E siamo giungi all’ultimo mese dell’anno.
“Fare Voci” nell’augurarvi buone feste, vi propone una nuova scelta e condivisione di autori ed autrici, di artisti e di firme, nel nostro continuo cercare rinnovate scritture e nuove letture del nostro presente.
Ad iniziare da Umberto Piersanti, voce unica nel panorama italiano, e il suo riflettere sul tema “Memoria”.
Assieme a lui Giuseppe Nibali, figura di riferimento per la poesia contemporanea, con il suo “Eucariota”, lavoro che si avventura nelle letture possibili della nostra società contemporanea.
Dal mondo latinoamericano occhi puntati sul fare poesia di Fernando Salazar Torres, con suoi sette testi inediti in italiano.
La voce d’autore è anche quella di Elisa Longo e il suo nuovo scrivere, con le poesie contenute nella raccolta “Ribilanciare per sottrazione”, e nel ritorno di Sara Comuzzo, per lei l’intensità e lo sguardo originale dell’“Invitare gli Spaventapasseri a Ballare”.
I Margini. Di poesia ed altro sono quelli firmati da Alessia Bettin con “Appese a un chiodo ma vive”; e ci sono anche i testi inediti di Luca Buiat, “Ci siamo mossi all’alba”, e di Mariapia L. Crisafulli, “L’orizzonte mobile si spezza”.
Il ti racconto è nella testimonianza di Matilde Mori, il suo romanzo “Il buio nei tuoi occhi” è un avventurarsi fra smarrimenti esistenziali e necessarie rinascite.
Le immagini sono le dieci opere di Salvatore Puddu, che fanno parte del suo progetto “Anatomia di un territorio”.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini ————————
Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Voce d’autore ———————–
Perché allora tutto era istante
Umberto Piersanti, “Memoria”
di Roberto Lamantea
Che cosa strana è la memoria. Non il ricordo cercato, ma il profumo improvviso che t’assale, il tuffo al cuore a una luce, un odore, un sapore; la coltellata – dolcissima – di una nostalgia indefinita: la madeleine di Proust. O il riandare agli anni rubati, quella dolcezza che, forse, non è mai esistita, è un gioco perfido del tempo per consolarci dell’età presente e viva e illuminare di una luce magica, nell’indefinito dell’attesa, quasi un non-tempo, la stanza della nostra infanzia. È la finestra leopardiana, il cielo nuovo e antico degli aquiloni di Pascoli. È la memoria la “madre” della poesia. È Mnemosyne.
In Italia oggi il poeta della memoria – e della natura – è Umberto Piersanti. Ed è a lui che Isabella Leardini ha chiesto di scrivere il libretto dedicato appunto alla memoria per “Le parole della poesia”, la collana che Leardini dirige per Vallecchi. (Gli altri titoli: Silvia Bre “Mistero”, Giuseppe Conte “Visione”, Rosita Copioli “Simbolo”, Milo De Angelis “Ritorno”, Roberto Mussapi “Magia”, Giancarlo Pontiggia “Origine”. Altri seguiranno.)
Questo piccolo libro, una novantina di pagine, è la migliore introduzione alla poetica del cantore delle Cesane ma è anche un prezioso saggio – o monologo, sembra di sentire la sua voce, calma e cadenzata come un abbraccio – sulla poesia. A partire, naturalmente, dagli autori più amati da Piersanti: Leopardi (dal 2016 il poeta marchigiano è presidente del Centro mondiale di poesia Giacomo Leopardi di Recanati), Pascoli, ma anche Carducci, spogliato dalla retorica e dalla patina scolastica; il Montale della “Casa dei doganieri”; Ungaretti (i fiumi che cadenzano la storia della sua vita).
“Qui parlo della memoria attraverso le parole di autori che sono stati fondamentali non solo e non tanto per la mia scrittura, quanto per la mia vita”, confida subito nella premessa, nel segno (o nell’intonazione) di Roberto, il protagonista del romanzo semi-autobiografico “L’uomo delle Cesane” (1994): “Una volta passati sogni e ricordi sono la stessa cosa”.
Ed è l’infanzia la memoria privilegiata dei poeti: d’obbligo, quindi, il richiamo a Leopardi e Pascoli. Non la cronologia, il diario, il documento storico della propria vita: la cosa importante in poesia è che “lo spettatore abbia avvertito il senso, ma soprattutto l’“odore” e il “sapore” di quel tempo”. Quella rimembranza che “addolora dolcemente”. È il “tempo differente”, annota Piersanti: “Quello della fuga, dell’amore, della contemplazione”; quello dei “luoghi persi”, come dice il titolo di un libro dell’urbinate: “’Il tempo differente’ è tanto intenso quanto breve e può permanere solo nella memoria”: “Perché allora tutto era istante”, è un verso di Piersanti.
D’obbligo il richiamo a Proust, a quella pagina sulla madeleine di Combray nel primo volume della Recherche, “Du côté de chez Swann“. È quella verità, annota lo scrittore francese, che non è nel tè o nel pasticcino gustato con la sorsata rivelatrice: “È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me”. “Viviamo immersi nella memoria”, scrive il poeta marchigiano, “anzi, nelle memorie: talora chiudiamo gli occhi e ostinatamente le ricerchiamo, altre volte un oggetto o magari solo un trasalimento d’aria e di colori, le accendono improvvise nella mente”.
Uno dei luoghi privilegiati della memoria, almeno per chi oggi ha oltre sessant’anni, è il Natale: ed ecco di nuovo Pascoli (il Pascoli immenso delle ciaramelle). Gli oggetti del Natale, le piccole cose, i giocattoli poveri, di legno e stoffa, il presepe composto con il muschio strappato alla terra del bosco, alla pietra della campagna sulla riva di un torrente, al laghetto affidato al frammento di uno specchio, le lucine intermittenti dell’albero, e l’odore di cucina, di cucina antica: “E poi i minuscoli oggetti dell’angoliera: quella trottola dentro un cerchio di legno perfetto e sovrastato da una limpida cornice. E poi una dama, ma un po’ diversa: ecco, loro mi rimandano a quei Natali poveri, dove sugli alberi pendono arance e mandarini avvolti nella carta argentata, cioccolate in carte luminose: e dovunque fiocchi di bambagia raffiguranti la neve. E non c’erano troppe luminarie, solo candeline attaccate agli aghi del pino che gocciolavano un po’ e rischiaravano l’aria, ma in modo garbato e leggero. E il setaccio nel fondo mi riportava immediatamente ad altri luoghi e ad altre età della vita: vita che solo nella memoria trova una misura e un senso”.
Memoria di cerchi concentrici e intersezioni, salti di prospettiva e vertigini e, soprattutto, memoria di intonazioni della luce, cantilene, sapori, odori. Sì, ammette Umberto Piersanti, l’ultimo grande cantore forse, oggi in Italia, di questo mondo antico, fisico ed etereo, delicato anche se il suo contesto era l’antico ambiente contadino, povero, non ricco, e offeso dalla storia: “Amo l’elegia e l’idillio: l’elegia che stempera il dolore, uno struggimento che ha perfino qualcosa di consolatorio: l’idillio, quando non è banale, significa la ricerca d’una perfezione irraggiungibile, ma sognata e come presente, anche se da sempre vista come da dietro un velo che non potrà mai essere oltrepassato”.
È “questa inquieta gioia della memoria” a dettare la poesia: “Siamo anche ciò che ricordiamo”.
In uno scaffale ideale, questo piccolo libro di Piersanti può essere accostato ad alcuni titoli usciti negli ultimi anni non propriamente di letteratura ma che nella loro riflessione invitano a guardare – e assaporare – il mondo con i sensi spalancati e lontani dal frastuono e dalla nevrosi della società contemporanea: dai libri sul silenzio – tra questi quelli di un poeta, Franco Loi, “Il silenzio”; Duccio Demetrio, “I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora”, entrambi per l’Accademia del Silenzio di Mimesis; la collana “Piccola filosofia di viaggio” di Ediciclo; i saggi dello psichiatra Eugenio Borgna – su tutti “La nostalgia ferita”, “La fragilità che è in noi”, “Tenerezza”, da Einaudi; “Nostalgia. Storia di un sentimento” a cura di Antonio Prete, tra i nostri maggiori leopardisti, che si è ritagliato proprio il capitolo sulla poesia, per Raffaello Cortina Editore.
E naturalmente i libri di poesia di Umberto Piersanti: per ritrovare quell’antico sapore d’erbe, e il fresco dell’acqua, e di forre e greppi, del suo antico e nuovo paesaggio.
Intervista a Umberto Piersanti:
Che cos’è la memoria in poesia?
Ci sono vari modi di vedere la memoria: la ventata improvvisa, la memoria involontaria, il passare in un luogo, vedere una porta e un vicolo della tua infanzia davanti agli occhi; poi la memoria volontaria, il ricordare: Ungaretti ripassa la sua vita attraverso i fiumi, è la sua memoria che si mette in relazione con la sua storia, la organizza, la sistema, è il ricordare che appartiene al suo patrimonio di memoria. Il valore umano della memoria trascende la scrittura.
Il mio amore a vent’anni per una signora tedesca è una memoria che m’accompagna per tutta la vita, è costitutiva della vita: senza la vita sarebbe fatta di frammenti sparsi.
Quanto deve la poesia alla memoria?
Deve moltissimo: la musa della poesia è Mnemosyne. Anche Leopardi scriveva di quelle rare felicità della nostra vita, o è una proiezione sul futuro, o la memoria trasfigura, un fatto è più intenso se lo ricordi che se lo vedi in questo momento con gli occhi, è una visione attraverso la nostalgia, è l’elemento principale della poesia.
Non sono io a ricordare l’infanzia, sono quasi tutti i poeti. Io sono legatissimo alla memoria e alla natura.
Quali sono oggi in Italia i poeti della memoria?
Milo De Angelis, la memoria degli anni legati alle vicende milanesi, alle persone, le ragazze; Franco Loi, l’infanzia, la Milano del dopoguerra; poeti della memoria sono Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni. Tra i poeti di oggi, oltre a De Angelis, quello più legato al tema della memoria sono io.
E il Pasolini degli anni friulani?
È un poeta legato alla memoria antica, l’infanzia friulana, che diventa mitica in “Poesie a Casarsa” (1942) e “La religione del mio tempo” (1951).
L’autore:
Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941, e nell’Università della sua città ha insegnato Sociologia della letteratura. Le sue raccolte poetiche sono “La breve stagione” (1967), “Il tempo differente” (1974), “L’urlo della mente” (1977), “Nascere nel ‘40” (1981), “Passaggio di sequenza” (1986), “I luoghi persi” (1994), “Nel tempo che precede” (2002), “L’albero delle nebbie” (2008), “Nel folto dei sentieri” (2015).
Tutte le raccolte pubblicate fino alla fine degli anni Ottanta sono uscite in un unico volume dal titolo “Tra alberi e vicende” (2009).
“Campi d’ostinato amore” (2020) ha vinto il Premio Saba 2021 e il Premio Speciale Camaiore 2021.
Nel marzo 2022 Crocetti ha stampato una nuova edizione de “I luoghi persi”, con una sezione di dodici inediti e la prefazione di Roberto Galaverni.
È stato tradotto in francese (“Les lieux perdus”) e in lingua rumena (“In alt timp, in alt loc”).
Umberto Piersanti è anche autore di quattro romanzi: “L’uomo delle Cesane” (1994), “L’estate dell’altro millennio” (2002), “Olimpo” (2006) e “Cupo tempo gentile” (2012).
Ha realizzato il lungometraggio “L’età breve” (1969-71), tre film-poemi (“Sulle Cesane” 1982, “Un’altra estate”, “Ritorno d’autunno” 1988) e quattro rappresentazioni visive su altrettanti poeti per la televisione.
(Umberto Piersanti “Memoria” pp. 92, 8 euro, Vallecchi Poesia 2023, collana diretta da Isabella Leardini)
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Tempo presente ———————–
L’orizzonte mobile si spezza
Cinque testi inediti
di Mariapia L. Crisafulli
Paesaggi di metropoli
Nella sera non si incontra più
il buio col solo suo lunaggio
Poche stelle s’affacciano allo sguardo
assediato dagli interspazi elettrici
Addio bagliori primordiali!
Nessuno più vi insegue
Nessuno ormai insorge
da quaggiù
*
Il consolo
Non trovo le parole
non vengono più a trovarmi.
Tu leggimi poesie
fosse il giorno un capezzale
e il capezzale una radura
*
Cosmogonie
In poche cose l’universo
si disvelava [al mondo
molte di queste erano
versi
*
Post-traumatico
Della notte
ricordo soltanto
il lucore dell’alba
non accecava
non illudeva
dischiudeva la porta
all’orizzonte
*
En-tusiasmo
L’orizzonte mobile si spezza
dilaga, questo mare
diventa oceano
la stanza invade
lo sguardo increspa
tutto stravolge
Riemerge e danza
tra le sue onde
un vecchio afflato
Con il suo seme [dolore invalso
come una speme qui si riversa
E io che ci dimoro.
E io che me ne nutro.
L’autrice:
Mariapia L. Crisafulli (Messina, 1996) vive a Santa Teresa di Riva, nel messinese. Ha scritto le raccolte di poesie “Un’altra notte d’emozioni” (Kimerik, 2012), “Come un’Odissea. Appunti di viaggio” (Macabor, 2019), opera, ancora inedita, seconda classificata al Premio Casinò di Sanremo A. Semeria 2018 e “La vita là fuori” (Macabor 2021).
È autrice del libro di racconti “Odòs. Storie di Strade” (Cavinato, 2017). Suoi testi e contributi sono stati ospitati, tra gli altri, su “Re-pubblica”, “Libreriamo”, “Poesia Ultracontemporanea”, “In-Storia” e nelle antologie “Il segreto delle fragole“ (Lietocolle), “Bellezza senza vanità. Poesie d’amore per gli animali” e “Secolo Donna 2018 – Almanacco di poesia italiana” (Macabor).
Si occupa di critica letteraria collaborando a varie iniziative editoriali.
Collabora al bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm”.
Immagini ————————
Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Voce d’autore ————————-
Un colpo sulla bocca spalancata
Giuseppe Nibali, “Eucariota”
di Giovanni Fierro
Il quotidiano per quello che è, e non per quello che lo si vorrebbe. La nostra società nei suoi aspetti più scomodi, lo scandalo di usare la poesia per raccontare tutto ciò.
È questa l’accensione continua che alimenta la nuova raccolta poetica di Giuseppe Nibali, “Eucariota”.
Il suo è il constatare di come lo sguardo sia sempre più importante nel nostro vivere di ogni giorno, immersi come siamo nella realtà in cui l’immagine è diventata il fulcro di ogni adesso.
E così il suo scrivere torna a portare la parola ad avere il suo ruolo fondamentale, nella ricerca di senso, nella documentazione, nella riflessione.
Ma è dalla combustione del presente che Nibali parte, da quel “posso consumarmi/ da dentro come avesse preso fuoco/ prima il pancreas poi il polmone destro/ e possa esplodendo illuminare/ l’alveare di case cresciuto alla stazione”, che parla in prima persona ma contiene un noi che non finisce di allargarsi, che mette in attenzione un luogo che per contagio diventerà molti altri luoghi.
Sì, una pima persona che ha voce maschile, femminile e animale, che rivela tutte le possibili anime di chi questo nostro tempo lo soffre, lo subisce, e se lo modifica, riesce a farlo solo il peggio, in primis per se stesso, per se stessa.
In “Eucariota” la poesia è al lavoro, in questo impegno con la verità, con il portare a galla ciò che di significativo è rimasto o può rimanere. Ma prima c’è da sottolineare il contemporaneo, il qui e ora, atto necessario per evitare ogni fuga, ogni facile compromesso.
Sì, questo noi che in un attimo diventa un loro, quando “i sospiri e gli affondi/ alle loro spalle pronunciando parole/ il nome dicono del serpente e universo villaggio casa/ nella lingua conosciuta”.
Il percorso di queste nuove poesie di Nibali è un addentrarsi in un roveto sempre più fitto di pensieri, azioni, accadimenti. Dove l’attraversamento è il riconoscere ciò che sta succedendo, la sua radice più profonda, la sua immagine più prossima.
Anche se è un cielo che si osserva, “Riesco anche a considerare/ le stelle come in rotta verso di noi” o la forma di un desiderio, “voleva scoparmi e io gliel’ho preso in bocca/ abbiamo litigato, gli ho detto che lo avrei/ detto a papà ho messo parte della furia in quella lite”, che è difficile da gestire, o semplicemente da vivere.
In queste pagine la scrittura di Nibali esce dai canoni consolidati, si mette alla prova, si adatta a ciò che ha di fronte, si trasforma nel dare al lettore la prima impronta dell’accaduto, la profondità della sua provenienza. La sua è una scrittura che si rinnova continuamente. E in tempi in cui invece ci si affida al già consolidato, al già sicuro, questo è grande pregio.
“In un tempo che è uguale e diverso da ogni tempo/ quando la musica si ferma i tamburi tacciono e si aprono/ gli occhi della bestia. Indossa un copricapo d’ossa/ esce dalla tenda forte e bello come Cristo/ batte il pugno sopra il cuore una due volte/ per partecipare alla specie”; l’invito è primordiale, partecipare al manifestarsi della vita, qualunque essere tu sia. E in questa possibilità di espressione di sé, il libro trova ulteriore significato, nel nostro tempo che si sta trasformando sempre più velocemente.
E che vede in Chernobyl, e in ciò che è accaduto nel 1986, un punto di non ritorno: “È in noi che cresce il male/ […] Nel fondo troverete il buio, nel buio troverete/ gli òmeri, le tibie. Passeteci sopra, rompetele/ ascoltando il loro canto di coleottero”.
Il tempo in “Eucariota” è elemento portante, e questo fare poesia di Nibali ne è la pura percezione, nel suo desiderio ed impegno di riuscire a darne una forma possibile, alcune forme possibili. Per affrontarlo con maggiore chiarezza, per poterlo guardare in faccia, per riuscire a tratteggiarne un possibile ritratto: “questa madre che qui è mia madre/ non ha faccia e il padre che qui è mio padre è senza denti”.
Dal libro:
Anche sono scesa nella brace
diranno della bambina nella brace
che vengo da un’altra radice con
le mie cosce bianche i piedi come spine
di rosa seccatesi, piena sui ginocchi
di colla di pesce e questa pelle nata
su di me se rischiarata o toccata
dalla fiamma
si ritrae.
*
di nuovo quel capitolo ma l’ho letto senza leggerlo
in video ho mostrato i seni il perizoma la lingua
lo screen l’ho mandato ad almeno dieci
diversi destinatari uno di questi è deceduto stamattina
a Gravina di Puglia nel telefono c’era il codice
hanno provato 14/06/01 ed è spuntata la home
con lo scudetto del Milan e tutto il resto
la madre e il padre hanno visto: me e le foto del sesso
ritto del figlio. Non si sono detti nulla sono rimasti
seduti al tavolo della cucina a fissare inebetiti il cesto della frutta
e la madre ha pensato che era giusto che il figlio fosse morto.
*
ti hanno detto cose come acqua vento
parlavano del colore dei suoi capelli oppure
che aveva nevicato l’inverno scorso per quattro
giorni almeno.
L’uomo ha detto altro ma non hai sentito
sei rimasto a guardare un punto sopra il marmo
lontano dalle macchie di sangue in cucina.
Più tardi lo specchio e ti sei tolto piano
la scarpa sinistra e hai sfilato la destra
hai aperto la bocca espirato detto cose
che non ricordi come acqua e vento
e altre banali tristi cose, come bionda
morta stretta e con la mano hai dato
un colpo sulla bocca spalancata
al centro esatto dei denti hai morso
il magro di pelle e muscolo sopra lo scafoide.
*
U picciriddu a so’ patri ci fa u signu di starisi mutu
a matri sinn’adduna ci fa u video co’ smartphone
poi si nesci a minna e ci rici ri ittarisi ddocu
di manciarisilla tutta para. A matri arriri
mentri ca u figghiu s’allippa supra i chiova
ci pari beddu ca u figghiu fa u spacchiusu
ca è n’pisci senza sangu. Chiù sutta intra
i ruetti du lucertoli s’allascanu s’azzannanu
e dopu st’ammazzatina fuinu tutti e dui, scantate.
Il bambino fa al padre il segno di star zitto/ la madre se ne accorge e fa il video con lo smartphone/ poi tira fuori un seno e gli dice di buttarsi lì/ di mangiarsela tutta quanta. Ride la madre/ mentre il figlio si attacca ai capezzoli/ gli sembra bello che il figlio faccia il furbo/ che sia un pesce senza sangue. Più sotto dentro/ le aiuole due lucertole si attaccano si azzannano/ e dopo questa lite fuggono entrambe, spaventate.
*
Con noi calpestavano le erbacce degli americani
Look at me! Take a picture of this atomic shit!
poi anche giapponesi e gente lì dell’Ucraina
Pripyat, si chiamava, con le case tutte quadrate
la guida ha parlato russo e poi in inglese, mamma
si è abbassata per tradurmi lui ha gridato qualcosa,
l’uomo e mamma ha chiesto sorry e si è tolta la terra
dai jeans. Non si poteva toccare niente,
ci hanno dato un fischietto se venivano i cani.
Avevamo un telecomandino giallo per misurare le radiazioni
io l’ho messo in tasca ma è caduto nell’erba
Chernobyl tour c’era scritto sopra.
Basta.
Intervista a Giuseppe Nibali:
Lo sguardo è sempre più importante nella nostra società, visto che l’immagine è diventata il fulcro di ogni ‘adesso’. Anche la dedica che apre il libro è indirizzata a qualcuno che ha visto… cosa ne pensi della centralità dell’immagine nella nostra società? Anche rispetto alla parola…
Viviamo nella società dell’immagine. Certo. Ma da adesso? Ne siamo così sicuri? Credo che il cinema alla sua nascita abbia inaugurato un “tempo dell’immagine” che non è più il nostro. Ancora prima, mi viene in mente la fotografia. C’è stato il dipinto, ci sono stati i bassorilievi delle chiese intesi in senso sociale come forma di narrazione. Le immagini del dio, le scene di caccia nelle caverne. Credo che l’uomo sia la creatura delle immagini. Da sempre.
Questo non lo dico io, naturalmente. Solo penso che all’interno di questa cultura iconografica (che nel contemporaneo si è velocizzata) spetti al poeta dare voci alle visioni. Credo anzi di scrivere per raccontare la visione e le sue velocità. Per riportarle all’interno di una umanità condivisa.
E dietro all’immagine che ora è ‘tutto’, mi sembra che ci sia bisogno di riportare a galla, in evidenza e in vita, molto altro… È (anche) questo il compito della poesia?
Si riporta a galla, si riporta in vita, ciò che esiste, ciò che è affondato dentro la melma dell’oggi e che non si vede ma pure esiste. Credo che scrivere serva a questo. A raccontare, prendendo l’oggetto del racconto nei luoghi che il poetico non sempre ha visitato.
Bisogna scendere nella pozza, crollare nella pozza, citando una bellissima poesia di Blanca Varela, perché lì si vede qualcosa che esiste. E ciò che esiste è solo ciò che colpisce, che ferisce, che fa scandalo, ciò che commuove e sommuove la propria società di riferimento, altrimenti ogni testo è soltanto testo di conferma.
Roland Barthes parlava di opere di sconvolgimento e opere di intrattenimento, io non so se faccio opere sconvolgenti ma sicuramente cerco di non fare opere di conferma, per quello basta andare in un cinema qualunque e a qualunque orario.
La realtà, le realtà, di cui parli in “Eucariota” sembra che siano tutto un continuo sacrificio. Ma per cosa? Per chi?
Non hai idea di quante volte io mi trovi davanti a domande del genere, e non sto criticando la tua che è più che legittima, semplicemente mi soffermo sul fatto che scrivere in modo così distaccato dal canone contemporaneo e con tematiche che possono essere particolari sia oggi in Italia argomento scabroso.
Mi è successo spesso parlando di “Scurau”, il mio primo libro di versi. Forse non so rispondere a questa domanda o forse semplicemente credo che l’arte rappresenti o almeno debba rappresentare secondo la mia idea il rimosso, ciò che una società tende a togliere dall’agenda quotidiana e se ci riflettiamo insieme (adesso qui per fare questa prova), si crede sempre che la poesia debba essere portatrice di buoni sentimenti: dell’amore, del sogno, della gioia, delle feste e delle poche altre volte in cui durante l’anno abbiamo a che fare con il verso.
Poi uno apre un libro di poesia contemporanea e si rende conto che non funziona così, si rende conto che chi fa arte (oggi come 2000 anni fa) lo fa anche per raccontare qualcosa che non si può dire, che la società non dice e che non si può esperire fuori dalla poesia.
Spesso rifletto su questo miracolo, su questo miracolo reiterato, che è l’uomo che dice se stesso e questo accadimento mi commuove. Certo si raccontano dei sacrifici dentro “Eucariota”, che sono sacrifici umani, animali ma è più che altro il racconto della società rituale che ancora siamo. Cosa importa se il rito una volta consisteva nel rituale del serpente e oggi in un viaggio a Chernobyl?
La scrittura che usi esce dai canoni consolidati. Si mette alla prova, si adatta a ciò che ha di fronte, si trasforma nel dare al lettore la prima impronta dell’accaduto, la profondità della sua provenienza. È una scrittura che si rinnova continuamente. Ti ci ritrovi in questo?
Assolutamente sì. Il lavoro che io faccio sulla scrittura, già dai tempi di “Scurau” è molto, com’è grande anche il lavoro che ho fatto sul verso perché io nasco come autore metrico e i primi componimenti fatti a vent’anni avevano soprattutto senari e settenari.
Il punto è che credo fermamente che serva un verso un verso adatto a raccontare il nostro tempo e quindi un verso lungo, un verso frastagliato, controverso, che accolga la prosa e la poesia, mescendole.
Pagina dopo pagina, ci si addentra in un roveto sempre più fitto di pensieri, azioni, accadimenti. La trama è densa, l’ordito è stretto…. Come si può passarci attraverso, in mezzo a tutto questo vischio di esistenza e commemorazione?
Non parlerei di trama credo piuttosto si tratti di una serie di momenti, di esperienze non per forza personali che hanno riguardato il punto fondamentale del testo sia alla sua partenza, e quindi nella composizione e nella strutturazione dell’opera, sia soprattutto nella sua forma finale.
A me interessava parlare degli uomini e delle donne e in questo testo scelto di alternare i punti di vista. Spesso l’io narrante è femminile, altre volte è maschile o animale, addirittura si prova a dare voce a un albero. Tutto questo procede verso la stesura di un libro che vuole essere eucariota come il titolo ricorda e suggerisce.
Questo perché credo fermamente che scrivere poesia significhi dividere se stessi, ascoltare tutto, conoscere tutto, sentire tutto. Un’operazione che è difficilissima.
Perché poi il tuo scrivere si introduce in quel mondo sociale dove sesso, chat e screenshot sono i luoghi dell’accadere delle persone – in primis i più giovani – o quantomeno del presunto loro verificarsi. Ma questa, che in qualche modo tratteggi e racconti, che geografia umana è?
Credo che non si possa prescindere dal racconto del mondo digitale. Il mondo è digitale. Noi, caro Giovanni, non ci siamo mai conosciuti, non abbiamo riso insieme bevendo un bicchiere di vino, non siamo diventati amici nella realtà, il nostro rapporto è esclusivamente digitale.
Io sto scrivendo questo testo seduto alla mia scrivania in una città italiana, tu lo hai ricevuto seduto alla tua scrivania in un’altra città italiana, il nostro unico tramite è la chat, il computer, l’Internet.
Perciò, esattamente come Flaubert parlava della ceralacca e delle lettere e i racconti del passato non potevano fare a meno di raccontare tutti i suppellettili a cui noi ci siamo abituati e che abbiamo inserito nella nostra faretra dello scrittore classico: taccuini, inchiostro, piuma d’oca, penna, allo stesso modo oggi uno scrittore sa che il linguaggio dei suoi personaggi o delle sue figure (nel caso di un libro di poesia) non può non uniformarsi alla realtà.
Ci muoviamo ogni giorno all’interno di chat, di messaggi cifrati, di app erotiche, per cui il sesso è componente fondamentale della vita umana, oggi come ieri, solo che oggi abbiamo Telegram e OnlyFans, non si può evitare di raccontare queste cose se no la poesia rischia di fare quello che spesso fa e cioè di adattarsi a un mondo che la precede e che la parla.
Ed in più, questo tuo fare poesia è pura percezione di questo tempo critico. Mi sembra che il desiderio, il suo impegno, sia proprio riuscire a darne una forma possibile, alcune forme possibili. È così?
Quanto dici è molto bello e ne sono lusingato. Questo è esattamente quello che provo a fare perché il tempo, questo tempo è critico, ogni tempo è critico, ogni tempo è l’ultimo tempo, ogni luce, come scriveva Virgilio, e l’ultima luce chiama i vinti.
Per questo mi sembra di poter dire che non credo che questo tempo sia più critico o più pericoloso, più insidioso di ogni tempo che lo ha preceduto. Certo, noi abbiamo l’infodemia, noi abbiamo una totale e completa apertura nei confronti del mondo data dalla nostra sovraesposizione mediatica, questo è un fatto. Ma è altrettanto vero che il passato ci sembra sempre maggiormente calmo perché, e lo dico da insegnante di storia, il passato è finito, esaurito, lo conosciamo e quindi è una coperta utilissima sotto la quale nasconderci. Chi di noi non ha sognato di essere un cavaliere, un mercante, un nobile dell’Ottocento, un rivoluzionario francese? È ovvio che però il nostro tempo così difficile così complesso ci dà delle possibilità che sono quelle di agire nel tempo, che sono quelle di cambiare il tempo in qualità di agenti sociali presenti e anche, come dici tu, il desiderio è quello di dare una forma al tempo presente, perché sono umano e come tutti gli umani ho bisogno di categorizzare dividere e studiare, per cui entrare dentro la vita, la piccola biografia, il piccolo scandalo dei figuranti che appaiono in “Eucariota” mi dà la possibilità di segnare un punto dentro il nostro tempo e ancora di più di nominare le cose.
In questa realtà, in queste identità che in qualche modo si incontrano, il corpo che funzione ha?
Credo che il corpo e più di tutto il corpo di quei fantasmi, di quelle visioni che io provo a raccontare nel mio libro sia lo strumento principale, lo strumento elettivo dell’esperienza con l’altro, insieme alla parola. Per cui i corpi che racconto sono presi nella loro interezza, presi nel loro momento anche più intimo e quindi diventa argomento poetico. Per me lo scambio di messaggi che citavamo prima, le chat sicuramente, il corpo nudo, il corpo ferito, il corpo esposto.
Ma io ho una passione autentica e sincera per la corporeità dell’essere umano, credo che il corpo sia uno strumento fantastico e fenomenale, sono un cultore del corpo e della bellezza dei corpi; ma vederlo degradato: il corpo del malato, il corpo assassinato, i fluidi e le scorie del corpo credo esercitino in me un fascino particolare, già da lettore.
È anche la possibilità di incontrarsi freddamente con l’altro, con l’umanità, operazione che ci risulta sempre molto difficile. Non so se i corpi che io racconto siano veramente strumenti identitari dei personaggi, forse lo sono o forse ho bisogno della materia per scrivere i miei testi oppure ancora ne sono ossessionato, ma credo che uno scrittore debba vivere di ossessioni.
Chernobyl nel tuo raccontare assume quasi un significato simbolico, che in qualche modo contiene – e forse anche origina – il nostro presente. Per te, che significato ha?
Chernobyl è un punto di svolta, Chernobyl è indubbiamente un momento limite, un punto limite all’interno di quella che è la storia contemporanea.
Mentre scrivo si festeggiano i trentaquattro anni dalla caduta del muro di Berlino e ancora oggi quella società ci parla, in qualche modo, ci precede e ci descrive ed è difficilissimo pensare alle questioni apicali del nostro tempo lo scontro russo ucraino da un lato, lo scontro israelo-palestinese, senza pensare che quel passato c’è stato e che ancora, come vediamo, pulsa.
Allo stesso modo Chernobyl è il luogo dello scandalo, come lo sono le isole giapponesi colpite dalle bombe atomiche, cioè il luogo in cui è accaduto uno stravolgimento tangibile, netto, dell’uomo che ha portato gli abitanti a doversi allontanare, a doversene andare, che – ancora – è stato recepito in qualche modo come quel momento in cui gli uomini hanno scatenato l’ira di Dio e questa ha reso inabitabile una fetta per quanto minuscola del pianeta per cui Chernobyl è la terra desolata, la terra devastata, Chernobyl è il luogo in cui è accaduto lo scandalo, si è svolto, ha lasciato il deserto e quel deserto è stato abitato da altre creature che non hanno coscienza delle radiazioni ma che ne vengono ovviamente influenzate per cui a Chernobyl non ci sono due api uguali, per cui a Chernobyl è difficilissimo andare a scoprire il corollario genetico degli animali eppure è un posto verdissimo, popolato da tantissime specie animali e addirittura, prima della guerra, ha subito un incremento enorme per quanto concerne le visite turistiche i cosiddetti Chernobyl tour. Io non l’ho fatto sia chiaro. Niente di quel viaggio è vero, niente di quell’accadimento è vero eppure tutto è verosimile. È possibile che io occidentale, io Giuseppe Nibali abbia fatto questo viaggio con mio padre. Non è mai successo. Mio padre è morto prima che questi viaggi diventassero di moda, però a me da molto tempo interessa confondere la mia vita privata con la mia letteratura e quel male che io prima provavo a nominare secondo me si esperisce in luoghi del genere luoghi che sono stati toccati da un tumore tanto grande.
L’autore:
Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in italianistica a Bologna. Giornalista Pubblicista, è direttore responsabile di “Poesia del nostro tempo” e curatore del progetto “Ultima”.
Collabora con “Le Parole e le cose”, “Minima & Moralia”, “Il Foglio” e con il magazine “Treccani”.
Ha pubblicato la raccolta di poesia “Scurau” (Arcipelago itaca, 2021) e “Animale” (Italo Svevo Edizioni, 2022) è il suo primo romanzo.
(Giuseppe Nibali “Eucariota” pp. 60, 13 euro, Samuele editore / Pordenonelegge 2023)
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Latinoamericana ———————-
Encima de esta tarde que transita, Su questo pomeriggio che passa
Sette testi inediti in italiano
di Fernando Salazar Torres
I
¡Cuánta oscuridad, Corina! Las luces han estado encendidas durante siglos.
en esta prisión donde fui puesto por mi amor por ti.
II
Augusto Cayo Julio César, ¿que por qué la Historia
me recuerda más que a ti?
La Justicia es hermana de la Memoria.
III
Mis versos prodigan más allá del Imperio Romano
en todas las lenguas que mi latín escribió.
¿Y tú, Augusto? ¿Dónde está tu legado?
IV
Un día llegué vivo a Dacia, hoy todos buscan mi tumba.
Abre cualquier verso hispano y ahí escucharás mi voz,
escribí del amor, relegado, donde ahora mi sombra
revive mis días infaustos, lector. No temas, no estoy vivo.
I
Quanta oscurità, Corina! Le luci bruciano da secoli
in questo carcere dove venni messo a causa del mio amore per te.
II
Augusto Cayo Julio Cesar, perché la storia
mi ricorda più di te?
La giustizia è sorella della Memoria.
III
I miei versi si versano oltre l’Impero Romano
in tutte le lingue scritte dal mio latino.
E tu, Augusto? Dov’è il tuo legato?
IV
In giorno sono arrivato vivo a Dacia, oggi tutti cercano la mia tomba.
Apri qualsiasi verso ispano e lì sentirai la mia voce,
ho scritto dell’amore, relegato, dove adesso la mia ombra
rivive i miei infausti giorni, lettore. Non temere, non sono vivo.
dalla silloge: “Mors Amoris. De cómo Ovidio habla desde la muerte”, 2023
*
Playa sáfica
Encima de esta tarde que transita,
dos soles doblan reflejos al borde
hasta descubrir otro amanecer,
tú siendo niña.
Atrás, de espaldas, vamos con el tiempo
arrastrando, en los pies, la luz al sol
de ambos horizontes que ya se encuentran.
Día de espejos.
Regular el adiós en el camino
nunca o siempre lo testifica el polvo,
más allá somos el doble del sol,
el día peregrino!
Spiaggia saffica
Su questo pomeriggio che passa
due soli piegano riflessi al bordo
fino a scoprire un altro albeggiare,
tu che sei bambina.
Dietro, di spalle, andiamo con il tempo
trascinando, nei piedi, la luce al sole
di entrambi gli orizzonti che ormai si incontrano.
Giorno di specchi.
Normale l’addio nel cammino
mai o sempre lo certifica la polvere,
oltre siamo il doppio del sole,
il giorno peregrino!
*
Meditar
(ingresando al Abismo)
(fragmento)
Tu pensamiento nos siente
nos mira nos mueve
Contemplas figuras para germinar cosas
circularidades……zonas geométricas
El hálito entra en la materia
y termina en la hora de la muerte
Idea inmortal habita la mortandad
El Universo es una suma de Tus Imaginaciones
Dios es necesario
Meditare
(All’entrare nell’Abisso)
(frammento)
Il tuo pensiero ci sente
ci guarda ci muove
Contempli figure per germinare cose
circolarità……zone geometriche
L’alito entra nella materia
e finisce nell’ora della morte
Idea immortale abita la moria
L’universo è una somma delle Tue immaginazioni
Dio è necessario
*
Palabras
Mis palabras son escándalo de niños
Me desesperan bastante
porque no me permiten tomarlas
Se burlan de mí
cuando tengo aún la hoja limpia
Pasa tiempo
para que ellas vengan a hacer las paces
Si eso sucede
nos abrazamos
Sentadas frente a mí
la mirada en su belleza
las elige una a una
para distribuirlas en el papel
A veces se enfadan
cuando tiro la pluma
y me rehúso a la poesía
en venganza me confunden
y creyendo que hago un buen poema
me voy de espaldas
por falta de ritmo
y carencia de imagen
Mis palabras tienen la fuerza de la música
el suficiente impacto
para hacer bailar a un muerto
Parole
Le mie parole sono la baraonda dei bambini
Mi disperano alquanto
perché non mi lasciano prenderle
Si burlano di me
quando ho ancora il foglio pulito
Ne passa di tempo
perché vengano a fare la pace
Se questo succede
ci abbracciamo
Sedute davanti a me
lo sguardo nella loro bellezza
le sceglie una ad una
per distribuirle sulla carta
A volte si arrabbiano
quando lancio la penna
e me rifiuto alla poesia
per vendetta mi confondono
e al credere che scrivo una buona poesia
mi sorprendo
per mancanza di ritmo
e carenza d’immagine
Le mie parole hanno la forza della musica
e l’impatto sufficiente
per far ballare un morto
(Selezione e traduzione dei testi a cura di Antonio Nazzaro)
L’autore:
Fernando Salazar Torres (Città del Messico). Poeta, critico letterario, saggista e gestore culturale. Laureato in Filosofia presso L’Università Autonoma Metropolitana, Centro di Itzapalapa (UAM-I). Dottorato in Teoria Letteraria (UAM-I). Studia per il Dottorato in Letteratura Ispanoamericana nella Benemerita Università Autonoma di Puebla (BUAP) con un corso di ricerca nella Università di Salamanca (Usal).
Ha pubblicato le sillogi “Sueños de cadáver”, “Visiones de otro reino” e il libro d’arte “Gazhel” con l’artista plastico e poeta Fernando Gallo.
La sua poesia e i suoi saggi sono stati pubblicati in differenti giornali, riviste letterarie digitali e cartacee. La sua poesia è stata tradotta in: inglese, italiano, catalano, bengalese, serbio e russo, e pubblicata in varie antologie.
Direttore della rivista letteraria “Taller Ígitur”, coordina “Critica e Pensiero in Messico” e “Diótima Incontro Nazionale di Poesia”. Dirige il Laboratorio Letterario “igitur”.
Collabora con la rivista “Letralia. Tierra de Letras” e con la serie di poesia messicana “Voci attuali del Messico” e “Poesia spagnola contemporanea”.
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Voce d’autore ————————–
La luce risorta al mattino
Elisa Longo, “Ribilanciare per sottrazione”
di Giovanni Fierro
È un fluire che, di poesia in poesia, sviluppa e trasforma la narrazione da una costrizione di relazioni ad un respiro che si fa libero e più autonomo.
È “Ribilanciare per sottrazione”, il nuovo libro di Elisa Longo, luogo che contiene spazi dove l’attenzione nella scelta delle parole mette in evidenza il come questi testi siano nati da una necessità; da una motivazione che li tiene in vita, che li fa appartenere al lato propositivo della scrittura.
In questo suo scrivere le parole rivelano anche una nitidezza sonora che le fa suonare nel preciso del significato, nell’esatta radice del loro dire. Perché i testi di “Ribilanciare per sottrazione”, in questi tre brevi capitoli che lo compongono, sono una tessitura definita e misurata, determinata, ma che puoi guardarci attraverso, nella loro trasparenza che li rende preziosi, come se ogni volta avessero l’intuizione di far iniziare tutto quanto da capo, di nuovo.
Così è nella prima sezione, “Sbottonarmi parola per parola”, dove il dubbio è constatazione per nulla amichevole da cui partire, quello scrivere che “Mi smontavi come i Lego/ per rimontarmi secondo la tua legge.// Di un passerotto facevi un T-Rex”, il momento di quando la fiducia si trasforma in una dannazione; l’abbandonarsi ad un qualcosa che è parente stretto del sacrificarsi, per un qualcosa ancora da indovinare: “mi sento impotente mentre innalzi la mia croce/ e hai lo sguardo di chi stacca la coda a una lucertola”.
E in queste righe dove si fa fatica a respirare, dove tutto è allacciato troppo stretto, Elisa Longo si impegna nel trovare le parole – le ultime? – da pronunciare, per svelarsi, per chiamarsi al mondo.
Perché basta un niente per ritrovarsi “Intrappolata a spicchi” – e siamo alla seconda sezione – proprio in quegli ambienti dove si dovrebbe vivere una intimità rassicurante, serena e protetta; ma dove invece “Ci sono angoli di casa dove il sole insiste/ e mi faccio incubare”, e la verità si manifesta con nuovi interrogativi, “le ossessioni sono insetti/ accartocciati dentro i rospi”?
“Ribilanciare per sottrazione” è anche un percorso nel quale si anima un nuovo definire se stessi, uno sperimentarsi che trova il gesto dell’osare, il desiderio di trovare un equilibrio, un assetto possibilmente stabile, anche se è a perdere, anche se riconosce il bisogno del togliere, con il rischio di creare un’assenza, a cui inevitabilmente appartenere.
Ma la forza della scrittura di Elisa Longo è anche il suo fare poesia, che è sempre dentro un tempo che non è mai vuoto, che si fa forno, casa, se stessa, parola o corpo. E quando guarda fuori diventa natura; una natura che ci osserva e che forse è capace di giudicarci. Una voce fuori campo che entra nel perimetro dell’accadere, mentre l’autrice mette in atto il proprio mondo.
Il compito di questo sforzo è nel “Ribilanciare per sottrazione” – la terza sezione che dà titolo all’intero libro – quando “Scimmiotto il cielo con le parole/ quando il nero cade in picchiata”, ed è il misurarsi con il possibile per trovare un perché al proprio impossibile, il passo in avanti che fa da scarto con il passato, che porta ad imparare dalla natura che “il grano risorge mentre muore”, il rinascere di cui ogni giorno si ha bisogno.
Ed è un paesaggio dove “possediamo la memoria dell’acqua/ di cosa nutre quando brucia il sole”, il luogo da riconoscere per essere se stessi, per trovarsi ad occhi aperti finalmente … “coltivo la speranza del bocciolo/ la delicatezza dello stare accanto”.
Sì, “Il granturco mi cresce di fronte“.
Dal libro:
Prima di imparare a parlare
guardavo mia nonna ammassare
la doppia lievitazione del pane
era l’altare della pazienza.
Apprendevo dagli occhi la forma del tornare
in processione dal forno su un asse di legno
le pagnotte cotte allo squarcio
il segno della croce sulla crosta.
*
V
La luce risorta al mattino
sulle padelle nell’acquaio
sul forchettone al sole
e su tutto la gravità della sottrazione.
Eri già in cucina con l’ennesima sigaretta
cercavi alla finestra un orizzonte sgombro
esercitavi la tua libertà
nel far morire di sete la menta.
Su qualcosa dobbiamo avere controllo
intuire l’ora esatta della fine
*
Abbiamo tutti un cane immaginario
gli lanciamo il nostro osso di dolore
ancora e ancora
perché ce lo riporti
finché non lo riconosciamo
*
VI
Sotto nuvole a grana grossa
quando all’orizzonte non c’è
anima viva
è il posto più adatto per sedersi
sbalordire
della solidità dell’aria
ribilanciare per sottrazione
un umano e l’invisibile
Intervista ad Elisa Longo:
In tutto “Ribilanciare per sottrazione” colpisce l’attenzione che è stata data nella scelta delle parole messe sulla pagina. Questa attenzione in quale modo si è relazionata al come sono nati questi testi? L’impressione è che tutto sia nato da una forte necessità…
Da sempre penso che la scelta delle parole sia cruciale in poesia. Tuttavia non credo troppo alle elucubrazioni scrittorie. Lascio che il sottotesto affiori nel linguaggio e spesso rimango spiazzata da quello che emerge dalle parole.
“Ribilanciare per sottrazione” è un libro nato da un momento di bilanci. Avevo cambiato casa e in quell’ambiente nuovo avevo portato con me solo un borsone di vestititi, lasciandomi tutto il superfluo alle spalle. Credo, ma non ne sono certa, che anche il linguaggio sia andato nella direzione da me, fisicamente, intrapresa, spogliandosi dei carichi in eccesso. Alleggerendosi la parola è sprofondata verso l’essenziale.
I testi sono stata un’esplosione avvenuta in poche settimane, poi hanno sedimentato a lungo e solo dopo un anno ho ripreso a lavorarci. Nel complesso il lavoro di stesura è durato tre anni. E se ci penso mi viene la pelle d’oca, quando guardo quel librino così fragile, nel senso della trasparenza e leggerezza di grammatura dell’oggetto libro, ma così denso.
Il libro è anche un continuo svelarsi, un misurare se stessi in quello spazio da esplorare che è la vita. Ti ci ritrovi in questo?
Sì, e ti ringrazio per questa domanda. Ci sono diversi piani del misurarsi che Ribilanciare esplora. Il primo riguarda il ridimensionare l’Uomo in quanto essere vivente e la sua visione antropocentrica.
La Natura continuerebbe a sopravvive senza di noi, è stato così per milioni di anni, ma il contrario non sarebbe possibile. Dovremmo fare un passo indietro e ricordare che non siamo i padroni dell’Universo.
L’altro piano del misurarsi è quello che riguarda il sé e anche qui entra in gioco la Natura. Lei ha tutte le risposte che cerchiamo e spesso queste passano attraverso l’accettazione. Accettare di non poter cambiare il corso degli eventi o lo scorrere del tempo, accettare di essere esseri finiti, fragili e fallaci.
L’altro piano del misurarsi è quello della scrittura che, per me, è un atto di sottomissione alla lingua, al suo emergere e farsi.
Scrivere poesia non è un atto prevedibile, non sappiamo quale sarà l’ultima poesia che scriveremo e nemmeno quando la scriveremo. Tantomeno ci è dato sapere di cosa scriveremo, perché spesso dalla scrittura poetica nasce qualcosa che non ti aspettavi, parole che non hai il coraggio di pronunciare ad alta voce, ma che la poesia pretende e rimette in moto senza che tu lo voglia.
L’ultimo, ma non meno importante misurarsi è con se stessi, con la propria solitudine. Misurare il corpo in quella condizione, tutte le poesie della seconda sezione sono state scritte in un isolamento auto imposto perché la lingua si immergesse totalmente in se stessa, sentire affiorare lo stato di smarrimento e panico, attraversare quella porta come unico spazio possibile e saperla come esperienza comun a ogni essere vivente.
Come si arriva a scoprire, o a pensare che “le ossessioni sono insetti/ accartocciati dentro i rospi”? Quale il percorso, o l’accadere, che bisogna fare? A cui si deve essere disponibili?
In un processo di crescita personale spesso hai voglia di far sparire certe tue ossessioni, piccole manie, storture. Fagocitare quello che ci infastidisce è possibile, a patto che diventi nutrimento e presenza anche nel non visto.
Spesso penso che le poesie siano insetti dentro le pance dei poeti, pronte a saltar fuori in altra forma. Comunque la disponibilità è quella di accettare.
Ogni pagina di “Ribilanciare per sottrazione” si muove dentro un tempo che non è mai vuoto, che di volta in volta si fa forno, casa, se stessi, parola, corpo… E quando guarda fuori diventa natura. E mi sembra che sia una natura capace di osservarci. E quasi di muovere giudizio verso la nostra esistenza. Come una voce fuori campo che entra nello spazio dell’azione. Può essere (anche) così?
La Natura, le piante, gli animali sono state le mie compagne, le mie custodi, Il Padre e la Madre. La parola era quella dei grilli. Non erano presenze giudicanti, ma esempi, guide sagge ed esperte. Io le ho avvertite così almeno in quei giorni.
In questo tuo raccontare mi sembra che ci sia anche un non detto che si muova sottopelle, che fa vivere al lettore una sorta di solitudine – forse la stessa a cui accennavi prima – che è capace di trasformarsi, di adattarsi a chi si ha di fronte, come un qualcosa in grado di puntare alla sopravvivenza…. È un qualcosa di reale? O è il semplice rischio che si corre per essere se stessi?
La solitudine ci trasforma, ci sottrae alla dipendenza, dal cibo, da una relazione non armoniosa, dai nostri gesti malsani per poi “rimetterci al mondo”, cioè riconsegnarci diversi, forse non ancora maturi, ma più vicini a noi stessi, alla conoscenza intima di quello che siamo.
Sì, ci sono non detti necessari, sottratti, superflui, intimi, carichi di pudore, sofferenze che coccolo tra le mie braccia e tengo al riparo.
Ti ringrazio per questa intensa intervista, ringrazio il mio editore, Samuele Editore per avermi pubblicata, i lettori e il numeroso pubblico che segue con tanto interesse e affetto l’esperimento poetico che curo, “Vocale”, in onda su Fango Radio.
L’autrice:
Elisa Longo è nata a Tradate (Va), autrice e narratrice si occupa di scrittura. Si è laureata in lingue e letterature straniere presso l’Università Cattolica di Milano ed è specializzata in giornalismo e comunicazioni sociali.
Ha collaborato con quotidiani e periodici partendo dal settore musicale. È impegnata nel sociale e per la parità di genere. Ha organizzato cicli di divulgazione di poesia e intersemiotica tra le arti sperimentando e testando i mezzi di comunicazione della nostra contemporaneità. Lavora in editoria.
Tra le sue pubblicazioni in poesia: “Buttate la poesia tra le gambe di una donna che passeggia” (IQdB, 2018, traduzione in inglese nel 2019), “Ho sbagliato tutto perché lo vedevo con i miei occhi” (IQdB, 2020), “Poesie inedite-La doppia lievitazione del pane” (Atelier-Ladolfi, 2022), “Bestianime” contenuto in “La Terra inesplorata delle donne” (Dalia edizioni, 2023, a cura di Sara Durantini).
Ha inoltre pubblicato il libro di racconti “Come se qualcuno vi vedesse nudi” (IQdB, 2018).
(Elisa Longo “Ribilanciare per sottrazione” pp. 53, 13 euro, Samuele Editore 2023)
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Tempo presente —————————–
Ci siamo mossi all’alba
Un testo inedito
di Luca Buiat
Ci siamo mossi prima dell’alba, senza fare rumore
sentivamo i crepitii dei nostri nodi muscolari
attraversare i tessuti termici dei calzoncini
i nostri respiri fiatare sui margini della strada
le nostre prime parole affrontare il silenzio
in un contrasto primitivo sul finire della notte nel paesaggio ancora scuro
ci siamo mossi all’alba
per andare a vedere come nasce un fiume dalla terra
sulla nostra Terra che ci accoglie
che ci porge sulle mani l’acqua da bere quando abbiamo sete
che ci offre ogni giorno un’altro giorno dopo ogni notte
un nuovo sguardo da posare su ogni prossimo canto
ci siamo mossi piano all’alba,
per sentire la sua voce lieve nel suo primo chiarore
quando filtra dai pini ritti, posti sui profili curvi delle prealpi Giulie
abbiamo ascoltato quella voce che sprizza come un archetto sulle corde di un violino
l’abbiamo fatto strofinando con gli occhi
le infinite strade bianche che stanno sparse qui in Friuli
sono leggere e tenere le note che passano
in questa sfumatura di giorno che deve ancora arrivarci sul muso
perché quando si accende la prima luce
il paesaggio si rileva nei primi colori
si esprime nei primi aliti del cervo tra i rami
nelle sue zampe che scalciano la fame dentro il terriccio morbido
abbiamo attraversato lenti l’altopiano sulla strada forestale
sui prati ci facevamo guardare dagli alberelli solitari
quando raccoglievano tra i tronchi l’aria per portarla alle foglie
e poi la spargevano fresca sulle radure
avevano un’espressione allegra
quando veniva al mondo la forma della luce
poi, poco più in alto lassù sul sentiero
una grande parete candida davanti a noi rallentò improvvisamente la nostra corsa
un ritratto di luce naturale riverberava nella roccia
il fragoroso annuncio che fendeva negli sguardi
era il grido del Rio Bianco che sgorgava dalla montagna
come un arpeggio elettrico degli Slowdive stendeva la forma dell’acqua
iniziando a divenire torrente e poi fiume nella valle.
L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel 1971.
Il piacere nei libri lo scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse.
Dopo questo libro inizia a scrivere piccoli racconti e poesie.
Appassionato di paesaggi naturali che preferisce attraversarli a piedi o in bici, Buiat pensa che sia già tutto scritto. Occorre a “noi” osservatori percepirne la lingua che sentiamo in mezzo ai nostri passi.
Da qualche anno ha iniziato a frequentare i corsi di scrittura creativa che si tengono all’UNITRE di Cormons.
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Margini. Di poesia ed altro ———————–
In braccio alle statue, sopra le lampade accese
Alessia Bettin, “Appese a un chiodo ma vive”
di Roberto Lamantea
È al suo secondo libro Alessia Bettin, dopo “Ci aspettano estati tropicali”, incluso nell’ebook “ESORDI / 2020” di Pordenonelegge: “Appese a un chiodo ma vive”, pubblicato da “puntoacapo”, secondo volume della collana “controcorrente”.
Il titolo “riprende il modo di dire dialettale veneto Tacài a un ciodo, ma vivi, traducibile in italiano come “Attaccati a un chiodo ma vivi”, ovvero salvi per miracolo, sopravvissuti”.
Nella prefazione Mary Barbara Tolusso scrive che “La vena di Alessia Bettin tende a conciliare ossimori […] elementi antitetici, taglia il surrealismo con una buona dose di minimalismo, il sogno è un codice che usa spesso […] una sorta di narrativa surreale che è anche il segno tragico della sua scrittura”.
Vent’anni di poesia, informa l’autrice nella nota: i testi sono stati composti tra il 2003 e il 2022: quaranta testi in sette sezioni. Un distillato: lo si sente dalla cura con cui Bettin disegna i testi: metafore, immagini, cortocircuiti tra cultura pop e immaginario, oniriche inquadrature rurali, metamorfosi, in una scrittura che, come in un collage verbale, accosta la tecnologia agli anglicismi, la lirica ai flash metropolitani, un albero di fico cresciuto – efficace metafora – su uno strapiombo dietro una grondaia, al mondo visto da una webcam, i bagni degli autogrill e la paura dei ladri, l’odore di smog e le infiorescenze di settembre.
Non per nulla Tolusso cita Giudici, Raboni e Pagliarani, e gli esergo vanno da Anne Sexton a Silvia Salvagnini. Sciabolate al cianuro: “Nell’hospice della coppia/ gli infermieri non sono sgarbati/ ma neanche troppo gentili/ ci dicono di aver studiato/ la morte/ in ritiro/ al campo estivo”.
Ma anche la lirica, una fiaba tra Rodari e Lamarque su una lucciola. La scrittura a collage di Alessia Bettin nasce dallo sguardo su un mondo in metamorfosi, natura frammentata dalle periferie urbane, ricordi che si sovrappongono alle visioni, strappi, ritagli, nostalgie.
Rileggendole più volte queste poesie rivelano, sotto la pelle della scrittura, una dolcezza struggente.
Dal libro:
Non avere paura di fallire pubblicamente
sfoggiarti architettura inconclusa bordo strada
hotel non finito villetta abbandonata
i serramenti nuovi imbiancata
di sentirti ovunque estranea
come l’acqua che evapora
di dire sto perdendo tutto
mi sgretolo esplodo
resta un buco
con tre alberi attorno.
*
La morte comincia come un sogno,
pieno di oggetti e della risata di mia sorella.
E i morti? Giacciono senza scarpe
nelle loro barche di pietra.
Anne Sexton, da “All my pretty ones”
Ai bambini morti
piacciono le filastrocche
battere le pietre coi cucchiai
i colori sgargianti
il becco giallo del merlo il pettirosso
la ghiaia bagnata di pioggia
anche per loro è finita
la paura del buio
dopo il profumo della torta
inzuppata di veleno
in braccio alle statue, sopra le lampade accese
sonnecchiano
aspettando i gabbiani
prima del temporale
hanno una mamma
tutta legno laccato e raso bianco
che li cova all’inverso
con pazienza
per tanti anni
dal giorno in cui la tartaruga gigante gli ha sorriso
con la sua bocca di centocinquant’anni:
vieni con me, bambino pigro
tu non vuoi vivere a lungo.
Ti regalerò viti severe come suore impettite
un odore di fiori da togliere il fiato.
*
Mia piccola lucciola
buon compleanno
quest’anno abbiamo cambiato pelle
perso il pelo
l’anima ci è uscita dal corpo
siamo naufraghi
api a novembre
terremotati
ma oggi brindiamo
ai nostri errori straordinari.
*
Il fico è come te
anima granulosa
pianta sfacciata
cresce sugli strapiombi dietro le grondaie
dove nessuno pianterebbe mai un seme
non si cura
di vespe e calabroni
– scavano i suoi frutti collosi
ci ficcano dentro testa e zampe –
come te ama
i rosoni delle cattedrali normanne
la muta sterpaglia
gli orologi rotti e mai aggiustati per pigrizia
starsene aggrappato alle mura
solo
dalla parte dell’acqua azzurra.
L’autrice:
Alessia Bettin è nata a Padova nel 1982. È laureata in Lettere e in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale. Ha vinto diversi premi letterari, tra cui il premio Esordi 2020 Pordenonelegge, il premio di poesia Coop for Words 2018, il premio speciale del presidente di giuria Bologna in Lettere 2019 per la poesia inedita e il premio Action4Land 2021 Seven Blog.
La sua raccolta di poesie “Ci aspettano estati tropicali” è inclusa nell’ebook “ESORDI / 2020” (Pordenonelegge 2020).
Nel 2019 ha frequentato la scuola di scrittura Bottega Finzioni. Alcune sue poesie sono apparse su blog e nella rubrica di Repubblica “La Bottega della Poesia”.
(Alessia Bettin “Appese a un chiodo ma vive” pp. 82, 12 euro, puntoacapo2023)
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Voce d’autore ————————
Cercare le vene alle bambole
Sara Comuzzo, “Invitare gli Spaventapasseri a Ballare”
di Antonello Bifulco
“Per le donne di St Aubyn’s Road.
E per tutti gli spaventapasseri là fuori”.
Comincia così il nuovo libro di Sara Comuzzo, comincia con una dedica importante alle donne quelle di una via precisa, quelle di una via qualunque nelle nostre città, è dedicato anche agli spaventapasseri quelli reali e quelli che vivono nella mente di ognuno di noi.
“Invitare gli Spaventapasseri a Ballare” è la settima raccolta di poesie per la giovane poetessa. Con questa raccolta Sara continua il viaggio intrapreso nell’opera precedente “Dove i clown vanno quando sono tristi” nel quale ci invitava a vedere oltre la facciata delle cose oltre al senso di alienazione del nostro tempo cercando di abbattere tutte le distanze con la vicinanza.
L’autrice ci introduce nell’irrealtà della nostra realtà seguendo le orme di un’opera teatrale dove all’iniziale prologo seguono cinque atti e un epilogo.
Ogni atto è preceduto da una citazione ben precisa e ragionata di Ferlinghetti, Spicer, Filippov, Cattaneo, Bajec, Tomada e Genti.
Il titolo del libro ci propone una riflessione importante ma soprattutto è una richiesta di aiuto, un aiuto per tutti quegli Spaventapasseri che incontriamo sul nostro cammino. Cammino che Sara ha percorso nella sua esperienza lavorativa in un centro di accoglienza per emarginati nel quartiere dublinese e in un rifugio per donne tossicodipendenti vittime di violenza a St Aubyn’s Road a Brighton.
“Non è una vacanza, solo una pausa dalla vita”, così all’inizio della poesia dedicata a Katrina, uno dei personaggi chissà se reali o di fantasia, la Comuzzo ci introduce in questo che è un mondo dove il “disturbo” la fa da padrone, schizofrenia, tossicodipendenza, alienazione, ossessione, sono pause dalla vita non sono una vacanza. La silloge è un incontro con persone che sanno bene come aprirsi i polsi, che amano gli orsetti di peluche fino a disossarli, che amano spaccare le bottiglie sulla testa dopo essersi bevuti l’anima.
Nella silloge la percezione di ciò che l’autrice ha vissuto in prima persona è ben evidente anche negli odori di alcuni spaventapasseri: “E Leon mi sorride con i suoi denti storti. Odore di urina dai suoi vestiti sporchi./ Oggi non vuole uscire. C’è poco da dire. Ancora meno da fare. Solo accettare: una barca a vela non deve per forza salpare./ Rimango li, inerme, come un sacco da boxe, per tutta la durata del turno”.
Si rimane inermi di fronte ad una vita che ha perso le coordinate, che non sa più se salpare, se porterà da qualche parte oppure no, magari il sistema potrà aiutarmi ma: “Ho voglia di tagliarmi da qualche parte, far scrosciare tutto di fuori; invece chiedo aiuto al sistema e ne divento vittima e poi pedina ma non so in quale ordine”. Non so se Tania che parla in queste righe avrà mai trovato l’ordine delle sue idee, o se ha intuito che forse alle volte è meglio il disordine ad un ordine fuori posto.
Leggendo questo libro ci si ritrova sott’acqua senza bombole d’ossigeno, si sente la pressione dentro le urla dei personaggi, si intuisce che manca l’ascolto, la vicinanza, è un libro che ci richiama tutti a ballare, a metterci in gioco, un libro che dà consigli, scopriamo che si impara più dai film che dalla realtà, che si ama la persona con cui si aspetta faccia sera, che il mondo è un grande puzzle ma c’è posto per tutti anche per le tessere rotte, che c’è bisogno di una pausa e di un piccone per seppellire tutto, che disfare è solo riportare le cose al punto di partenza, che sognare è lasciare ai lampioni le città da illuminare, che bisogna prendersi cura dei fiammiferi perché un giorno saranno incendi, e che bisogna lasciare gli amori sugli alberi affinché il vento li faccia cadere giusto per sentirsi meno colpevoli.
La poesia di Sara Comuzzo contagia il lettore e gli chiede di farsi una e più domande e soprattutto di agire. Le sue parole sono il luogo della gentilezza gridata ad alta voce, il confine che si deve superare dentro tutti i silenzi, la marea che ti sconvolge fin dentro l’anima e ti rimane addosso.
dal libro:
Olivia
Mi hai spaccato la cassa toracica.
In cambio ho cambiato la serratura di casa
e poi mi ci sono chiusa fuori.
Ora dormo per strada e le mie giornate le passo
a cercare di capire come pagare
la prossima pasticca o la prossima dose endovenosa
che mi spedirà su un paesaggio lunare
dove neanche le zanzare potranno trovarmi
dove non mi addormento mai
e non sogno le tue bottiglie di vodka
atterrate sul mio cranio.
Dove non ho colpe e chi sono
è solo il risultato di chi non ho mai potuto essere.
*
Da qui
Incomincia tutto da qui:
la nausea, l’epicentro della notte,
il sudore di un fiore.
Quelle favole che da bambini
ci facevano addormentare,
ora ci tengono svegli.
Il sacrificio degli agnelli.
Una spina infetta sui polpastrelli
dei buoni propositi,
inconcludenti quanto la voglia di ricominciare.
Abbracciati alla luna
si cambia prospettiva
su lumini e candele
e si capisce che luce e ombra
sono solo due vecchi amici
che giocano a guardie e ladri
da sempre.
*
Sera
Ci sono tante soluzioni al mondo
che è solo questione di trovare quella giusta.
Ricordi quando pescare accadeva solo con un filo?
/
A scuola non hanno mai parlato del paradiso…
eppure, durante quei lunghi viaggi
sui carrelli dei supermercati,
nevicava
come se qualcuno stesse grattugiando le nuvole.
Ora
le barche vanno a cercare parcheggio nel porto.
Tu per strada, ti sbracci.
Forse qualche taxi noterà la tua mano alzata.
Non ho mai imparato
ma ho capito:
si ama la persona con cui si aspetta faccia sera.
*
Vicky e Liz
Anche le candele sono stanche
e la voglia di parlarsi è andata a farsi fottere.
Il nostro amore prende il tram
scende alla fermata sbagliata
e finisce in un quartiere poco raccomandabile
dove il Fentanyl è venduto come un superpotere
e i bambini cercano a tutti i costi l’ultimo supereroe
per completare la collezione.
Diventare finalmente X-Men.
Tenere accesi gli accendini
senza far sciogliere i cioccolatini.
Confondere i cecchini
mimetizzandosi coi brillantini.
Portare a spasso i burattini.
Dare da bere ai cani dai finestrini.
*
Lily e John
Un buco nero ti inghiotte e poi ti risputa fuori
lavato con Perlana.
Non volevo che andasse tutto a puttane.
È semplicemente successo.
Ti credo ma crederti non cancella il naso rotto,
il cristallino frantumato, la mascella spostata.
Non ho mai capito perché
tra tutti i posti in cui potevi colpirmi
sceglievi sempre la faccia.
*
Luoghi immaginari
Soffia sulle candeline, esprimi un desiderio.
Offri sul palmo la tua vita,
come fosse un fossile da mostrare a degli scolari
che non sanno nulla del passato.
Il momento del viaggio in cui proseguire
è più conveniente che tornare indietro.
Naufragare.
Trovare scuse per andare e non tornare.
Cercare le vene alle bambole,
bucarle con cura per non fare loro del male.
Svuotare la siringa per teletrasportarsi
nel Paese dei Balocchi:
partire per una vacanza.
Luoghi immaginari.
Il jet lag dei dromedari.
La Terra Promessa.
Eldorado non aspetta.
Guida in stato di ebrezza.
Testa-coda all’aeroporto.
Aperitivo con gli androidi.
Fare l’hula-hoop attorno alla luna.
Nevicata di atti di purezza a casaccio
sul Giardino dell’Eden.
Da queste parti, sono tutti imbottiti di sonniferi;
ma tu, prenditi cura dei fiammiferi,
un giorno diventeranno incendi.
*
Stephen
Mi hai riaccompagnato a casa con lo sguardo
e mi hai detto di finirla
di raccontare cazzate sulle stelle
tipo che sono belle anche senza luna.
Mentre lecchi la tua birra
come fosse un cono gelato;
l’odore di lavanda inonda le strade
la bava dei gabbiani incolla il cielo.
Mi insegni:
I polsi devi tagliarli in verticale
se vuoi avere l’effetto sperato.
Parola di scout.
E poi aggiungi:
In campeggio si può affogare
se piove molto,
e finire come certi insetti
che non sanno nuotare
nelle lacrime dei fiori.
Intervista a Sara Comuzzo:
“Invitare gli spaventapasseri a ballare” è un viaggio attraverso i quartieri dei nostri disagi, di alcuni disagi. Quando è iniziato questo viaggio e quanto è stato importante il precedente libro?
Ripensandoci bene, tutti i miei libri trattano in qualche modo di una qualche forma di disagio. Lavoro nel sociale da una decina d’anni e ciò ha sicuramente influenzato quello di cui voglio parlare in poesia.
Il consiglio di tutti i più grandi scrittori è “scrivi di ciò che conosci” e l’ho sempre preso alla lettera, attingendo dalle esperienze lavorative vissute sul campo in prima persona. Ho raccontato di bambini di strada nelle baraccopoli di Nairobi, in Kenya; di psichiatria e tossicodipendenze; depressioni e violenza; autolesionismo e suicidio; follia e allucinazioni.
Sicuramente negli ultimi libri vi è una maggiore maturità nel trattare alcune tematiche delicate e scomode e il mio interesse nei confronti della poesia civile si è amplificato. “Invitare gli Spaventapasseri a Ballare” è indiscutibilmente il sequel del precedente “Dove i Clown Vanno Quando Sono Tristi”, del 2020, portato all’ennesima potenza: più estremo, più duro, più ruvido.
I Clown e gli Spaventapasseri sono due figure simboliche che per me rappresentano la finzione, la schizofrenia e l’ingestibilità di una vita frenetica e ultra-capitalistica che ci vuole sorridenti e truccati come i clown, per far ridere, ma che poi ci immobilizza e ci lascia lì, come spaventapasseri smarriti e inermi in mezzo a campi di grano rettangolari infiniti.
Se ne I Clown analizzavo la tristezza e il senso di vuoto della vita di ogni giorno, ne Gli Spaventapasseri indago le esistenze di tossicodipendenti e schizofrenici che vivono ai margini.
All’inizio della silloge citi Ferlinghetti e il suo “…mi sono innamorato dell’irrealtà“. Dove si è innamorata Sara dell’irrealtà e quanta irrealtà c’è nelle vite che descrivi?
Amo Ferlinghetti e tutta la Beat Generation, e questi suoi versi mi sono sembrati perfetti per l’incipit della raccolta e per tutte le (ir)realtà alternative contenute al suo interno. Ci sono varie forme di irrealtà. A volte, la sperimentiamo come il bisogno di una pausa dalla realtà. Questa è una dimensione che si raggiunge attraverso la miriade di forme d’arte esistenti (film, teatro, quadri, musica…).
A volte, è una vera e propria fuga dalla realtà, che è quello che succede ai protagonisti del libro e che si verifica quando la realtà fa troppo schifo per essere accettata e si cercano scorciatoie per evitarla, come l’abuso di sostanze psicoattive o sedative o lo sviluppo di disturbi psichiatrici che formano una realtà alterata e delirante.
Quando la realtà non mi piace, mi prendo una pausa. La poesia, i libri, le storie, il cinema, le mostre d’arte, i concerti, gli spettacoli teatrali, la corsa, aiutano a dimenticare per un po’ le delusioni personali o quello che vedo ogni giorno su telegiornali.
Volevo però dare voce anche a chi vuole cancellare la realtà e squarciarla, cospargerla di benzina e darle fuoco; volevo raccontare delle persone con cui ho lavorato e che ho conosciuto: donne tossicodipendenti incastrate in relazioni violente, schizofrenici e perdenti. Le storie sono tutte reali, purtroppo. Ho cambiato i nomi, ho estremizzato alcune scene rendendole surreali e condendole con immagini metaforiche, ma molte cose presenti nel libro sono successe davvero.
Tutte le poesie intitolate con i nomi propri di persona (come Vincent, Leon, Andy, Charlie, etc.) sono ritratti di persone reali a cui ovviamente do la mia interpretazione. Nella scrittura la realtà è sempre filtrata dalla lente soggettiva di chi scrive, ma tutti i protagonisti sono esistenti o esistiti e le loro problematiche sono autentiche anche se trasportate in poesia.
In queste tue poesie, nei temi che tratti, ci si ritrova sospesi senza respiro, sott’acqua senza bombola d’ossigeno, riesci a catapultare il lettore nel disagio, nella violenza di alcune storie togliendoci il fiato e lo fai senza ferire, con dolcezza. Come ci si riesce?
In realtà, non so se ci riesco mai. So che mi piace giocare con il lettore e mischiare il dolce con il salato, il tragico con il comico, il sole con la luna, il parco giochi con l’ospizio, in modo da creare un’atmosfera dolceamara e tragicomica ricca di colpi di scena, dolcezze smisurate e pugni allo stomaco.
Amo molto il surrealismo e il postmodernismo e questi due modi di percepire il mondo hanno sicuramente plasmato il mio modo di scrivere e di incastrare gli elementi più assurdi, disparati e quotidiani insieme.
“Prenditi cura dei fiammiferi/un giorno saranno incendi”, “Si ama la persona con cui si aspetta faccia sera”. C’è una cura nelle parole e nei pensieri e si percepisce che cerchi di dare dei consigli, può essere?
Non ci avevo mai pensato. Posta così, direi di sì. Dal nulla compaiono dei consigli qua e là, quasi degli ammonimenti o delle esortazioni, ma non so a chi sono rivolti esattamente; se a me, ai personaggi o ai lettori. Forse a tutti e tre.
Sette raccolte di poesie, una raccolta di racconti, in ognuno di questi libri tendi a mettere in evidenza e/o sottolineare che il più delle volte manca l’ascolto nei rapporti interpersonali, confermi?
Nella società odierna l’ascolto è una risorsa umana limitata. In una quotidianità ricca di incommensurabili distrazioni, soffriamo sempre più di disturbi dell’attenzione, difficoltà di concentrazione, incapacità di portare a termine una conversazione senza passare di pala in frasca.
L’eccesso di stimoli e dispostivi tecnologici, le nostre vite che pur di stare al passo con il qui e ora dipendono sempre di più da uno schermo, hanno reso le relazioni interpersonali vis a vis qualcosa di estremamente complesso in cui il saper ascoltare è un superpotere difficile da conquistare.
Poi, ovviamente mi piace portare questa cosa all’estremo e descrivere i rapporti assurdi e complicati con una lieve vena ironica/polemica che nasce dalla preoccupazione per quello che osservo in giro, come coppie al bar che neanche si guardano in faccia e passano la serata sui rispettivi telefoni; bambini di cinque anni dipendenti dal tablet; adolescenti che passano giornate intere connessi o adulti dipendenti dai like persino quando sono alla guida.
Abbiamo sempre dei progetti nel nostro cassetto, quali i tuoi a breve termine?
Viaggiare ed essere felice, a livello strettamente personale.
A livello letterario, attendo con una certa euforia l’uscita di una raccolta di poesie scritta a quattro mani con un amico, il poeta e agente culturale Antonello Bifulco. Siamo all’ultima fase di editing proprio in questi giorni ed è stata una bella novità, perché non ho mai scritto con qualcun altro prima.
L’autrice:
Sara Comuzzo (Udine, 1988) ha vissuto in Canada, Scozia, Australia, Nuova Zelanda, Africa, Irlanda e Inghilterra. Al lavoro nel sociale, principalmente con senzatetto, bambini di strada, tossicodipendenti e adolescenti problematici, accompagna l’insegnamento di italiano a stranieri.
Ha pubblicato le raccolte di poesie “Mentre loro parlano di non so cosa” (2012), “Siamo sopravvissuti a un altro inverno” (2014), “Invecchiano anche le rose” (2014), “Una Bellezza Lontana” (2018) e “Dove i Clown Vanno Quando Sono Tristi” (2020).
Ha vinto il Premio Valerio Gentile con la raccolta di racconti “Dove nessuno può cadere” (2014).
(Sara Comuzzo “Invitare gli spaventapasseri a Ballare” pp. 142, 12 euro, Brè editore 2023)
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Ti racconto —————————-
Un colabrodo per sentire amore ed empatia
Matilde Mori, “Il buio nei tuoi occhi”
di Anna Piccioni
Leggere “Il buio nei tuoi occhi” di Matilde Mori mi ha fatto venire in mente il “sesso droga e rock and roll”, ma nel tempo da questo vecchio slogan si è passati ad altre droghe, ai rave party e alla musica tekno.
Ma il sesso rimane: “Le feste sfrenate musica tekno e droga. Per fortuna dura poco non c’è tempo per costruire caste e gerarchie, non c’è tempo per discutere… nessuno con un minimo di onestà pensa realmente di cambiare le cose”.
Il libro è una testimonianza cruda, amara, lucida, di un mondo che solo i protagonisti conoscono. Protagonisti che non si considerano tossici, e che si vogliono distinguere dagli eroinomani, ormai passati di moda, o dai cosiddetti punkabbestia, piccoli spacciatori disprezzati, ma utili. A distinguerli è un abbigliamento trascurato: minigonne con calze autoreggenti smagliate, anfibi, zeppe, felpe sformate, i capelli rasta: una divisa.
La storia di “Il buio nei tuoi occhi” è ambientata a Bologna, e poi si sposta a Trieste. I protagonisti sono studenti dell’Università, ma lo studio è l’ultimo dei loro interessi. I fatti si svolgono tra il 2011 e il 2013, per poi arrivare al 2019
Personaggi: Marco, Simone (chiamato Simon) e Ettore, tre fratelli di buona famiglia rimasti orfani, che vivono con Giulia; gli altri fratelli Cecilia ed Emanuele (chiamato Ema); Monica che vive con Ema e Cecilia… e l’importante figura di Sofia, amica di Giulia.
Tutti i personaggi verosimili sono protagonisti: ci sono le date, sono segnate le ore, sembra un diario, ma forse l’intento della scrittrice è quello di dare l’idea di come viene percepito il tempo in questa piccola comunità, che si rapporta con una comunità più ampia, dove l’unico filo che lega il tutto è trovare le dosi sufficienti di oppio, di ketamina, che procura totale dissociazione dai sensi e dal corpo fisico, di MD (MDMA, metilenediossimetamfetamina): “La droga più grottesca. Abbiamo davvero bisogno di ridurre il cervello a un colabrodo per sentire amore ed empatia?” (pag.38)
Il lettore entra nella mente dei personaggi; ognuno di loro racconta in prima persona, da un suo punto di vista, e interpreta le parole dell’altro e dell’altra, e poi dà la sua versione.
La lettura di tutto questo dà un senso di vuoto, di una mancanza. Ci si chiede, perché? Sono giovani, sani, senza problemi economici…
Qualcuno di loro si è avvicinato alla droga solo per provare, pensando di smettere a comando; poi invece vi si è trovato in mezzo, senza una via d’uscita. Come Giulia e Marco convinto che “prendere la droga vuol dire rinunciare all’umanità … So che devo stare attento…Ma come si può, come si fa a rinunciare? Ormai l’ho provata…”.
Stare male, vivere incubi terribili (“un canile inferocito mi abbaia dentro – ora mangio pezzi di vetro e mi scavo le cosce coi coltelli, invece di vivere…quante scuse per concedersi l’autodistruzione“), momenti che durano giorni di totale apatia (essere in scoppia), incapacità di coltivare sentimenti profondi.
E prendere altre sostanze per “tirarsi su”: di tutto questo sono coscienti ma “non si può cancellare dal corpo la memoria della gioia fisica. Il corpo la rivuole, come la mente e il cuore” (pag.126); “Ho deciso di restare in uno di quei mondi che ci inventiamo da bambini, quando giochiamo” (pag 25); “Il dolore del vivere ti raggiunge anche se sei imbottito delle tue sostanze preferite“(pag191).
Atteggiamenti superficiali, poco impegno per lo studio, poco interesse per altri che non facciano parte della cerchia, i famigliari tagliati fuori e anche fare sesso è sofferenza. I protagonisti di “Il buio nei tuoi occhi” sanno benissimo il significato del rimanerci sotto … sviluppare dipendenza tossica…
Intervista a Matilde Mori:
La lettura del libro mi ha fatto venire in mente il “sesso droga e rock and roll”; ma da questo vecchio slogan si è passati ad altre droghe, ai rave, alla musica tekno. Ma il sesso rimane…
La società è in perenne cambiamento, e così anche le vie di fuga si modificano: le droghe diventano sempre più subdole e pericolose. Ormai tutti sanno del danno che può provocare l’eroina perché è stata, giustamente, culturalmente demonizzata, ma esistono una varietà di droghe di cui i ragazzi non hanno timore semplicemente perché non c’è informazione al riguardo.
Il rave, esattamente come i social, dà la possibilità ad ognuno di sentirsi ed essere protagonista. Nel rave party non c’è un palco con una persona da osannare, i Dj sono spesso in un angolo dove non vengono notati e si alternano. Ogni singolo individuo è parte del gruppo ma anche solo nel viaggio introspettivo a cui lo porta l’evento.
Il sesso rimane, certo, le relazioni e l’attrazione sentimentale sono la struttura ossea di un ambiente in cui la droga manipola le percezioni emotive che abbiamo delle persone.
La storia che racconti nel libro può essere considerata come una cronaca, una testimonianza, una provocazione, una denuncia…
Direi una testimonianza e una denuncia: è una testimonianza perché ho deciso di dare voce al dolore e alla morte di persone invisibili e sconosciute. Una denuncia perché sono estremamente convinta che se ci fosse più informazione molte vite non sarebbero distrutte.
Molto interessante è l’impianto narrativo: i singoli personaggi raccontano i loro pensieri, i loro incubi, le loro allucinazioni, il loro punto di vista nel susseguirsi dei giorni. Non c’è un solo protagonista, tutti sono legati da un unico bisogno, avere la droga a portata di mano…
Era necessario un romanzo corale per dare esempi diversi di come si arriva nel labirinto delle droghe; e volevo che ci si potesse immedesimare nei personaggi, capire le difficoltà e le ferite che portano a degli atteggiamenti così autodistruttivi.
Le droghe e il danno che causano sono un’esperienza intima, ognuno ci arriva per un motivo diverso e ognuno le vive sulla base della propria struttura caratteriale e delle proprie esperienze di vita.
Permettere ad ogni personaggio di raccontarsi, al presente in prima persona, è il modo più diretto di comunicare al lettore un racconto con simili presupposti.
L’argomento droghe e tossici sembra sia diventato tabù. Negli anni ottanta le morti per overdose facevano notizia. Per alcuni personaggi, Giulia e Marco, sembra valere il proposito “smetto quando voglio”. Anche per le droghe il mondo è cambiato…
Sì, sono morti invisibili. Si è accettata l’idea che qualcuno scelga la strada sbagliata e “pace, è andata così”. Qualcuno vede i tossici più come vittime e qualcun altro gli dà piena responsabilità, ma non si va oltre. Questa superficialità allarga la forbice, e alimenta la convinzione che chi si droga è convinto di essere solo, e di non poter esser capito da nessuno.
Molti ragazzi sono convinti di poter smettere quando vogliono: il problema non è tanto porre fine ad una dipendenza, ma convivere con tutta la sofferenza emotiva e psicologica che ne segue.
Perché pubblicare questo libro? Perché usare uno pseudonimo?
L’esigenza di scrivere è nata dalla volontà di mostrare un mondo sconosciuto ai più, e di provare a raccontarne i meccanismi e le leggi che lo regolano.
La delicatezza degli argomenti trattati mi ha portata a decidere di usare uno pseudonimo.
Quanto l’autrice è coinvolta nella storia, e quindi quanto coraggio a scriverla?
Sono state le relazioni con le persone che ho incontrato a darmi la benzina per scrivere.
Si può dire che nel libro, nonostante il senso di vuoto che trapela, e di conseguenza la mancanza di sentimenti profondi, della mancanza di guardarsi attorno, di avere sogni e desideri, di poter amare la bellezza, c’è comunque l’indicazione di una possibile via d’uscita…
Sì, certo, c’è una via d’uscita. È dura perché ci si sente estremamente soli, e le uniche persone che ti possono capire sono quelle che non ti possono aiutare.
Bisogna trovare qualcosa o qualcuno per cui valga la pena vivere davvero.
L’autrice:
Matilde Mori nasce nella primavera del 1988 sotto in una ricca e operosa città del Nord. Grazie a molteplici interessi del padre, trascorre la maggior parte della sua infanzia a stretto contatto con la natura, vivendo in una cascina in prossimità del Lago.
Nel 2008 si trasferisce a Bologna e si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne, iniziando un percorso di studi e di vita che la porterà ad esplorare territori del mondo e di se stessa molto lontani da quelli del lago.
Dopo essere rientrata a casa ed essersi laureata, sceglie di condividere, con chi fosse interessato, i frutti e le cicatrici di quel viaggo.
(Matilde Mori “Il buio nei tuoi occhi” pp. 412, 17.50 euro, Hammerle editori 2022)
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Anatomia di un territorio
Dieci opere
di Salvatore Puddu
Il progetto “Anatomia di un territorio”
Il progetto “Anatomia di un territorio” è un ciclo grafico-pittorico di Salvatore Puddu dedicato alla terra e ai cambiamenti ambientali e socio-culturali che si sono succeduti nel tempo.
L’artista ha preso spunto dal vicino litorale di Monfalcone e Staranzano, partendo da alcune foto scattate in tempi diversi.
Da queste immagini Puddu ha creato opere di grande formato, composte da più tele accostate, dove il suo sguardo si è riempito di grovigli, tronchi d’albero giunti dal mare, materiali organici e rifiuti di plastica.
Da tutto questo sono nati i suoi nuovi lavori di questo intenso progetto, in uno sviluppo nuovo ed inedito di linee e segni, segmenti e colori.
Le tele di “Anatomia di un territorio” saranno visibili fino a febbraio 2024, negli spazi espositivi di Villa Vicentini Miniussi di Ronchi dei Legionari (Go) e alla Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone (Go).
A breve sarà presentato il catalogo del progetto, a cura del Consorzio Culturale del Monfalconese.
Intervista a Salvatore Puddu:
di Giovanni Fierro
Testimoniare un territorio che si sta trasformando, il suo sfaldarsi, il suo essere ormai qualcosa di ‘altro’. I suoi lavori sono la documentazione di ciò che rimane?
Un artista, oltre ad essere un elaboratore della materia attraverso delle intuizioni, si può dire che è anche un cronista del proprio tempo.
Penso che i miei lavori sono la testimonianza di un cambiamento ambientale radicale tuttora in corso.
E questi lavori, cosa trattengono in sé, di ciò che sono stati e della loro precedente identità? In che modo diventano “Anatomie di un territorio”?
La memoria storica è un altro elemento presente in queste opere.
Quando negli Anni 70 ho iniziato, con le prime opere grafiche, il ciclo dedicato alla “Terra”, il mio è stato un atteggiamento razionale nei confronti della realtà naturale, che ha comportato una analisi delle modificazioni operate in essa dalla mano dell’uomo; una presa di coscienza indispensabile per individuare i soggetti più o meno scomodi che sono la materia prima del mio raccontare.
Perché poi, nel guardarle, queste tele non sembrano animate da un silenzio, ma piuttosto da un ‘rumore’ che ne dimostra l’attrito con cui hanno trovato una nuova forma, un consumarsi che li ha destinati quasi alla rovina…. Può essere così?
Le sezioni di terreno rappresentate nelle opere evidenziano la contaminazione della terra da parte di elementi estranei come manufatti di plastica, rifiuti.
Questi elementi, cambiando la morfologia del terreno, hanno così creato un contesto estetico nuovo.
In alcune tele il colore diventa lo sfondo che ospita i segni e i gesti di una trasformazione… ma, seppure sia evidente che sono l’impronta di alberi e rami, a chi li guarda non viene da pensare alla natura, piuttosto alla presenza umana, capace di incidere il paesaggio e ferirlo. Mi sbaglio?
Se l’Arte è il grande inganno della percezione visiva dove tutto si può simulare, la presenza umana è rivelata da piccole zone colorate che simboleggiano l’elemento sintetico (manufatti creati dall’uomo e poi scartati).
I disegni nati dalle sperimentazioni di grafica computerizzate sono più ariosi, danno un senso di leggerezza, quasi di liberazione…. Perché questa differenza rispetto alle tele in acrilico? Da cosa nasce?
Per costruire un’immagine abbiamo bisogno di tre elementi fondamentali che sono la linea, il colore, il chiaroscuro. Dalla preistoria all’arte contemporanea questi tre elementi sono stati usati nelle maniere più svariate, per creare immagini d’arte.
La linea tradotta nel segno è in un certo senso la carta d’identità dell’artista.
Nelle tele di grande formato ho usato un segno incisivo, per dare maggiore impatto visivo alle opere. In parallelo ho sperimentato delle grafiche con l’ausilio del computer. Il risultato è stato sorprendente, poiché la macchina registra certi particolari che all’occhio umano sfuggono. Le grafiche così prodotte sembrano delle litografie, con un effetto morbido di segni e di colore.
I grovigli delle tele in bianco e nero dicono molto del tempo attuale, dei suoi nodi che non lo sciolgono in un vivere più sereno, in garbugli che sono nell’anima e nel pensiero. Sono un ritratto dell’uomo contemporaneo?
Stiamo attraversando un periodo storico di grande stallo. Ci sono tutti i presupposti per dei grandi cambiamenti socio–culturali, ma si fa di tutto per non attuarli.
Tutto il progetto “Anatomia di un territorio” è portare l’attenzione su ciò che la costa del mare sta diventando, un luogo di rifiuti e di carcasse d’alberi, di plastiche infinite e di tanto altro ancora.… Siamo ancora in tempo per cambiare questa realtà, che sempre di più assomiglia ad un destino?
Penso che ormai siamo a un punto di non ritorno. Quando 50 anni fa ho cominciato il ciclo di opere dedicato all’ambiente, si parlava poco di ecologia e di problemi ambientali. Forse bisognava già allora prendere dei seri provvedimenti riguardo l’ambiente, ma in tutti questi anni si è fatto poco o niente.
L’artista:
Salvatore Puddu è nato a Monfalcone (Go) nel 1954. Si è diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Gorizia nel 1974, sotto la guida di Piazza e Mocchiutti. Vive e lavora a Ronchi dei Legionari (GO).
Specializzandosi nelle tecniche calcografiche ha approfondito in particolare modo la serigrafia.
In più di cinquant’anni di attività nel campo delle arti figurative numerose le sue mostre personali e
collettive.
Sue mostre più recenti:
2012
Personale – Biblioteca comunale – Fogliano (GO)
2013
Collettiva – “Artisti contemporanei della Bisiacaria” – Palazzo delle Prigioni – Venezia
Personale – Studio Arkema architetti associati – Portogruaro (Ve)
2015
Personale – La Corte dell’Arte – Gorizia
Personale – Villa De Finetti – Corona, Mariano del Friuli (Go)
2016
Collettiva dalla Rassegna “La Poetica del Viandante” – Museo Civico del Territorio, Palazzo Locatelli – Cormons (Go)
2017
Personale – Associazione culturale “Leali delle Notizie” – Ronchi dei Legionari (Go)
Prima mostra collettiva artisti del territorio – Sala Antiche Mura, Galleria d’Arte Contemporanea Monfalcone (Gorizia)
Personale – Biblioteca Statale Isontina, Galleria d’Arte “Mario Di Iorio” – Gorizia
Collettiva “Arte Open” rassegna internazionale d’arte – Galleria d’Arte Contemporanea – Monfalcone (Go)
2018
Personale – Associazione culturale “Leali delle Notizie” – Ronchi dei Legionari (Go)
Personale – Spazio espositivo Tiare Art – Villesse (Go)
2019
Personale – Associazione culturale “Atthirty Seven” – Spazio espositivo Sala dei Tigli – Fiumicello (Ud)
2020
Personale – Sala Consiliare – Turriaco (Go)
2023
Personale “Anatomia di un territorio” – Villa Vicentini Miniussi – Ronchi dei Legionari (Go)
Artista del Territorio – Galleria d’Arte Contemporanea – Monfalcone (Go)
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Livio Caruso.