorda Anne Sexton o Sylvia Plath (“Un marito è un comò con una luce accesa”…). “L’accento è sull’inganno più che sulla fine di un rapporto”, avverte Veronica, “dalla storia di un amore allo sgretolamento”: nella prima parte i testi hanno segnato in calce le date: “È l’inventario, un’oggettivazione del disamore” che, nella scrittura, ricorre anche a neologismi deliziosi come “coppietudine”. Anche la lirica più che un’intonazione è una trasparenza, esergo e citazioni vanno da Wisława Szymborska a Elio Pagliarani, Guido Tonelli, Valerio Magrelli, Raffaello Baldini.
“Poesia cementizia” la definisce l’autrice: poesia nata a Mestre, città di cemento e disordine edilizio nata senza un piano regolatore accatastando alla rinfusa palazzi, torri, cavalcavia addosso alle ciminiere di Porto Marghera e alle gru di Fincantieri (con un paio di ex quartieri eleganti oggi lasciati al degrado) e, per contrasto, con una forte tendenza all’associazionismo di quartiere a fare da argine alla deriva anche sociale. Mestre è la cornice ideale per l’amore-veleno della prima parte del libro.
Il veleno non è più solo quello della disillusione per lo sgretolamento di un amore ma per i veleni veri, chimici, come le microplastiche, che ci entrano nelle cellule, nel sangue, diventano noi, drogano – letteralmente – anche i gabbiani. Anche un piccolo libro può racchiudere un universo.
Dal libro:
Con lui sen va chi da tal parte inganna.
(Dante, Inf. XVIII-97)
Ti sarò sempre grato per il risveglio dei sensi
così mi hai detto un sabato all’addio
la stazione di Ferrara
dove le zanzare festeggiavano
l’ornata foggia della vile sostanza verbale:
una volta accesa la fiamma
hai gettato il cerino lontano.
*
Che tu possa bruciare nella vampa
che io ho acceso
che tu possa dissanguarti di zanzare
che il mio sangue per sempre ti perseguiti
che il mio fuoco per sempre ti consumi
che il mare e la frutta del mio sesso
siano per sempre il tuo pasto proibito
che io sia la tua Eva che scacci dannandoti
che la tua vita sia sempre mercenaria
vuota ampolla da masturbazione
in un funebre diorama amoroso.
10.08.2021
*
Husband (from Old Norse: master of a house)
Un marito è un comò con una luce accesa
e un bicchier d’acqua
un marito è uno zaino colmo fino all’orlo
un marito è un set di shampoo da viaggio
un marito è pratico e portatile
un marito è un maschio
un marito è un uomo ammogliato
un marito è una prosa
un marito è una casa
un marito è una cosa
ammanigliata per sempre.
01.10.2021
*
Il poeta
Il poeta pranza di spalle
io lo spio da lontano
è lento, che mangerà?
Una grossa insalata?
Una cotoletta panata?
Una presenza femminile
gli sta di fronte, giovane,
riccia e chiara di capelli,
mi fa torcere il cervello:
Un talento letterario?
Una brava giornalista?
Chiunque sia,
assai fortunata,
pranza col gigante.
Mi avvicino cauta,
con felpata agilità,
sento la ragazza che chiede:
«Me lo porti un caffè, papà?»
*
L’analisi sulle piume prelevate dai pulli degli uccelli marini non ha lasciato spazio a dubbi: nei campioni analizzati sono stati rilevati ibuprofene, nimesulide, naprossene e gli antidepressivi citalopram, fluvoxamina e sertralina.
I gabbiani al tramonto su Jesolo
beccano i rifiuti di noi umani
facendosi di citalopram o sertralina,
spostano lentamente di lato il sole
con le zampe malferme sull’acqua
mercuriale e poco cristallina
fino a quando liberi dal tempo
nella rintronata luce arancione
non sono più uccelli-cliché
uccelli-romantici, uccelli-cartolina
ma piccoli tossici pennuti
ladri di stelle con l’acquolina
sordi al dolore delle cose,
insaponano le nuvole assuefatti
e si fanno un’altra dose.
Intervista a Veronica Chiossi:
“Il coltello sul vassoio” è un canzoniere alla rovescia, un libro sul disamore, o sulle coltellate dell’amore: ma non c’è disamore se, prima, non c’è stato amore: amore ferito, umiliato, amore atteso, amore deluso. Sei d’accordo?
Il coltello che dà il titolo al libro è il simbolo della violenza che si è compiuta. Violare un’anima – e di conseguenza il corpo che la custodisce – usando premeditazione, manipolazione e inganno è una violenza. Ingannare chi è più fragile e ingenuo e si fida di noi è una violenza. Non è necessario possedere una donna con la forza (stuprarla) per ucciderla dentro. Quindi sì, prima c’è stato amore. Da un lato reale e sentito, dall’altro ordito come un piano distruttivo.
Questo libro dunque è una vendetta su carta, ma una vendetta che non si serve di un altro sopruso.
Leggendo i tuoi versi mi sono venute in mente le poesie di Anne Sexton e Sylvia Plath: quali sono le voci poetiche che ami di più?
Come credo ogni donna amante della poesia, anche io sono rimasta stregata dal genio Sylvia Plath. Ho letto e riletto le sue poesie quando avevo vent’anni. E, come da copione per chiunque sia legato al tema del padre, naturalmente ero ossessionata da “Daddy”.
Conosco meno Anne Sexton, ma ho sempre pensato che “When Man Enters Woman” fosse una delle poesie che meglio esprime la sacralità dell’unione sessuale fra uomo e donna.
Amo in egual misura poeti totalmente opposti, da Paul Celan a Raffaello Baldini. Fra i miei preferiti degli ultimi anni, due siciliani diversissimi fra loro anche se forse vagamente accomunati dal risentimento come motore creativo: Iolanda Insana e Angelo Maria Ripellino.
Rispetto a “Candeggina” come è cambiato il tuo rapporto con la scrittura?
È cambiata l’urgenza e la consapevolezza. Le poesie raccolte in “Candeggina” si erano sedimentate negli anni trascorsi negli Stati Uniti. Buona parte di quelle poesie mi avevano consentito l’ammissione al Master for the Arts in Creative Writing alla New York University, vi ero legata anche per un motivo simbolico.
Per “Il coltello sul vassoio”, invece, ho scritto per sopravvivenza, per superare un trauma di cui non riuscivo a parlare con nessuno.
In sintesi, la mia prima pubblicazione è a tutti gli effetti una “raccolta” di testi, mentre l’ultima ha, perlomeno nella sezione cardine del libro, “L’inventario del disamore”, un tema ben preciso e una forma poematica.
Diverse poesie hanno una data: il libro è anche un diario?
In parte sì, ma la forma del diario è stata soprattutto funzionale: volevo che il lettore/la lettrice potessero seguire l’evoluzione della storia in senso cronologico, il mio intento era realistico.
Mi sono concentrata soprattutto sul racconto delle diverse fasi del lutto dopo un abbandono ma prima, come hai capito, ho scritto dell’amore. Per essere precisa, dovrei usare la parola “scarto” invece di “abbandono”, visto che mi riferisco alla fase finale del ciclo manipolatorio di un abuso narcisistico, una forma di violenza molto più taciuta a livello mediatico.
In ogni caso, le poesie datate sono la radiografia di una storia sentimentale dalla nascita alla sua distruzione, fino all’accettazione della rottura, una radura in cui s’intravede una riappacificazione con l’esperienza vissuta.
Che consigli daresti a chi vuole avvicinarsi alla poesia?
La tua domanda mi ricorda quella che feci a un prete anni fa, quando gli chiesi “Come posso avvicinarmi a Dio?”. Non credo ci si possa avvicinare alla poesia su consiglio, per questo mi pare che l’atteggiamento più onesto sia evitare di dare consigli. Sarà la poesia a venire da noi se e quando saremo in grado di accoglierla.
Ricordo che rimasi abbastanza insensibile alla poesia fino a 16 anni, da bambina ciò che più amavo era disegnare, pur avendo sempre ascoltato molta musica.
Poi un giorno in classe un’insegnante di cui serbo un meraviglioso ricordo lesse “I Wandered Lonely as a Cloud” di William Wordsworth e ricordo come adesso quel momento: ebbi una percezione diversa del linguaggio e di me stessa, della mia enorme vulnerabilità di fronte alla bellezza. Fu una rivelazione, per la prima volta mi era sembrato di sentire la musica nelle parole e di sapere che forse nella poesia avrei potuto trovare una nuova casa.
Penso quindi che ognuno possa fare la sua esperienza della poesia, in stagioni diverse della vita e in modi diversi, anche i meno ortodossi, magari passando prima per i grandi cantautori (penso a Leonard Cohen o alla più recente PJ Harvey) o più trasversali, come il cinema d’autore (Federico Fellini o, fra le registe contemporanee, Alice Rohrwacher).
L’autrice:
Veronica Chiossi (Venezia 1979) è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Traduzione e Interpretazione con una tesi sull’opera di Federico García Lorca.
Nel 2005 comincia a tradurre film e sceneggiature. Si trasferisce negli Stati Uniti, dove lavora come traduttrice e copywriter da Apple e Bloomberg LP. Nel 2017 è ammessa al Master for the Arts in Creative Writing della New York University.
Ha tradotto Suzanne Lummis per il collettivo Le Ortique, di cui è una delle fondatrici. Ha pubblicato la raccolta poetica bilingue “Candeggina” (Ensemble 2019) che nel 2020 ha vinto il Contropremio Carver per la poesia.
(Veronica Chiossi “Il coltello sul vassoio”, prefazione di Daniele Piccini, pp. 128, 12 euro, Molesini 2025)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Carmela Gerin
Tempo presente ———————–
8 giugno
Una poesia
di Massimiliano Lancerotto
C’erano madri che non sono più
poi c’eri tu,
c’erano estati
calde e lunghissime
la gonna lunga
settembre al mare
ed il tuo sugo
alla domenica…..
e quando nevica?
C’era il tuo brodo
prosciutto cotto
un po’ di risotto,
eri bellissima
negli occhi neri di nostro padre
e io pensavo
fino al mattino
dell’8 giugno
non cade non cade non cade….
Nella tua mano che mi stringeva,
fuori pioveva.
L’autore:
Massimiliano Lancerotto è nato a Udine nel 1969 dove vive.
Scrive da sempre racconti, poesie e commedie teatrali (in friulano).
Fa parte del Trittico Poetico Polifonico (con Stefano Wulf e Mirco Ongaro) e del Progetto Poesia Parlata.
Non ha ancora pubblicato alcun libro a suo nome.
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Elisa Bregant
Tempo presente ————————-
Il labirinto dei topi
Un racconto
di Marco Fregonese
Conobbi Bart Huges nel 2056, durante il mio periodo di militanza nelle truppe neo partigiane carsiche. Io ero arruolato nel battaglione già da diversi mesi, quando un giorno, al campo sotterraneo del Sei Busi, si presentò quel giovanotto inglese. Ad un primo sguardo dava l’impressione di essere un qualche figlio di papà da scuola privata, i capelli biondi gli incorniciavano il volto glabro, con ancora qualche residuo d’infanzia attaccato sopra. Gli occhi, azzurri e profondi, avevano dentro una fiamma che era impossibile trovare nel resto degli uomini costretti nei cunicoli come i ratti.
Sperduto nel dedalo labirintico del bunker, Bart si guardò intorno fino a che il suo sguardo si posò su di me.
“Cerco il generale Vittorelli” disse con spiccato accento inglese, ma perfetta sintassi.
Per un attimo stetti in silenzio, continuando semplicemente a scrutarlo, poi dissi “Seguimi” e voltatomi presi a percorrere il corridoio est che conduceva all’ufficio del generale.
Il ragazzo mi veniva dietro senza dire una parola, a metà strada mi voltai e lo vidi che si torceva le mani dal nervosismo. Ridacchiai sotto i baffi pensai che non sarebbe durato molto in quella prigione di lunghe gallerie al neon.
Vittorelli fu schietto e conciso, come al solito e Bart entrò ed uscì dall’ufficio in pochi minuti, seguito dal generale con i suoi passi rapidi.
“Veverza”> disse rivolto a me “Questo è Bart, nome in codice Beetle. È affidato a te, domande?”.
Scossi la testa con una smorfia di disgusto, ma ero un soldato e dovevo obbedire.
“Bene! Mostragli i tunnel” e sparì nella porta blindata di quell’ufficio da apocalisse.
Quando Vittorelli si fu richiuso la pesante lastra di acciaio alle spalle vidi che Bart mi guardava con aspettativa e che i suoi grandi occhi azzurri cercavano con speranza ed insistenza nel mio grugno un qualche cenno d’umanità o di empatia; io da parte mia sostenevo il suo sguardo con la fissità vacua di un cadavere ambulante, tale era la mia condizione mentale in quegli anni così drammatici.
Durante le nostre prime escursioni lungo le gallerie dominò un silenzio pressante e rumoroso, come una cascata di parole non dette. Bart cercava ogni tanto di buttare lì qualche osservazione o domanda, ma incontrava sempre un muro e al più gli rispondevo a grugniti e cenni.
Una mattina, era passato ormai un mese da quando era arrivato Bart, Vittorelli ci mandò in una missione esplorativa del tunnel 545b, per controllare che l’uscita fosse agibile e per manutenerla in caso contrario. Partimmo qualche ora dopo per una missione che ci avrebbe fatto camminare proprio sotto il territorio occupato dal nemico. Il pericolo mi aveva risvegliato un sentire azzurro dentro, ci misi un po’ a capire che si trattava di paura. Bart invece era raggiante all’idea della sua prima missione e camminava spedito qualche metro avanti a me, voltandosi ogni tanto per lanciarmi un sorriso luminoso.
La prima notte ci accampammo in una casamatta a metà strada e mangiammo le nostre razioni seduti sul vecchio tavolo polveroso, al lume di una candela lasciata lì chissà quanto tempo prima da qualche soldato stanco.
“Mi hanno detto che il tuo nome in sloveno significa scoiattolo, perché ti chiamano così?” mi chiese Bart mentre mangiavamo.
Mi prese di sorpresa e pertanto gli risposi immediatamente “Perché quando sono arrivato qui ero l’addetto alle cucine e conservavo tutto… come uno scoiattolo…”.
Bart sorrise. Un sorriso avvolgente, stanco, ma soddisfatto di essere finalmente riuscito ad aggirare il mio muro. Io da parte mia ricordo di essermi sentito più nudo e vulnerabile che mai, ma che non persi mai il controllo proprio per via di quello sguardo che mi guardava senza giudicare.
Rimanemmo in silenzio qualche secondo, ma anche il silenzio era cambiato e da pesante come piombo era diventato simile al vapore che aleggia nell’aria.
“E tu?” chiesi poi d’improvviso “Che diavolo ci fai qui?”.
Bart si alzò e fece il giro di due pareti della casetta, facendoci strisciare sopra la mano e sollevando un gran polverone, poi, eretto, fiero ed eroico nella nuvola di polvere dichiarò “Credo che se la svolta a questa guerra è possibile la risposta per portarla avanti è qui! In queste vostre gallerie”.
Io non riuscivo a credere alle mie orecchie ed ero scoppiato a ridere fragorosamente, Bart mi guardava con un’espressione ineffabile, un misto tra la sorpresa e la delusione, tanto che smisi subito di ridere simulando goffamente un colpo di tosse.
L’autore:
Marco Fregonese nasce a Monfalcone (Go) nel 1992. Sin dall’infanzia coltiva una passione per la letteratura ed inizia a scrivere i suoi primi racconti già da giovanissimo.
L’amore per i viaggi lo porta in oltre venticinque paesi su tre diversi continenti, influenzandone la produzione artistica.
Nel 2021 pubblica “Nostalgia 2.0” (Lupi Editore). Nel 2022 “L’Emendamento Delle Cose Guaste” (Edizioni Montag) oltre che diversi racconti e poesie.
Collabora da molti anni con il collettivo Dobialab, promuovendo eventi culturali.
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Fulvia Vogric
Ti racconto ————————–
Trieste, tutto il contrario di una Nazione
Saverio Merzliak, “Linee Confuse. Storie di genti e di confini”
di Anna Piccioni
Il romanzo inizia dall’Epilogo: siamo negli anni settanta, la ragazza figlia di Alcyone e Maria aveva appuntamento con Karl Netzger per continuare a parlare degli anni passati, ma il poliziotto era morto lasciandole un quaderno fitto di appunti, un libro e una lettera…
“Linee Confuse. Storie di genti e di confini” è titolo appropriato per questo romanzo di Saverio Merzliak, che affronta il dopoguerra nel complicato tessuto storico, politico, sociale di Trieste: “qui tutto funziona come un fiume carsico, ora lo vedi in superficie, ora sembra sparire e non lo vedi, ma puoi immaginare il corso sotto le rocce e i cespugli, nelle grotte”.
Per l’autore la metafora più appropriata per Trieste “è rappresentata proprio dalle gallerie, dalle caverne, dai torrenti carsici. Questi sono l’anima sotterranea di Trieste, nascosta”. Una metafora che ben identifica questo nostro territorio alle spalle di un confine liquido, o confine confuso. Confine, confuso, sono sostantivo e attributo con la stessa radice che indica insieme, ma non condiviso.
La storia di questo territorio raccontata da Saverio Merzliak parte da Fiume, città che ha molto da spartire con Trieste dopo il 1945, la fine della guerra nel resto d’Italia, ma con qui ancora tanti conti da saldare, vendette da perpetrare, ma soprattutto soluzioni finali che contrappongono le due anime della città: quella italiana e quella slava, ma anche quella di coloro che non prendono posizione, gli “ignavi”.
Si vissero a Trieste momenti di grande conflittualità sociale: la confusione, lo straniamento dei Triestini che non sapevano “a che Santo votarsi”, ognuno chiuso nella sua verità.
Per i Triestini, italiani, essere liberati dai partigiani di Tito sembrò un grave offesa alla loro italianità, ma poi arrivò il Governo Militare Alleato. Il GMA ha il compito di mantenere l’ordine; un’amministrazione militare dopo l’Adriatisches Küsterland dal 1943 e l’amministrazione jugoslava. Sembra che Trieste non riesca a liberarsi dalle divise che la amministrano.
Già da queste prime considerazioni si capisce come l’autore deve destreggiarsi in un vero e proprio ginepraio, riuscendo a dare un quadro complesso, con distacco senza prendere posizione. La storia si dipana attraverso personaggi verosimili, e con una profonda capacità di analisi.
Due, trai i protagonisti, non sono Triestini ma tedeschi, che hanno scelto di rimanere a Trieste dopo la disfatta tedesca, e descrivono questa città in cui hanno scelto di vivere, parlandone senza coinvolgimento emotivo: il dott.Kluge, che opera nell’Ospedale Militare, e Karl Netzger, poliziotto.
Altri personaggi raccontano la Storia attraverso le loro vicissitudini: Alcyone e Piero, prelevati forzatamente da Fiume per essere portati a Trieste, costretti ad aggregarsi alla brigata partigiana slava, ma ricoverati all’Ospedale militare, aiutati dal dott Kluge, ognuno seguirà poi la sua strada: uno scapperà in Veneto, il secondo divenuto Peter ritornerà in Jugoslavia con il compito di controllare la rieducazione degli stalinisti nella famigerata Goli Otok.
Poi c’è Claudio, uno dei tanti cantierini di Monfalcone, che avevano scelto di venire in Jugoslavia “per costruire il nuovo socialismo”, dapprima accolti, ma poi “accusati di essere nemici del popolo”.
Nella seconda parte del libro, ambientata negli anni settanta, l’autore ci porta a scoprire i luoghi di Trieste, anche quelli più nascosti, ma che testimoniano la complessa e complicata “identità” triestina.
Dice Netzger: “A me pare che Trieste, per le sue tante comunità parallele, sia un frattale (una proiezione) dell’Italia, che è tutto il contrario di una Nazione”.
Intervista a Saverio Merzliak:
Perché scrivere questa storia?
Da una parte vi sono le mie origini familiari fiumane e dalmate, poi l’esigenza personale di ricostruire una fase storica di questa parte del mondo che ha preceduto il mio “insediamento” a Trieste, spiegando a me stesso prima che ai lettori come si era determinato il clima che vi avevo trovato nei primi anni settanta, a partire dal processo per i fatti della Risiera, attorno ai quali ruotava il primo romanzo: “L’eclissi di San Sabba”, citazione implicita dell’”Eclissi della ragione” (Max Horkheimer, Scuola di Francoforte).
Mettere al centro due personaggi come il dottor Kluge, medico tedesco, e l’amico Netzger, poliziotto, è servito per dare una certa “obiettività” nel raccontare quei giorni così caotici, in cui le verità si sommano alle dicerie?
Ho creduto che non aiutasse proseguire sulla tradizione dei protagonisti “classici” (partigiani o fascisti), per evitare letture strumentali o in qualche modo nostalgiche.
Così i due irrituali protagonisti tedeschi che scelgono di vivere a Trieste mi sembravano più adeguati al racconto di piccole e grandi storie personali che incappano in una fase storica decisamente controversa.
Il romanzo inizia a Fiume perché è la sua città di origine, e poi si sposta Trieste. La storia le unisce, ma ho l’impressione che i loro abitanti siano diversi…
Sono d’accordo, le diversità sono soprattutto culturali e radicate nel tempo, addirittura nei secoli. Ci sono anche tratti comuni, come l’attrazione per l’indipendenza dagli Stati, più sentimentale che reale, i richiami nostalgici da una parte per l’Austria e dall’altra per l’Ungheria; la questione meriterebbe un’analisi a sé, non fosse che le ricostruzioni identitarie solitamente non portano bene e si attardano su un passato che forse vorremmo superare definitivamente.
Si può dire che questo romanzo è storico, antropologico, politico?
Certamente, ma soprattutto è un romanzo, un racconto di storie e percorsi umani a volte fondati su elementi storici, a volte frutto di testimonianze dirette o passate di generazione in generazione, a volte frutto di ricostruzioni plausibili ma pur sempre di fantasia.
In effetti è anche un romanzo politico e perfino filosofico, che ripone qualche aspettativa nelle nostre capacità critiche di sondare anche quegli assunti che paiono indiscutibili, senza lasciarsi condizionare dalla paura, in senso lato, che è appunto uno dei compiti essenziali della filosofia.
Ho letto con molto interesse e attenzione “Linee confuse” e ho capito una volta di più che per Trieste, o meglio per i suoi abitanti, se non si prende atto di superare i conflitti che ancora si insinuano, questa città non ha molto futuro…
In effetti il romanzo suggerisce questo attraverso una sorta di mappa “sotterranea” rispetto alla realtà della città, agli eventi che la coinvolgono periodicamente.
L’autore:
Saverio Merzliak è nato a Trento da una famiglia di origini fiumane, istriane e dalmate.
A vent’anni si è trasferito a Trieste.
Ha pubblicato studi di e ricerche di carattere socioeconomico.
Il suo primo romanzo si intitola “L’Eclissi di San Sabba”.
(Saverio Merzliak “Linee Confuse. Storie di genti e di confini” Tresogni Casa Editrice 2024)
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Annalisa Secchi
Le porte accanto
Un laboratorio creativo di fotografia
di Alida Cantarut
Quando Ilaria Bregant mi chiese se volevamo partecipare al laboratorio di fotografia all’interno del progetto “Alda Merini Le porte accanto” beh… non c’ho pensato due volte ed ho esteso immediatamente la proposta ai nostri soci.
Agli inizi di maggio, precisamente il 3, ci siamo ritrovati in via Rastello a Gorizia, con alcuni di noi del Mitteldream-Artegorizia, assieme ad un po’ di persone incuriosite…
Con un cielo azzurro, circondati dal profumo d’acacia e da aiuole fiorite, abbiamo intrapreso, “rigorosamente” con la macchina fotografica al collo, una bellissima passeggiata alla ricerca delle porte, salendo al Castello e riscendendo il colle fino al confine del Rafut, a me carissimo, raggiungendo la bellissima via Ascoli e successivamente la piazza Vittoria per poi rientrare da dove eravamo partiti, in via Rastello…
È stato meraviglioso scattare ma soprattutto veder scattare, scrutando attentamente ogni portone, ogni particolare di quest’ultimo, osservandone il colore, le forme e immaginando una vita, qualsiasi, oltre esso. Ne abbiamo trovati di aperti, di chiusi, di accostati, di colorati, di metallo e di legno, di forati, ed anche di logorati… tutti stupendi a raccontare la propria intimità, ognuno con un proprio vissuto e noi, ciascuno di noi ad immaginarne un senso…
Ed è risultato un bellissimo momento, condiviso assieme agli altri laboratori inseriti nel progetto: il 15 maggio è stata poi allestita una mostra, tra cui erano presenti anche le nostre porte, “appese” e arricchite da un pensiero di vita propria.
Che dire, bellissima esperienza!!!
Un grazie speciale ad Ilaria con Mongolfiere Tascabili che ha progettato l’iniziativa e a tutti i partecipanti…
L’organizzatrice e l’associazione:
Alida Cantarut, innamorata da sempre della fotografia e di ciò che può trasmettere, da tanti anni nel sociale per professione ma anche per missione, dal 2014 assieme a Flavio Chianese ed Emanuele Musulin vive dell’atmosfera del Mitteldream. Fin dall’inizio questa realtà si è fatta decisamente sentire, e nei primi tre anni c’è stato tanto divertimento: due spettacoli di mapping, RAYLIGHT 1 in piazza Vittoria e RAYLIGHT 2 in piazza Sant’Antonio e una bellissima mostra dedicata al nostro territorio al palazzo di Santa Chiara.
Da lì un proseguo carico di soddisfazioni nel mondo della promozione fotografica, fino alla fusione con ArteGorizia, di cui dell’omonima associazione Alida Cantarut è diventata il presidente.
L’associazione collabora con il Comune di Gorizia e con tante altre realtà associative della zona, come èStoria, la Proloco, Gotriteam ed altre ancora.
Organizza raduni fotografici, serate e passeggiate fotografiche, esposizioni e mostre su vari argomenti. Tra le più recenti quella dedicata alla Rosa di Gorizia e i progetti “Il Parco Basaglia racconta” e “4 passi senza confine”, progetto nato assieme a Giovanna Campagna, che con passione e vena poetica ha accompagnato ed arricchito una serie di scatti dei soci dell’associazione Mitteldream-ArteGorizia.
Immagini ————————
Le porte accanto
Laboratorio creativo
foto di Ilaria Bregant
https://www.facebook.com/mongolfieretascabili
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.