Continuiamo il Fare Voci nel 2025 con un nuovo appuntamento ricco di spunti.
Ad iniziare dal ritorno poetico di Vanni Schiavoni con la sua raccolta “Gli Atleti”, nuovo importante passo del suo percorso d’autore.
Un nome significativo della poesia contemporanea è anche quello di Nataša Sardžoska, che ci presenta la sua “Voragine della luce”, sette testi inediti scritti in lingua italiana a Napoli, al lago di Ohrid, a Istanbul.
E poi Christian Sinicco e il suo pluripremiato “Ballate di Lagosta”, Roberto Lamantea con il racconto “Poi vedo la data”, Xánath Caraza con le due sue poesie inedite in italiano “La farfalla di Jackeline”, gli inediti dell’esordiente Eleonora Laura Pasqualetto e Roberto Maestri con “Ero destinato a qualcosa d’altro”.
Le altre note sono quelle degli Autostoppisti del Magico Sentiero, con il nuovo album “Narci Scisma. La lobotomizzazione del risveglio”.
La narrazione è nei racconti di Wilma Ducati, a titolo “Anime”.
Le immagini sono le Sinopie di Mario Palli.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini ———————-
Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Voce d’autore —————————-
Come sfocato nella solitudine di essere un simbolo
Vanni Schiavoni, “Gli Atleti”
di Giovanni Fierro
Guarda al passato remoto e affronta il presente, la nuova raccolta poetica di Vanni Schiavoni a titolo “Gli Atleti”. Perché i protagonisti di queste sue nuove pagine sono la scultura dell’atleta di Lussino, di duemila anni fa, lo scultore greco antico Lisippo (vissuto nel ‘300 a.C.) celebre per la più famosa delle rappresentazioni di un apoxyómenos (atleta che si deterge), l’Iskander (Alessandro Magno) e l’atleta/campione di Taranto, ritrovato in un imponente sarcofago con lo scheletro ben conservato, vissuto tra il 500 e il 480 avanti Cristo.
È con loro che Vanni Schiavoni si confronta, mantenendo sempre viva la preziosa curiosità nell’addentrarsi in quel mondo così ancora propositivo.
In questo modo il “voi atleti per sempre fermati/ nel gesto di essere atleti” è la naturale controparte del “se affiora o sfiorisce pure questa dannata/ attesa di progresso”. Il passato remoto accoglie il fragile presente, che tramite la poesia Schiavoni ha l’ardire però di esplorarlo quel tempo passato, di riportarlo nel corretto vortice dell’attenzione, per confermare che oggi come alle radici della società ellenistica “l’infinito non è/ tutto fuori, è tutto dentro”.
Ed è lì che “Gli Atleti” si interroga, si sviluppa nella sua scrittura così minuziosa e articolata, sempre attenta alla fragilità della materia che tratta, ma che ha la magia e la forza della ricerca d’autore più consapevole possibile: “l’orgasmo del mondo cercavo:/ volevo vederlo brillare”.
Parlare di questi atleti, non nel momento della loro esuberante e vincente fisicità, ma nell’attimo in cui del proprio corpo si prendono cura e attenzione (l’atleta di Lussino che si pulisce, quello di Taranto rinvenuto con un alàbastron, ovvero un vasetto porta unguenti) è dire che come allora come oggi il corpo – quello umano, quello della scrittura, quello del pensiero e quello dei sentimenti – ha urgente bisogno di manutenzione, di attenzione costante e caritatevole.
Perché è il corpo il luogo di ogni apprendistato, di ogni crescita, il laboratorio più prezioso capace di svelare che “così non mi riconoscevo/ alcun grave presagio del passato, non avevo/ nostalgia del futuro se versato/ in scariche elettriche”. È lì, in quel centro assoluto a cui appartenere e in cui riconoscersi che è fondamentale “imporsi allora: più violenti della luce/ contro l’innaturale essere uomini/ e concepire l’impossibile”.
Fa bene Vanni Schiavoni a cortocircuitare Magna Grecia e anno 2024/25, fa bene a non fermarsi sul bordo del pensiero, a non accontentarsi del margine, ma invece spingere fino al midollo, al nodo di significato, al punto perenne con l’assoluto accorgersi che “il tempo sarà sincero/ coi suoi capelli neri e non vedrà/ il crollare delle sue prestazioni/ eviterà gli articoli beffardi, le televisioni/ a intelaiare le morali che lastricano/ i viali certi dei tramonti”.
Perché è certo che abbiamo tutto da perdere, ed è sicuro che non abbiamo nulla da perdere: “l’ultimo sogno del mondo/ sarà un incesto di suolo e lava”, “e questo voglio che sappiate:/ verranno i barbari coi nostri volti”.
E fare poesia aiuta ad accettare meglio ogni destinazione, permette di sabotare ogni condanna, ci aiuta a fare della bellezza la forza più preziosa da difendere; che poi “la virtù vera/ è dire di passaggio ogni epoca/ e pure noi”.
dal libro:
Come sfocato nella solitudine di essere un simbolo
con lo strigile detergi la tua gioventù
per scacciare il pulviscolo e il sudore
l’olio per non farsi facili prede
farsi almeno sguscianti.
Lo stare in quel modo è un nodo d’amore.
Ti guardo come uno dei miei tanti figli
dalla zona costante del mio confino
come tutti i calchi del creato
copie mute di maestranze, ora pianeti
in equilibrio nelle sale dei musei
e nelle depressioni non scandagliate
voi atleti per sempre fermati
nel gesto di essere atleti.
*
Ora stai
sulla terraferma
hai un tempio tutto tuo laddove
ti guarda mite pure la povera gente
e mentre ti lodano e tu mediti, rammenta:
quello che conquistiamo
è solo superficie
il possesso ossessivo
la dissoluzione della pietà
l’inflazione del malumore
l’autoassoluzione superba
per gli abusi e le atrocità commesse
come se fosse evoluzione
l’importarsi in quanto mercanzia
o avversari.
*
Si chiede mai se abbiano regole
le ardenti visioni geopolitiche
giacimenti di petrolio o miniere
quanto sia a fuoco l’idea?
Il mondo non lo prende
lo riprende vivendolo da un’altra ottica
la fa più piccolo
lo mette come in avanzo nel petto
ed è orgoglio condividergli un’era
ché le altre non saranno di alcuno
quanto la sua si apre alessandrina.
La virtù vera
è dire di passaggio ogni epoca
e pure noi.
*
Bisognava orientarsi e dimenticarle
le microbe proteste della fatalità
e imporsi allora: più violenti della luce
contro l’innaturale essere uomini
e concepire l’impossibile, ogni record
i nitriti dai recinti come una sfida nel vento.
Voli radiali e striduli sgargiavano sullo sfondo
la vittoria una protesi, un istmo della storia
una marea ad agognare il primo respiro d’aria pura
oltre il traguardo che era
una linea di vetro che nel centro
del non ancora compiuto già lasciava
che vedesse scheggiata la gloria futura
che oltre l’urlo della folla lo aspettava.
Intervista a Vanni Schiavoni:
“Gli Atleti” porta con sé anche la necessità del confronto con il passato. E questo confronto cosa amplifica del nostro presente?
Non lo definirei un confronto diretto, quanto una sovrapposizione che amplifica la consapevolezza della continuità e della frattura che definiscono il nostro presente. Credo, anzi, che il discorso si possa addirittura rovesciare: il racconto che si srotola ne “Gli Atleti” è un racconto “del” passato ed è in questo che il presente si insinua. È come se l’ieri si confrontasse con l’oggi e non viceversa; è il presente che appare in lampi dentro una storia antica.
Nell’ultima sezione, quella dedicata all’atleta di Taranto, l’epopea grandiosa della Magna Grecia si ritrova a dover fare i conti con una realtà siderurgica di là da venire che avrebbe significato un gorgo tumorale e anti-vitalistico rispetto a ciò che il corpo di un atleta rimanda al mondo.
Le culture passate, viste attraverso il filtro del tempo, sembrano avere una solidità mitica che oggi è difficile immaginare, ma è un effetto della distanza. Viviamo in un’epoca che produce frammenti, non monoliti, e questa frammentarietà è il suo valore e il suo limite.
“Gli atleti” non vuole evidenziare la fragilità delle culture attuali, quanto rivelarne il potenziale nascosto: una forza che sta proprio nel loro essere in divenire, aperte, porose. La citazione di Adorno in esergo dell’opera è una chiave di lettura che spinge a domandarsi se ci sia ancora spazio per un “progresso umano” nel senso classico.
Spesso la poesia si erge come testimone di qualcosa che altrimenti andrebbe perduto. I miei versi parlano di sforzi e sacrifici, ma anche di rivoluzioni, di visioni, di slancio oltre il già conosciuto. C’è da chiedersi quanto sia ancora attuale la capacità di sacrificarsi per qualcosa di più grande, quanto spazio ci sia per una connessione tra mente e corpo, per un impegno quotidiano che miri al miglioramento personale e insieme per una decisa dedizione a un ideale comune.
Il tuo scrivere è diventato ne “Gli Atleti” più minuzioso, più ‘elaborato’, ora ha maggiori sfaccettature, di certo si è fatto più ricco. È stato il confronto con la scultura ad innescare questo? E se sì, in che modo è avvenuta questa trasformazione?
Non so se ci sia stata una vera e propria trasformazione; so però che avevo ben chiaro il risultato che volevo raggiungere con ogni intervento su ogni singola sillaba.
La stesura di questi testi ha impegnato dieci anni di tempo. La struttura mi era chiara da subito, sapevo “cosa” dire ma il “come” farlo è stata la prova più ardua. Volevo che la raccolta, nella sua interezza, risuonasse del mito senza apparire vecchia, che richiamasse l’epica senza provare a imitarla, che si muovesse, nell’intimo della lettura, insieme antica e originale.
Per riuscire a raggiungere questo risultato il lavoro sulla lingua non poteva che essere, come dici tu, minuzioso, elaborato, sfaccettato, ricco. Come per la risposta precedente, anche qui mi vien l’istinto di rovesciare la questione: più che il confronto con la scultura da cui sarebbe derivato la necessità del lavoro sulla parola, è stato proprio l’impegno sulla lingua a farmi sentire affine la manipolazione della materia. La tridimensionalità delle statue, la loro capacità di essere viste da ogni angolazione, somigliava di tanto alla mia aspirazione di una scrittura che non si accontentasse di un unico punto di vista.
Ho cercato di tradurre in parole la tensione tra movimento e staticità, di intagliare sul foglio un dialogo tra l’effimero e l’eterno, di scolpire il linguaggio dentro un’impalcatura tecnica poggiata su una matematica nascosta che reggesse il peso delle immagini e dei significati. Ho inseguito un’architettura dinamica, un equilibrio tra frammentazione e coesione che ricordasse il contrasto tra la rigidità del bronzo e la fluidità del movimento congelato. Ho cercato una scrittura che si “piegasse” come il corpo di un atleta in torsione, un ritmo costruito su un respiro irregolare ma controllato, come quello di un corpo sotto sforzo.
Spero di essere riuscito a ridare un andamento che possa definirsi atletico, con versi lunghi pieni di immagini stratificate che, evocando l’attesa, sembrano accumulare la tensione dei muscoli, seguiti da versi corti, fulminei, che scaricano l’energia, spezzano il flusso, come un colpo netto.
Tutto il libro ha una voce narrante che è quella di Lisippo. La sezione nella quale lo scultore di Sicione parla in prima persona di sé e del suo lavoro è sicuramente quella più autobiografica: sono io che racconto la mia concezione della poesia, che apro al lettore la mia “officina” metaforizzandola dentro un’arte plastica. Non a caso faccio pronunciare a Lisippo questo verso: “Ho provato a restituire una poesia ossificata”.
(L’atleta di Lussino)
Secondo te, qual è la forza di queste sculture? E quale quella degli scultori che le hanno create? Oggi cosa o chi creerebbero?
In questa raccolta io traccio il ritratto in versi di quattro figure che definisco quasi provocatoriamente “atleti”. In realtà, dei quattro, l’unico che davvero può fregiarsi di questo titolo è l’atleta di Taranto, il quale, nel V secolo a.C., fu capace di imprese sportive tali da fargli meritare una statua che lo celebrava nel tempio di Era a Olimpia. Gli altri tre protagonisti di quest’opera li considero atleti in quanto capaci di superare dei limiti: la statua dell’atleta di Lussino ha superato i limiti del tempo, arrivando a noi pressoché intatta dopo duemila anni; Lisippo ha superato i limiti della concezione policletea del fare scultura rivoluzionandola; Iskandar ha superato i limiti geografici, conducendo l’esercito macedone alle porte dell’India.
Per tornare alle sculture, la loro forza risiede nella capacità di fermare il tempo e di trasmettere un’umanità vibrante, malgrado l’apparente staticità. Gli scultori, con la loro tecnica magistrale, hanno infuso nella materia inanimata un’energia che continua a dialogare con chi osserva, sfidando i secoli. La loro grandezza sta nell’aver reso eterno ciò che per natura è passeggero.
La forza di una statua come quella dell’Apoxyomenos recuperato in acque croate, sta nella capacità plastica di imprimere nei nostri occhi il modello stesso della cultura che l’ha generata; come scrivo nelle note finali del volume: “statue come l’atleta di Lussino fissavano i canoni della bellezza fisica classica e sottolineavano gli ideali fondamentali della cultura greca della vita, la congiunzione di mente e corpo, il plasmare assieme i muscoli e l’anima. Nel gymnasium si forgiava compiutamente il cittadino greco”. Ed è insieme la forza stessa delle mani che hanno impresso tutto questo nel bronzo e nel marmo.
Uno scultore come Lisippo credo che oggi creerebbe opere che riflettono la frammentazione e la velocità del nostro tempo: figure interrotte, incomplete, come specchio di una società in perenne trasformazione. Forse rappresenterebbero l’uomo contemporaneo nel suo atto più intimo: quello di cercare, senza mai fermarsi. Non è poi forse ciò che troviamo nella potenza espressiva, evocativa ed esplosiva di Jago?
Con il ritrovamento di queste statue è riaffiorata dalle profondità del tempo anche la bellezza. E la bellezza è sempre tema fondamentale per chi scrive, in special modo nella poesia. Dove la possiamo trovare oggi? Dove la dobbiamo cercare?
È la classica domanda da un milione di dollari. Bisogna intanto intendersi sul significato del termine e ancor più decidersi se gli si voglia attribuire il ruolo di mezzo o di fine. Due volte, nel libro, torna espressamente questo concetto; la prima è quando Lisippo parla del suo lavoro (“La capacità a volte alla portata del bello/ così come era nelle fucine della psiche/ forgiavo nel piglio senza smettere/ di privare gli elementi o liberare i volumi”), la seconda quando lo scultore prova a immaginare i pensieri dell’atleta di Taranto colto in un momento di riposo (“A volte fermo, perso tra le bellezze/ che avrebbe raccontato di Atene/ potevano sorprenderlo nel fresco/ come fosse premio le fanciulle”).
Nel primo esempio la bellezza è una capacità che a volte è alla portata; nel secondo è una speranza intravista nel futuro. Nella prima delle quattro sezioni la storia del restauro della scultura di Lussino è centrale: la statua torna alla vita, ma è segnata dal tempo. L’apoxyómenos viene riportato alla luce dopo secoli di oblio. La connessione tra bellezza artistica e fatica quotidiana penso attraversi tutto il libro, quel muoversi tra la ricerca della forma perfetta e la lotta dell’esistenza, l’esplorazione di un’idea di immortalità che non è solo fisica, ma legata alla memoria, alla storia e all’arte. La bellezza che quel restauro ci ha restituito è quella del tempo dilatato, la calma necessaria per prendersi cura del corpo, ma anche dello spirito.
Nel nostro presente, questa intimità sembra essere stata spinta al margine, ma non è scomparsa: si è solo trasformata. È nascosta nei gesti più semplici, nei tentativi di ritrovare sé stessi anche in mezzo alla corsa, e forse proprio per questo è più difficile da riconoscere.
Oggi, la bellezza si trova negli interstizi, nei dettagli trascurati della quotidianità. Non è più un valore assoluto o idealizzato, ma qualcosa di frammentato, come un riflesso su una superficie infranta. La dobbiamo cercare nelle storie degli individui che resistono all’omologazione. La bellezza di cui la poesia si nutre è una bellezza vulnerabile, che non cerca la perfezione ma l’autenticità.
Le statue protagoniste di queste pagine raffigurano gli atleti nei momenti meno vigorosi del loro essere; è quando si prendono cura del proprio corpo, lo puliscono e lo detergono. Che significato dai a questo?
Nei miei versi ho cercato di suggerire come il sacrificio non si limiti al momento del trionfo, ma sia intrinseco alla lotta stessa. Il fatto stesso che la cultura greca ci abbia consegnato una parola precisa per ciò che oggi definiamo con un insieme di lemmi, apoxyómenos, l’atleta che si deterge, rende immortale quell’attimo: un momento insolito scelto dall’arte antica, un gesto di cura quotidiana più che di trionfo.
È un’azione quotidiana, ripetitiva, che rivela l’umanità dell’atleta al di là della sua grandezza. Lo strigile che raschia via sudore, polvere e olio diventa metafora dell’atto poetico: uno strumento che scava, che toglie il superfluo per rivelare ciò che è essenziale. Questo gesto è un rito che ci ricorda che la forza non è solo nell’azione ma anche nella riflessione e nel prendersi cura di sé, un insegnamento universale e senza tempo.
Rappresentare un atleta “reale”, vulnerabile e segnato dalla fatica, è stata la grande rivoluzione di Lisippo. Le tombe degli atleti, come quella dell’Atleta di Taranto, raccontano vite dedicate al sacrificio. La dedizione e la sofferenza hanno un valore che va oltre la gloria. Emerge anche la fragilità degli eroi. È questa vulnerabilità a renderli più umani e universali.
È sottile la linea che separa la gloria dall’oblio. C’è un continuo contrasto tra la narrazione epica e i dettagli umani, tra la grandezza del mito e la caducità del corpo. Questo crea una tensione che non si risolve mai.
(L’apoxyómenos)
A pagina 25 scrivi “l’infinito non è/ tutto fuori, è tutto dentro”. Mi viene da pensare che “Gli Atleti” sia anche una riflessione continua. È così?
Soprattutto è ciò che spero, che sia una continua riflessione sull’infinito che ci abita e che spesso ignoriamo. L’infinito non è una distanza irraggiungibile ma un luogo interiore, una profondità in cui scavare per ritrovare ciò che ci lega al mondo e agli altri. La frase “l’infinito non è tutto fuori, è tutto dentro” racchiude una tensione matematica.
Si potrebbe dire che “Gli Atleti” cerca di rappresentare l’infinito con un finito concreto: i dettagli del corpo e della materia diventano una metafora di ciò che non può essere misurato. La frammentazione cerca di esprimere una tensione tra la perdita e la rinascita. La poesia, in questo senso, è uno strumento di introspezione, un modo per esplorare quel “dentro” che si riflette poi nel “fuori”. È un invito a non fermarsi alla superficie ma a cercare significati nascosti, a dare forma al caos che ci circonda.
Quando racconto di Alessandro Magno ne faccio un simbolo di ambizione smisurata e contraddittoria, accenno alla grandezza e alla complessità del condottiero che coniuga gloria e ambiguità ricordando che “Quello che conquistiamo è solo superfice”.
A leggere di queste statue, del loro ritrovamento, del loro sfidare i secoli, si vive una loro personale solitudine. Che poi contamina in qualche modo anche tutto lo scrivere de “Gli atleti”. E l’impressione è che sia una solitudine necessaria, anche per dare forma ad ognuno di noi. Ti ci ritrovi in questo?
Assolutamente. La solitudine che queste statue incarnano non è un’assenza, ma uno spazio in cui sedimentano il tempo e i significati. È una solitudine creativa, quella che permette al poeta di riflettere e di trovare una voce autentica.
Ne “Gli atleti” la solitudine è una condizione necessaria per ascoltare il passato e tradurlo in qualcosa che parli al presente. È uno spazio di sospensione che permette di dare forma a ciò che siamo, di confrontarci con il nostro limite e di superarlo. Non credo si possa parlare di solitudine come isolamento, ma come assenza di rumore. Quella delle statue non è una solitudine malinconica: è uno spazio vivo, uno stato di quiete che permette di ascoltare il tempo. È come un silenzio che ha raccolto i secoli.
Nello scrivere questo libro, ho sentito questa stessa necessità di farmi da parte, di lasciare che l’essenza emergesse senza sovrastrutture. È necessario, per dar forma a sé stessi, ridurre il caos e trovare quello spazio vuoto, ma fertile, dove la storia personale e collettiva si intrecciano. Forse la vera solitudine è quella dell’incompiuto, di ciò che rimane informe perché non riesce a stare in dialogo con il mondo.
In questo tuo prezioso nuovo scrivere esplori culture passate, di cui sottolinei l’importanza, il loro essere imprescindibili. Di certo, al confronto, le culture attuali sembrano più deboli, più fragili… “Gli Atleti” è anche questo evidenziarlo?
In parte sì. “Gli atleti” non vuole giudicare il presente, ma porlo in dialogo con il passato. Le culture di ieri ci appaiono più solide perché erano radicate in valori condivisi, in riti e tradizioni che davano un senso di appartenenza. Oggi viviamo in un tempo più liquido, in cui tutto è fluido e incerto. Questa fragilità, però, può essere anche una forza: ci costringe a reinventarci continuamente, a trovare nuovi significati. I miei atleti invitano a non dimenticare le radici, ma anche a usare la loro memoria come trampolino per immaginare un futuro diverso.
Spero che l’immortalità appaia più che una conquista fisica, una permanenza nella memoria collettiva. Ho cercato di usare il mito come asse verticale (le citazioni mitologiche e storiche sono come pilastri che reggono la narrazione) e la realtà come asse orizzonte (i dettagli del corpo, il sudore, il bronzo che si ossida, le alghe) che crea un’orizzontalità che mantiene il lettore radicato al presente.
L’autore:
Vanni Schiavoni (Manduria, 1977) ha pubblicato le raccolte poetiche “Nocte. Nascita di un solstizio d’inverno” (Firenze Libri, 1996), “Il balcone sospeso” (Lisi editore, 1998), “Di umido e di giorni” (Lietocolle, 2004), “Salentitudine” (Lietocolle, 2006), “Guscio di noce” (Lietocolle, 2012) e “Quaderno croato” (Fallone, 2020).
Ha pubblicato i romanzi “Come gli elefanti in Indonesia” (LiberArs, 2001) e “Mavi” (Emersioni, 2019).
Come performer si esibisce con gli spettacoli “Quaderno croato e alte province” (in solo), “L(‘)at(t)itudine” (in trio con la cantante Martina Alberi e il chitarrista Renato Minguzzi) e “Gli atleti” (in duo col chitarrista Gregorio Pasanisi).
Dirige il laboratorio di scrittura in versi (e altre creatività) “SoloXpoetry”, con Giuseppe Alemanno.
(Vanni Schiavoni “Gli Atleti” pp. 88, 13 euro, Interno Libri 2024)
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Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Tempo presente ——————–
Voragine della luce
Sette testi inediti scritti in lingua italiana a Napoli, al lago di Ohrid, a Istanbul
di Nataša Sardžoska
a V.
Ho lottato
per l’uomo che amo
fino all’offerta gratuita
del mio corpo alla morte
(perché la morte è forte come l’amore o era viceversa?)
nella voragine della luce abbagliante (ma l’incontro
con l’origine produce sempre
smarrimento!)
dei fari sospesi nel movimento bulimico,
ho riconosciuto l’impossibilità del corpo
che non poteva parlare diversamente
se non con la sola egemonia delle ossa
della lingua spasmodica
– eppure è finito (così come finisce la copulazione)
nella follia forsennata delle braccia che spezzano i legamenti
(miei nel salvarmi
tuoi nel soccorrermi)
che non sanno più afferrare
ma solo far affiorare la cecità,
lasciando cadere
nel vuoto
l’innocenza
delle nostre lingue
prive oramai (ora più che mai)
di ogni sangue.
1.11.2024, Istanbul
*
Ti lascio essere. Ti lascio
una lama abbagliante
per tagliare la carne
per una colazione radiosa,
un abisso tessuto di risposte
per evitare la caduta
o la consolazione alle domande
a cui rifiuti di rispondere.
Ti lascio essere. Ti lascio
quello che provi ad essere:
ma quando verranno i rimorsi,
le rappresaglie, le repressioni,
i retroscena, i rottami,
ricorderai il mio corpo
aggrovigliato, inchinato
sopra il tuo duro membro –
e solo quello ti basterà –
o forse – per antinomia –
proprio quello no.
*
Il corpo è nudo.
Aspetta. Annusa.
E sa. Ma non si offre.
Ha visto prima di te
tante litografie,
enciclopedie, atlanti,
laboratori, microscopi.
Ma ora in te tace.
Perché tu lo conosci.
Adesso, dopo che
ho messo i piedi sulle tue scale
e cercato invano
la tenerezza nel marmo
davanti alla tua casa,
ho offerto la mano
alle mandibole della malattia:
ma nessuna (mandibola o malattia?)
mi ha tenuta
così stretta al sangue
come la tua.
*
Non conosco
il giorno quando mi sei nato.
Me lo hai detto anni dopo.
Le risposte, dici,
non ci sono. Patire, si deve,
deflettere, forse.
Non domandare
ciò che sfugge.
Tutto
mi dici tu, vuoi sapere tutto.
Perciò fermenti il silenzio nel gelo,
la vita che si vive sterile
oltre ogni malattia
immune ai bacilli ai batteri ai virus
limpida complice solitaria
nella distanza che arde
che ci attrae
che pura
rimane.
Tutto –
tutto quello che hai da dire
è: non lo so.
E invece lo sai.
*
Ho paura
del margine
non dell’abisso.
Ma tu
sei abituato a tenermi
mentre cado.
Perché t’insegno:
i punti di svolta
assoluti della vita
avvengono
all’improvviso.
*
Bisogna tornare
alla combustione
che tutto assorbe
e nulla restituisce.
Bisogna avere
propositi scandalosi
per non avere
nessun rimorso.
Perché è dal nulla
che si torna in sé
dalla perdita di sé.
Perché
è dallo spasimo
della vena tagliata
che nasce il sangue.
*
Alla fine dei fallimenti
oltre il vortice dei rimorsi
ci sarà una porta
dove non ci perderemo.
Ma il dubbio è violenza.
Ma il distacco è veemenza.
Perché non esiste certezza
nel vano inganno.
Perché, poi, mi perseguita
il baratro nel petto e mi viene mal di gola
parlare con un altro che non fosse lui
pronunciare altro non legato a lui.
Ha detto:
non so come nemmeno quando
saremo superstiti
di naufragi celesti.
Senza niente da dirci
a mani vuote
incerti se dirsi
darsi
o perdersi per sempre
in bocche ignote
ci raccontiamo
la vita.
Nataša Sardžoska, non so come nemmeno quando
di Sandro Pecchiari
Qual potrebbe essere il primum mobile? Il reclamarsi autonomo di ogni parte del corpo o il fecondo corto circuito tra le città? E se le varie parti si proclamano ognuna a sé stante come le diverse città vissute? E allora che si crei questa (con)fusione in cui le emozioni sono intense e indefinibili nel loro primo accendersi.
Non definirsi come poeta perché essere poeta consiste solamente nell’atto di scrivere – come asserisce Sardžoska necessita quindi nell’essere nell’atto, essere l’atto stesso nel suo movimento trasceso.
E così ha senso il viaggio, il muoversi, l’interferire con gli altri e con le lingue. Ogni lingua parlata, è notorio, ci rende in qualche modo differenti, permettendoci di creare all’esterno e riformularci all’interno e tradurci per sé stessi e per gli altri.
“In the process of poetry-making,
I am cutting off the reality to produce
another sensational reality.”
Aver vissuto a Parigi, Brussels, Milano, Stoccarda, Barcellona e Lisbona, a Fiume e Capodistria ed essere interprete di francese, italiano, inglese, spagnolo, portoghese, croato, catalano e macedone completa il mosaico che può essere assaporato in toto considerando contemporaneamente ogni singola tessera.
E qui si può prendere coscienza delle infinite sfumature della lingua: si trova la verità globale, i colori e le metafore, le onomatopee, il tono della voce, il linguaggio del corpo, la musica che si ricrea nella lingua d’arrivo, un lavoro fisico e muscolare, la danza che ne consegue se la lettura effettiva delle poesie si sposa e fonde in una interazione con la musica. Allora la percezione si spalanca, gli orizzonti si allargano ulteriormente.
Questi inediti scritti in lingua italiana a Napoli, al lago di Ohrid, a Istanbul chiariscono il desiderio di comunicare attraverso gli organi del corpo, in un ricrearsi e risorgere fuori dai legami morfosintattici della lingua, ermetico a volte ma puro. Si parla con la pelle, con il corpo, con i corpi incontrati nei viaggi e nelle città, corpi degli altri e le possibilità di essere noi stessi corpi differenti.
“Senza niente da dirci
a mani vuote
incerti se dirsi
darsi
o perdersi per sempre
in bocche ignote
ci raccontiamo
la vita.”
L’autrice:
Nataša Sardžoska (Skopje, 1979) è una delle principali voci macedoni della poesia contemporanea. Poeta, scrittrice, giornalista, traduttrice, antropologa. Insegna alla Schiller International University, presso Heidelberg (Germania).
Ha pubblicato le raccolte di poesie: “La camera azzurra”, “Pelle”, “Lui mi ha tirata con un filo invisibile”, “Acqua viva”, “Osso sacro”, “Lezioni di inganno”, e i romanzi “Tramontana” e “Vita senza testimoni”.
Le sue poesie sono tradotte in più di venti lingue. I suoi libri sono stati pubblicati negli Stati Uniti, nel Messico, e in Italia da Interno Poesia.
Ha partecipato a vari festivals, tra cui il Festival di Medellin in Colombia, Ars Poetica a Bratislava, Poesiefestival a Berlino, Parole Spalancate a Genova, il Festival Sha’ar a Tel Aviv e Ritratti di Poesia a Roma. Si è esibita in poesia e in performance di musica e danza al Palazzo Ducale di Genova, al Teatro arabo-giudeo Yaffa di Tel Aviv, all’Accademia delle Belle Arti di Berlino, alla Galleria d’Arte Moderna di Bratislava, alla Biblioteca nazionale di Sofia, al Centro Culturale di Belgrado e al Museo Revoltella di Trieste.
Nel 2024 è stata presentata come poetessa all’Istituto Italiano di Cultura, presso Stoccarda; ed è stata invitata per un reading di poesia al Perditempo di Napoli, durante il quale ha ricevuto un premio da Guida Editori, per la poesia inedita.
Ha tradotto in lingua macedone autori internazionali, tra i quali: Pasolini, Salinas, Margarit e Saramago. Scrive e si traduce in macedone, italiano, inglese, francese e spagnolo.
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Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Voce d’autore —————————-
Abbiamo bisogno di un chiaroscuro
Christian Sinicco, “Ballate di Lagosta”
di Antonello Bifulco
Ci sono pagine che raccontano la nostra storia, pagine che sono la densità di ciò che siamo, pagine che irrompono a ricordarci quanto siamo stati stupidi, quanto ancora facciamo per giustificare tutte le nostre mancanze permettendo alla bellezza di volare via da noi.
“Ballate di Lagosta” è un luogo dove ritrovarsi, una processione tra le strade delle parole perdute, un richiamo agli uomini dell’Europa tutta affinché il Mediterraneo non sia più una marea che insanguina tutto ciò che tocca.
Christian Sinicco con la casa editrice Donzelli Editore ci regalano le giuste parole per guardarci dentro e non avere paura, “Ballate di Lagosta” racconta di un’isola che è Uomo, che è vita, bellezza. Con queste sue parole Sinicco è arrivato in finale alla prima edizione dello Strega Poesia e al Premio Montano, ha vinto il Premio Poesia Onesta XVIII edizione, il Premio Prato Poesia, i Premi Versante Ripido e Leonardo Lucchi.
Il poeta si racconta in un momento di sosta, in una vacanza che è una permanenza silenziosa, alla ricerca di tempo e luce che possano inchiodarlo alla gioia, senza sapere per quanto, senza sapere se il sogno che lo dispone allo splendore durerà a lungo, c’è un equilibrio precario in ogni petalo di queste vie: “…abbiamo bisogno di un chiaroscuro,/ di lasciarci perdere affinché i nostri nomi scendano come le/ bouganville,/ di non accorgerci che questo blu è l’istinto di morte che ci/sovrasta…”.
Vie che si popolano di volti che hanno un nome, una vita lontana, una vita che l’isola di Lagosta permea a sé, confonde e celebra nell’ozio dei giorni buoni. Ogni immagine è stupore, meraviglia, lo sguardo di chi scrive prevale in una vertigine continua di stanze sensoriali, il senso che tutto sovrasta nelle descrizioni è sempre la vista come a voler sedimentare la percezione del vissuto di ciò che più sarà.
L’autore ci fa partire verso cieli lontanissimi che discutono con le leggi dell’immaginazione, ci accompagna attraverso triangoli di onde che si dilatano a vedere se il bene riesce a trionfare ancora sul male, ci ricorda che l’amore verso l’altro è una rincorsa, una guerra non solo interiore, che c’è bisogno di cura sempre al di fuori dell’io, che abbiamo bisogno di essere felici magari anche solo davanti al mare “è raro trovarsi in un mare così grande/ consumati dolcemente dalla vista delle isole/ perché non vivere eternamente in questo sole…/ è bello attendere la musica/ una volta che si sbarca sull’isola/ considera la cura antitossica/ se sapessi come ho perso la bussola…”.
Le parole corrono una dietro l’altra ad inanellare sorprese, emozioni, lacerazioni, ci assediano con una grazia naturale aumentando la nostra percezione, dilatando le nostre paure “non so per quanto tempo la luce mi inchioderà alla gioia,/ è una deriva che guarda l’acqua, un sogno che dispone lo splendore”.
Il viaggio è fatto di partenze e ritorni, di traghetti che ci hanno visto passare, di nuvole e silenzi che non hanno origine, siamo come i segni sulla sabbia che la risacca potrà di nuovo modificare, appianare, cancellare, viviamo i ritmi del tempo che continuerà a scontrarsi con la necessità di sentirsi ancora anche se lontani, viviamo case di inesplicabili solitudini e anche dopo che ce ne siamo andati, siamo rimasti sempre qui.
Il mare è luogo di parole che si disegnano attraverso, una lunga distesa di acqua che respira non solo di vita propria, un luogo fradicio di eventi umani, alle volte disumani “e noi restiamo tranquilli nel mare rosa che dissangua”, corpi che non si trovano più “spariti nelle onde/ così tanti corpi,/ sciame di stelle e nuvole di pesci/ sul fondo, che erano/ sulla mia bocca/ chiusa dall’acqua”, e urlare ancora la propria rabbia “non ho potuto gridare/ liberateli, liberate l’Africa/ da questa scienza di morte,/ dai soldi dell’oblio”.
Questo libro è un viaggio che non finisce, è una spinta alla ricerca dell’essenziale, alla ricerca di quella bellezza che si è persa dentro ad ogni sopruso, è un lamento ad esplodere contro le follie dell’uomo, è un viaggio a ritroso fino a recuperare quella dimensione umana che si faccia carico dell’altrui bisogno, dell’altrui diritto.
Dal libro:
Prima della processione
non saranno nemmeno le sette e tutto il paese
porta il nome dei santi sulla bocca del prete,
anche l’abside acquista a mano a mano più luce
e tra chiesa e porticato si illuminano i volti
fuori il cielo chiarisce, purifica lo spazio,
un’omelia continua fissa la croce d’oro
con la tunica bianca, come contro l’azzurro
le nuvole passano durante l’offertorio
siete voi questi sogni che pensano l’esistenza,
le idee, e poi il sole gela questo rituale
sui vetri e le inferriate che si sono incendiate
sull’altare che rima la stessa litania
*
La cittadinanza di Ambroz
posso richiedere la cittadinanza del mondo,
eppure sono rimasto fino a mezzogiorno
a guardare lo specchio d’acqua del pozzo
e i fichi caduti dall’albero, rivestito dalla brezza
di metà mattino e non ho avuto paura
di guardare dentro di me e sapere
che significato è quello di essere vicini
a tutto ciò che è finito, compiuto
come il secchio tirato su
*
III. Nei minuti di una pubblicità
ho i miei figli sepolti nel mare
e un abisso alle porte:
la pelle nera e le mani allagate
strette alla fine alle alghe –
diciannovemila uomini in sei anni,
diciannovemila preghiere bianche
e nessuna azione, nessuna risposta
questa dimmi è la nostra società,
questo dimmi fa parte della crescita?
siamo state noi queste
radici nella sabbia,
le gabbie e i rifugi per l’orecchio,
un deserto sonoro –
come non seppellire
diciannovemila uomini in sei anni,
diciannovemila menzogne bianche?
in questo dimmi c’è qualche verità,
in questa dimmi che è solo cronaca?
*
La casa delle rondini
sventrata, quasi crolla,
e dove c’era una finestra
il fico spunta
con i rovi dall’interno, con il viola che era
all’origine sul davanzale –
doveva essere bella
quella inesplicabile solitudine
tra l’uscio e la cucina,
doveva essere bella
prima che la culla
finisse per rovesciare, prima della guerra,
prima che il cielo
lanciasse la sua maledizione,
prima che il sangue
rapprendesse come un seme, occupando
tutte le soluzioni dell’uomo
e la porta
fiorisse, diventando via via la casa
delle rondini
che entrano
come lame, ed escono
come il grido mitragliato,
come un lampo
*
spariti nelle onde
così tanti corpi,
sciame di stelle e nuvole di pesci
sul fondo, che erano
sulla mia bocca
chiusa dall’acqua, erano il frutteto
e la terra, foglie,
voci senza suono
ingrossate dalla corrente, e braccia
mani strette legate
le une alle altre
come filamenti, senza dire niente
non fiorendo più
il sorriso, ma voi
non fermate il loro canto, restate
a lungo, per tutto
il tempo, increduli
*
l’isola è un uomo,
il suo cuore l’estasi e la sua lingua
estesa ovunque, liquida,
ma dopo la tempesta
i colori dell’erba sono bruciati,
il paesaggio si è raffreddato
e ha spinto un vento ignoto
il ciclone dell’inverno tra le barche,
e nessuno ricorda
le parole disperse sul cielo nero,
i nomi morti nel Mediterraneo
Intervista a Cristian Sinicco:
“Io ti chiamo nella tua bellezza, prima che tutto si veda nella sua immagine”. In questo tuo scrivere c’è un rapportarsi con il mondo che è molto legato ai sensi. Vi è stupore, meraviglia, sogno. Ciò che prevale è lo sguardo, il senso che tutto sovrasta è la vista. Vi è un sedimentare e trattenere il significato del guardare di ciò che si percepisce? Ce ne vuoi parlare?
In poesia l’atto del vedere il mondo e la società è un atto morale. La poesia ha una materia sonora, quindi il significato del guardare prefigura un’azione. Il poeta esprime un pretesto. Ho scelto di dire delle cose per me urgenti e ho scelto delle immagini.
Tutto il senso spaziale del linguaggio è indirizzato nel confine tra chi percepisce la continuità del cosmo e il significato morale, proprio della poesia, sopra gli orrori della Storia, quella che viviamo ogni giorno.
“Ballate di Lagosta” un titolo che sa di geografie dell’anima, ci racconti come nasce il titolo di questa raccolta?
L’ambientazione è un’isola del Mediterraneo che rappresenta l’idea stessa di umanità per mezzo delle sue singolarità nella corrente della vita. I personaggi stessi, come lo erano per Dante o Edgar Lee Masters, sono attraversati da ciò che accade o è accaduto. Abbiamo la necessità di accorgerci delle nostre qualità in dialogo con gli altri non solo come cittadini europei. Siamo tutti “cittadini” del mondo.
La pausa sull’isola non interrompe il viaggio dell’uomo che desidera il progresso, la pace, la giustizia e la solidarietà.
In molti di questi versi ci racconti che è indispensabile la bellezza per osservare il mondo oltre il bene personale e contro tutti i pregiudizi, che c’è bisogno di un luogo per amare considerato ciò che accade attorno a noi. Quanto è importante la bellezza nella tua poesia, in queste poesie?
Il cimitero rappresentato, oggi, dal Mediterraneo, o da luoghi dove è presente un conflitto, come l’Ucraina, o dove è stato presente e mi riferisco alle Guerre balcaniche, le prime in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, non ci raccontano nulla di bello. La poesia ha una intrinseca forza estetica, ma in relazione con la situazione del mondo per me è necessario che sia esposta con tutti i rischi che necessitano di essere risolti sul piano della sua formazione.
Che senso ha scrivere una poesia con uno sguardo distaccato sulla società o anche parzialmente mimetica, ovvero una rappresentazione di quello che già si presenta? Sarebbe come scrivere niente. La poesia che sentiamo nella vita non è un principio astratto o l’etichetta di un prodotto che va in libreria. Molti individui denotano la bellezza come poesia perché c’è un’azione nella realtà. Mi piace pensare che la poesia sia scambiata con la bellezza. Io stesso tendo a scambiarla sperando che il linguaggio agisca nella realtà.
In “Ballate di Lagosta” importanti sono anche le persone che citi, molti di questi personaggi descrivono il loro pensiero, le azioni, le emozioni, la loro indignazione. Quanto è importante per l’autore farsi ispirare dalle persone e far rivivere poi questa suggestione attraverso le parole?
Dimentichiamo l’importanza di essere ispirati dagli altri. Non abbiamo grandi leader politici che possano essere di ispirazione perché abbiamo dimenticato l’importanza di essere ispirati gli uni dagli altri, quindi il potere politico è nelle mani di arrivisti in un sistema capitalista, competitivo. Dobbiamo ricostruire la base della nostra convivenza oltre il narcisismo che questa società alimenta. La poesia è questa ispirazione che accade grazie a ognuno.
L’autore:
Christian Sinicco è nato a Trieste nel 1975. Caporedattore di Fucine Mute, tra i primi periodici multimediali italiani, ha fondato la Lips (Lega italiana poetry slam) e curato l’indagine sulla nuova poesia dialettale confluita in “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (1950-2013)” (Gwynplaine 2014).
Ha pubblicato le raccolte “Ballate di Lagosta” (Donzelli editore 2022, Finalista Premio Strega Poesia e Premio Poesia Onesta 2023, Premio Leonardo Lucchi e Premio Prato Poesia 2024) sul tema della migrazione, “Alter” (Vydia editore 2019) e “Passando per New York” (LietoColle 2005).
Sindacalista Cgil, lavora in una delle concessionarie autostradali del Triveneto, in una zona di transito tra Nord Europa, Adriatico e Balcani. È vicedirettore di poetipost68.it.
(Christian Sinicco “Ballate di Lagosta” pp. 112, € 15,00, Donzelli Editore 2022)
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Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Poi vedo la data
Un racconto
di Roberto Lamantea
Mi sono svegliato in un letto d’ospedale, con un catetere, aghi e tubicini sulle braccia, il collo, il torace. È arrivata un’infermiera e quando mi ha visto che la guardavo ha urlato, il vassoio le è caduto in un bang metallico che sembrava uno sparo, ed è corsa in corridoio. Dopo pochi minuti nella mia stanza sono arrivati altri infermieri e tre medici. Mi hanno guardato come si guarda un marziano. Mi hanno tastato il polso, sentito il cuore, misurato la pressione. Poi, piano piano, hanno cominciato a sfilarmi i tubicini che mi avevano infilato in tutto il corpo, anche nell’ano. Io li guardavo e per me erano loro i marziani. Perché sono in ospedale?
Dopo un po’ di tempo è arrivata una bella ragazza, ma bella proprio, occhi verdi capelli rossi, le ragazze che quando le vedo per strada mi viene un tuffo al cuore. Mi ha detto che è una psicologa e mi ha chiesto come mi chiamo. Roberto, mi chiamo, mica ho cambiato nome. Lo sai Roberto in che anno siamo? Che domanda scema: 1964, ovvio. Ha bisbigliato qualcosa al medico, mentre tre infermiere non staccavano gli occhi da me.
Come si sente? Ho fame, ho detto. Poi mi sono fatto coraggio: perché sono in ospedale?
Adesso me ne accorgo. Anche l’ospedale è strano. Sono in una stanza tutta per me, l’ultima volta che sono stato ricoverato lo stanzone sembrava quello di una caserma, tanti letti in fila l’uno accanto all’altro, letti con le sbarre, un comodino di ferro, il vaso da notte, una lampadina nuda avvitata a una delle sbarre. Ed è tutto così bello: le pareti dipinte di un chiaro verde erba, delle finestre e, mi hanno detto, che là c’è il bagno, tutto per me, non per 25 persone.
Quando mi hanno lasciato solo però avevo un po’ paura. Perché sono in ospedale? Ho avuto un incidente? Non me lo ricordo. Ma adesso chiameranno mamma e papà e mi spiegheranno loro.
Verso sera mi hanno portato da mangiare e mi hanno aiutato a sedermi sul letto «dopo tutto questo tempo». Mi hanno portato una minestrina e un piattino di purè. Poi mi hanno spogliato e mi hanno lavato con una spugna profumata. Mi sentivo debolissimo. “Adesso dobbiamo pensare alla riabilitazione. Davvero non ricorda in che anno siamo?” mi hanno chiesto di nuovo passando al “lei”. L’ho detto: 1964. Le due infermiere si sono guardate. “A letto, ora. Si distenda. Mi dia il braccio”: prelievo e pressione.
I giorni passavano ma continuavo a non capire, ma erano tutti così carini. Sono venuti dei medici che mi hanno fatto un mucchio di domande. Poi mi hanno fatto delle foto. Mi hanno portato in una palestra e mi hanno fatto fare degli esercizi con le gambe, le braccia, mi hanno fatto camminare con gli occhi chiusi.
Mangiavo volentieri, il cibo era buono. Erano tutti gentili, così mi piaceva stare lì. Mi è venuto anche qualche pensiero birichino, volevo fare l’amore con le infermiere.
Poi un giorno ho chiesto perché i miei genitori non sono ancora venuti a trovarmi. Le infermiere si sono guardate e non hanno risposto. E mia sorella?
Non so quanto tempo sia passato. Una sera la psicologa con gli occhi verdi e i capelli rossi mi ha detto che il giorno dopo sarei tornato a casa. “Si ricorda dove abita?”. Che discorsi: in via Airenti, qui a Imperia. L’infermiera ha parlottato con il medico: ma siamo sicuri che possiamo dimetterlo? Poi non ho capito, bisbigliavano. Mi hanno detto che quella è la mia valigia. Mi è venuto a prendere un signore che non conosco, con una grande auto nera. Gli ho chiesto se andiamo a casa, non ha risposto. “Dove sono i miei genitori?”.
Da un grande cancello abbiamo preso un viale di ghiaia, fino a una casa con le finestre rosse. “Siamo arrivati”. “Ma dove siamo? Perché non siamo andati a casa mia?”. Mi ha portato la valigia fino all’ingresso, ha parlato sottovoce con una signora. La donna – una cinquantina d’anni, vestita tutta di nero – mi ha dato un’occhiata indefinibile, come se le fosse arrivato un cane non gradito, poi mi ha detto: “Venga con me”. Abbiamo fatto due rampe di scale, un corridoio lungo e buio, poi con la chiave ha aperto una stanza e mi ha detto senza guardarmi: “Questa è la sua stanza. È fortunato, l’hanno pagata bene. La cena è alle 19”.
Non mi piaceva quel posto. Non mi piaceva. Dov’erano mamma e papà? E mia sorella? Ho guardato dalla finestra, nel buio si vedevano i profili degli alberi di un parco.
Non so come ho fatto. Ho lasciato la valigia sul letto, rifatto il corridoio, le scale, ho trovato la porta ma era chiusa a chiave. Ho aperto la finestra a lato della porta, ho fatto un salto, sì, ho fatto un salto che non credevo di saperlo fare, ho cominciato a camminare, camminare nel buio, guardando le cime degli alberi fino al cancello grande: era aperto. E ho cominciato a camminare, camminare, camminare.
Finalmente delle luci. Un bar. Quando sono entrato si sono tutti girati a guardarmi. Ora telefono ai miei, pensavo. Ho chiesto al barista se aveva dei gettoni del telefono e dove fosse la cabina telefonica. Mi ha guardato come se fossi pazzo. “La… cabina???”. “Quella del telefono…”. L’uomo e la donna seduti al tavolo hanno smesso di parlare e mi fissavano. Poi lui ha bisbigliato qualcosa a lei, lei ha tirato fuori un oggetto nero dalla borsetta e si è messa a parlare con l’oggetto nero. “Chiedo scusa…”, ho preferito lasciare. Me ne sono andato. Frugo nella tasca: non ho soldi, ho pensato. Magari cento lire per un caffè…
Ricomincio a camminare. Finalmente un po’ di gente. La cosa curiosa è che tanti, ma tanti, parlavano da soli con oggetti neri simili a quello che avevo visto in bar. Devo andare in via Airenti, pensavo. Ma non capivo in che parte della città fossi, eppure Imperia non è così grande. Forse sono a Oneglia, devo a andare a Porto Maurizio. È allora che mi sono accorto che non c’era il mare. Basta che vada a Sud, penso, il mare è a Sud. Se trovo la ferrovia trovo anche il mare e quindi so dove sono e arrivo a casa. L’ho anche chiesto, a una signora che sembrava gentile: mi ha guardato sbarrando gli occhi: “Il mare? Ma qui non c’è il mare!…” e se n’è andata, ma continuava a girarsi a guardarmi.
A casa ho la tv. È bella, mamma e papà l’hanno appena comprata, si vede bene anche il secondo, il canale che c’è da poco, anche se il canale più importante resta il Nazionale. Anche l’antenna è nuova, e il tecnico ha cambiato da poco le valvole.
A un’altra signora ho chiesto dov’è via Airenti: “Porto Maurizio, vicino alla Caramagna, da là si sale anche fino a Monte Calvario”. Questa non ha neanche risposto, non capiva proprio cosa volessi.
Ho passato la notte seduto per terra, accucciato a un albero, in un giardino. Non passava nessuno. Avevo fame. Ho anche pensato di tornare nella casa dalle finestre rosse, ma chissà dov’era. Poi la stanchezza ha vinto.
Mi ha svegliato un signore anziano: “Si sente male? Ha bisogno d’aiuto?”, finalmente uno gentile. Mi ha visto smarrito, sporco. Io ho farfugliato non so cosa. Il signore mi ha dato delle monete, e se ne è andato.
Che monete strane.
Sono andato fino al bar laggiù, anche là quando sono entrato si sono girati tutti a guardarmi. Ho camminato con fatica fino al banco: un caffè. “Un euro e 40”. Un… che? Gli ho fatto vedere le monete, ne ha prese due e me ne ha data una di resto. Monete così non ne avevo mai viste. Quando sono uscito mi girava forte la testa. Che fortuna, una panchina. Sembravo un sacco storto.
Qualcuno aveva dimenticato un giornale. Era a colori! Un giornale a colori! Ma non capivo i titoli, parlavano di persone che non avevo mai sentito nominare. Non scrivono come sta il presidente Saragat. Poi vedo la data:
28 settembre 2023.
L’autore:
Roberto Lamantea è nato a Padova nel 1955. Padre pugliese, madre friulana con radici in Austria, ha trascorso infanzia e adolescenza tra Gorizia, Udine, Imperia e il Lago Maggiore. Vive a Mirano (Venezia). Collaboratore della rubrica “Libri” del quotidiano Il Gazzettino dal 1973 al 1980, dal 1988 al 2020 è stato redattore Cronaca e Cultura/Spettacoli del quotidiano “la Nuova di Venezia e Mestre”.
Come critico letterario collabora alla rivista mensile online Fare Voci della Biblioteca Statale Isontina di Gorizia.
Ha ideato e dirige il festival TerraMadre di Mirano. Ha pubblicato sette raccolte di poesia: Eucaliptus (Rebellato 1975), Ibis azzurro (1979), Xilofonie (1994), Nel vetro del cielo (Amos 2006), Verde notte (Amos 2009), Delle vocali l’azzurrità (Manni 2013), Uno strappo bianco (Interno Libri 2021), e il racconto in prosa lirica Il bambino di seta (Amos 2020), oltre a saggi, poesie e racconti su riviste web e in diverse antologie.
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Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Tempo presente ———————
La farfalla di Jackeline
Due poesie
di Xánath Caraza
Jackeline Caal
La niñez perdida y la angustia
corren entre los árboles
para escapar por las
vías que conducen
a otra realidad.
Perseguidas por los perros
sueltos en este bosque
de niebla, el sol se filtra
para evaporar las pesadillas.
Tu cuerpecito en un ataúd,
pequeña niña.
Con tan sólo siete años
cruzaste fronteras,
niña maya.
Tus ojos cerrados llevan
las flores sagradas.
Tus manitas ya no piden maíz.
Nadie escuchó tu llanto.
Nadie sació tu sed.
Jackeline Caal
L’infanzia perduta e l’angoscia
corrono tra gli alberi
a scappare per le vie che conducono
ad un’altra realtà.
Perseguitati dai cani
lasciati liberi nel bosco
di nebbia, il sole filtra
per far evaporare gli incubi.
Il tuo piccolo corpo dentro una cassa,
piccola bambina.
Avevi soltanto sette anni
hai attraversato le frontiere,
bambina maya.
I tuoi occhi chiusi portano
i sacri fiori.
Le tue manine non chiedono più il pane.
Nessuno ha dato ascolto al tuo pianto.
Nessuno ti ha dissetata.
*
La mariposa de Jackeline
Soñaste con campos abiertos
y el calor de un hogar
en las montañas de niebla.
Brazos tejidos te esperan
para envolverte de felicidad.
Vas llena de poesía, niña maya.
Tu huipil bordado de mariposas azules.
Tus manitas quietas cargadas de dorados recuerdos.
Tus ojitos cerrados todavía tienen frío.
Flor y canto eres, niña hermosa.
En estas páginas
una mariposa
con alas de seda
no deja de revolotear.
La farfalla di Jackeline
Sognasti di aperti prati
e del calore di una casa
nelle montagne di nebbia.
Braccia intrecciate ti aspettano
per avvolgerti di felicità.
Vai, piena di poesia, bambina maya,
il tuo huipil ricamato di farfalle blu
le tue manine tranquille, piene di ricordi dorati.
I tuoi occhi chiusi hanno ancora freddo.
Fiori e canto sei, bambina bella.
In queste pagine
una farfalla
con le ali di seta
non smette di volare.
(I due testi di Xánath Caraza qui proposti sono tradotti in italiano da Concepción García Sánchez)
A proposito di “La farfalla di Jackeline”
“La farfalla di Jackeline” di Xánath Caraza (FlowerSong Press, 2022) celebra e ricorda la vita di Jackeline Caal, la bambina di 7 anni originaria del Guatemala, morta quando era sotto la custodia del US customs an Border Protection (CBP), l’8 dicembre del 2018.
Jackeline e suo padre Nery Caal, erano parte di un gruppo di richiedenti asilo che hanno attraversato la frontiera del Nuovo Messico il giorno prima. Si sono consegnati alle autorità attorno alle ore 22, ma quando Jackeline ha cominciato a stare male, a vomitare e ad avere convulsioni, sono passati 90 minuti prima che lei potesse ricevere le cure mediche.
I dottori hanno misurato la sua temperatura corporale, ben 40.9° c.
Jackelin é stata portata all’ospedale infantile di El Paso, Texas, ma ormai era troppo tardi.
Successivamente, la presidente dell’accademia americana di pediatria ha confermato che questo suo decesso era prevedibile.
L’autrice:
Xánath Caraza, originaria di Xalapa in Messico, è poeta, viaggiatrice, educatrice e lavora anche nell’ambito della narrazione e della traduzione. È autrice di venti raccolte di poesie e due raccolte di racconti. È stata tradotta in inglese, italiano, rumeno, greco, nahuatl, hindi, portoghese, turco e francese.
La sua raccolta di poesie “Le sillabe del vento” è stata pubblicata in versione bilingue, spagnolo e italiano, nel 2017 in Italia da Gilgamesh Edizioni.
La traduttrice:
Concepción García Sánchez vive a Venezia, Italia. È artista plastica, muralista, promotrice culturale e arteterapeuta.
Organizza eventi culturali a Venezia per promuovere la cultura messicana e di altri paesi dell’America Latina.
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Nove opere
di Mario Palli
Le altre note ——————
La lobotomizzazione del risveglio
Autostoppisti del Magico Sentiero, “Narci Scisma”
di Giovanni Fierro
Un disco a rilascio prolungato, che si svela piano piano, che sorprende per audacia ed intensità. È questo il nuovo lavoro degli Autostoppisti del Magico Sentiero, a titolo “Narci Scisma” e a sottotitolo “La lobotomizzazione del risveglio”, per delineare ancora di più il loro intervento musicale e sociale.
Perché questo gruppo (Martin O’Loughlin, Marco Tomasin, Franco Polentarutti, Fabrizio Citossi che tiene tutto unito, Federico Sbaiz, Stefano Tracanelli e Alessandro Seravalle) è capace come pochi di creare un magma sonoro che racconta molto bene il nostro presente in ebollizione, di come ormai sia stata superata la temperatura d’allerta e di come la nostra società stia evaporando. In questo lavoro tutto è in evidenza, ogni cosa è al suo posto.
Miscuglio ed intreccio di stili, “Narci Scisma” è fuori dal banale e lontano dall’omologazione. Canzoni come “Il peyote è una benzodiazepina naturale”, “Beat vipassana”, “Amisulpride overdrive” sono composizioni che liberano, sono melodie che stordiscono.
I testi mescolano poesia e giornalismo, sono la narrazione di un presente lacerato, disperato nella sua finta sicurezza sociale e nella affermata singola ambizione personale.
Blues, jazz, funky, cantautorato, sono i cardini mutevoli e caleidoscopici che mostrano l’avventura degli Autostoppisti, con tante sfaccettature.
Perché “Narci Scisma” si rompe, si ricompone, si trasforma, trova melodia, inventa il ritmo, esalta parole che dicono e descrivono.
Qui sono tante le voci, a costruire una possibile lettura, un album che è anche libro, da ascoltare capitolo dopo capitolo, andando a capo, alzando il volume.
E in questo suo raccontare di suono e parole, elenca ed indica gli smarrimenti, gli errori, le aberrazioni, i vuoti. Tutti presenti nel miglior mondo possibile odierno.
E canzoni come “Nuovo ordine provinciale”, “Lettera ad una acciaieria mai nata”, “Il fentanyl allevia lo stress” sono le nuove coordinate del loro rinnovato fare musica, ancora più impreziosito da una nutrita schiera di ospiti (Giorgio Pacorig, Mirko Cisilino, Marco D’Orlando, Aldo Becca, Andrea Balzola, Paola Mongelli, Alberto Blasizza, Ambra Drius, Mirko Jimi) che fanno lievitare la fertilità del loro fare musica.
Gruppo politico in una dimensione di comunità sociale, gli Autostoppisti del Magico Sentiero mettono in questo album una presa di coscienza non allineata, dove ci sono filastrocche per adulti e canzoni per il sacro ancora da venire, ritornelli per il giorno dopo e suoni che disertano. Con tanta anima.
Intervista a Fabrizio Citossi:
Avete sempre dato molta importanza ai testi, e in “Narci Scisma” mi sembra ancora di più che in passato. Difatti, mi sembra proprio che questo album sia piuttosto un romanzo musicato, con ogni canzone come suo capitolo… Cosa ne pensi di questo?
I testi sono il punto di partenza delle nostre canzoni nell’ottanta per cento dei casi, a volte capita che su qualche improvvisazione strumentale collettiva ci piazziamo un testo che diventa in questo caso quasi ornamentale, ma appunto non è la regola.
In fondo sì, questo è proprio un romanzo musicato incentrato sul tema della medicalizzazione del narcisismo patologico.
Alla base del vostro fare musica da sempre c’è una capacità di muovervi con tanta inventiva. Questo album però si nutre di una libertà ancora maggiore. È così? E se sì, che libertà è?
Questa libertà di cui parli è reale e nasce da una reazione alla disperazione che accompagna le nostre vite in questi tempi che tendono al buio. Siamo usciti da un periodo particolarmente difficile, i dischi precedenti erano la somma di intuizioni fondamentalmente nate prima del covid e prima della guerra e poi adattate al periodo che abbiamo attraversato.
Questo disco è maturato invece dal disagio successivo a questa situazione e riflette in fondo la mancanza di risposte a domande, che forse sarebbe meglio nemmeno porsi in quanto non pare sia possibile trovare il bandolo della matassa; e la musica e i testi ne risentono soprattutto nell’assenza di una forma fissa.
È un po’ dylaniamente il nostro “Blood on the tracks”.
Il vostro fare musica è da sempre molto critico con la nostra società contemporanea. Prova ne è il pezzo “Lettera ad una acciaieria mai nata”. Cosa significa mettere in musica uno sguardo così attento alla nostra società?
Invece di nascondere la polvere sotto il tappeto preferiamo gettare l’immondizia fuori dalla finestra, sperando di colpire qualcuno senza provocargli però danno eccessivo; in effetti siamo un collettivo di barbari postatomici, il primo nome del complesso in origine fu “Mad Marx Project”, che poi invece diplomaticamente mutò nel più’ abbordabile “Autostoppisti del magico sentiero”.
E anche il mondo ufficiale della cultura e dell’arte in genere è messo in totale discussione, basta pensare al pezzo che apre l’album, in cui si dice “È ora che il pittore dipinga quadri d’assalto ai vertici delle multinazionali, basta crogiolarsi nel cromatismo figo fine a se stesso”…
Premetto che non è riferito a qualche artista nello specifico, bensì ad un atteggiamento diffuso che raramente contempla la possibilità di ammettere che un’opera sia poco riuscita. A volte le buone intenzioni non bastano e penso sia meglio fallire clamorosamente che adagiarsi sulla poco costruttiva pacca sulla spalla di colleghi e amici.
Questa poi può essere letta come metafora della vita politica di questo italico, sempre irrisolto, paese.
Penso che tutto “Narci Scisma” si muova nella tensione tra il peyote, sostanza naturale di illuminazione culturale, e il fentanyl, sostanza chimica e antidolorifico diventato una vera e propria droga letale. Il vostro cantarne sta propria a dimostrare che lì dentro, in quella tensione, penso si muova tutto questo vostro nuovo fare musica. Sei d’accordo?
Assolutamente d’accordo, hai centrato il punto. Io ci aggiungerei però anche l’iperico.
La tensione eccessiva va’ poi smorzata anche con una camomilla se può in qualche modo contribuire a calmare le acque.
Siamo vittime di un mondo che esige un pedaggio pesante, per ogni alta intuizione illuminante si deve poi tornare di corsa a terra, e se non lo si può ottenere naturalmente si tende a forzare con la chimica, per attestarsi sulla frequenza della consapevolezza collettiva che va’ per la maggiore: la depressione.
Ho proprio la netta impressione che dei vostri dischi questo sia quello più esposto, allo stesso tempo più fragile e più maturo. Mi sbaglio?
Non sbagli, questo disco è una sorta di conseguimento di un diploma che attesta la fragilità del nostro percorso, credo che accettare senza vittimismo alcuno il proprio lato oscuro possa rafforzare anche la luce che sta dentro tutti noi. A patto di non credere che questo equilibrio possa durare per sempre, infatti alla fine questo disco nel profondo parla di morte, di suicidio, di rinascita e redenzione.
È il nostro “Blood on the tracks” versione gospel australe.
Visto che anche in questo progetto la lista degli ospiti è varia ed ampia, mi viene da chiederti: Ma alla fine di tutto, gli Autostoppisti del Magico Sentiero sono un gruppo o una comune?
Credo fortemente nel comunitarismo, nella forza dell’insieme, questo deriva dal mio passato sportivo e umano.
Personalmente ho sempre visto gli Autostoppisti come una sorta di Kibbutz itinerante in cui l’ideale deve stare al di sopra dell’individuo, in fondo siamo tutti qui per servire la band…hahahahahaha!!!
Discografia degli Autostoppisti del Magico Sentiero:
Sovrapposizione di antropologia e zootecnia – 2020
Pasolini e la peste – 2021
Erasmus a Kiev – 2022
Narci Scisma – La Lobotomizzazione del Risveglio – 2024
“Narci Scisma – La Lobotomizzazione del Risveglio” lo si può ascoltare qui ed acquistare qui
Immagini ———————-
Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Ti racconto ————————-
E continua a camminare
Wilma Ducati, “Anime”
di Giovanni Fierro
È un ‘osservatorio importante la raccolta di racconti “Anime” di Wilma Ducati. Perché è uno sguardo partecipato e sincero sul mondo giovanile odierno.
Il suo scrivere è dare voce alle necessità e ai desideri di chi ha una vita davanti, ma anche un quotidiano che certo non aiuta, in una società che sempre di più toglie certezze e possibilità a chi il proprio esistere lo sta iniziando a costruire, con una fiducia che non sempre viene ricambiata.
Così questi sei racconti sono altrettanti ritratti di giovani persone che si confrontano con il mondo e con la realtà in cui sono immersi. C’è Daiana, nel suo attrito esistenziale con “una religione che non accetta compromessi e dove essere adolescente e donna è difficile”, per cui ci si può solamente domandare come si fa a “vivere spaccata a metà tra regole e desideri, paura di deludere e bisogno di respirare?”.
Perché poi i protagonisti di “Anime” hanno ognuno una propria passione, un qualcosa da esprimere e seguire, come Kadir e la sua vocazione più profonda: “ogni suo gesto, anche il più quotidiano, trasuda arte, ricerca estetica, manierismo”. E con la sua arte riesce a dare un senso alla società che vive, un senso al suo appartenere alle proprie speranze, perché è evidente che “la sua è una fotografia che racconta il movimento, il flusso delle persone attraverso la città, il loro penetrarla, il loro amarla oppure odiarla”.
Wilma Ducati descrive e narra, porta in evidenza queste storie che con troppa facilità vengono dimenticate o addirittura ignorate, storie che sono la vita stessa che accade, che si spiega nell’esistenza di queste giovani età alla ricerca di un proprio posto al mondo. E con loro instaura una confidenza, per andare nel profondo, per capire che la domanda più giusta da fare è “Che cosa sogni Fouzia?”.
Istanbul, l’India, l’Italia, Berlino… i protagonisti di “Anime” vivono in una geografia ampia, ma vicina per emozione ed esperienza, luoghi che sono un luogo unico, la loro appartenenza a questo tempo sempre più difficile e delicato.
Un tempo per nulla accomodante, ma nel quale è ancora importante guardare negli occhi chi ti sta di fronte, e poter dire che “Ho cercato la tua anima, ho penetrato i tuoi occhi e navigato, attraverso i mari che si aprono infiniti al loro interno, ma devo ancora riuscire a trovarla”. Ecco la sfida necessaria per il contatto umano tanto desiderato.
Le anime del titolo sono così le vite che hanno bisogno di essere riconosciute ed apprezzate, viste nella loro unicità, e a cui Wilma Ducati dedica il suo raccontare, dedicando ad ognuna di loro un ritratto, con il suo disegnare che va ad aggiungere ulteriore significato ad ogni singolo racconto che compone il mosaico di “Anime”.
Dal libro:
Luca, un dialogo sull’arte
Mi spaventi.
Sei buio. Abisso. Oscurità. Pozzo. Buco nero che tutto risucchia, assorbe, mastica, stordisce, ingoia, risputa, morde, affama, brama, ferisce, eccita, annulla, rigurgita, dissolve, pretende, abbandona.
Sei nero e fatto di pece, una pozza di petrolio oleosa che avvelena di catrame, nelle tue vene scorre china che poi vomiti nelle acque scure dei tuoi mari tempestosi. Tremuli specchi torbidi di nero fumo invecchiato, liquidi e opachi, dove tutto ciò che si riesce a scorgere non è altro che un indefinito movimento di ombre inquietanti. Li immagino infestati da calamari giganti e orribili kraken, anch’essi intrisi d’inchiostro nero e vischioso, brulicanti di turgidi tentacoli indecenti con cui mi accarezzi, mi avvolgi e mi soffochi mentre le tue ventose come sanguisughe si attaccano alla mia pelle, lacerandola e infettandola. Non ti curi neanche di venirmele a leccare, poi, quelle ferite aperte; ti avvicini e basta, piuttosto, con lo sguardo curioso e avido, sembri quasi ammirarne il risultato purulento, come fosse una tua oscena opera d’arte. Sei soddisfatto, il tuo labbro si alza impercettibilmente in un ghigno di sadico compiacimento. Eccitazione. Potere. La mia carne, straziata dalla tua mente sanguina, pulsa, ribolle, prude, brucia, mi rende irresistibile l’istinto di toccarmi, grattarmi, placare in qualche modo quel fuoco che m’infiamma non solo la pelle, ma penetra fin dentro le viscere.
Scava.
Dilania.
Corrode.
E tu ridi.
Ma lascio ugualmente che quell’oscurità liquida e densa s’impadronisca di me sfiorando e carezzando piano il mio corpo, lambendo le mie carni aperte e rosse, mentre una strana sensazione mi assale, un misto di paura ed eccitazione nel realizzare quale ignota profondità si celi sotto di me e quanto sottile sia il confine. Repulsione e attrazione insieme, un’ipnosi che mi culla vincendo ogni mia resistenza e alla quale mi abbandono, senza difese.
Intervista a Wilma Ducati:
Un punto cardine dei racconti/ritratti di “Anime” è il bisogno/desiderio, che ogni protagonista ha, di esprimersi. Quanto è importante tutto questo? E in che modo si manifesta per ognuno di loro?
Credo sia più un bisogno, che un desiderio, per i protagonisti di “Anime”; rappresenta un quid necessario, vitale quasi quanto lo stesso respirare: se non si ha la possibilità di esprimere liberamente la propria anima, la vita è un’esistenza vissuta solo a metà, quando non una gabbia. I miei personaggi sono anime in lotta e in divenire, in cerca del loro posto nel mondo e della forma più adatta a rappresentarli.
Per Daiana è affrancarsi da una religione imposta che scandisce il ritmo della sua quotidianità e le impedisce di inseguire i suoi sogni di musica e libertà. Kadir più che esprimersi vuole espandersi: perfino una città come Istanbul gli appare piccola e inadatta a contenerlo; cerca più spazio, struggendosi in una realtà che non gli sembra abbastanza e agognando l’Italia come meta ultima delle sue aspirazioni. Luca, un moderno Giano, è in lotta con se stesso e la sua doppiezza, dove ora il buio, ora la luce prendono il sopravvento e questo si riversa nelle sue opere, le cui tempeste ricordano le tele di Turner, dominate dai forti contrasti. Fouzia vive in India, una società ai nostri occhi obsoleta e retrograda, dove l’emancipazione femminile viene scoraggiata in ogni modo a favore di un ruolo passivo e conservativo fatto di doveri e accudimento, con pochissimo spazio per l’individualità. Spesso le donne sono vittime di un destino già segnato e questa malinconica rassegnazione traspare chiaramente dal suo sguardo. Jean-Baptiste ha rinunciato a tutto per dedicarsi alla musica, ma una simile vita nomade impedisce l’instaurarsi di relazioni durature e dà un senso di provvisorietà a tutto.
La mia necessità di esprimermi, infine, mi ha portato a mettere in discussione la mia intera vita e a stravolgerla sin dalle fondamenta, consapevole di vivere il ruolo che avevano deciso per me, non le mie reali attitudini e aspirazioni.
Perché poi riuscire a trovare spazio per le proprie espressioni mi sembra che possa significare anche il trovare la propria identità, il dare forma al sé… È così?
Assolutamente. Siamo fatti di passioni ed emozioni, di pensieri che cercano e prendono forma, definendoci. Siamo argilla nelle nostre stesse mani, ci plasmiamo giorno dopo giorno, inconsapevolmente, attraverso l’elaborazione di quelle emozioni e di quei pensieri. Siamo tutti passeggeri in un continuo viaggio alla ricerca di noi stessi e del modo per esprimere chi siamo.
Credo che, soprattutto in ambito artistico, questo desiderio si senta più forte, fino a trasformarsi in un vero e proprio bisogno, una conditio sine qua non, come detto prima. Per l’artista creare è vitale, è la forma più congeniale non solo per esprimere il proprio sé, ma anche per comunicare, decodificare il proprio universo interiore e veicolare il proprio messaggio, che a volte prende addirittura i contorni della propaganda e del manifesto politici e sociali.
Mi vengono in mente Picasso e la sua “Guernica”, o ancora la stupenda “Libertà che guida il popolo”, di Delacroix, ma gli esempi sono innumerevoli. Per altri, riuscire ad esprimersi ha rappresentato salvezza e redenzione: penso a Frida Kahlo, che ha trovato nella pittura un’ancora nel momento più difficile e, attraverso i suoi dipinti, il modo per esteriorizzare tutto il suo dolore, fino quasi a esorcizzarlo, grazie al potere terapeutico dell’arte.
Oggi viviamo in una società in cui c’è poco spazio per l’arte; nella vita di tutti i giorni, essa viene vista come qualcosa di marginale, di superfluo e, di conseguenza, quello dell’artista non viene considerato un lavoro, ma quasi un hobby, per cui, chi lo chiami e lo viva invece come tale, viene etichettato come perdigiorno, sognatore, irresponsabile. Spesso ci si rassegna allora a stili di vita più borghesi e consoni dal momento che, anziché trovare sostegno, ci si scontra con un muro di incomprensione o, peggio, di scherno.
Ed è qui che ci si spegne, proprio perché si rinuncia alla possibilità di dare forma al sé, arrendendosi ad una vita in prestito in una forma che non è la propria.
Comunque un tratto comune a tutti i protagonisti è il cercare di uscire da situazioni dove non si vive la libertà, né la propria né quella altrui. È ormai la nostra società ad essere così limitante? O cos’altro ancora?
La società riveste sicuramente un ruolo importante e la cosa più preoccupante è che non accade solo in Italia, ma, come abbiamo visto, anche in altri Paesi, più o meno lontani da noi. Crediamo di vivere nell’epoca della libertà per eccellenza, in cui teniamo il mondo nel palmo di una mano e ogni possibile informazione è a portata di un click.
Ma penso che, invece, mai come oggi ci siamo sentiti così insicuri e inadeguati, schiavi di qualsiasi cosa. Colpa di una società che ci vuole iper-performanti in ogni ambito della nostra vita e ci fornisce modelli distorti e poco verosimili, il cui confronto ci vede inesorabilmente uscire perdenti e questo diventa causa di stress, insoddisfazione e depressione, ulteriori insicurezze. Siamo sopraffatti da aspettative e doveri, responsabilità e impegni. Siamo divoratori di un consumismo che ci divora, per appagare un superfluo che la società ci spaccia per necessario il denaro non basta mai, ogni giorno soffriamo il paragone e la competizione con gli altri, in un mondo dominato dal materialismo sembriamo condannati a dimostrare di avere più degli altri, per imporre il nostro valore e il nostro stato sociale.
La vita sembra un’interminabile corsa a ostacoli che ci lascia esausti e demotivati. Siamo influenzati, condizionati, tutto il contrario di liberi. Ma non è solo responsabilità della società che ci chiede troppo: per indole, siamo inclini al sacrificio, spesso anteponiamo il benessere degli altri al nostro, anche quando questo sia sbagliato, anche a scapito della nostra stessa felicità.
Capita che siamo noi stessi i nostri carcerieri, e neanche ce ne rendiamo conto, perché manchiamo di autoconsapevolezza e non siamo adusi all’ascolto di noi stessi e all’autoanalisi; se lo facessimo, ci accorgeremmo che magari potremmo essere molto più liberi di quanto ci sentiamo, se solo la smettessimo di rincorrere sogni impossibili e standard inarrivabili. Dimentichiamo di cercare la libertà dove è più facile trovarla, cioè dentro di noi.
“Anime” è una raccolta di racconti ma anche di ritratti in forma di disegno. Che rapporto ha lo scrivere con il disegnare? Quale la loro vicinanza, il loro dialogo?
Scrittura e disegno hanno la stessa origine, nascono dal segno e sono entrambi immagini. Nella prima, esso si fa parola, nel secondo diventa illustrazione. Credo esista tra i due un legame inscindibile e primordiale, quasi alchemico. La scrittura e il disegno sono nati per la stessa necessità e con lo stesso scopo, quelli di testimoniare e raccontare; che fossero i graffiti preistorici o i geroglifici egizi, passando per il cuneiforme sumero, l’uomo ha sempre usato l’immagine per comunicare.
La scrittura vera e propria si è sviluppata solo in seguito come sua naturale evoluzione, quando si è pensato di associare a un segno non più un oggetto o un concetto, ma un fonema. Per entrambi, è il tratto che decodifica e traduce ciò che di astratto abita la mente, dandogli forma e rendendolo comunicazione, messaggio, intenzione.
Considero il disegno e la scrittura come due diversi modi di raccontare la stessa storia, per cui credo siano intimamente connessi, non forzatamente intercambiabili, ma sicuramente complementari l’uno dell’altro, come in uno sposalizio perfetto. Ed è un connubio che funziona da sempre, come testimonia il celebre “Hypnerotomachia Poliphili” del 1499, forse il più bel libro nella storia della stampa, con le sue 170 xilografie a corredo del testo.
Da allora, parola e disegno hanno spesso camminato fianco a fianco, arricchendosi a vicenda. Ed è di questa complementarità che ho voluto servirmi, in “Anime”: da un lato, un ritratto in forma di disegno, immediato, d’impatto; in un solo istante si ha la veduta d’insieme e l’emozione che essa comunica, solo secondariamente ci si sofferma sui dettagli. Dall’altro, invece, un ritratto in forma di racconto, che funziona in maniera opposta: immagine, pensiero ed emozione si costruiscono a poco a poco, parola dopo parola, cesellandosi nella nostra mente fino a creare l’immagine intera ed è solo allora che queste due immagini si fondono l’una con l’altra, restituendoci il ritratto completo.
La musica è protagonista assoluta di questi racconti. Quale il suo ruolo all’interno di queste storie raccontate?
La musica, come potere salvifico, ma anche come semplice sottofondo, è un leitmotiv che riecheggia lungo tutta la narrazione, è la sua colonna sonora. In Daiana, la musica rappresenta la chiave per la libertà, ciò che le ha dato il coraggio di affrancarsi e che si è trasformato in un riscatto, dando alla sua vita una direzione che non sarebbe stata possibile altrimenti. Jean-Baptiste è un chitarrista, la musica è la sua ragione di vita, ma nello stesso tempo la sua maledizione, perché gli ha dato ma gli ha anche tolto tanto: se da un lato è la sua migliore amica, il suo rifugio, il suo modo per interagire con il mondo esterno e comunicare le sue emozioni, dall’altro rappresenta ciò che più lo isola e lo rende solo, perché lo condanna a una vita da giramondo, priva di radici e stabilità, affetti.
Ho voluto inserire un clarinetto, in Kadir, che si ripresenta in apertura e in chiusura della sua storia, come fosse un sipario, perché trovo le melodie di Şenlendirici particolarmente evocative e perfette per trasmettere i sentimenti combattuti del protagonista e quella malinconia tipicamente turca che sembra adagiarsi sulla città come un velo. Anche in Fouzia s’affaccia un palpito musicale, con il richiamo alla danza del ventre e i suoi veli, gli strumenti tipici della tradizione indiana e i suoi canti; sono suoni senza tempo, antichi e moderni insieme, statici nel loro lento fluire attraverso i secoli, metafora perfetta di questo Paese. Ma anche dove la musica non sia esplicitamente protagonista, è comunque onnipresente e arriva, come suggestione, sfondo o ritmo della narrazione stessa: lento, adagio, incalzante, prestissimo.
Questo aspetto si nota soprattutto in Luca, in cui l’esasperata lentezza dell’osservazione si alterna alla velocità della voragine che inghiotte. Chiudo raccontando di come qualcuno mi abbia detto che, durante la lettura del libro, sembrava quasi di sentirne anche la musica, ed è una delle cose più belle che ad oggi mi siano state dette su “Anime”.
L’autrice:
Wilma Ducati ha vissuto sull’Appennino modenese e in Sicilia. Vive a Mantova dove ha studiato. Ha lavorato in una galleria d’arte e in una libreria. Da sempre è attratta da scrittura e pittura.
(Wilma Ducati “Anime” pp. 100, 18 euro, NFC Edizioni 2024)
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Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Tempo presente ———————-
Ma corre la mia lancetta delle ore, superandomi
Tre testi inediti
di Eleonora Laura Pasqualetto
Il sonno ci ha spaesati
al via un lesto rimbombo d’armadi,
vestiti scoloriti nel corridoio al sole
pizzicano mascelle e i capelli cadono
dalla rabbia notturna, saltellando su una scarpina
sciolti i dolci alla crema:
non ho riguardo
dite a me, la più discosta tra i due
– ma corre la mia lancetta delle ore, superandomi
accorcia coperte carte specchi
mi addormenta senza svestire
in breve, sono in ritardo per i vostri centritavola
da ieri e da mesi in là
dall’essermi cullata in
un unico anellino d’ora finissima.
Ormai è sera rimproverate,
non guardateci le guance
a furia di rasentare tappeti d’aghi
incuranti se non dell’anellino andato perduto
tondo abbandono d’un’ora.
Qui tira aria dolcifera, perdonateci, rientriamo
per domani è già tardi
dovremmo addormentarci adesso camminando, inginocchiandoci.
*
È lei che ha versato il latte
sul chiuso cielo sopra la via del rientro,
a chiudere il barattolo di minestra
è lei, pieno pieno,
pungendomi con erba madida per il ritardo,
a spegnere il paesino, che piangano,
che io senta le mura scavalcate
e i fossi stracolmi in mia assenza,
è stata lei a condurmi in pomeriggi da dove non si torna,
il giorno dopo alla uguale casa con il mal di mare
lei a domandare se ho male, sì,
e, come sai, mi è caduto il sapone
per lavare di singhiozzi le scale.
Lei mi ha consegnato alle ville d’alberi
dopo il viale in nebbia,
e riportato la domenica in tempo
che si inginocchiassero le ombre.
Non una parola
ma disposti i piatti caldi,
il velo sopra la campana gelida,
solo, chiede quando dalla fuga
tornerò a dimora in lei
accanto allo spavento.
*
Da dentro l’albero, una volta vigilavo
sulla suddivisione della giornata
dal rimaneggio degli stracci
al botolare nella cantina,
fiutavo i pomodori marci e il pericolo
del nascondiglio – o del far nulla.
Impeccabile amministratrice dei sassolini
spariti ad ogni rintocco nel tombino,
alle cinque filavo in un angolo della carta –
attendibile carta disegnata e ridisegnata nelle perlustrazioni –
avendo scovato un albero spazioso
se non per un ramo scomodo.
Lì, da vigile mappatrice
annotavo lo sparire della mappa:
il ritirarsi dei lavori attorno alla casa –
le prime urla del mio nome – sonanti mestoli appesi.
L’autrice:
Eleonora Laura Pasqualetto, nata a Venezia nel 2001, studia alla facoltà di Medicina e Chirurgia di Padova e divide le proprie giornate tra studio e scrittura. Nel 2023 è stata tra i vincitori del concorso di poesia Niccolò Bizzarri, fondato dall’associazione Amici di Nicco, con cui ha pubblicato una selezione di poesie nell’antologia “Ogni giorno vinco una guerra senza che nessuno se ne accorga” (Società Editrice Fiorentina), dove è presente “È lei che ha versato il latte”.
A maggio 2024 è stata invitata a recitare il componimento “Il sonno ci ha spaesati” al Teatro Galli, in occasione dell’inaugurazione del Meeting di Rimini. Nella stessa estate ha preso parte al festival della poesia di Montalto delle Marche con altri giovani scrittori.
Alcuni dei suoi racconti sono stati premiati a vari concorsi di scrittura, come Famelici al Premio Valerio Gentile 2021. Nell’autunno dello stesso anno ha vinto il Mitreo Film Festival con la sceneggiatura “Troppo pomeriggio”.
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Sinopie
Nove opere
di Mario Palli
Voce d’autore ———————
L’abbraccio di una mancanza già arresa
Roberto Maestri, “Ero destinato a qualcosa d’altro”
di Anna Piccioni
Probabilmente molti si chiedono se la vita vissuta è quella che ci siamo immaginati oppure le circostanze ci portano a seguire un cammino che forse ci è stato destinato, ma poteva essere anche un altro. Quando guardiamo dentro di noi e volgiamo lo sguardo indietro troviamo momenti in cui forse avremmo dovuto dire qualcosa di diverso o in più, oppure fare altre scelte, incontrare altre persone. Questo ce lo diciamo tutti, ma la nostra vita è questa e non quella che sarebbe potuta essere, non saremmo nemmeno noi.
Questa riflessione nasce dal titolo della silloge di Roberto Maestri, “Ero destinato a qualcosa d’altro”, una raccolta di versi che portano a una dimensione metafisica e onirica.
L’ IO è dominante, Roberto Maestri parla di sé, “Scrivo di me stesso/ perché so di non sapere/ degli altri mondi che mi vivono accanto […] scrivo di me stesso/ perché sono somma degli avi/ che hanno tracciato il cammino”. È un viaggio interiore dove la parola prende la sua essenza e rimanda al lettore emozioni in uno stato empatico.
Un comune sentire avvolto da elementi semplici che rimarcano un sentimento ricorrente, la mancanza: “Sempre cercavo l’abbraccio di una mancanza già arresa” e poi “dei miei fili argentati di sottile mancanza…o un appiglio mancante, perché il mio sguardo non può toccare le tue mani”. Nelle prime liriche si intuisce un dolore per un’assenza che ha segnato un solco profondo: il padre, figura dominante, ma con il quale non c’è stato il tempo o la capacità per parlarsi. Rimpianti, per parole non dette per parole non capite,
Un altro topòs ripreso più volte è il cammino e i passi che seguono quel camminare in equilibrio: passi – rumore di passi che non sanno essere discreti, “passi spenti echeggiano tra i muri/ orme vaghe si allontanano in silenzio”.
Mancanza, attesa, speranza e nostalgia, sono stati d’animo umanamente profondi, ma il cammino è inevitabile passo dopo passo: “passi silenziosi e passi che non sanno essere discreti, a volte in equilibrio sull’orlo di un abisso”, nella ricerca di un appiglio mancante, forse quei rami protesi come ad accogliere in un abbraccio. Poi si arriva a un punto in cui quei rami si scavalcano perché i “passi sono suoni”.
Forse sono inutili percorsi che allontanano dal passato, facendo crescere la nostalgia; e allora si ingannano i pensieri con sogni straordinari e poi si precipita in un abisso per una prospettiva illusoria; e c’è ancora un echeggiare di vaneggiamenti di un evanescente ricordo.
Ma bisogna continuare il cammino con passi che risuonano su un terreno già percorso, forse quello dei nostri avi: “Di ogni tempo i suoi segni/ in silenzio ad osservare/ testimoni di vite/ casualmente passate./ Ora io come loro/ camminando mi accorgo/ di non essere altro/ che un ricordo a venire”.
dal libro:
Solitudine
Solitudine ho cercato
in un mare di silenzio.
Illusione di un momento
giocato a scacchi con il destino.
Delle mosse solo il vento
ha compreso il mio sentire.
Non l’alfiere la il cavallo
sono affini al mio sparire.
*
Scambi
Sguardi celati
da parole non dette
come silenzio
segnato dal niente.
Lieve il contatto
in quella sera di parole.
*
Punti di vista
È fatica raggiungere
l’impossibile colmo
reclinato sul piano
di vane domande.
Un punto di vista
è la vista da un punto
e la salita è discesa
se la osservi dall’alto.
*
Per lungo tempo
Per lungo tempo
sono rimasto ad aspettare
fantasticando il tuo viso
quasi nascosto: in un sorriso,
in una lacrima, in un motivo,
nelle risposte
che troppo spesso hai celato,
in quei colori
che non sapevo afferrare.
Intervista a Roberto Maestri:
Quando nasce la tua necessità di scrivere?
Non saprei dire se c’è stato un momento preciso. Di sicuro fin dall’adolescenza ho avuto l’abitudine di scrivere pensieri e poesie che non erano destinate a potenziali lettori, ma restavano nei miei quaderni ad uso esclusivamente personale. In pratica non mi sentivo pronto per essere uno scrittore ed ero consapevole di dover prima passare attraverso la migliore scuola di scrittura che possa esistere: la lettura dei classici e di tutto ciò che possa costituire un’ossatura della letteratura nel senso più ampio possibile del termine.
Da qui la nascita di una passione, quella per la lettura, che ormai è diventata una necessità di vita e anche un’attività legata a progetti editoriali. Solo recentemente, anche a causa della reclusione forzata dalla pandemia e della pensione raggiunta, ho cominciato a riordinare i miei scritti e a produrne altri in maniera sistematica, tanto da trasformare un’attività sporadica in qualcosa di organico e presente nella mia vita, fino a sentire l’esigenza di avere anche dei lettori. Ora mi sentivo pronto.
Da qui la ricerca di un editore per pubblicare quanto avevo fin qui prodotto e il caso ha voluto che incontrassi sulla mia strada una casa editrice, Le Lettere Scarlatte, con la quale è iniziata una collaborazione molto proficua.
La mancanza è presente nei tuoi versi e si intuisce che la figura mancante è tuo padre…
Guardando indietro il percorso di una vita ci si accorge che le mancanze sono a volte più importanti di ciò che abbiamo attualmente, specialmente quando, com’è il mio caso, si è superata una certa soglia nell’età.
La figura del padre incide sempre molto nella vita di un figlio e la mia è stata purtroppo caratterizzata da un’assenza in termini di relazione. Mio padre non è mai riuscito a interpretare un ruolo di guida o esempio per me, a causa anche di limiti oggettivi che ho compreso solo molto tardi, essendo a sua volta cresciuto senza padre, morto in guerra quando lui era molto piccolo e di cui non conservava il ricordo. Solo in età adulta ho potuto comprendere questo aspetto della sua vita e perdonare così mio padre.
Purtroppo la cosa è avvenuta quando lui non c’era più e la riconciliazione non è potuta avvenire di fatto. Questo rimane un grande rammarico per me. Ho cercato con i miei versi di indagare questo sentimento e penso di esserci riuscito, almeno per quanto riguarda l’aspetto introspettivo e di autoanalisi.
Il cammino che molto spesso evochi è il viaggio della vita, un andare avanti, ma in una poesia (“Ho lasciato la casa vuota”) lasci una luce accesa come inganno/nell’illusione di un ritorno…
Nel corso dei miei anni ho vissuto in quattro città: Genova, Milano, Trento e adesso Trieste e ho cambiato un’infinità di case. Ogni volta, nel momento di chiudere definitivamente la porta dietro di me, ho provato un sentimento di separazione e la consapevolezza che ciò rappresentava la chiusura di un capitolo della mia vita.
Lasciare acceso uno spiraglio di luce, anche virtuale, mi ha permesso di non perdere il ricordo ma anche il senso del mio vissuto in quelle case, nel bene e nel male, convinto come sono che ciò che sono oggi è comunque il frutto delle azioni nel mio passato.
Non ti consideri un Poeta, per il tuo rispetto per la Poesia: allora ti chiedo chi è un Poeta?
Fabrizio De André riportava spesso una frase che attribuiva a Benedetto Croce: “fino a vent’anni tutti scrivono poesie; dopo rimangono a scrivere i poeti e i cretini. Io (Fabrizio De André) per non correre rischi, ho scelto di fare il cantautore”.
Da questo assunto ho ricavato un estremo pudore nel definire ciò che sono. Non credo che per essere definito un poeta sia sufficiente scrivere poesie. La condizione di poeta si raggiunge negli atti e nei modi di un vivere quotidiano che rammenti poesia, qualità che in una mia poesia contenuta nella raccolta, attribuisco solo ai gatti.
Dalla biografia risulta che la fantascienza è una tua grande passione: come si equilibra la scrittura fantascientifica con la poesia?
Nelle mie letture ho sempre spaziato in vari generi senza preclusione alcuna. La fantascienza però ha lasciato in me un segno profondo sin dai primi romanzi che ho incontrato.
Ho sempre considerato quel genere una metafora di ciò che siamo o di ciò che potremmo diventare, come esseri umani e come società in cui viviamo. Oppure l’incontro e il confronto con l’alieno, il diverso, la minaccia dell’invasione subita o perpetrata, tutte cose che mi pare non siano troppo lontane dal presente.
Da qui un interesse sempre crescente per autori che non hanno niente da invidiare ai più acclamati della letteratura cosiddetta alta, visionari al punto di mostrare direzioni pericolose che, anche inconsapevolmente, stiamo intraprendendo.
Nato in una città di mare, ritorni in un’altra città di mare, pur avendo vissuto per molto tempo tra i monti. Come spieghi questo richiamo del mare?
Ho vissuto vent’anni in Trentino e non rinnego nulla di quell’esperienza. Ho anche la fortuna di avere una moglie trentina di conseguenza mantengo sempre un piede puntato fra quelle montagne. Allo stesso tempo, una volta conclusa la mia vita lavorativa e raggiunta la pensione, ho sentito la necessità di poter spaziare con lo sguardo, ritrovare quell’orizzonte che per vent’anni mi era stato precluso. Nascere al mare ti lascia dentro una sensazione, un bisogno di apertura che la montagna non ti può dare e per tutta la vita ho avuto la certezza che prima o poi avrei ritrovato quel rapporto con l’infinito che solo il mare ti può dare.
Il mare è possibilità: di incontro, di spazio, di arrivo e di partenza; il mare ti porta a pensare che oltre ci possano essere mondi da esplorare, ma ti fa anche comprendere i limiti del tuo essere, incute rispetto per ciò che non è precisamente definito e definibile e apre il pensiero in tutte le direzioni possibili. Il mare è necessità.
L’autore:
Roberto Maestri (Genova, 1957) ha vissuto a Milano e Trento. Dal 2021 vive a Trieste.
Counselor filosofico, ha lavorato come Animatore Socio Educativo in un’Azienda Pubblica di Servizi alla Persona a Trento. Ha collaborato alla realizzazione di vari documentari prodotti dalla Fondazione del Museo Storico del Trentino.
Attore e organizzatore di eventi culturali, è fondatore di Teatroovunque, gruppo teatrale operante nei luoghi di cura.
Collabora con la Comunità San Martino al Campo in qualità di redattore del periodico semestrale Il Punto e il Punto online e l’Associazione ARIS.
Ha partecipato in qualità di editor e voce narrante alla realizzazione dell’audiolibro “Yen Tze Pien“, di Carlo Crescitelli.
Ha pubblicato nel 2024 con la casa editrice Le Lettere Scarlatte di Trieste la silloge poetica “Ero destinato a qualcos’altro” con la quale ha vinto il Premio Speciale della Giuria come miglior autore per la Regione Friuli – Venezia Giulia alla 30ª Edizione del premio Nazionale di Poesia inedita Ossi di Seppia.
Gestisce un blog di recensioni letterarie e la relativa pagina Facebook L’anello di Clarisse. È curatore della collana Violet Gibson / Fantascienza del Nord Est per l’editore triestino White Cocal Press.
È membro della giuria del Premio Cassiopea per la letteratura di fantascienza e presidente della giuria per il Premio Cittadella per la letteratura Fantasy.
https://lanellodiclarisse.blogspot.com/
(Roberto Maestri “Ero destinato a qualcosa d’altro” pp. 99, 10 euro, Le lettere scarlatte edizioni 2024)
Intervista a Mario Palli:
di Giovanni Fierro
La sinòpia, per sua stessa definizione, è un lavoro preparatorio. E le sinopie protagoniste della sua ricerca artistica danno l’idea di accogliere chi vi si pone di fronte, e forse proprio allo spettatore è riservata la responsabilità, con il proprio sguardo, di completarle, di aggiungere e finire l’opera. Cosa ne pensa di questo?
Non ho mai dato troppa importanza ai titoli dei miei quadri, ma ricordo che parecchi anni fa, avevo usato un titolo che poi ho ripetuto parecchie volte: IMMAGINE VESTITA / IMMAGINE SPOGLIATA.
In sostanza, una sinopia a vista è una sinopia parzialmente coperta o tutta coperta. Metafora di un affresco, pittura in divenire, è proprio in questa dimensione che si può trovare lo spazio dove si innesca una lettura del quadro, aperta a più interpretazioni.
Questi lavori mettono in risalto il colore scelto, gli danno la responsabilità di un accadere artistico che diventa quasi un gesto espressivo. Perché ci si rende conto di stare di fronte ad un qualcosa che sembra celare un accadere emotivo, ma che invece lo espone, lo rivela nell’intensità e nell’identità del colore proposto ed esplorato. Quindi in che modo sceglie i colori che utilizza e a cui affida la sua espressione artistica? E cosa affida a loro del suo fare arte?
La superfice e il colore sono indissolubili. L’affresco (praticato da studente) mi ha arricchito molto sulle molteplici combinazioni cromatiche, ma soprattutto per la vitalità delle velature e delle trasparenze. Il colore oggi, vive in tre dimensioni, grazie ai materiali (legno e tela): il colore sotto, il colore dentro e il colore sopra. La somma finale di questa stratificazione cromatica attiva una particolare percezione visiva che dà al colore una metafisica profondità.
Parte integrante, e fondamentale, di tutte queste sue sinopie è il tessuto che affiora, la tela che si mostra per quello che è. Un supporto, certo, ma anche un qualcosa di apparentemente marginale che diventa protagonista. Che crea una grammatica espressiva significativa. È così?
La scelta della tela, risale agli anni’70 (anni della pittura analitica). I materiali del fare pittura erano prioritari in alcuni casi essi stessi espressione. La scelta della mia tela, non è un caso, ma rappresenta l’aggancio con l’affresco in quanto viene usata come supporto negli strappi e negli stacci d’affresco, essendo di trama larga e molto resistente.
La sua fibra naturale (lino) gioca un ruolo fondamentale nel mio lavoro, in quanto mi permette di giocare sulla terza dimensione, grazie alla sua trasparenza. Attraverso la sua trama il colore passa dal supporto in legno, ai fili della trama e alla fine sulla superficie, dove si completa il processo cromatico.
Perché poi, se si vuole anche dare uno sguardo a ciò che sulla tela non c’è, mi viene da dire che questo suo lavoro è anche una riflessione su ciò che ancora manca. Su una assenza che è da indagare, da definire. Che assenza è? O può essere?
L’assenza è preludio di infinito. È uno stimolo creativo per trovare nella complementarità delle presenze e assenze, anche piccoli segni ma amplificati e arricchiti da nulla.
Ma questi lavori, in aggiunta, permettono anche di vivere una sospensione, in cui è richiesto (ma anche permesso) il tempo per riflettere; cosa che nella nostra società contemporanea ormai non c’è più è sempre meno incoraggiato. C’è anche questo alla base delle sue sinopie?
Giuseppe Marchiori, critico d’arte (fronte nuovo delle arti) in una presentazione del catalogo 1978 di una mia personale, alla Galleria d’Arte Contemporanea Luigi Spazzapan; scriveva “Non conta più lo sguardo della convenzione visiva. I colori alludono a orizzonti lontani, che non si possono definire, come fatti, per la loro origine, trascendenti l’idea di “rappresentare” in un distacco definitivo da qualsiasi rapporto con la realtà”.
Nei miei numerosi viaggi fatti in oriente, il coinvolgimento del non tempo, ha consolidato in me un forte concetto di riflessione che mi ha portato alla ricerca dei valori essenziali e all’azzeramento del superfluo (nella pittura).
Tutti questi lavori hanno un proprio suono, un riverberare che si racconta. Sono poche le note, come pochi sono i colori che usa, però si vive un senso di sacralità, con la netta percezione che ognuna di queste sinopie si stia muovendo verso un assoluto. Verso una verità di cui abbiamo bisogno….
Mi permetto di usare ancora il critico Marchiori: “Palli si è chiuso in un ordine che non ammette nulla al difuori di un calcolo preciso, nel quale si riassume una esperienza rinnovata dalle lontane fonti suprematiste. Questo preciso richiamo delimita un campo che non lascia un minimo spazio alle “avventure” dominate dalle magie surreali. Il discorso si avvicina così a un tipo di “verità” che nasce dal rigore concettuale e che si esprime limpidamente nei ferrei limiti spazio-temporali”.
Così la riduzione dei colori e la rappresentazione dei campi cromatici trovano la loro armonia nel silenzio dell’assoluto.
Anche la geometria è un attore importante che entra nella scena che lei prepara. Quale il compito di questa geometria? Trovare a questi lavori la propria giusta posizione nello spazio, ipotizzare un ordine che può dare loro equilibrio? È una collocazione esistenziale? O cos’altro ancora?
Sempre dal catalogo del 1978, scrivevo tra le altre cose “Pittogramma = immagine concreta, impenetrabile, non illusionistica, appartenente a un linguaggio seriale in proiezione. Gli elementi che lo caratterizzano sono: la struttura, la superficie e il colore. La struttura appartiene al telaio del quadro (forma, dimensione, spessore) e stabilisce i rapporti primari tra grandi superfici e piccole superfici del campo, definendo i punti nodali di stacco per un possibile smontaggio del pittogramma”.
La geometria gioca un ruolo di presenza latente, lasciando grandi spazi vuoti all’immaginazione e alla meditazione, ed è parte integrante con la natura dei materiali.
L’artista:
Mario Palli è nato a Gorizia nel 1946, si diploma nel locale Istituto Statale d’Arte e si trasferisce a Venezia dove frequenta la “sezione affresco” del Magistero d’Arte, concludendo gli studi nel 1965. Dal 1967 insegna disegno dal vero e pittura negli Istituti d’Arte di Gorizia, Bari, Trieste.
Dal 1979 si dedica alla sperimentazione grafica su carta fatta a mano e partecipa a tutte le più importanti rassegne internazionali, ottenendo molteplici riconoscimenti. Razionalità e rigore concettuale sono le note dominanti del lavoro di Palli che, dopo un esordio “gestuale“, giunge, verso la metà degli anni settanta, alla precisione geometrica dei Pittogrammi, elementi modulari monocromi assemblati ritmicamente. Ma la pittura non è solo superficie e, fin dalle prime opere, l’artista pratica il graffito per scalfire la prima impressione visiva, per far affiorare le tracce sottostanti: la pittura da cavalletto diventa metafora dell’affresco, la difficile e antica tecnica che ha segnato la sua formazione.
Verso la metà degli anni ottanta, Palli denomina i suoi dipinti con il termine di Sinopie per segnalare che la prima idea dell’opera sta sotto la tela, esattamente come le sinopie stanno sotto l’intonaco dell’affresco. Con tecnica raffinatissima sovrappone più tele, diradandole talvolta con sfilature per lasciar riaffiorare gli strati sottostanti, per far emergere, in forme nuove e altamente evocative, il divenire dell’opera che muta il progetto iniziale ricomponendosi in un nuovo equilibrio.
Nelle opere degli ultimi anni il “fare pittura” di Mario Palli si è ulteriormente affinato: eliminati gli interventi “invasivi” di sfilatura, la tela compenetra la sinopia. L’alterità tonale viene armonizzata con interventi a secco, mentre limitate e brillanti campiture superficiali evidenziano le stratificazioni del tempo, rimandando alla storia secolare di vecchi muri. L’artista vive e opera tra Gradisca d’Isonzo, Volcji Grad (Carso, Slovenia) e Lubiana.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.