Fare Voci gennaio 2023

 

E buon anno nuovo, buon 2023!!!!

Iniziamo questo primo mese con il nuovo scrivere di Rossella Renzi. La sua raccolta poetica “Disadorna” dona luce e la difende, crea incontro e condivisione. Con queste sue pagine la poesia respira meglio.

La voce d’autore è altrettanto preziosa con il ritorno di Beatrice Zerbini e il suo “D’amore” e con la consueta magia di invenzione firmata da Maurizio Benedetti con “Fiori rossi dal treno“, anche solo per trovare i “nuovi sogni dagli occhi del bullone”. A cui si aggiunge Federico Zucchi, e le pagine del suo “Calore”.

Il tempo presente è nei sei inediti di Stefania Licciardello, che anticipano il suo nuovo libro di prossima pubblicazione. E nella “Settimana della Lingua Italiana nel mondo”, con i laboratori di poesia che si sono tenuti all’Università di Stoccarda.

E tutto questo numero è immerso nelle immagini di Emiliano Grusovin, che per tanti sarà una gradita sorpresa.

I Margini. Di poesia ed altro raccontano di Alba Donati e della sua “La libreria sulla collina”, con l’antologia delle sue poesie “Tu, paesaggio dell’infanzia”; assieme ad Isabella Rizzato e Silvia Molinari con “Il verso del fiore. Una passeggiata nel giardino di Emily Dickinson”.

Il Ti racconto ha per titolo “Due ore mi possono bastare”: Luca Buiat ci invita nella bellezza del suo viaggiare.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

Immagini       —————————-

b4cz9w29djxj8875kj

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

Voce d’autore         ————————

La scintilla che si accende al risveglio

Rossella Renzi, “Disadorna”

di Giovanni Fierro

L’intensità e la verità della luce, come atto generativo, come risorgiva esistenziale. Luce come forza che si tramanda e che si eredita, che si dona e che si trasmette. Non bagliore ma radice, non lampo ma appartenenza.
Luce che anima e che è respiro, esistenza che trova il corpo, lo inventa, chiede pazienza e costruisce coscienza.
L’avventura del nuovo fare poesia di Rossella Renzi si muove in questa dimensione, e ha nel titolo della sua nuova raccolta poetica, “Disadorna”, l’essenziale di ciò che serve per lo stare al mondo.
Il percorso di queste sue pagine non scansa però le difficoltà di questa avventura, non le evita, sa indicarle: “essere luce nel fragore/ nel desiderio, nella speranza/ quando la vita si schianta”.
Ed in questo riconoscere fragilità e caducità, Rossella Renzi è abile nel mantenere in vita il mistero che tutto accende, che fa da innesco al nostro vivere, al nostro pensare e desiderare, al nostro dare forma alla nostra esistenza.
L’autrice sa di come giorno per giorno c’è il bisogno di ridefinirsi, perché “mentre l’acqua inizia a tracimare/ ripassiamo le nostre iniziali”. Anche per sapere da dove siamo partiti, da chi dandoci un nome ci ha chiamati nel mondo.
In “Disadorna” c’è la capacità di riconoscere i momenti da fermare, da focalizzare e proteggere, quel quando dove puoi dire “ora ritaglio controluce/ questa felicità”.
Si, c’è bisogno di difendersi, ma l’importante è capire che non si è soli se si cerca il confronto, che poi non può diventare che vicinanza, condivisione e complicità.
E la Renzi cerca e trova il confronto anche con altre artiste, come la scultrice Camille Claudel. Così lo scavare nella materia per cercare la forma trova la stessa vena che si scopre se si scava nel silenzio per individuare la parola da mettere sulla pagina. Non è poco….
Perché allora, e solo così, il buio che ci contiene, che a volte ci attorciglia, diventa solo una trasparenza, da attraversare con la fiducia del proprio compiersi. Nel gesto di luce che amplia lo sguardo, che rende più profondo il respiro. Anche in quella certezza così tenue quando si è finalmente sicuri di trovare “la follia che salva/ la parola che smuove”.
“Disadorna” è il raccontare di come si possa raccogliere “ogni mattina lo squarcio di luce/ in un punto diverso del cielo/ per noi che siamo orfani di orizzonti/ contiamo il tempo della fioritura”.
Di certo la perdita e l’assenza fanno parte di questa verità che illumina, che con pudore sa però anche chiudere gli occhi per definire meglio quanto ogni vita sia transitoria, momentanea, cometa nel cielo del sempre.
E allora definire le persone più care e più vicine al proprio sentire, è definire il proprio mondo e la propria esistenza, in modo irreversibile: “Eri la parte migliore del giorno/ l’ultimo volo possibile” (Di nuovo materia che trova la sua forma, che esce dal buio e si fa luce…).
Rossella Renzi con “Disadorna” fa un ulteriore passo dentro il perimetro della poesia, ne misura il suo segreto senza svelarlo. È il suo mostrare una possibile appartenenza a questa luce, con lo stare dalla parte della sacralità del suo manifestarsi.

 

Dal libro:

Siamo l’occhio spalancato sul fuoco
procediamo con passi tremanti
una leggera carezza delle mani
per turbare la muta limpidezza
per rispondere al saluto dell’acqua.

*

Essere nudi nel mondo
come forma che prende la materia
come carne che si pone in ascolto
quel gesto della mano che trema.

*

Dormiamo così, viso contro viso.
Ma tu al risveglio sei un’altra creatura
le spalle sono rami più forti
ed io solo un frammento di radice.

*

II

Lo strappo arriva ad agosto
nascosto nel petto tra diastole e sistole.
Scintilla di memoria nascosta
mi racconta qualcosa del principio
prima della luce nasce la pietra.

*

Eri scintilla o la bestia che fugge
esiliata nel chiaro di bosco
eri fanciulla ferita nel fianco
la madre con due rose nel grembo.
Eri seme, frutto, ramo spezzato
il silenzio nella tana del fuoco.
Eri la parte migliore del giorno
l’ultimo volo possibile.

 

 

Intervista a Rossella Renzi:

In “Disadorna” la prima sensazione che si ha, è che tutti i sensi sono accesi, in una positiva allerta, in cui – ancor più di prima – prende forma un essere ben disposti verso la vita. È così?
Mentre scrivevo diverse poesie che compongono “Disadorna” provavo una sensazione che è difficile da descrivere: era come se la vita mi esplodesse tra le mani ed era forte il desiderio di dare forma a quel sentire, attraverso la scrittura. Per questo nel libro si può leggere una disposizione alla vita, per affrontarla con coraggio, per accoglierla privi di ciò che è superfluo, completamente “disadorni”. Per farsi travolgere dal suo impatto che può essere spietato, che a volte è assai doloroso, a volte sorprendentemente dolce. Allora è come affermi tu: c’è una posizione di accoglienza, di ascolto, di ricezione nei confronti della vita, che ha in serbo per noi ogni tipo di trattamento. Occorre accoglierla con i sensi accesi, con attenzione costante, per non disperdere il minimo suono, una vibrazione o un riflesso della luce.
Oltre a questo, ho avvertito come urgente la dichiarazione di una possibilità: del volo, della parola, dell’amore.

Il libro è un esplorare l’intensità e la verità della luce, come atto generativo, come risorgiva esistenziale. Però, sempre, questo tuo nuovo scrivere è un difenderne il mistero, il nutrire il suo essere come un qualcosa di assoluto; è il mostrare una appartenenza a questa luce, senza volerne sgualcire la sacralità. Ti ci ritrovi in questo?
Il tema del sacro è molto presente nelle mie letture, riflessioni e di conseguenza nella mia scrittura. Ho cercato più volte di metterlo in relazione con gli insegnamenti legati alla religione che mi hanno impartito da bambina, ma la ricerca è ancora lunga e la filosofia da sempre mi attrae come un magnete a cui non posso – e non voglio – resistere.
Di recente ho letto alcuni scritti della pensatrice andalusa Maria Zambrano: mi hanno molto colpito alcune sue meditazioni sulla luce, sul linguaggio, sulla parola.
Forse in questo mio libro la “luce” ha assunto il ruolo di guida… non posso spiegarlo chiaramente perché il processo di creazione poetica non ha uno sviluppo logico, razionale o lineare. È qualcosa che si impone, attraverso suggestioni, sensazioni, voci.
Ci sono momenti di immersione assoluta nella parola, di cui spesso perdo le tracce, nel senso che scrivo cose (ho diversi taccuini e quaderni su cui appunto i miei versi) che poi non ricordo di aver scritto. Ed è questo il mistero: le voci dei miei morti che sussurrano, lampi in un cielo di tenebre, vibrazioni in un chiaro di bosco, i raggi che incendiano un tempio nella penombra, suoni che si percepiscono appena. Non mi pongo domande, scrivo… forse questo significa custodire un mistero.

E, cosa bella e rara, attorno a questa luce così importante, riesci anche a dare al buio la sua trasparenza, lo riesci a riconoscere come un silenzio, come uno stato emotivo necessario. A cui fare affidamento, mi viene da dire…. Può essere così?
Ho imparato col tempo ad amare il buio e il silenzio, perché mi permettono di entrare in uno spazio interiore – nel mio tempio – senza disturbi o sollecitazioni esterne; il silenzio e la notte rappresentano per me i luoghi della poesia. Lei si accende quando il mondo si ferma.
La seconda sezione del libro si intitola “Notte interiore”: la notte percepita come spazio-tempo in cui tutto si confonde nell’ombra, i contorni non sono più definiti e le emozioni si riaccendono, si trasformano, rinascono in uno stato vigile quasi violento, inafferrabile a volte incomprensibile, come il sogno.
Nella notte i pensieri viaggiano ad alta intensità, affiora il desiderio del corpo, il bisogno di calore, un fermento nuovo che nutre l’immaginazione e tutti i sensi.
Affiora anche il desiderio di pace e di riconciliazione col mondo, con l’altro. Mi è davvero cara la notte, come il buio, il silenzio: permettono una rigenerazione, l’ascolto, la poesia.

La figura della falena è ricorrente, attraversa le pagine di “Disadorna”. Cosa porta con sé? Cosa dice con il suo manifestarsi, con il suo esserci?
La falena è un insetto notturno, è attratta dalla luce e spesso ne viene disorientata, così da schiantarsi in modo fatale contro un vetro che non riesce a percepire, trasportata dal suo desiderio.
Da bambina ero terrorizzata dalle farfalle e ancora di più dalle falene: qui dovrebbe intervenire la psicanalisi, a cui ancora non mi sono affidata. Questa creatura attraversa molti miei testi per le sue caratteristiche: la capacità di volare, l’essere notturna, l’attrazione per le fonti luminose, il suo disorientamento, l’illusione che spesso si rivela per lei fatale. Porta con sé tanti significati, tutti legati al crepuscolo e alle creature enigmatiche che lo abitano: ci osservano silenziose, in disparte, portano messaggi da decifrare.
Ci sono falene che hanno l’immagine dell’occhio sulle ali: sembrano possedere la facoltà di vedere attraverso le ali stesse e di attivare più sguardi contemporaneamente.
Aggiungo che la parola “falena” ha un suono che mi piace molto: la trovo elegante ed evocativa… credo che sia un essere magico.

Una parte del libro è dedicato a Camille Claudel, scultrice. Ecco, che rapporto ha lo scrivere poesia con il fare scultura?
Camille Claudel è stata un’artista straordinaria, con una storia tormentata e piena di dolore.
Era fragile e forte allo stesso tempo, determinata e dotata di grande talento artistico. Ha trascorso molti anni in manicomio abbandonata da tutti, ed è morta in estrema solitudine, sepolta in una fossa comune. Questa storia – come moltissime altre legate a donne di grande spessore culturale e umano – mi ribadisce che nel mondo non c’è giustizia.
Per questo in “Disadorna” (come nei libri precedenti) ho voluto dedicare una sezione a figure femminili, che per me sono state illuminanti, per la vita privata e per il mio percorso artistico.
Le sculture di Camille esprimono una potenza e una grazia che solo le mani generose e sapienti di una donna possono concepire. Il peso dei corpi è impercettibile, ma la materia imprime nelle figure grande dinamicità e senso vitale, sprigionando forte passione.
È lo stesso processo che cerco d realizzare in poesia: una tensione verso l’alto, la leggerezza, l’intensità delle immagini che possono trasportare altrove senza percepire il peso della lingua, la parte grezza del significante che è sempre difficile da manipolare.
Credo che scrivere poesia e realizzare sculture siano due mestieri molto affini, cambia la materia che viene lavorata. Questa riflessione a mio avviso funziona per molte discipline, per questo mi piace tessere dialoghi tra la poesia e le altre forme d’arte.
Per concludere, in questa terza sezione del libro ci son due aspetti distinti: quello della celebrazione della donna come modello d’arte e di vita, di cui Camille in questa opera si fa portavoce quale simbolo di fragilità e forza femminili.
Quello della scultrice Camille Claudel che durante la sua vita non ha ricevuto l’attenzione, l’affetto, il riconoscimento che le spettavano per il talento, la grandezza del suo lavoro artistico… Vorrei restituirle un po’ del bene che la vita le ha sottratto, ingiustamente.

In “Disadorna” il quotidiano, che ha sempre alimentato la tua poesia, viene traslato in un’altra dimensione, che rimane alla base della vita di ogni giorno ma che si fa quasi metafisico; di certo è un altro modo di raccontarlo, ma mi sembra che questo passo ti abbia portata ancor di più alla radice del vivere di ogni giorno…. Cosa ne pensi di questo?
Il quotidiano abita da sempre la mia poesia, ma forse, come tu hai meticolosamente notato, in questo libro assume una dimensione differente. Ho cercato di prendere le distanze per spostare la prospettiva, di lato, o verso l’alto ma anche in profondità, nell’abisso, assumendo a tratti la prospettiva del volo propria della falena.
Il dato della quotidianità è la scintilla che genera l’immagine, la situazione, un testo che abbraccia mondi e tempi distanti, sognati, fievolmente percepiti. Mondi che sono oltre la soglia, ma che avverto come urgenti, che vogliono essere creati, o ricreati nella parola, attraverso un grido oppure sussurrati.
Così, la poesia trasforma il dato sensibile e lo proietta in una profondità nuova e sconosciuta; lei tradisce il contesto reale, concreto, avvinghiato alle maglie del tempo per trasportarlo altrove, nel giardino incolto, nell’albero cavo, nel tempio disadorno.

 

L’autrice:
Rossella Renzi vive a Conselice (Ra), dove lavora come insegnante.
Dal 2003 è redattrice di “Argo – Rivista d’esplorazione”.
Numerosi sono i suoi interventi su riviste di critica e letteratura (Graphie, Atelier, La Mosca di Milano, Clandestino, Farepoesia, Land, Le voci della luna).
È tra i curatori del volume “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie” (Gwynplaine edizioni, Ancona 2014).
I giorni dell’acqua” è il suo primo libro in versi, uscito nel 2009 per L’arcolaio (Forlì); per la stessa casa editrice è uscito nel 2015 “Il seme del giorno”, con la prefazione di Gian Mario Villalta e risultato finalista al Premio Carducci, e nel 2018 ha pubblicato “Dare il nome alle cose. Poesie 2014-2017” edito da Minerva.
Organizza eventi legati alla poesia, laboratori di lettura e scrittura nel suo territorio.

(Rossella Renzi “Disadorna” pp. 76, 13 euro, collana Portosepolto, peQuod 2022)

 

 

 

 

Immagini        —————————-

IvdsAVqKSW8hYljBMt

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

 

Tempo presente       ————————–

Le vele vene gonfie e noi leggeri in mare

Sei inediti

di Stefania Licciardello

 

Il sole non è sorto
a volare è il cielo
piumato sboccia
nell’orecchio rotola
sgroppa sul mio petto
rovente la terra degli speroni
il mare avanza impari
voluttuoso
cavalli di trebbie il fiato.
Pupille raddoppiano la luce il giorno si dimena.
Siamo veloci come carezze senza mani.

*

La gioia si insedia nell’osso del mio cuore
lo mordicchia il cane,
le vele vene gonfie e noi leggeri in mare.
Il cielo è salato il mare splende incompiuto.

*

Vorrei parlarti con la voce delle chiome
mutevoli di vento e luce
vorrei parlarti con la voce dei nodi nocche consonanti
si aprono nel lenzuolo della notte
intere querce viaggiano
vocali di uccelli
dovrò scrivere alto perché mi possa vedere
quanto sono verdi le parole
il mare rimbalza felice
nessuna conchiglia è rotta.

*

Rumorosi i passi
del camminare oltre.
Gli occhi aperti del basilico
papaveri alle orecchie bricco
per la terra smossa,
il corpo pieno di salti,
sgattaiolare di vocali al sole.
Una farfalla passa vicino al cavallo
sa nitrire.

*

Le parole si incarnano
fanno nidi
di rondine effervescenti
imbarcazioni
condomini interferiscono.
La mia stanchezza espongo
al cane che mi addomestica
senza compimento
senza premio
è possibile invaghirsi.
Il rombo delle vene mescola radici fieno
animali al pascolo migrano
e tutto questo fremito
danzare.

*

Baciami nel sonno
quando sono solo cuore
in un giorno che è notte
baciami aurora
Aurora io voglio vederti dormire.

 

L’autrice:
Stefania Licciardello vive a Catania.
Ha pubblicato “Libro di campo” (2017), “Libertinia”, con foto di Eletta Massimino (2019) e “Il libro dei bisogni” (Nèon edizioni 2020).
Fa parte del gruppo di teatro Neon.
I testi inediti qui proposti sono una anticipazione della sua nuova raccolta poetica, “Il libro della gloria”, di prossima pubblicazione presso Nèon edizioni.

 

 

 

 

Immagini        —————————-

Untitled #polaroid

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

Voce d’autore      ——————————

Mi salvo sempre dopo

Beatrice Zerbini, “D’amore”

di Roberto Lamantea

C’è un interludio nella poesia di Beatrice Zerbini: “mezze stagioni”, il volumetto pubblicato da AnimaMundi edizioni nel 2021 che segue “In comode rate. Poesie d’amore”, l’esordio dell’autrice bolognese nel 2019 con Interno Poesia e la prefazione di Alba Donati.
mezze stagioni” (il titolo è tutto in minuscolo) è disegnato sul trascolorare del tempo, dove i passaggi della vita sono intonati, come suggerisce il titolo, in acquarelli dai toni malinconici. Interno Poesia di Andrea Cati pubblica ora la nuova silloge di Beatrice Zerbini, che già nel titolo – un apodittico “D’amore” – riprende il tema dell’esordio.
Lungi dall’essere un canzoniere, “D’amore” è meno lirico di “mezze stagioni“, più amaro, non è un libro sui passaggi della vita e delle relazioni ma è tutto tramato sull’agnizione che i sogni sono destinati a essere delusi, l’amore a fuggire, a divenire consapevolezza del vuoto. La bellezza di questa poesia è che Beatrice ha uno sguardo deluso ma non smette mai di essere innamorato.
D’amore” è il titolo che non t’aspettavi: ed eccolo lì, semplice e nudo, crudele, giocoliere anche nel suo citare un genere forte della tradizione sin dalla letteratura greca e latina (e poi Dante, Petrarca, Tasso…).
Per i suoi primi libri sono stati fatti i nomi di Salinas e Pascoli, ma anche l’amata Vivian Lamarque – di cui “Lo Specchio” Mondadori ha appena dato alle stampe l’ultima raccolta, “Amare da vecchia” – la Szymborska citata da Alba Donati. È certamente pascoliano un attacco come

Sara, c’era
la primavera fuori, le cinciallegre
saltavano impazzite,
come ferite, e c’era
un vociare lontano, non so dirti se fosse
di risate
smosse, in fondo al vicolo più stretto
o se negli spiazzi di sole delle scuole
quasi chiuse ormai.

È la poesia n. 10 dedicata Ad Andrea Z., in ricordo di Sara (il libro è costruito in quattro “stanze”: “Sulla soglia”, “Anticamere”, “Dalla finestra, appena fuori”, “Nel cassetto”: luoghi di una casa-anima, una casa della vita, il teatro della narrazione poetica).
Quello di Beatrice è un raccontare cantando: c’è una felicità narrativa che – pur parlando di negazioni, fughe, lontananze, corpi sfiorati, attese possibili o vuote – è insieme consapevole e leggera, ha la grazia di un petalo che si stacca e resta vivo. Il dolore e l’assenza non sono né cantati né cancellati, ma lasciati defluire, come le parole che danzano tra allitterazioni, rime interne, asindeti. Di quello vissuto forse è più vero l’”amore pensato”:

Ti lascio all’amore pensato,
l’amore ti lascio,
da ammirarlo sul suo altare:

ti lascio
guardarlo senza toccare;
ti lascio
le parole, l’idea,
l’illusione che adesso
debba ancora arrivare,
ci sia un tempo diverso
da ora e ogni istante,
un tempo diverso
per amare,
non puntuale.

Io vado a fare e
faccio
che vado,

perché ho giusto qui
una vita, qui
un cuore.

E mi pare
si muoia più a non vivere
che a morire.

C’è un altro elemento, ben evidenziato da Alberto Bertoni nella prefazione: la scrittura di Beatrice Zerbini nasce in gran parte sul web, è Facebook la pagina (lo schermo, il luogo, il libro virtuale) che ospita gli inediti, rilancia i testi pubblicati in libro, azzarda varianti praticamente ogni giorno.
Un’altra autrice che affida al web i suoi versi è Alessandra Carnaroli, poesie d’occasione legate a fatti di cronaca (femminicidi, le guerre e le dittature in mezzo pianeta, la violenza come deformazione della cultura e delle religioni). Sui social, poi, è tutto un pullulare di “poete” e “poeti” (due milioni in Italia, calcola Bertoni, a fronte di pochissimi che leggono): “Il Duemila”, scrive il critico, “ha introdotto il principio del “tutti poeti (e poete)”, mettendo in radicale discussione la forma-libro, a favore di un’oralità disseminata in modalità che – anche quando sembrano scritte (come per l’appunto nel caso di diffusione attraverso i social media) – rispondono in realtà a un criterio, a uno sfondo e a uno statuto di performance”.
Ma Beatrice Zerbini rilegge e riscrive, adotta varianti. Ecco: la questione delle varianti, fondamentale in letteratura, è completamente stravolta dalla nuova modalità di scrittura su Internet, e rimette in discussione un settore intero della filologia e della critica letteraria, la variantistica o ecdotica alla Contini: si pensi al dibattito sempre accesissimo sulle lezioni della Comedìa o sulle diverse stesure dei Promessi sposi fin da Fermo e Lucia, alle riscritture anche dei poeti contemporanei. La poesia sul web permette ancora di parlare di varianti?
Beatrice Zerbini indica una via possibile: riscrive quanto già pubblicato, il suo – è sempre Bertoni – è un “testo aperto e in fieri”: “oggetto da continuare a lavorare di bulino e a perfezionare con una maniacalità artigianale che senz’altro le fa onore”. Ecco perché la poesia di Beatrice Zerbini ha questo nitore, una sabiana “chiarezza”: sa giungere al cuore del cristallo.

 

Dal libro:

Arrivo sempre un poco dopo, sempre dopo
aver sbagliato, dopo
avere aggiunto troppo sale;
dopo
avere detto o
parlato male;

mi salvo sempre dopo
che ci sia
qualcosa da salvare;

mi abbraccio, mi consolo,
mi dico non importa:

imparerò come si vive,
quando sarò già morta.

*

Finalmente è morta la tua rosa:
mi sento sollevata, da cosa
non so. Dall’annaffiare,
forse, dal correlare:
dall’attendere il segnale,
con l’annuncio (floreale)
dell’Universo
che – sì! – ti ho perso.

*

Le tue mani sono mazzi
di spighe e gambi di fiori,
muovono dinoccolate
dita; il polline tattile
dei polpastrelli fioriti;
viti e vigneti, a grappoli,

ortiche;

le tue mani seminate,
nelle pieghe dei vestiti;

sono lente primavere,
in cui tutto può accadere
e a cui tutto perdonare,

le carezze non sbocciate,
le distanze dall’estate:

zitte come delle mani,
belle come le tue mani,

le tue mani. Le tue mani
sono aprili, senza uscire.

 

 

Intervista a Beatrice Zerbini:

“D’amore” ha un’intonazione sospesa tra la grazia e la malinconia, dove la presenza di chi ama ha già la luce del ricordo e dove, viceversa, il ricordo è presenza fisica: oggetti, arredi, corpi… È così?
Caro Roberto, intanto grazie per la tua attenzione e per il tuo invito. In un certo senso, sì, è vero ciò che dici. Con la poesia ho sentito, da sempre, di aver accesso a una dimensione capace di fondere insieme il quotidiano, la realtà esperita e tangibile, con il non vissuto o precario o sfuggevole, con l’assente.
Lo sguardo poetico forse realizza proprio questa fusione fra un’incolmabile lacuna che ci obbliga a una tensione e quanto di più pieno e statico siamo invece capaci di cogliere dell’essenza del reale, di ciò che ci circonda, saldamente.
Credo che tu avverta questo nelle mie parole. Ricordo e oggetti, presenza corporea e malinconia (che è rievocazione di un non più) si mescolano, perché ciò che la poesia osserva, e maieuticamente restituisce, è qualcosa di più articolato di un semplice oggetto.
Penso a una madeleine che lo sguardo poetico intercetta ancor prima del ricordo, o un ricordo in tutta la sua portata fisica e di cui si ha coscienza piena, intercettato ancor prima della madeleine.

Nei tuoi versi affiorano rari endecasillabi, più spesso quinari, prediligi la metrica breve, come sottolinea Alberto Bertoni nella prefazione. Tante le rime interne. Così la tua scrittura diventa un canto, evocazione/invocazione, una danza sempre lieve. Qual è la “cucina” della poesia di Beatrice Zerbini?
È il mio cuore a scandire il ritmo, a mescolare. Il verso della mia mente e delle mie orecchie, spesso, è endecasillabo, ma il mio cuore lo spezza.
Molti versi brevi, molti dei miei andare a capo sono una frenata sul baratro; la durata del verso è il mio sguardo che si ferma, si sofferma (e lo dice), su parole che aprono altri scenari, altre ferite.
L’andare a capo è affacciarsi e precipitare o, al contrario, rischiare di precipitare e darsi il tempo per un sospiro sul pericolo scampato. E poi è sangue che pulsa, la poesia è anche suono, è il canto delle cose che non sanno parlare, che sanno solo intonare e accordare e scandire finché il linguaggio, in quella danza, in quel canto, non trova un’altra declinazione fatta di significati e significanti strettamente correlati e indissolubili.

Con i tuoi versi sei molto presente sui social – penso a Facebook – sia per rilanciare testi pubblicati, sia per offrirne di nuovi: nell’epoca di Internet come è cambiato il lavoro del poeta sulle varianti? E il pubblico dei social passa dallo schermo ai libri?
È una domanda molto difficile, non mi sento capace di un’analisi di questo tipo, credo richiederebbe uno studio e credo di essere la persona meno adatta a oggettivizzarmi, a guardare me stessa da fuori.
Non so se il pubblico dei social passi ai libri, forse no, perché tutto ha già (tutto messo a disposizione). Mi piacerebbe essere scelta, che chi mi incontra sui social decidesse di non lasciarmi nel loculo della rete, che mi volesse di carta e che sentisse cosa c’è dietro quel riscattato silenzio che mi muove.
Non mi sono mai interrogata su questo aspetto, perché ho sempre avuto necessità di uno scambio immediato, dell’abbuffata del sùbito sapere, del sùbito salvarmi, del sùbito verificare.
Ricollegandomi alle cose che provavo a dirti prima: è come avere continue percezioni di una realtà altra e più complessa, trovarsi perennemente davanti al fantasma o all’angelo spaventoso e immenso e aver bisogno di capire subito se si sia o non si sia da soli davanti al mostro o alla meraviglia.
Non so se poi il pubblico dei social abbia voglia di avere gli angeli e i fantasmi sul comodino.

I tuoi libri offrono un dato raro per la poesia: diverse ristampe di seguito l’una all’altra. “In comode rate. Poesie d’amore” è alla nona ristampa, “D’amore” già alla seconda: c’è un segreto per avvicinare il pubblico alla lettura di libri di poesia?
Non lo so cosa avvicini il pubblico alla lettura dei libri di poesia, so che l’onestà e la nudità di un testo poetico, avvicina me lettrice.
Io offro a chi legge una cicatrice non ancora pienamente rimarginata, mi metto in pasto a un mondo che mi ha ferita e che ancora può farlo.
Questo forse in parte avvicina: c’è chi riconosce il disarmo della propria fragilità e non ha paura della mia, c’è chi non capisce e viene a vedere che cosa sia quel voler dire, c’è chi subisce l’attrazione dell’imperfetto, della deviazione che richiede di essere osservata, c’è chi si sente a casa, davanti alla mia totale messa a disposizione di un posto senza difese e dunque entra e sa che può fermarsi, che può offrire la debolezza del proprio cuore alla debolezza del mio, la potenza del proprio sentimento, alla potenza del mio.

 

L’autrice:
Beatrice Zerbini è nata nel 1983 a Bologna, città che le ha permesso già dal 1987 di dedicarsi allo studio del ritmo e della parola grazie al coro di Mariele Ventre, di cui ha fatto parte.
All’età di otto anni, complice un’infanzia travagliata, ha iniziato ad avvicinarsi alla lettura e alla scrittura di poesie. Nel 2006 ha aperto la pagina online di racconti tragicomici, prosa poetica e poesie “In comode rate” che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, “In comode rate. Poesie d’amore”, con prefazione di Alba Donati (Interno Poesia). Nel 2020 inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole.
Nel 2021 pubblica “mezze stagioni”, con prefazione di Alessandro Dall’Olio (AnimaMundi).

(Beatrice Zerbini “D’amore”, prefazione di Alberto Bertoni, pp. 144, 15 euro, Interno Poesia 2022)

 

 

 

 

Immagini        —————————-

Untitled #doubleexposure

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

 

Voce d’autore       ————————-

Nuovi sogni dagli occhi del bullone

Maurizio Benedetti, “Fiori rossi dal treno”

di Giovanni Fierro

Mirabolante, eclettico, sempre capace di spostare un po’ più in là la percezione della realtà, usando la forza delle sue parole, la natura stessa del fare poesia.
È sempre una bella notizia quando esce un nuovo libro di Maurizio Benedetti, e questo suo “Fiori rossi dal treno” ne è ulteriore dimostrazione.
Meraviglia/ è la crescita degli alberi,/ l’infanzia che ti aspetta, la poesia/ quando non è più/ descrizione dei mali”. Potrebbero bastare questi versi per dare l’intonazione a tutto il recente lavoro di Benedetti.
Lavoro che si muove in cinque tempi, in cinque sezioni dove, ancor di più che in passato, il viaggiare è spina dorsale del suo scrivere.
E il viaggiare è movimento e luoghi (Venezia, Boston, l’Istria…) ma anche invenzione, sorpresa e tempo evocato che è territorio da attraversare: “Sono etiope tra fiori di patata/ e seguo il lavoro delle tarme”.
Benedetti non tentenna, si butta nel vortice del fare poesia, cerca la profondità e l’ampiezza, non tralascia alcuna attenzione, si pone al centro esatto di ogni possibile campo magnetico del significato, dove trovare “un santuario di strada, la mania/ di sopravvivere e la morte/ lenta del topo nel veleno,/ la forza della mente/ che cancella il sole”. Sa molto bene che accontentarsi dell’ovvio non porta da nessuna parte.
La poesia di “Fiori rossi dal treno” è questa scintilla continua di accensione, innesco di immagini che riportano la realtà su diversi e rinnovati piani di lettura e sguardo, perché “il carro procede con gli asini./ Diceva la logica/ è una la logica/ di chi deve a tutti i costi/ dimostrare che il diverso non vale”.
Prende posizione Maurizio Benedetti, lo ha sempre fatto, affida alla poesia il compito di dichiarare cosa si porta con sé, qual è la radice più profonda a cui si appartiene, che sempre ha bisogno di rinnovata fiducia: “io corro incatenato/ dai mostri del passato,/ corro incontro alla gioia/ come fossi un bambino e mi diverto/ a schivare i monopattini elettrici”.
L’Istria è un luogo a cui l’autore ci ha abituato. Anche nei libri precedenti hanno trovato posto testi a lei dedicati. E anche in “Fiori rossi dal treno” la sua presenza è importante, a tratti viscerale, in un paesaggio che accoglie e che sa creare desiderio, in una natura che Benedetti vive e descrive, e che raccoglie in un semplice e formidabile dire, “Fazana è un colpo di vento”.
Ed è anche bravo a valorizzare figure e persone del suo territorio, creando un’epica che guarda ai margini, che porta all’attenzione uomini come Licio e Tullio Romanin, o suo padre Renzo. Ognuno di loro con il carico del proprio vissuto, del proprio tempo maturato, nel loro vivere che continua in quel “amor cal resist/ come chei graincj palâtz cunsumâtz – Amore che resiste/ come quei grandi palazzi consumati”.
E di sicuro anche lì lo scrivere di Benedetti ha messo radici profonde, dove “o stoi cirint melodiis/ platadis in te tiare – sto cercando melodie/ nascoste nella terra”. La terra da cui si proviene.
Ha un che di sacro la poesia di Maurizio Benedetti, per il suo essere atto assoluto, gesto inequivocabile, respiro unico, per il suo dire e scrivere “Vivo per far vivere poesie”.
E allora è naturale trovare queste parole qui: “O studiavi che glesie di Chioggia,/ tantis pieris in puc spazi, forsit/ al è chest el concêt dal Signor – Studiavo quella chiesa di Chioggia,/ tante pietre in poco spazio, forse/ è questo il concetto del Signore”.
E forse questi testi sono solamente una confessione, inevitabile e sincera, la possibilità di affermare che “trovo un altro scorrere del tempo”, proprio quando “siamo fragili, vediamo la forma/ e non il contenuto,/ vediamo l’azione e non il pensiero”.
Ma con la certezza che ci saranno “nuovi sogni dagli occhi del bullone”.
Maurizio Benedetti è già un classico, che fa bene alla poesia contemporanea.

 

Dal libro:

Ballata del verme

Ballata del verme
che ti guarda stantio.

Giardino raso con occhi di giovane
suonatrice d’archi di tutte le epoche,

giardino raso protratto
a fine tempo. Ballata del verme
rosso d’Egitto. La casa è grande
come quando ho sognato la mia
abitata da estranei.
Galline ricercano tondità
del settecento. La vita
è un pesce che sguazza
in poca acqua prodigioso. Ballata
del verme nel giardino
col cappello e lo sguardo di oleandro,
col cappello di Gorizia
di inizio novecento e l’acqua

sembra rifiorire. È la vita
dell’uomo, non deve finire.
Ballata del verme
pinete su pinete.

*

Discesa nel buio

Melodie di boschi.
Scende nel buio il veggente
che si rende incantatore.
Un istrice mi chiama.
Mi chiedo
come possa essere caduto
in tentazione materiale
io che provo ad essere poeta.

Anche la materia ha la sua poesia
o è il male che non può bastare mai.

*

Vespe nel bosco

Vespe nel bosco
fanno l’aria come un albero,
tante da una
e diventano albero
che diventa la barca
dove viaggeremo noi due
nel medioevo.

Mi vengono incontro le vespe
e si fermano nell’aria
che divide i miei due mondi.

Vespe nel bosco mi attaccano in massa
e divento il buio, una statua
dell’inferno e ho la voce di Satana
camminando in Antartide.

Attaccano in massa vespe invisibili
che si vedono dentro.
Umiliato e spogliato del tutto

ma so che tutto si trasforma
e sono l’eufrasia di eterno sole,
il pinguino acrobatico
che sa niente del male.

*

Blave

O cjati su l’aghe un puint di breis
dai timps di Barabba.
O stoi cirint melodiis
platadis in te tiare.

Giovins e vecjos prepotens di corse
cu la biciclete a batarie,
riscjo che ti copin,
colpevul di sei turist
ma nol impuarte,
o voi ju cu la biciclete
di Gjovanin Merlin e mi par
di sei sun tun sotomarin.

Periferiis di periferiis
e duicj di corse e ju telefonà
tal miez de strade,
ingignirs, professôrs, vistûs di fieste
cui ocjai di soreli,
la bella presenza
e cui met la blave ?
E cui specole ?

(Chioggia, avost 2020)

Mais
Trovo sull’acqua un ponte di tavole/ dei tempi di Barabba./ Sto cercando melodie/ nascoste nella terra.// Giovani e vecchi prepotenti di corsa/ con la bicicletta a batteria,/ rischio che ti ammazzino,/ colpevole di essere turista/ ma non importa,/ scendo con la bicicletta/ di Gjovanin Merlin e mi pare/ di essere su un sottomarino.// Periferie di periferie/ e tutti di corsa e giù telefonare/ in mezzo alla strada,/ ingegneri, professori, vestiti a festa/ con gli occhiali da sole,/ la bella presenza/ e chi mette il grano ?/ E chi lo lavora? (Chioggia, agosto 2020)

 

Intervista a Maurizio Benedetti:

Il viaggiare, in “Fiori rossi dal treno”, è fondamentale, ne è la spina dorsale. Ma che viaggiare è?
È un viaggiare anche virtuale, come succede nella nostra vita di oggi, si pensi a internet, televisione, mezzi che ci portano a passare velocemente da un posto all’altro, si sta studiando anche il teletrasporto.
La nostra realtà è sempre più contaminata da quella virtuale, e in questi contesti cerco di portare anche la poesia per farla vivere con l’uomo del presente.

Anche in questo libro c’è spazio per una sezione dedicata all’Istria. Cos’ha di così particolare per te? Quale il suo valore, il suo significato?
Nelle poesie dedicate all’Istria c’è un viaggiare più geografico, legato a quei paesaggi.
I miei soggiorni in Istria hanno la tranquillità del riposo e quindi posso contemplare meglio il paesaggio. E riflettere, trovando valori storici e magici tipici di quei luoghi dove spesso il mare è associato ai monti.

Cos’è l’aereo di sabbia?
L’aereo di sabbia è la semplicità e la povertà del quotidiano, che possono trasformarsi in qualcosa di prodigioso e impensabile con la nostra immaginazione e la nostra mente, che possono andare oltre la miseria e anche oltre le macchine per avere la felicità.

Anche il lockdown è narrato in queste tue poesie. Come lo hai vissuto, che esperienza è stata per te?
Il lockdown è stato un modo per scoprire, con il fermarsi di tutto, il male che l’uomo ha fatto alla natura e a se stesso.
In una poesia dico inoltre: “La vita è assieme agli altri/ stando distante imparerò ad amarli“.

In questa situazione racconti di persone che vivono ai margini della notorietà, come Licio o Tullio Romanin. Ma ai quali, con i tuoi testi, crei una vera e propria epica. Cosa significa per te lo scrivere di loro, della loro vita e delle loro esistenze?
Anch’io vivo ai margini della notorietà. Si trattava comunque di ottimi artigiani ed artisti. .Scrivere di loro e anche di me, o di altri, significa rendere in qualche modo entusiasmante ed eterna la precarietà del vivere, quella precarietà che è il filo conduttore di tutta la raccolta, la precarietà dei fiori rossi dal treno che vivono tra un binario e l’altro.

 

L’autore:
Maurizio Benedetti è nato a Berna nel 1968 e vive ad Ara Grande, frazione di Tricesimo (UD). Ha pubblicato nel 2006 la raccolta breve “Lontano da chi ascolta”, il libro “So distruggere il mio dio” nel 2008.
Ha fatto parte della redazione della rivista “Corrispondenze & Lingue Poetiche”.
È direttore Artistico del Festival di poesia “PoetARE”, che si tiene annualmente dal 2008 ad Ara di Tricesimo.
Nel 2009 ha vinto il “Trieste poetry slam” e si è classificato secondo assoluto al Premio Nazionale di poesia per inediti “Ossi di seppia”. Nel 2010 è stato inserito nell’Antologia del Premio di poesia “Giuseppe Longhi” e ha dato alle stampe la raccolta “Bionda salamandra e altre poesie” (Kappa Vu). Nel 2011 ha vinto il Premio Nazionale di poesia “San Mauro città delle fragole” e il Concorso Internazionale di poesia “Calla in poesia”.
Nel 2017 è uscita la seconda raccolta per Kappa Vu “Davanti ai Visigoti”. Nel 2019 ha vinto il Premio Speciale miglior poeta Friuli al Concorso Internazionale di poesia Pensare, scrivere, amare e ha partecipato come autore a Pordenonelegge.
Nel 2022 ha ricevuto una Menzione d’onore al premio Alda Merini con la silloge inedita “Dietro ai sogni” ed è stato tra i finalisti del Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio organizzato da Mantova Poesia.
Ha vinto il Primo Premio alla XVIII edizione del Concorso Nazionale di poesia “Il sentiero dell’anima” di San Marco in Lamis (FG) con il libro “Davanti ai Visigoti”.

(Maurizio Benedetti “Fiori rossi dal treno” pp. 72, 12 euro, Kappa Vu 2022)

 

 

 

 

Immagini        —————————-

9k5fvc2la1mnz303z0

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

 

Ti racconto        ——————————

Due ore mi possono bastare

di Luca Buiat

Vivo nel Friuli orientale, una terra appiccicata alla Slovenia.
Un nome con un tono che si allarga come un’alba, che giunge a spigoli dal Carso, si sporge dalle basse punte celesti, stendendosi piano piano fino al mio giardino di casa.
Gli albori quotidiani accendono d’arancio i torrenti nelle valli, i fiumi che corrono senza fretta verso l’Adriatico.
Qui in Friuli le vie d’acqua hanno voci acute dentro i loro nomi, e quando le dici le cogli in faccia, ti bagnano il mento.
Lo Judrio è una parola che ti scivola in bocca, è un morso di un ghiacciolo alla menta in una sera d’estate, lo Judrio è il verso dell’acqua che scivola dalle rocce sotto il Ponte Klinaz.
L’Isonzo è uno specchio smeraldino che vibra nella sua valle.
Oggi è il primo freddo che sento, ha l’odore del pulito l’inverno a dicembre.
Ho aperto la porta di casa e mi ha fatto un verso tagliente, gli occhi con una luce d’alluminio che mi prepara al riposo.
Mi gratta la pelle come carta vetrata l’inverno, ha pulito con le sue pacche le fughe delle piastrelle del terrazzo, spazzato via le foglie, le ceneri che hanno portato gli incendi nei boschi fino agli scalini nell’ultima rovente stagione magra.

Oggi ho voglia di uscire in bicicletta, due ore mi possono bastare.
Vivo a Cormons, ad un passo dai paesaggi. È veloce lo strappo che faccio per salire dalla rampa dei garage, me ne serve ancora uno e tornerò ancora sulla linea solitaria che corre lungo il Nord-Est.
Come sono pieni, soffici e bianchi bianchi i cieli d’inverno, attraversarli a pedali è come farli a fette, ti guardi alle spalle e vedi la tua forma che scompare sulla strada cenerina, dipinta da un boschetto spoglio.
A terra uno spesso strato di foglie rosse, tenute assieme dall’acqua a forma di goccia.
Una per una, foglia per foglia, goccia dopo goccia, chilometro dopo chilometro.
Il mio desiderio è portarmi a casa tutta l’aria che mi prendo per i prossimi giorni. Una riserva campestre di natura e respiri da tenere dentro me.
Me la porto a letto, quando andrò a riposare sotto lo spessore della mia coperta. Quando cercherò di far dilatare il più possibile le immagini che ho visto, i suoni delicati che ho sentito, il silenzio durante la corsa, quando torno in simbiosi con il paesaggio, allungando il tempo in una forma di meditazione.

Quando tornerò a sentire quei tonfi che sbattono sugli occhiali, quei suoni che voltano nelle prese d’aria del casco.
L’aria che spinge sul petto della giacca a vento, quando scendo a tutta velocità in discesa. Quando mi sembra di essere sopra una barca a vela…come spingono le onde dell’Oceano Atlantico, prendono la corrente sulla schiena vanno via veloci come una sfera di un flipper in una sala giochi.
Quando non sei più un terrestre e prendi la forma del vento nella quintana dei Colli orientali: Rocca Bernarda, l’Abbazia di Rosazzo, i sentieri impantanati del Bosco Romagno.
Una fiesta di salite e discese.
Mi rivedo con il tè caldo nella borraccia, al posto della Sangria, il drop del manubrio al posto delle corna del toro. Un toro felice, libero e gaio sugli sterrati.
Correre è una cerimonia da tenere raccolta nel corpo, con l’anima e tutte le sue note accordate per trarne ogni volta ogni beneficio.
Correre in bici è un mantra che sale verso il cielo dei venti, fuori e dentro la terra.

 


L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel 1971.
Il piacere nei libri lo scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse.
Dopo questo libro inizia a scrivere piccoli racconti e poesie.
Appassionato di paesaggi naturali che preferisce attraversarli a piedi o in bici, Buiat pensa che sia già tutto scritto. Occorre a “noi” osservatori percepirne la lingua che sentiamo in mezzo ai nostri passi.

 

 

 

 

Immagini       —————————-

Untitled #polaroid

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        —————————

Perché avevo bisogno di respirare

Alba Donati, “La libreria sulla collina” e “Tu, paesaggio dell’infanzia”

di Roberto Lamantea

Secondo il sito italia.indettaglio.it, a Lucignana, frazione di Coreglia Antelminelli, provincia di Lucca, 448 metri sul livello del mare, vivono 144 abitanti, 64 maschi, 80 femmine, suddivisi in 56 famiglie. Di questi 144, 51 sono celibi o nubili (23 celibi, 28 nubili), 77 invece sono coniugati o separati di fatto: 1 è separato legalmente, 1 è divorziato, 14 vedovi. A Lucignana risiedono ben 5 cittadini stranieri, 2 maschi e 3 femmine: sono tutti europei, nessuno – informa sempre il sito – arriva dall’Oceania, dal Polo Nord dalla Cina o dall’Africa, e tutti hanno più di 54 anni. In quanto a titoli di studio gli abitanti di Lucignana confermano nel loro piccolo i dati nazionali: 5 hanno una laurea, 38 il diploma, 45 la licenza media, 41 hanno fatto solo le elementari, 10 sono alfabeti – cioè sanno leggere e scrivere ma non hanno alcun titolo di studio – mentre nessuno è analfabeta. A Lucignana ci sono 92 edifici, “solo 83 utilizzati”. Nel paese toscano non ci sono banche né farmacie ma c’è una parrocchia, ovviamente in via della Chiesa. A leggerla così la statistica – non è indicata la data di aggiornamento – è un po’ buffa.
In questo borgo in Garfagnana, oggi 180 abitanti, una poeta apre una libreria: la chiama Libreria sopra la Penna, perché Penna è il nome di quell’angolo di borgo: è probabile, si legge in un passo del libro, che vista la storia tutta agricola del borgo la penna fosse quella di una gallina.
La scrittrice è famosa, si chiama Alba Donati, è ancora fresca di stampa da La nave di Teseo la raccolta di tutte le sue poesie, “Tu, paesaggio dell’infanzia”: ma quando agli amici confida il progetto di aprire a Lucignana una libreria le dicono che è matta.
Il fatto è che “le cose covano, lievitano, ingombrano la nostra fantasia mentre dormiamo. Le cose hanno gambe proprie, fanno un cammino parallelo in una zona di noi che noi non sappiamo nemmeno lontanamente dove sia e a un certo punto bussano: eccoci, siamo le tue idee pronte per essere ascoltate. L’idea della libreria giaceva di certo acquattata tra le pieghe di quella zona cupa e gioiosa chiamata infanzia”.
Alba, toscana di Firenze, s’innamora di quel “paesino dell’alta Toscana, in cima a una collina, tra il Prato Fiorito e le Alpi Apuane” e l’idea di una libreria s’innerva in lei come una luce.
Ha anche una data, quella lampadina che le si s’accende nella testa: 30 marzo 2019. Aveva una soffitta enorme, da bambina, era il luogo magico dove Alba leggeva o sfogliava libri grandi e piccini.
Tra questi “una specie di Bibbia personale: l’enciclopedia Conoscere della Fabbri Editore, dodici volumi più quattro appendici”. Per chi oggi ha tra i 60 e i 70 anni, l’enciclopedia Conoscere è un mito. Uscì in più edizioni dal 1958 al 1963, illustrata tutta con disegni a colori.

Alba Donati è una di quelle persone che non s’arrendono. Lancia sul web una ricerca di finanziamento (si chiama crowdfunding) e la cosa incredibile è che i soldi li trova. Con amici e volontari lavora sodo, con carriole e mattoni, nasce un giardino luminoso di fiori, dentro il vecchio edificio di pietra compaiono scaffali, tazzine da tè, e libri, tanti libri.
Ma, attenti: non i libri che trovi in qualunque libreria di paese o di città, ma libri che già nei titoli e nelle copertine profumano di erbe e di viole, di pensieri e di vita. Libri con le parole di Emily Dickinson, Virginia Woolf, libri-erbari, libri-fiabe, inviti al viaggio.
Alba Donati racconta la sua avventura in un diario, “La libreria sulla collina”, pubblicato da Einaudi. Chi ama i libri, chi ama i sogni, chi è innamorato delle storie, chi ai versi dei grandi poeti si commuove lo legga questo libro: è come respirare, le parole, le storie, s’intrecciano con il paesaggio, l’erba, le rose, le pietre, il paese, i ricordi.
La Libreria sopra la Penna ha aperto il 7 dicembre 2019; poco più di un mese dopo, il 30 gennaio 2020, è distrutta da un incendio. Altro appello, altra sottoscrizione e il miracolo si rinnova: nel marzo 2020 la libreria riapre, resiste anche nei giorni di lockwown per il Covid. Oggi, in quel minuscolo borgo di montagna, arrivano anche dall’estero, oltre che da Toscana ed Emilia.
La libreria ha un sito – https://libreriasopralapenna.it/ – un profilo Facebook, un numero di telefono, 331.7583949.
Alba prepara un pacco per una signora di Salerno e le sue due figlie: l’idea di aprire una libreria, scrive, “mi è venuta perché una madre di Salerno potesse regalare alle sue figlie due scatole piene di Emily Dickinson”. O delle altre autrici e autori che affollano gli scaffali: Sabina Spielrein, Jane Austen, Emily e Charlotte Brontë, Virginia Woolf, Vita Sackville-West, Colette, Wisława Szymborska…
Magari abbinati con ottimi tè e marmellate very english. Pagine che richiamano altre pagine, letture che invogliano ad altre letture: “Mi piacciono i libri che ti fanno leggere altri libri”. Perché, scrive l’autrice, “da noi cercano cose che non si trovano dappertutto, cercano di non rimanere delusi, da noi cercano”. Altro che le sfavillanti librerie di catena in città.

Ma la Libreria sopra la Penna è fatta anche di tramonti, luci e dei colori dell’ombra, silenzi e cinguettii; chi ama i libri ama il corpo delle cose: “La libreria è una scuola, una finestra su un mondo che pensiamo di conoscere e non è vero. La verità è che si deve leggere per conoscere davvero il mondo”, scrive Alba: “Perché hai aperto una libreria in un paesino sconosciuto? Perché avevo bisogno di respirare, perché ero una bambina infelice, perché ero una bambina curiosa, per amore di mio padre, perché il mondo va a scatafascio, perché il lettore non va tradito, perché bisogna educare i più piccoli, perché a quattordici anni piangevo da sola davanti alla tv la morte di Pier Paolo Pasolini, perché ho avuto maestre e professoresse straordinarie, perché mi sono salvata”. I libri hanno a volte un cuore che batte.

 

L’autrice:
Alba Donati, pseudonimo di Alba Franceschini, è nata a Lucca il 2 luglio 1960. Ha esordito su Poesia nel 1993, nella rubrica di Milo De Angelis “I poeti di trent’anni”.
Ha lavorato per Raitre e Rai Radiotre e ha tenuto rubriche di poesia su vari quotidiani.
Ha pubblicato: “La Repubblica contadina” (City Lights 1997, Premio Mondello Opera Prima e Premio Sibilla Aleramo); “Non in mio nome” (Marietti 2004, Premio Diego Valeri, Premio Carducci, Premio Pasolini, Premio Cassola); “Idillio con cagnolino” (Fazi 2013, Premio Lerici-Pea, Premio Dessì, Premio Ceppo).
Il “Canto per la distruzione di Beslan”, poema contenuto nell’ultimo libro, è stato musicato dall’Orchestra Regionale della Toscana e rappresentato al Teatro Verdi di Firenze nel 2009.
Ha tradotto con Fausta Garavini le poesie di Michel Houellebecq “Configurazioni dell’ultima riva” (Bompiani 2015); ha curato “Poeti e scrittori contro la pena di morte” (Le Lettere 2001) e, con Paolo Fabrizio Iacuzzi, il “Dizionario della libertà” (2002).
È presidente del Gabinetto Scientifico Letterario “G.P. Vieusseux” di Firenze. Nel maggio 2018 è uscita la raccolta “Tu, paesaggio dell’infanzia. Tutte le poesie 1997-2018” (La nave di Teseo) con la quale ha vinto il Premio Internazionale Gradiva della State University of New York at Stony Brook.
La Libreria sopra la Penna di Lucignana è stata inserita nelle 20 librerie più affascinanti d’Europa.

(Alba Donati “La libreria sulla collina” pp. 196, 17 euro, Einaudi 2022)
(Alba Donati “Tu, paesaggio dell’infanzia. Tutte le poesie (1997-2018)”, con una postfazione di Giorgio Ficara, pp. 304, 18 euro, La nave di Teseo 2018-2022)

 

 

 

 

Immagini        —————————-

Untitled #doubleexposure

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ————————-

Agli amici inviava bouquets freschi

Isabella Rizzato e Silvia Molinari, “Il verso del fiore. Una passeggiata nel giardino di Emily Dickinson”

di Roberto Lamantea

Emily Dickinson contemplava la vastità del suo giardino. L’osservazione dalla finestra le permetteva di viaggiare. L’azzurro del cielo, un colore puro, rappresentava la distanza, la nostalgia, l’infinito”.
Emily passò la maggior parte della sua vita nella casa di Amherst, nel Massachussets, in una casa su una collina: stava ore nella sua piccola stanza, alla scrivania davanti alla finestra da cui guardava il suo giardino, e il giardino era il mondo. Emily amava così tanto la natura, i fiori, le foglie, le api e gli altri insetti, che da quando aveva nove anni studiò con passione botanica, filosofia, latino, storia naturale, zoologia.
Il giardino, la finestra e la biblioteca erano le chiavi dell’universo, come da noi, molti anni prima, era stato per Leopardi.
Agli amici inviava bouquets freschi, e lettere con fiori pressati ed essiccati […] raccoglieva fiori selvatici: violette, genziane, margherite e l’umile trifoglio diventavano, assieme ad api e uccellini, i protagonisti delle sue poesie. Gran parte di ciò che raccoglieva veniva disposto ordinatamente in un erbario”. In una piccola serra di vetro si dedicava a fiori rari come gelsomini, gardenie, camelie e orchidee.
Abbiamo la fortuna di conoscere il suo “Herbarium”: il facsimile è stato tradotto dall’inglese in una magnifica edizione da Elliott nel 2007; al giardino di Emily è dedicato il bellissimo libro di Marta McDowell “Emily Dickinson e i suoi giardini. L’universo verde della poetessa”, traduzione di Claudia Valeria Letizia con poesie nella versione di Silvia Bre: il libro è stato pubblicato da L’ippocampo nel 2021.

Nella collana “Scrittrici e giardini” di Amos Edizioni esce ora un librino, un autentico gioiello grafico e tipografico, “Il verso del fiore. Una passeggiata nel giardino di Emily Dickinson”, undici poesie con acquarelli di Silvia Molinari. Sono una trentina di pagine da sfogliare e leggere sotto incantesimo.
Isabella Rizzato e l’acquarellista Silvia Molinari hanno tenuto un ciclo di seminari di acquarello dalla tematica letteraria dedicati ad alcune scrittrici dell’Ottocento e del Novecento, passeggiando virtualmente con Virginia Woolf, Vita Sackville-West, Jane Austen e Emily Dickinson. Molinari disegna gli acquarelli – foglie, bacche, petali, germogli, un leprotto, un pettirosso – su fondo bianco o avorio alternando le pagine con i versi di Emily: “Un sepalo – petalo – e una spina/ In un normale mattino d’estate – Una fiasca di Rugiada – Un’Ape o due –/ Una Brezza – una capriola fra gli alberi – Ed ecco sono Rosa!”: sono squittii questi versi, cinguettii, come se Emily cogliesse le voci della natura attraverso le parole, la lingua umana fosse parte delle mille lingue dell’universo e non un codice astratto, una convenzione semiologica.
Emily Dickinson è una delle autrici più tradotte in Italia, tante sono le versioni offerte dal panorama librario: oltre a quelle di Silvia Bre per Einaudi ricordiamo Guido Errante, Ginevra Bompiani, Massimo Bacigalupo, Margherita Guidacci, Barbata Lanati, Nicola Gardini, Silvio Raffo, mentre il Meridiano Mondadori del 1997 riprende tra le altre le versioni d’autore di Cristina Campo, Annalisa Cima, Eugenio Montale, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Amelia Rosselli.

 

L’autrice
Isabella Rizzato è nata nel 1972 a Vicenza, dove vive. Laureata in Lingue e letterature straniere all’Università Ca’ Foscari di Venezia, parla quattro lingue straniere.
Dopo aver approfondito l’opera di W. S. Maugham, sul quale ha scritto la sua tesi di laurea, ha focalizzato i suoi interessi sui temi del viaggio e della letteratura, anche occupandosi di botanica, giardini e scrittura femminile (Virginia Woolf, Emily Dickinson, Jane Austen…).
Tra le fondatrici dell’associazione TheArtBox, ha curato incontri sui temi del viaggio e del disegno botanico. Nel 2018 ha ideato il progetto TheArtsJourney, un contenitore culturale che promuove tour letterari e artistici in Italia e in Europa (www.theartsjourney.com).

L’artista:
Silvia Molinari è nata a Piacenza nel 1976, è diplomata all’Istituto d’Arte Toschi di Parma. Vive nella campagna piacentina. Il suo percorso artistico comprende lo studio e la sperimentazione delle diverse discipline pittoriche, ma è attraverso l’acquarello che meglio manifesta la sua capacità espressiva.
La combinazione dei più semplici elementi – acqua, pigmento e grafite su carta – sono, attraverso il suo segno grafico, i migliori interpreti dei soggetti che più ama riprendere, reinventandoli: arbusti, frammenti vegetali, foglie e fiori che sembrano essere scivolati un attimo prima sul biancore della carta.
Ha esposto alla Biennale di Venezia, New York, Milano, Roma, Tokyo. Ha illustrato l’albo poetico “Il Cosario” (Edizioni Corsare 2016) e “Prendere il volo” (Topipittori 2020).
Da tempo collaboratrice della rivista Gardenia, dal 2017 lo è anche della Lipu, Lega italiana protezione uccelli (www.silviamolinari.it).

(Isabella Rizzato “Il verso del fiore. Una passeggiata nel giardino di Emily Dickinson”, acquarelli di Silvia Molinari, collana “Scrittrici e giardini”, pp. 32, 12 euro, Amos Edizioni 2022)

 

 

 

 

Immagini        —————————-

AnLvHPBdZ0le5p3m95

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

 

Tempo presente         ——————————-

Settimana della Lingua Italiana nel mondo

L’Italiano e i giovani. Come scusa? Non ti followo!

Università di Stoccarda – Laboratori di poesia

La scrittura è un laboratorio, dove è possibile sperimentare la narrazione, ma ancora di più è il luogo dove la vita e il vivere possono trovare la loro forma espressiva.
La bellezza di questo fare scrittura è che il più delle volte nasce sempre un qualcosa di inaspettato, di sorprendente. Un qualcosa che esce dai canoni dell’aspettativa e si pone di fronte a chi lo ha scritto come una epifania, una sorpresa.
Questo è ancora più importante quando succede ad un giovane, ad una giovane, che con la scrittura creativa non hanno ancora un rapporto di confidenza.
E quindi le occasioni per condurre un laboratorio di scrittura sono sempre una grande possibilità di sperimentazione letteraria, artistica, umana e sociale. Perché scrivendo si porta al mondo sempre un qualcosa in più di quello che ci si aspettava. E sempre in modo sorprendente.

Un’occasione preziosa per sperimentare tutto ciò è stata la “Settimana della Lingua italiana nel mondo”, che all’Istituto Italiano di Cultura dell’Università di Stoccarda, su proposta ed organizzazione della lettrice d’italiano Laura Mautone, ha visto nelle giornate del 24 e del 27 dello scorso ottobre 2022, le studentesse e gli studenti seguire due laboratori di poesia, condotti da Elisa Biagini e Giovanni Fierro.
Con il titolo “L’Italiano e i giovani. Come scusa? Non ti followo!”, queste due giornate sono state una totale immersione nei perché e nei come dello scrivere poesia, con le studentesse e agli studenti di Italianistica attenti e coinvolti nel seguire gli spunti e i racconti dei due autori, e poi svilupparli per creare dei propri scritti.

Il punto iniziale di questi laboratori è stato fin da subito ben definito dalle parole di Laura Mautone: “Di fronte al linguaggio svuotato di significati dei Social l’obiettivo era quello di porre l’attenzione sul linguaggio della poesia e sul potere della parola”.
Da questa considerazione sono nati i due incontri, dove la poesia ha così ritrovato la sua centralità nel nostro tempo quotidiano, strumento di comunicazione e accadimento di emozioni, tempo sempre rinnovato di ricerca letteraria.

A conclusione di questi due giorni, gli scritti nati dai due incontri e dalla scrittura delle studentesse e degli studenti sono stati raccolti in una pubblicazione on line, con un testo introduttivo e riepilogativo curato dalla stessa Laura Mautone, documento che riporta anche i passaggi più significativi dagli interventi e dal raccontare di Elisa Biagini e Giovanni Fierro.

La pubblicazione on line, curata da Qudulibri, la si può sfogliare qui e scaricare qui

 

 

 

 

Immagini        —————————-

Untitled #doubleexposure

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

 

 

Voce d’autore       —————————–

Siamo attraversati da alfabeti

Federico Zucchi, “Calore”

di Salvatore Cutrupi

Il nuovo libro di poesie di Federico Zucchi dal titolo “Calore”, edito da LuoghInteriori, è costituito da 102 poesie di cui la prima è proprio quella che dà il titolo al libro.
Calore” vuole essere un invito, un’esortazione a prestare attenzione e cura verso chi vive ai margini della società ma anche a chi vive quotidianamente in mezzo a noi.
Il tema dei deboli è uno di quelli che appare sempre nel viaggio poetico di Federico Zucchi, così come quello degli affetti famigliari: “Ti vedo portare dentro la legna/ e accendere il fuoco./ La schiena ti pesa/ e ti scosta dalla fiamma”. Quando la poesia abbraccia gli affetti tutto diventa ricordo, intreccio, gratitudine.
Tra i temi affrontati dal poeta c’è anche quello della guerra in Ucraina con tutte le devastazioni fisiche e psichiche che ogni guerra produce: “È bastata una notte di lupi furiosi/ per ritornare alle gengive scoperte/ del Novecento, alle sirene degli allarmi”.
Nei versi dell’autore si muovono, come in una ruota panoramica, sia il passato che il presente, sia le cose reali che le speranze e i desideri: “Siamo attraversati da pensieri/ che non sappiamo interpretare/ da carezze riassemblate/ con gli scarti degli addii”.
Si può dire che il poetare di Federico Zucchi, con accenti più o meno intensi, vuole ricordarci quanto sia importante l’amore, quello universale, con la gioia del dare e del ricevere. Il donare “calore” non è soltanto un’opera di puro altruismo ma è anche un rimedio, una cura contro l’aridità del nostro cuore e della nostra mente.
In queste sue poesie si evidenzia l’utilizzo di parole forti, essenziali, a volte inusuali ma che mantengono comunque sempre un ritmo armonico ed una propria sonorità: “Spezza l’isolamento/ chiedi udienza/ al sole sbrecciato/ che brilla incurante/ la collera oscura”.
Ancor prima di averne coscienza, Federico Zucchi ci aiuta a capire che non ci sono alternative al legame esistenziale dell’uomo con la natura, ed è anche una conseguenza inevitabile il rapporto stretto di ciascuno di noi con i luoghi in cui si è vissuti, con il proprio percorso di vita, con le nascite, le perdite, gli amici: “Contro l’erosione dello sguardo/ restano gli amici, nati con le mani/ che stringevano un pallone/ sull’asfalto della sera intiepidita”.

 

Dal libro:

Le storie che non vediamo

Oggi, poco prima dell’alba
sono stato svegliato
dal camion della spazzatura.
E’ un rumore famigliare
che di solito non sento
come un sugo che sobbolle
nella pentola dei sogni.

Ho alzato le persiane
e nel buio dilavato
ho intravisto un uomo solo
camminare indolenzito
con in mano un fiore in vaso
che teneva sporto avanti
come avesse una pistola.

Che ci fosse quell’omino
in quell’ora di fantasmi
mi ha spinto a ricordare
che siamo dentro a storie
annodate di straforo
poco prima di svanire.

*

Una sorta di telepatia

Siamo attraversati da alfabeti
senza sillabe, amori persi
e appena emersi
antenati che arpeggiano
la nostra memoria come
assonnati chitarristi gitani.

Così per tornare a casa
carpiamo la lingua dei segni
agli operai del silenzio
ai contorsionisti della bellezza
alle nuvole a forma d’infanzia
per captare in piena notte
il canto della guardia
a fine turno.

Siamo attraversati da pensieri
che non sappiamo interpretare
da carezze riassemblate
con gli scarti degli addii
da presenze sottopelle
che si disfano nei sogni
e riemergono possenti
come cuori appena munti.

*

Gegè vuole storie coi lupi

Quasi ogni sera finisco a raccontarti
una storia inventata di lupi.
Dopo cena mi salti in braccio
all’assalto dell’ascolto
e salpiamo da ammiragli
verso il bosco e i suoi misteri.

Tu vuoi dei lupi veri
non dei vecchi smidollati
che non sanno più sbranare
una pecora raminga.
Ma poi aneli a una dolcezza
a una voce che incoraggi
chi si batte a mani nude
contro il buio che dilania.

Così finiamo addormentati
dondolati nelle storie
ed è questo il lieto fine
pur sapendo quanto è arduo
maneggiare il filo d’oro
che ricuce le paure
al suo alveo primordiale.

*

Le mani di Luciano

Andava in chiesa soprattutto
per stringere le mani
al momento della pace.
Dopo la comunione, con dedizione
incassava la testa nel collo
e consultava la scacchiera
del pavimento
come un codice miniato.

Da anni conosceva a memoria
il rito preparatorio e sapeva
aggiornare il morso dei tarli
sui banchi di legno massello.
Giunto il momento
la sua mano danzava
febbrile a mezz’aria
prima di unirsi
alla presa dell’altro.

Ma con la pandemia
la stretta di mano
è stata sospesa
e Luciano resta assorto
non sapendo come dare
la pace con gli occhi.
A fine messa lo si scorge
uscire a capo chino, avvolto
in un giubbotto troppo largo-
le mani in tasca
che cercano all’interno
un altro palmo
irreperibile.

 

 

Intervista a Federico Zucchi:

Il titolo “Calore” di questo tuo libro sembra un’esortazione ad essere disponibili verso gli altri, con momenti di solidarietà e di vicinanza verso i più deboli; pare un invito a prestare attenzione e cura verso gli emarginati ma anche verso chi vive attorno alla nostra quotidianità. È questo il significato che hai voluto dare al titolo del libro oppure c’è qualche altro messaggio particolare che desideri inviare ai lettori?
Diciamo che il titolo “Calore” vuole essere il filo che in modo evidente o sotterraneo cuce e ricuce i lembi delle poesie. Sono stati i testi a suggerirmi il titolo e a farmi sentire un’unità sotto le differenze.
Cos’è dunque il calore? È quel tratto di fiamma che abita in ognuno di noi e si oppone alla distruzione, è al centro della nostra anima, ma allo stesso tempo è la via per uscire da noi stessi. Siamo dentro un’epoca in cui i corpi si allontanano, in cui l’esperienza è sempre più pianificata da dispositivi che mediano per noi e dentro la febbre comunicativa cresce il senso di isolamento.
Il calore è ciò che non può essere livellato, scarnificato, consumato. È l’amore in cui urtiamo barcollando nella notte, è la preghiera che sale sulla brulla collina come i campanelli delle pecore, è il senso d’attesa che ci fa restare vivi, in allerta.

In questo tuo libro, come anche nei tuoi precedenti, ci sono poesie che parlano del mare, delle colline e di altri luoghi del Friuli Venezia Giulia. Qual è il tuo rapporto intimo con questa regione?
Canto quello che vedo e che calpesto ogni giorno. Qui sono nato e qui continuo a vivere e scopro sempre qualcosa di nuovo. La nostra regione, pur essendo piccola, contiene una sua ritrosia che la protegge dal completo svelamento.
Ci sono ghiaioni dove la luce va inseguita come fosse il Tibet. Ci sono giorni di vento in cui l’Adriatico riverbera sulle spalle arrochite squame di orate argentate.

In ogni poesia c’è sempre una piccola o grande parte dell’anima del poeta. In particolare, c’è una poesia della silloge in cui ritrovi tutto te stesso?
Non credo ci sia una poesia in cui la mia anima si sia accasata. Credo che si sia sparpagliata in ogni testo, a volte tuffandosi di pancia, a volte restando aggrappata al paraurti dell’ultimo verso.

Nel libro ci sono anche poesie dedicate alla guerra in Ucraina. Oltre a generare emozioni, pensi che il compito del poeta sia anche quello di affrontare le tematiche sociali del nostro tempo?
Non credo che la poesia, né l’arte in genere, debbano contenere un messaggio o siano chiamate a esprimersi su tematiche di stretta attualità. La poesia non è sociologia, si muove su altri piani, più sottili. Questo non significa che possa staccarsi dalla realtà. La sua radicalità sta proprio nel cercare di mantenere una cerniera tra il presente e il possibile, tra la forma e l’invisibile.
In “Calore” la guerra si affaccia nei testi, sia perché la guerra è tornata a sfregiare la nostra guancia orientale – così vicino che non possiamo ignorarla – sia perché la violenza riguarda tutti. Ma più che sulla devastazione, ho cercato di dare voce alle forze che si oppongono alla distruzione, piccole scintille non atterrite.

Grazie alla tua professione di docente hai la possibilità di stare molto tempo a contatto con gli studenti. Secondo te, che posto occupa oggi la poesia nel mondo dei giovani?
Difficile rispondere. Credo che la poesia abiti il cuore dell’uomo e dell’universo. Spesso si mischia al silenzio e a si deve acuire l’ascolto per percepirla. Penso che i giovani – oggi come ieri – con la loro sensibilità (sono più vicini all’origine) sentano con forza il fascino della poesia. E cercano spazi veri di risonanza, in mezzo al rumore, oltre la bassa marea interiore del brutale razionalismo.

 

L’autore:
Federico Zucchi è nato a Gorizia nel 1979 e vive a Palmanova (Udine). Lavora come insegnante di lettere nella Scuola Secondaria di Primo Grado.
Ha pubblicato quattro libri di poesia. Nel 2013 “Nel mare non manca nessuno” (Edizioni Culturaglobale), nel 2014 “Dinamo Isba” (Edizioni DivinaFollia), nel 2019 “Il Varco Umano” (LuoghInteriori), nel 2020 “Ode alla presenza” (LuoghInteriori).
Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il premio di poesia “Filari in versi” di Cormons (2010), il premio di letteratura “Alda Merini poesie inedite” (2016), il premio “Il giardino di Babuk-Proust en Italie” (2018) e il premio “Nelso Tracanelli” (2021).

(Federico Zucchi “Calore”, pp. 110, 13 euro, LuoghInteriori 2022)

 

 

 

 

Immagini       —————————-

T3goQ04oCYX60pqvVm

Dieci opere

di Emiliano Grusovin

 

Intervista ad Emiliano Grusovin:

La figura umana è sempre presente in questa selezione di tue immagini. Cosa significa per te averla come soggetto principale del tuo lavoro artistico?
La figura umana è sempre presente, in quanto le persone sono il più grande spettacolo del mondo, anche se spesso le faccio vedere solo in parte, un pizzico di mistero fa lavorare l’immaginazione.

Che cosa ti porta a creare alcune immagini a colori ed altre in bianco e nero? C’è una differenza di approccio? Cosa succede nel motivarne la scelta?
Prediligo a mio gusto personale il bianco e nero, il colore tuttavia è irrinunciabile in certe situazioni, anche se lo utilizzo molto più raramente.
Il bianco e nero poi si sposa perfettamente con immagini che puntano al realismo, ma allo stesso tempo non sono affatto reali come nel caso dell’arte generativa.

Gli ultimi tuoi lavori (presenti anche in questa selezione) sono immagini di arte generativa, ottenuta attraverso l’utilizzo delle intelligenze artificiali. Cosa significa questo per te? E quale la differenza dall’uso classico della fotografia che prima facevi? Ma anche quali sono le vicinanze tra le due espressioni….
La fotografia, o un generatore dal testo all’immagine, per me sono strumenti con cui mi esprimo.
Portare l’acqua al proprio mulino, indipendentemente dallo strumento che si utilizza, la trovo una cosa decisamente divertente e stimolante.
Entrambe le tecniche ci permettono di ottenere immagini, e questa è l’unica cosa che le accomuna, catturare un’immagine con una macchina fotografica o generarla sono due processi ben differenti.

In questi ritratti gli sguardi dei soggetti protagonisti sono sempre sfuggenti, se non addirittura coperti e invisibili. Eppure, per chi lavora con le immagini lo sguardo è fondamentale. Come mai, quindi, succede questo?
Come già accennavo all’inizio, sono affascinato più da quello che non vedo o solamente intravedo e quindi immagino; e questo si riflette anche in alcuni dettagli, come nel caso degli sguardi dei soggetti.
Il tema centrale di queste ultime sperimentazioni è il surrealismo, quindi le immagini il più delle volte spiazzano l’osservatore piuttosto che metterlo a proprio agio, e le regole convenzionali saltano.

In queste immagini il tempo è sempre protagonista. L’esposizione che dura di più per fissarle, in alcune; e nelle altre il momento che passa nell’elaborazione delle immagini che nascono tramite le intelligenze artificiali. In che modo lo vivi questa sensazione di tempo? È uno strumento che si aggiunge al tuo processo creativo?
Avere dei tempi morti porta a riflettere, e riflettere induce nuove idee, e queste portano a modifiche del processo creativo, indubbiamente.
Poi dipende dalle circostanze, altre volte l’attesa è osservazione pura e assenza di pensieri, o un mix di trepidazione e curiosità per il risultato finale che sta per palesarsi, o accade anche che semplicemente ci si annoia.

 

L’artista:
Emiliano Grusovin è un artista italiano coinvolto da tempo nella sperimentazione visiva e sonora su molteplici piani dell’esperienza sensibile, coniuga un immaginario astratto e minimale attraverso sofisticati mezzi tecnologici.
Fotografo e grafico appassionato, attualmente esplora le possibilità dell’arte generativa attraverso l’utilizzo delle intelligenze artificiali, progetto a cui seguono periodiche pubblicazioni sul relativo profilo instagram.

https://www.instagram.com/emilianogrusovin/

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.

 

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Fare Voci. Contrassegna il permalink.