Dicembre è sempre un mese particolare, momento di riflessione e occasione di rivedere un po’ cosa è successo, cosa si è fatto nell’anno che sta andando a concludersi.
E di certo il 2022 sarà ricordato per la raccolta di poesie “Ex madre” di Francesca Del Moro. Un libro straordinario nella sua forza, straziante nel suo contenuto, indimenticabile nella sua bellezza.
E il tempo presente di questo dicembre ha anche gli otto testi inediti a titolo “Bric-a-brac” di Matteo Piergigli e la convinzione che la poesia è ancora qui, con la nuova casa editrice Molesini Editore Venezia.
Questo numero propone anche un esteso omaggio a Pierluigi Cappello.
L’occasione è l’uscita del fotolibro “Fissare il tempo. Pierluigi Cappello”, firmato da Luca A. d’Agostino, che ha raccolto le fotografie a lui dedicate, e di cui ce ne parla.
E in questo omaggio, ci sono anche gli interventi dei poeti Laura Corraducci e Massimiliano Bardotti, che proprio a Pierluigi Cappello questa estate hanno dedicato una serata, alla nona edizione del festival “Vaghe stelle dell’Orsa” a Pesaro.
I Margini. Di poesia ed altro sono la complicata favola del tempo che le poesie di Paolo Birolini ci raccontano, nel suo “Milonga”, mentre Massimiliano Bottazzo ci porta alla scoperta dello scrivere di Massimiliano Lancerotto, con i suoi cinque testi di “Un transatlantico a dondolo”.
Il Libroelibro proposto da Laura Mautone è “Nova” di Fabio Bacà, mentre il Ti racconto è il libro di Giuliana Cadelli, “Le trasgressive. Il coraggio di dire No”, ce ne parla Anna Piccioni.
E con Luigi Auriemma ci addentriamo nell’arte di Gaetano Lamonaca, con dieci suoi lavori.
Buona lettura.
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini ——————————
Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Voce d’autore ———————–
Ho stretto l’urna contro il ventre
Francesca Del Moro, “Ex madre”
di Giovanni Fierro
Dare voce al proprio lutto, provare a misurare l’acuto di una tragedia. È quello che ha fatto Francesca Del Moro con “Ex madre”, libro che allo stesso tempo è crudo e delicato, misurato nella sua forma espressiva e acceso nella sua carica emotiva.
I testi di “Ex madre” sono stati scritti da Francesca Del Moro nell’anno successivo al togliersi la vita di suo figlio. E il suo è un raccontare di un vuoto che vuoto non può essere, di un luogo che non sarà mai più liberatorio, ma sempre di un ritorno ad una presenza che non c’è più, ma che non può lasciare il mondo.
“Sul referto ho letto,/ dettaglio per dettaglio,/ la geografia della morte/ sul suo giovane corpo”; “ho pensato/ che le sue mani non ci sono più/ e non terranno più la forchetta,/ non potranno più toccare, stringere,/ non potranno accarezzare”.
Eppure, in questo strazio documentato, Francesca Del Moro riesce a costruire un luogo che accoglie, che ascolta, che non si fa mai muro verso il dolore, ma cerca in qualche modo di aprirlo e dipanarlo, per renderlo meno forte e meno assoluto.
Non è facile, perché poi ci dice di come lo si vive di contrasti – “su di noi la sua pace,/ il suo silenzio di marmo” – difficili da accettare.
E che a tutto bisogna dare una forma, forse un nome, per affrontare il proprio smarrimento con maggiore fiducia, arrivando anche a dire e scrivere che “in grembo gesto/ la sua assenza,/ il cordone ombelicale,/ il tubo del gas”.
Questa è poesia che fa bene alla poesia, che di certo non salva e non riporta in vita, ma che permette a Francesca Del Moro di portare il proprio scrivere dentro una luce che le dona il persistere.
“Ex madre” è anche uno scendere a patti con il tempo, nel capire che a volte è più crudele della stessa natura di cui è fatto: “Il buco del 5 luglio/ ha inghiottito tutto/ in un giorno infinito/ di luna piena/ e sole a picco”.
Che poi, dopo una tragedia del genere, è inevitabile trovare la paura di non aver capito cosa si stava innescando, “E non ho visto la nera, lunga/ notte in cui si incamminava”; anche se si incontra la comprensione, “non è colpa vostra, mi raccomando,/ ricordate, non è colpa vostra”, e ci si sente destinati a convivere con la rabbia, “Se potesse sapere/ che non lo perdono”.
Francesca Del Moro con queste sue pagine segna la fragilità di ogni giorno; quel “Non mi lasciano più sola nella casa,/ conoscono al suo interno/ i percorsi dell’amore e della morte/ che io ripenso ovunque tutto il giorno” che diventa la geografia domestica di una nuova propria identità, in cui non si sarebbe mai voluta riconoscere.
“Ho il cuore/ irrimediabilmente rotto/ e lui ci soffia dentro”.
Dal libro:
Ho stretto l’urna contro il ventre,
pesava pressappoco come allora.
Un figlio lo contieni sempre
e ogni minuto io contengo,
ogni minuto sento dentro
mio figlio che muore,
mio figlio che decide di morire.
*
Sul referto ho letto,
dettaglio per dettaglio,
la geografia della morte
sul suo giovane corpo,
il corpo ora polvere mista
alla polvere del legno
e della stoffa dell’abito elegante
che ha scelto per andarsene.
*
Mi dicono il tempo
calmerà il dolore
ma io non voglio
perché il tempo che scorre
lo allontana, lo trattengono
questi morsi in tutto il corpo,
questi morsi sono ancora lui.
*
Il viso che cade
e si sparge, il cielo
versato sulle spalle,
il buio, il taglio
dell’istante.
Mani buone su di me
e poi stringere
ancora le sue.
*
Il sole che da luglio mi ferisce
torna buono in questo giardino.
Ecco le aiole, le rose, il tavolino
tondo, le ombre del fogliame,
il sorriso di Adriana.
Nella stanza per me il letto fresco
mi ridona l’emozione del viaggio,
delle bozze sul comodino.
Piangere è dolce la sera tra la meliga
e l’orsa che seguiamo nel cielo
pulito, è un pianto condiviso.
Intervista a Francesca Del Moro:
M’immagino che in “Ex madre”, tanto lo scrivere è stato spontaneo, quanto le parole da tenere hanno avuto bisogno di una scelta. Come ti sei trovata nel ‘dare forma’ ad uno scrivere, questo, che poi hai fatto diventare libro?
Quando è morto mio figlio, ho pensato che non avrei mai più scritto un solo verso. Mi sentivo completamente priva di energie, interessi, possibilità espressive. Ero come un cono scuro, vuoto, una specie di abisso.
Ero, come avrebbe detto mesi dopo la mia psichiatra, “una donna psichicamente ed emotivamente morta”. Eppure le prime parole sono venute, spontaneamente come hai intuito, ripensando alla tumulazione a distanza di due settimane. Così è nata la prima poesia del libro, cui è seguito un lungo silenzio, come se avessi già detto tutto. Poi, dopo qualche mese, sono arrivate le altre.
Ho assecondato un’esigenza espressiva consueta, nella maniera che mi è più congeniale. Ovvero cogliendo di volta in volta i dettagli di quanto accadeva a me e intorno a me e che mi parevano importanti, significativi, degni di essere preservati. Ho iniziato a condividere su Facebook alcune poesie, ricevendone in cambio affetto e apprezzamento. In particolare Rosaria Lo Russo, per me una delle voci più importanti del panorama poetico contemporaneo, ha letto i miei versi e mi ha incoraggiata a farne un libro.
Lo stesso ha fatto Luigi Carotenuto, un ottimo poeta che ho conosciuto proprio in quel periodo e che mi ha molto aiutata anche nell’elaborazione del lutto.
A Rosaria e Luigi, che mi hanno peraltro indicato alcune poesie da togliere dalla selezione iniziale, ho chiesto di scrivere i due testi critici inclusi nel libro, che è stato strutturato in modo da dare l’idea di un cammino di rinascita, per quanto lento e non lineare né compiuto.
Di questo tragico evento, cosa pensi di aver di più affidato alla poesia?
Individuo due movimenti, che credo caratterizzino tutta la mia produzione: un movimento centripeto, che qui porta all’estremo il distacco da sé per osservarsi con sguardo clinico e registrare le conseguenze, fisiche e psichiche, del trauma; un movimento centrifugo che è tensione affettiva verso l’altro, che sia il figlio ormai irraggiungibile o le persone che mi sono state accanto nel periodo più difficile della mia vita.
Ho quindi affidato alla poesia la fenomenologia del lutto, osservata al microscopio per coglierne ogni dettaglio, e la gratitudine, la commozione per l’amore ricevuto.
La poesia racconta sia il male che la sua cura.
Mi sembra che sia un libro che accoglie chi lo legge. Non si chiude in sé, non si protegge. È senza paura. È così?
Sì, credo che questa sia una caratteristica della mia scrittura nonché della mia persona. Vivo tutto in chiave affettiva, dal lavoro alla mia attività nel campo della poesia, agli incontri casuali, passando naturalmente per i rapporti con la famiglia e gli amici.
Mi apro senza difficoltà e amo ascoltare persone altrettanto disposte a svelarsi. Questa propensione mi ha aiutata ad affrontare la perdita: in molti mi hanno teso la mano e io mi sono lasciata sostenere, con gratitudine.
I miei versi sono in buona parte dichiarazioni di amore, ponti gettati verso gli altri, assenti o presenti che siano. Quanto alla paura, credo sia qualcosa che non mi appartiene più. Ho subito una delle cose più terribili che possano accadere a un essere umano, e nient’altro può spaventarmi.
Credo inoltre che ci sia un limite alle sensazioni negative con cui possiamo fare i conti, e la mia misura è colma: devo confrontarmi ogni istante con il suicidio di mio figlio, non ho lo spazio interiore per temere altro.
Condividere ciò che provo non mi spaventa, anzi mi dà la possibilità di liberarmi di parte del peso, di sentire in certi momenti che qualcuno lo sta portando insieme a me. Intorno al suicidio ci sono ancora grossi tabù e il tema è spesso oggetto di frettolose generalizzazioni. Per questo molti sopravvissuti si vergognano della propria esperienza e io spero che la mia scrittura possa aiutare qualcuno di loro a liberarsi sia della vergogna sia del senso di colpa.
Il libro nasce da una tragedia; eppure la scrittura, anche da un lutto come questo, riesce a trasformare questa tensione in bellezza espressiva. Come ti trovi in questa situazione, dove il dolore crea poesia?
Grazie per il generoso riferimento alla bellezza. Credo sia naturale, se non per tutti, almeno per molti di coloro che cercano di reagire al dolore, provare a usarlo per creare qualcosa di bello o per fare del bene, qualcosa che dia un senso alla propria vita e consenta di andare avanti. Io l’ho fatto spesso, arrivando a benedire alcune esperienze negative che pensavo di aver felicemente superato e sublimato in versi di cui ero soddisfatta.
Questo caso è molto diverso e spesso la soddisfazione per qualche riconoscimento ottenuto si è rovesciata in un sentimento negativo, nel senso di colpa per aver tratto qualcosa di buono da un’esperienza che non avrei mai voluto fare e che di buono a mio figlio comunque non porterà nulla.
Il tuo scrivere non fa sconti, dà alle cose il loro vero e proprio nome. Come autrice, cosa ti hanno fatto trovare di rinnovato, di nuovo, questi testi?
Già da qualche tempo la mia scrittura ha preso la direzione della brevità e dell’osservazione distaccata delle emozioni. Credo che questo libro rappresenti un’evoluzione del mio stile in questo senso piuttosto che segnare una rottura con i miei ultimi lavori, quali “Una piccolissima morte” e “Gli obbedienti” (“La statura della palma” è un libro a sé, nato inizialmente su commissione).
Perché a leggere queste tue poesie ogni parola è piena, porta con sé la misura esatta del proprio significato. È solo una mia sensazione?
Sono felice che tu abbia avuto questa impressione, perché è proprio ciò a cui spererei di arrivare. Cito sempre un verso di Sara Ventroni, che a sua volta si richiama ad Antoine de Saint-Exupéry, “Una poesia è finita quando non c’è più niente da levare”. Ogni poesia nasce con qualcosa di superfluo e, sottraendo, si colma di senso ciò che resta. È un modo per cercare di arrivare all’essenza delle cose, il lavoro che vorrei fare non trascende la realtà ma scende in essa il più a fondo possibile.
È stato spesso sottolineato come i miei versi siano privi di metafore, di artifici verbali. Ed è vero. “Rose is a rose is a rose is a rose” scriveva Gertrude Stein e io faccio mia questa suggestione, confidando che anche la parola più semplice, usata con cura, precisione e consapevolezza, possa avere un impatto fortissimo.
Lo scrivere, dunque, è stato per te un ‘prenderti cura’, per te stessa e anche per ciò che pensi sia il valore della poesia?
Scrivere è stato prima di tutto un modo per salvare parte della mia identità, avendo perso il ruolo di madre (da cui il titolo del libro) non tanto perché non avevo più un figlio nella dimensione visibile ma perché la sua scelta mi ha fatto sentire rifiutata (come una ex moglie lasciata dal marito che ama) e fallimentare non soltanto come genitore ma come persona.
Creare qualcosa e ritrovarmi ad agire nell’ambiente letterario di cui da tempo faccio parte, sentendomi apprezzata e amata, mi ha consentito di recuperare una parte di me che credevo perduta, di pensare di poter valere ancora qualcosa. In seguito, man mano che il mio stato emotivo migliorava e tornavo lentamente a riattaccarmi alla vita (complici gli antidepressivi e una relazione felice), ho pensato di utilizzare la scrittura come testimonianza nella speranza di essere utile a chi vive la stessa esperienza e magari si trova ancora nelle terribili fasi iniziali dell’elaborazione del lutto.
L’autrice:
Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato i libri di poesia “Fuori Tempo” (Giraldi 2005), “Non a sua immagine” (Giraldi 2007), “Quella che resta” (Giraldi 2008), “Gabbiani Ipotetici” (Cicorivolta 2013), “Le conseguenze della musica” (Cicorivolta 2014), “Gli obbedienti” (Cicorivolta 2016), “Una piccolissima morte” (edizionifolli 2017, ripubblicato nel 2018 come ebook nella collana Versante Ripido/LaRecherche) e “La statura della palma. Canti di martiri antiche” (Cofine 2019).
Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa.
Fa parte del collettivo Arts Factory e del Club Pavese+Tenco insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini, con le quali ha contribuito, come traduttrice e performer, ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), nonché allo spettacolo Rose gialle in una coppa nera dedicato a Cesare Pavese e Luigi Tenco (2018).
Propone performance di musica e poesia insieme al collettivo Memorie dal SottoSuono.
Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.
(Francesca Del Moro “Ex madre” pp. 128, 14 euro, Arcipelago Itaca 2022)
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Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Tempo presente —————————–
Bric-a-brac
Otto testi inediti
di Matteo Piergigli
1
craccare crackers
salati a colpi
di scroto del Cremlino
cremato sul croco
del crespo di Crispi
verso il crinale
clitoride crisalide
cristiana cristallizzata
crivellata di Crosetto
crocefissi scrofe
scrollate scosciate
è scritto cribbio
2
liquidare liquame
da liposuzione a colpi
di lingua acquistata
in leasing leccato
in limousine lipidica
lip gloss curriculare
linkato su linkedin
per pec
3
sospiri sessantanove
sognati soldati
insonni saldati
al tubo socialista
sboccate scorregge
sedati senzatetto
sconfinati sommergibili
sommersi in assetto
antisommossa sommessa
la protesta
4
monumentali ammassi
di morchia mammaria
massive monastiche
masturbazioni massimo
ribasso maschio marxista
sotto falso nome
5
ovvie ottomane
otturazioni ovariche
erte Erdogan
ergastolani erbivori
ercolini eretti
eletti in Parlamento
6
tic tac toc toc
sfilato lo slip
sul tram del trap
strampalato appare
oppure titillano
le ore gaie tocco
il tacco dodici
in punto
7
sciupati sciuscià
asciugano parabrezza
scivolosi prezzo
pazzo un poco in nero
alla cassa il ragazzo
8
tossire tessere
buoni pasto stesi
in attesa anni cinquanta
qualcheduno chiama
qualche offerta
congrua promossa
sul campo lavoro
L’autore:
Matteo Piergigli è nato a Chiaravalle (An) nel 1973. Ha pubblicato “Ritagli” nel 2015 con la Casa Editrice Kimerik. Il libro è una raccolta di poesie, aforismi, attimi di quotidianità presenti e passati, aneddoti.
Nel 2016 pubblica “Ritagli 2” con la casa editrice Arduino Sacco.
Tra il 2014 e il 2017 numerose opere sono state pubblicate in varie raccolte e antologie.
Nel 2019 ha pubblicato la raccolta “La densità del vuoto”, edita da Samuele editore.
Immagini ——————————
Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Tempo presente ——————————-
La poesia è ancora qui
Molesini Editore Venezia
di Roberto Lamantea
Ci sono librerie che li rifiutano: “Non vendono”. Ed è vero, almeno nel senso che hanno i titoli ben lanciati sul mercato, i soliti nomi, i soliti editori, verrebbe da dire i soliti generi: thriller, noir, gialli, un po’ di horror, qualche pennellata di rosa, l’attualità politica. Libri che però o funzionano al primo lancio e vendono subito, o vengono sostituiti da altri libri. Uffici stampa e giornali dirigono l’orchestra. L’industria editoriale è una macina.
Poi ci sono loro, i libri di poesia, quelli che “non vendono”. Eppure… C’è un pubblico di lettori, che sarà di nicchia quanto si vuole ma è pignolo e fedele, che i libri di poesia li compra, nelle librerie che li hanno o sul web.
Spesso i libri di poesia sono pubblicati da piccole case editrici che non hanno una distribuzione e che quindi per diffondere i propri titoli si affidano alla vendita diretta sul proprio sito. E qui arriva la sorpresa.
I pochi “lettori forti” di poesia sanno chi e dove cercare e raramente sono delusi. Poi ci sono i social, dove i poeti, o aspiranti tali, ma anche nomi famosi, pubblicano anteprime, estratti dei loro testi, ospitano versi di amici o classici ritradotti, offrono letture e presentazioni via web.
Ultima osservazione generale: i piccoli editori di poesia pubblicano edizioni raffinatissime: scelgono con cura la carta e il cartoncino, si affidano a una grafica-logo che sia come un marchio estetico che li fa riconoscere, selezionano i testi i quali, spesso, sono bellissimi.
Sì, perché questo settore che non appartiene all’industria ci tiene alla qualità e la qualità dei testi poetici è legata a ritmo, suono, sguardo, colore, simbolo, una scrittura non referenziale.
In questo quadro aprire una nuova casa editrice che pubblica solo libri di poesia non è un azzardo o una follia, è un atto di fede, parola che comprende coraggio, inventiva, lavoro tenace.
“La poesia intesa come fonte di pensiero e come scrigno per custodirlo. Luogo di incanto e supremo vigore verbale, dove l’orecchio vive sovrano”: a scrivere queste parole è uno scrittore famoso, il veneziano Andrea Molesini, professore universitario di Letterature comparate a Padova, autore, soprattutto per Sellerio, di romanzi premiati dal pubblico e dalla critica come “Non tutti i bastardi sono di Vienna” (2010), “Presagio” (2014), “Dove un’ombra sconsolata mi cerca” (2019), “Il rogo della Repubblica” (2021), ispirato a un fatto storico nella Venezia del 1480, oltre a numerosi libri per ragazzi e a traduzioni dall’inglese e dal francese. Molesini Editore Venezia ha sede in laguna, ha un sito – www.molesinieditore.it – e lancia subito sette titoli stampati su carta Aralda della cartiera Favini, carattere tipografico Baskerville Original, copertine colorate senza immagini, in evidenza il cognome dell’autore.
In “cucina”, oltre a Molesini, sua moglie Rossella Lorenzi, il filologo Francesco Zambon, Gilberto Sacerdoti, Bianca Tarozzi.
Sette i primi titoli. “Oscuro come il tempo” di Emmanuel Moses, nato a Casablanca nel ‘59, infanzia a Parigi, emigrato in Israele a 9 anni, tradotto dal francese dallo stesso Molesini; “Il tempo degli spaventapasseri” di Jozefina Dautbegović (Sušnjari 1948 – Zagabria 2008), fuggita dalla Bosnia in guerra e rifugiata in Croazia, tradotta da Neval Berber per cura di Bianca Tarozzi; “Messaggio” di Fernando Pessoa, traduzione e cura di Francesco Zambon, l’unico libro poetico (1934) in portoghese pubblicato da Pessoa; Gioconda Belli, nata a Managua nel ‘48 ma di origine italiana, con “Il pesce rosso che ci nuota nel petto” tradotto da Emilio Coco, con un saggio di Marco Fazzini.
Il terzetto degli italiani: torna un grande nome, Gilberto Sacerdoti, con “Peltro e argento”, che segue dopo 21 anni “Vendo vento”, uscito da Einaudi nel 2001; Francesco Zambon, professore emerito di Filologia romanza all’Università di Trento, propone “L’iride nel fango”, studio su “L’anguilla” di Eugenio Montale; Bianca Tarozzi, docente di Letteratura inglese e angloamericana (Venezia, Milano, Verona), torna alla poesia con “Devozioni domestiche”.
Intervista ad Andrea Molesini:
Sei uno scrittore famoso, i tuoi libri hanno avuto molti premi: come è nata l’idea di fondare una casa editrice solo di poesia e a Venezia?
È un atto di amore verso la poesia e verso la mia città. La poesia, oggi, è una Cenerentola inascoltata, una malinconica ragazza dalle vesti e i pensieri fuori moda.
Ma carmina non dant panem si diceva anche venti secoli fa e la poesia è ancora qui, come l’erba, il vento, il mare. Certo l’oggi sembra orientato verso il giallo, il noir, l’horror, verso tutto quel che è gridato, che odora di eccesso melodrammatico, che non richiede troppa riflessione e si può consumare in fretta, tra una fermata e l’altra del Frecciarossa.
Ma io credo che mai come oggi ci sia bisogno di lentezza, di contemplazione, perché è lì che si cela il sussurro della verità, la sola cosa davvero degna di amore, di cui, purtroppo, molto di rado siamo all’altezza. Beauty is truth, truth beauty.
Per quanto riguarda la mia città, Venezia, la vediamo ogni giorno sommersa dall’orda del turismo mordi e fuggi. Aprire un’attività, oggi, che imponga di riflettere e contemplare è un azzardo, me ne rendo conto, ma arrendersi allo stato di fatto, quando questo minaccia la nostra identità materiale e spirituale, è disonorevole, e non riesco ad accettarlo.
La mia casa editrice è un vascello fragile, lo so, però naviga: io conto sul fatto che gli appassionati di poesia siano più numerosi di quel che si crede, e che una proposta di qualità, che non tema di essere definita sofisticata alla fine riuscirà a trovare i suoi amici. La mente umana è da sempre assetata di sfide nuove, ama curiosare, interrogarsi sui misteri insolubili del secolo e del minuto e la poesia risponde a questa sete.
L’Italia è uno dei Paesi d’Europa dove si legge di meno ma è anche un Paese di grafomani, alle case editrici arrivano migliaia di manoscritti: pubblicare solo poesia è una sfida? Un gesto di speranza? Un atto d’amore?
Le tre cose insieme: sfida, speranza e amore sono compagni di strada, non rivali.
Come è organizzata la casa editrice? Come scegliete gli autori? Come funziona la vostra “cucina”?
L’organizzazione è semplice, siamo in cinque a prendere le decisioni: oltre a me Rossella Lorenzi, Bianca Tarozzi, Francesco Zambon e Gilberto Sacerdoti. Abbiamo competenze e gusti diversi, ma ci unisce, oltre a una profonda amicizia fondata sulla stima reciproca, la grande passione per quest’arte.
E poi, man mano che pubblichiamo, gli autori, i curatori e i traduttori, diventano consiglieri, così la casa editrice si arricchisce di sempre nuove e raffinate esperienze, pur mantenendo ristretto il suo centro decisionale. Grecisti, ebraisti, slavisti e sinologi appassionati si stanno unendo a noi.
Il criterio è uno, semplice e arduo al tempo stesso: qualità letteraria, dunque originalità e felicità espressive. Bellezza, che implica, va da sé, maestria, conoscenza approfondita della tradizione, dimestichezza con gli strumenti linguistici ereditati, che mai smettono di evolvere. Mandel’štam: “La bellezza non è il capriccio di un semidio ma il colpo d’occhio rapace di un falegname”.
La scelta della grafica: carta, caratteri tipografici, copertine…
Il nostro grafico è Giacomo Callo, professionista di indubbio talento, colto, dal tratto sempre originale, che ha saputo dare corpo, con copertine semplici e leggibili, al nostro logo, il motto di Vitruvio: Firmitas, Utilitas, Venustas.
Niente immagini, il nome dell’autore scritto in grande e in verticale, i suoi versi al centro, il colore dello sfondo, che varia ad ogni volume, vivido e deciso. La carta è leggermente avoriata, di buona grammatura in modo da evitare l’effetto trasparenza, e la rilegatura è filorefe, cioè cucita, niente fogli che ti restano in mano, perché la poesia non è solo fatta per essere letta, bisogna viverci assieme e mandarla a memoria, quando te lo chiede.
Il carattere tipografico è il Baskerville, ideato in Inghilterra alla fine del secolo diciottesimo e ammodernato un paio di decenni fa, un carattere dalle grazie marcate, poco usato in Italia.
Una breve presentazione dei primi titoli…
Il primo libro è un Pessoa di straordinaria fattura: “Messaggio”. Il testamento poetico di un genio. Per la prima volta, in Italia, tradotto, con indiscussa maestria, partendo dall’edizione critica. Le precedenti traduzioni sono state condotte su un testo ammodernato, con l’ortografia aggiornata,
differente da quella usata dall’autore, che spesso utilizzava gli arcaismi con sapiente, e talvolta impudente, ferocia critica verso tanta presunta modernità.
Il secondo titolo è “Il pesce rosso che ci nuota nel petto”, un magnifico inedito di Gioconda Belli, la poetessa nicaraguense di origine italiana, celebre guerrigliera sandinista e icona di molti movimenti di emancipazione femminile.
Il terzo è “Oscuro come il tempo”, di Emmanuel Moses, un libro di un poeta franco-israeliano, per la prima volta tradotto in italiano, di grande impatto, una meditazione sul tempo, che è la materia emotiva di cui siamo fatti.
Poi due poetesse di indubbio valore: Bianca Tarozzi e Jozefina Dautbegović. La prima, nota anche per le traduzioni di tanti poeti americani, tra cui la Dickinson e la Bishop, con le sue “Devozioni domestiche” ci regala sorrisi e malinconie dagli echi imperituri. La seconda ci racconta la guerra nella ex Jugoslavia; quella guerra, che come ogni guerra costringe a “imparare lingue straniere di giorno, per piangere nella propria lingua di notte”.
L’anno prossimo daremo alle stampe dieci titoli e sapremo sorprendere, ne sono certo, tanti lettori. Niente meno dell’eccellenza ci soddisfa.
Programmi e… sogni…
Molti programmi, pochi sogni. Credo nel lavoro, non nel fantasticare. Vogliamo pubblicare quel che di bello si produce oggi in Italia, naturalmente ci saranno molte traduzioni, alternate a libri italiani. Testi originali, alcuni strappati a un tempo lontano, altri scritti da autori viventi.
Tutti affratellati dall’impetuoso vigore di anime che avendo sentito qualcosa con tutte se stesse, non sono riuscite a trattenersi dal parlare.
Io credo che il guaio di tanta letteratura dei nostri giorni sia quello di accontentarsi di sembrare tradotta, mentre anche quella tradotta non dovrebbe sembrare tale.
L’autore ed editore:
Andrea Molesini vive a Venezia, dove è nato. Ha insegnato Letterature comparate all’Università di Padova. Con il romanzo “Non tutti i bastardi sono di Vienna” (Sellerio 2010), tradotto in varie lingue, nel 2011 ha vinto il Premio Campiello, il Premio Comisso, il Premio Città di Cuneo Primo Romanzo, il Premio Latisana. Nel 2013 Sellerio ha pubblicato il suo secondo romanzo, “La primavera del lupo”, tradotto in francese e tedesco. Nel 2014, presso Sellerio esce “Presagio”, tradotto in francese.
Nel 2016 Rizzoli pubblica “La solitudine dell’assassino”, e nel 2019 esce “Dove un’ombra sconsolata mi cerca”, presso Sellerio.
Grazie all’enorme successo di critica e ai riconoscimenti ottenuti è stato insignito, nel maggio 2013, della cittadinanza onoraria del Comune di Refrontolo (TV), nei cui luoghi (in particolare nella Villa Spada) è ambientato “Non tutti i bastardi sono di Vienna”.
Nel 2021 è uscito, sempre presso Sellerio, “Il rogo della Repubblica”, ispirato a una storia vera avvenuta a Venezia nel 1480: un processo che condusse al rogo tre ebrei ingiustamente accusati d’infanticidio.
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Disegno
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Tempo presente ——————————–
Laggiù, in fondo, l’orizzonte segnato dall’acqua
Pierluigi Cappello, un omaggio
C’è sempre un buon motivo per tornare alla poesia di Pierluigi Cappello.
È un confronto sempre necessario, che porta all’attenzione del nostro tempo presente la sua scrittura, la sua capacità di cogliere ogni minima piega dell’esistenza.
L’occasione giusta, per ricordarlo, è l’uscita di un fotolibro a lui dedicato, “Fissare il tempo. Pierluigi Cappello”, firmato da Luca A. d’Agostino, che ha raccolto le fotografie a lui dedicate, e scattate dal 2004 al 2015. E di cui il fotografo ci parla nell’intervista che segue qui sotto.
E in più, in questo ricordo dedicato al poeta di Chiusaforte, ci sono anche due contributi firmati da due delle voci più significative del panorama poetico nazionale, Laura Corraducci e Massimiliano Bardotti. Che a Pierluigi Cappello hanno dedicato una serata, lo scorso luglio, alla nona edizione del festival “Vaghe stelle dell’Orsa” a Pesaro, organizzato dalla stessa Corraducci.
(le immagini di Pierluigi Cappello qui proposte sono particolari delle foto tratte dal fotolibro di Luca A. d’Agostino)
Parole Povere, Pierluigi Cappello
di Massimiliano Bardotti
(Si consiglia la lettura dopo aver letto la poesia di Pierluigi Cappello: “Parole Povere”)
Non sono mai stato a Chiusaforte, a dire il vero non saprei neanche dire esattamente dove sia. Non conosco e non ho mai conosciuto personalmente nessuno che venisse da lì. Non ho mai personalmente conosciuto neanche il poeta che canta quel luogo e le persone che ci abitano. Eppure il grido di uno che rompe l’aria e il crack che fa il suo braccio, schiacciato da un tronco, l’ho sentito chiaro e pulito, qui, nella mia stanza, mentre leggevo. E ho visto la vestaglia a fiori tenui e sento il sapore di segatura e stelle. E vorrei sapere cosa è successo a chi si copre un occhio e piange, con quello scoperto. E forse avrei voluto salvare chi si è stufata del mondo di qua, ed è andata in quello di là. O magari sarei voluto andare insieme a lei. Ma il punto non è questo. Il punto è che esiste un mondo che non ho mai visto con i miei occhi. Esistono persone che non conosco, che non ho mai conosciuto. Esiste una realtà che non è mai davvero entrata nella mia realtà, eppure mi tocca e mi interessa. Non solo non mi è indifferente, mi è cara. E ci penso, di tanto in tanto. Ho a cuore che esista o sia esistita. E questo è il più grande capolavoro che può fare un poeta. Perché in un tempo come il nostro, dove facciamo fatica a provare empatia persino per chi abbiamo vicino, sentire malinconia, dolore, preoccuparsi, interessarsi, sperare per chi nemmeno si conosce, ma si è letto nei versi di un poeta, è un miracolo. Sfido chiunque a non prendere parte a quel pezzo di vita che Pierluigi Cappello racconta nei suoi versi, bellissimi e palpitanti. Con quel ritmo tutto suo, una narrazione in versi che ha i tempi della sua terra, ha la voce dei suoi conterranei. Si muove con la stessa attenzione.
Non sono mai stato a Chiusaforte, eppure mi sento di farne parte. E quando la sera, pregando come posso e come so, faccio la conta dei vivi e dei morti, Pierluigi e la sua famiglia di anonimi amici, è presente. Perché di un poeta ci si innamora, e si prende in carico tutto: l’allegria dei vinti e una tristezza grande.
Intervista a Luca A. d’Agostino:
di Giovanni Fierro
Da cosa nasce questo progetto?
Con Pierluigi ci siamo conosciuti molti e molti anni fa! Pierluigi iniziava a farsi conoscere nel mondo della Poesia, io cominciavo a fotografare il Jazz. C’era un jazz club a Torviscosa, il Bourbon Street, frequentato in quegli anni da moltissimi di noi. Nella programmazione settimanale c’era i jazz, ma anche la poesia.
Fautori di queste serate legate alla parola era il Teatrino del Rifo (allora Giorgio Monte, Manuel Buttus e Gigi Dal Ponte): credono furono proprio loro a portare Pierluigi in quel locale della bassa friulana.
Proprio in quegli anni nasceva anche lo spettacolo “I Cercaluna”, che Pierluigi Cappello e Paolo Medeossi portavano da Chiusaforte, dove sorse, in varie località del Friuli. Fu proprio Giorgio Monte ad invitarmi ad una di queste splendide serate di agosto.
Lì iniziammo con Pierluigi un tranquillo dialogo, fatto di parole e fotografia. Che non smise mai. Magari con pause anche di anni, ma sempre quando ci si incontrava riprendevamo da dove si era lasciato.
Quale pensi sia la caratteristica più importante della poesia di Pierluigi Cappello?
Pierluigi è un Poeta totale. Arriva dritto al cuore. Fin da subito capii quanto importante fosse per lui la parola: passava anche settimane su un singolo vocabolo.
Alla fine però comprendevi quanto avesse ragione. Oggi, rileggendo tutte le sue composizioni, forse comprendi ancora di più la musicalità, il ritmo, le pause, gli urli ed i silenzi. Sicuramente ad ogni lettura nasce una emozione in più.
Poi c’è immagine, c’è racconto, ci sono i bimbi, il ritratto dei suoi conterranei, le montagne, la neve, il vento … Pierluigi nella sua saggezza è semplicemente disarmante.
In che modo il bianco e nero delle tue fotografie ‘appartiene’ a Cappello?
Pierluigi, fotograficamente parlando, aveva questa dote di semplicità ed umiltà che non poteva non apparire nei ritratti. Possedeva la capacità di attrarre per ogni suo sguardo curioso. Non sono un ritrattista, amo molto di più “cogliere l’attimo”.
Con Pierluigi diveniva tutto molto più semplice. Vuoi perché ci si conosceva, vuoi perché amava comunque essere fotografato, alla fine ogni sua immagine colpiva. Riusciva a dire tutto con una singola espressione, risultava spontaneo in ogni suo gesto. Proprio come la sua Poesia.
Le foto qui contenute vanno dal 2004 al 2015. Cosa ha significato per te questa continuità, nel conoscere il poeta di Chiusaforte? Quale il tempo che è stato fissato in queste immagini?
Questo periodo racchiude un po’ il nostro trascorso fotografico. Ho voluto raccontare vari episodi della vita di Pierluigi. Dai primi scatti realizzati ai Colonos: grande amico è stato proprio Federico Rossi, che in più occasioni lo ha chiamato a Villacaccia di Lestizza, come nella bellissima occasione de I colôrs da lis vos, da Pierluigi proprio coordinata, con ben ventidue poeti da seguire in undici ore consecutive: una maratona che dimostrò, visto il numeroso pubblico presente, quanto interesse ci fosse e c’è verso la poesia.
Ma anche nel 2014 ritrovarlo sul prestigioso palco di Vicino Lontano per il Premio Letterario Internazionale Tiziano Terzani, vinto ex equo con Moshin Hamid.
Fino agli ultimi incontri realizzati grazie all’amico Giuseppe Tirelli e Fabio Turchini, mentre stavo preparando la mia mostra “Gli ultimi: da padre David Maria Turoldo a Fabrizio De André”: ogni foto gradivo essere accompagnata da un pensiero, una frase … Pierluigi, che in principio come era suo solito, mi disse molto impegnato, nel giro di pochissimi giorni mi donò una Poesia, straordinaria, “Oceano Indiano”.
Credo che in quelle poche righe racchiuda un po’ tutto il senso della sua vita, della sua produzione letteraria e soprattutto del suo amore verso i giovani e verso il futuro.
Cosa ci lascia l’esperienza umana e l’esperienza poetica di Pierluigi Cappello?
Moltissimo. Ho conosciuto Pierluigi che già non poteva più camminare. Un ragazzo che come lui amava il cielo e voleva volare, costretto a restare seduto su una sedia a rotelle.
Se pensiamo però quanto sia riuscito a librarsi con la sua Poesia e quanto sia riuscito a trasmettere con le sue parole a tutti noi, c’è da stare solo in silenzio.
Non solo una vicinanza, ma da questo fotolibro emerge anche una presenza importante del silenzio – forse dovuta alle varie pagine lasciate bianche e vuote, non so… – che da un respiro veramente vitale. È così? Anche ogni parola destinata alla poesia ha origine da un silenzio….
Il silenzio, le pause, soprattutto in musica – che come ben sai seguo quotidianamente – sono importantissimi.
Danno ritmo, danno la possibilità di “immaginare” e costruire un qualcosa di sé per sé e per gli altri. In questo debbo dire è stato importantissimo per me lavorare con un grafico, che oltre ad essere un meraviglioso amico, è un professionista straordinario, Roberto Duse, che tra l’altro di Musica e Poesia di alimenta quotidianamente, ha quella rara sensibilità che è veramente dei pochi.
Con Roberto ci confrontiamo spesso sul senso della bellezza. Di quanto importante sia e di quanto sia altrettanto importante la responsabilità di tutelarla.
Pierluigi sapeva bene di avere questa responsabilità e per questo motivo incontrava spesso futuri poeti e scrittori e, anche con durezza, gli dimostrava dove stessero sbagliando. Salvo poi, con fanciullesca tenerezza, dispensare consigli a cuore aperto.
Giancarlo Schiaffini, carissimo amico musicista, ricorda in uno dei suoi libri che “La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori di noi”: ecco, penso che il ruolo della Poesia sia anche questo: riempiere questi silenzi, facendoci viaggiare con la mente e con il cuore. Pierluigi riesce in tutto questo con
Rara spontaneità!
In che modo hai costruito la sequenza delle immagini, cosa c’è alla base della loro scelta?
Sono fondamentalmente un fotoreporter: mi piace “Fissare il Tempo”, per riprendere il titolo del fotolibro. Fissare, se vuoi, con il doppio significato di “bloccare” un istante (quindi ricordare, quindi testimoniare), ma anche di “osservare” … La scelta si è basata un po’ su tutto questo.
A corredo delle diverse immagini che ricordano Pierluigi in alcuni momenti importanti della sua vita, vi sono anche delle immagini della sua terra, Chiusaforte, della Val Raccolana, fino a quello che rimane delle “baracche” di Tricesimo (attraverso il filtro però dei fiori di un albero lì vicino e quindi della rinascita).
Per concludersi proprio con quella Luna, fra le sue montagne… a serrare un cerchio iniziato nella calda serata di un agosto di parecchi anni fa.
Appartenere al cielo, Pierluigi Cappello
di Laura Corraducci
C’è stato un evento fondante nella vita di Pierluigi Cappello prima del tragico incidente che segnò sia l’uomo sia quello che sarebbe divenuto un grande poeta, e fu il terremoto del Friuli del ’76 che lo costrinse a vivere in una baracca per la maggior parte della sua breve vita.
In questi giorni la mia città è stata colpita da una violenta scossa di terremoto (all’alba del 9 novembre, con epicentro la costa Marchigiana Pesarese – ndr) che, grazie a Dio, non ha causato danni alle persone, ma ha gettato nel panico e nel terrore molti di noi.
La dimensione dell’incertezza, del nemico inaspettato pronto a colpirti in qualsiasi momento del giorno e della notte, corre di pari passo all’attaccamento istintivo, al preservare se stessi e il mondo attorno dalla distruzione apocalittica che può causare un terremoto, non meno di un bombardamento o di altri cataclismi naturali che, nei secoli, hanno minato il cammino dell’uomo nel rapporto con la natura.
In Cappello la vita ha sempre giocato il tiro più lungo, il passo più veloce, il verso più compiuto, così come è avvenuto nel suo straordinario lavoro poetico, credo tutto ciò debba essergli costata una grossa fatica interiore, un grande sforzo di disciplina, di rinuncia, mentale, fisica, segnato da un corpo che incideva il tempo con i suoi bisogni, dentro il quale Pierluigi ha scolpito le pareti dei suoi giorni con il lavoro profondo, costante e perseverate dello scrivere versi, del trovare nella parola e insieme ad essa, il senso e la dolorosa bellezza del vivere.
Ho sempre amato la sua poesia, fin da quando, per caso la scoprii in un numero del mensile Poesia, che incorniciava il suo volto in copertina, lo lessi con stupore e avidità, chiudendo e riaprendo la rivista, segnando e appuntandomi le parole, i versi o l’intera poesia, fu per me un incontro folgorante, senza fasi intermedie o sforzi intellettuali come accade a volte per certa poesia contemporanea.
Pierluigi Cappello aveva il dono dei grandi, di coloro che scrivono poesie bellissime con la naturalezza di una penna che altro non intinge se non nel talento, nella verità di un dono che la Poesia fa solo se il gesto è un gesto di resa e non di conquista.
In varie interviste lui parla di gratuità, parola bella per quanto dimenticata, la gratuità del gesto poetico, che altro non è che gratuità dell’amore, della propria arte che, per il fatto di essere tale, non chiede, non pretende ma si rivela, e nel suo rivelarsi si compie in chi la riceve. Sembra paradossale pensare che un uomo paralizzato per quasi tutta la sua esistenza, inchiodato ad un letto e alla sedia rotelle, abbia generato tanta bellezza, trovato nella poesia il senso pieno della sua esistenza, obbedito all’urgenza della sua vocazione di poeta.
Da circa dieci anni organizzo una rassegna poetica qui a Pesaro, la prima edizione fu nel 2012, Vaghe stelle dell’Orsa, era una scommessa a cui il Comune decise di credere dandomi la possibilità di realizzarla, il mio primo pensiero fu invitare Pierluigi, la distanza fra Pesaro e Tricesimo per le condizioni di salute di Cappello era troppa, optammo, quindi, per un intervento online via Skype, in un tempo e in un momento storico, in cui incontri poetici da remoto erano un qualcosa di raro e poco frequente, ricordo facemmo le prove la mattina precedente la serata, il tecnico gli chiese di parlare per provare l’audio e il suono, lui lesse alcune poesie, lo fece con una profondità tale come se di fronte avesse una platea piena di persone, senza risparmiare le poche energie del mattino.
La sera della lettura fu un momento rimasto nella storia della rassegna, a distanza di dieci anni, le persone presenti ancora ne ricordano l’intensità, la generosità con cui si offrì al pubblico che rimase, incantato, a fissare uno schermo per oltre un’ora.
Ebbi la sensazione, a fine serata, di aver vissuto un evento unico, che non si sarebbe ripetuto, nella voce di Cappello la rassegna nasceva nel suo intento più nobile e di cui nemmeno io, fino in fondo, mi ero resa conto, nella nostra ultima telefonata le sue frasi furono per la poesia e il potere, “la poesia quando è onesta non serve il potere, anzi, lo disturba” e negli anni ho capito quanto queste parole portino il peso, a volte, il fardello della verità, sono sicura abbiano tracciato una rotta precisa nel percorso letterario ed esistenziale di Pierluigi, che, da sempre, sapeva di appartenere al cielo.
Parole povere
di Pierluigi Cappello
Uno in piedi, conta gli spiccioli sul palmo
l’altro mette il portafoglio nero
nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.
Una sarchia la terra magra di un orto in salita
la vestaglia a fiori tenui
la sottoveste che si vede quando si piega.
Uno impugna la motosega
e sa di segatura e stelle.
Uno rompe l’aria con il suo grido
perché un tronco gli ha schiacciato il braccio
ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato
e io c’ero, ero piccolino.
Uno cade dalla bicicletta legata
e quando si alza ha la manica della giacca strappata
e prova a rincorrerci.
Uno manda via i bambini e le cornacchie
con il fucile caricato a sale.
Uno pieno di muscoli e macchie sulla canottiera
Isolina portami un caffé, dice.
Uno bussa la mattina di Natale
con una scatola di scarpe sottobraccio
aprite, aprite. È arrivato lo zio, è arrivato
zitto zitto dalla Francia, dice, schiamazzando.
Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.
Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.
Una scrive su un involto da salumiere
sono stufa di stare nel mondo di qua, vado in quello di là.
Uno prepara un cartello
da mettere sulla sua catasta nel bosco
non toccarli fatica a farli, c’è scritto in vernice rossa.
Uno prepara una saponetta al tritolo
da mettere sotto la catasta e il cartello di prima
ma io non l’ho visto.
Una dà un calcio a un gatto
e perde la pantofola nel farlo.
Una perde la testa quando viene la sera
dopo una bottiglia di Vov.
Una ha la gobba grande
e trova sempre le monete per strada.
Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.
Uno dice qui la notte viene con le montagne all’improvviso
ma d’inverno è bello quando si confondono
l’alto con il basso, il bianco con il blu.
Uno con parole proprie
mette su lì per lì uno sciopero destinato alla disfatta
voi dicete sempre di livorare
ma non dicete mai di venir a tirar paga
ingegnere, ha detto. Ed è già
il ricordo di un ricordare.
Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio
e si è fatto in casa una canoa troppo grande
che non passa per la porta.
Uno l’ho ricordato adesso adesso
in questo fioco di luce premuta dal buio
ma non ricordo che faccia abbia.
Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.
E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.
Gli autori:
Pierluigi Cappello nasce a Gemona del Friuli nel 1967, ma è originario di Chiusaforte, dove trascorre l’infanzia. Dopo il terremoto del 6 maggio 1976, con la famiglia si era trasferito in una comunità prefabbricata fornita dall’Austria, dove Cappello rimase per la maggior parte della sua vita.
Varie e significative sono le iniziative culturali sviluppate in Friuli che fanno capo a questo poeta, legate alla poesia, alla saggistica, al teatro.
Con la raccolta “Dittico”, che comprende poesie inedite in friulano e in italiano, vinse il Premio Montale nel 2004.
Nel 2006 pubblica quasi tutte le raccolte delle sue poesie in “Assetto di volo”, a cura di Anna De Simone, con introduzione di Giovanni Tesio.
Per questo libro vince il Premio Nazionale Letterario Pisa, il Premio Bagutta 2007 sezione Opera Prima, il Superpremio San Pellegrino 2007 e il Premio Speciale della Giuria “Lagoverde 2010”.
Nel 2010 pubblica il libro di poesie, “Mandate a dire all’imperatore”, con postfazione di Eraldo Affinati, con cui ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci 2010 per la poesia.
Il 6 novembre 2012, al palazzo del Quirinale, riceve dalle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il premio Vittorio De Sica 2012 per la poesia.
Luca A. d’Agostino è nato nel 1968, ha fatto della fotografia una professione già dal 1984; giornalista pubblicista dal 1989, ha collaborato con numerose agenzie fotogiornalistiche nazionali ed internazionali.
Ha realizzato numerose immagini nell’ambito di Udin&Jazz, Gorizia Jazz, Jazz&Wine of Peace, Trieste Jazz, Sacile Jazz, Terni in Jazz Fest…
Fotografo ufficiale del Mittelfest, dell’Alpe Adria Puppet Festival (Festival di Teatro d’Animazione e Figura) e del Rototom Sunsplash.
Ha collaborato alla nascita di JazzIt; oggi pubblica su Musica Jazz, XL, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, L’Espresso e numerose altre testate nazionali ed europee. Sue le immagini di numerosi dischi per ECM, Cam Jazz, Enja, Universal, Splasc(h), Nota, Artesuono, ed. Il Manifesto, Auand ed altre etichette indipendenti.
È socio fondatore di Phocus Agency – Fotografi di cultura e spettacolo (www.phocusagency.com), e tanto altro ancora….
Laura Corraducci è nata a Pesaro, dove vive, nel 1974.
Insegna lingua e letteratura inglese nella sua città, dove organizza ogni anno una serie di eventi poetici all’interno della rassegna “Vaghe stelle dell’Orsa”.
Ha esordito nel 2007 con “Lux Renova” a cui ha fatto seguire nel 2015 la raccolta “Il canto di Cecilia e altre poesie” e “Il passo dell’obbedienza” nel 2020.
Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino.
È presidente dell’associazione Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini.
Tra i suoi libri più recenti, “Il Dio che ho incontrato” (2017), “I dettagli minori” (2018, dal quale è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale con Viviana Piccolo), “Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali” (2019), “La terra e la radice” (Puntoacapo 2021) e “La disciplina della nebbia” (Pequod 2022).
Con Gregorio Iacopini ha scritto e pubblicato “Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio” (2020).
Nel 2017 ha fondato la Scuola di scrittura “La poesia è di tutti” presso OltreDanza. Dal 2018 conduce “L’infinito, la poesia come sguardo”, ciclo di incontri con poeti contemporanei.
Immagini ——————————
Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Margini. Di poesia ed altro ——————————–
Complicata la favola del tempo
Paolo Birolini, “Milonga”
di Giovanni Fierro
È un ballo a due, continuo, che si fa sempre più intimo e sensuale; con una donna, con una stadera, con la filosofia, con il poeta. Sempre e comunque nel gesto di portare il vivere nello specchio dello scrivere.
E non a caso questo bel libro di Paolo Birolini si intitola “Milonga”. Una promessa di ritmo e melodia, dove si è testimoni del proprio vissuto, condiviso e unico, anche quando “passammo oltre, inauditi,/ impreparati a quella delusione,/ carezzammo il sapere”. Complicità e destino sono al lavoro, già avvertimento di una possibile mancanza.
Paolo Birolini si affida al sangue di ogni verità, alla sua densità, alla sua passione, “la frase illuminante che ti dissi/ a luglio, nel frutteto sofferente,/ è saltata solenne nel breviario/ elementare degli Dei sconfitti”.
Eppure si continua, “nella divinità della domenica, nella/ storia del vino e del ghiaccio e del tango./ Nei baci infiniti sulle braccia,/ sull’operaia delle cotoniere, sull’innamorata”. Meglio di così non si può riconoscere lo stupore dello stare al mondo. Nonostante tutto.
“Milonga” è anche una collezione di percezioni, fondamentali per ricordarsi di tenere il proprio cuore in battito cardiaco, più vicino possibile ad ogni emozione, sempre più rara se ci si arrende. Ma non può essere così, se il quando del proprio assoluto arriva “dalla bassa natura a un nuovo lampo,/ un ascensore per il temporale,/ per il piano ammezzato della vita”. I colori si fanno forti, i passi decisi, non ci si può fermare.
È bella la poesia di Barbolini, perché invita al segreto della sua radice, che lo scrivere è “adottare un mistero, lo sognavo/ specialmente d’inverno”. La fiducia da custodire.
Ma “Milonga” si muove di figura e di sospensione, fa leva su tendini e muscoli, ancora di più sul teso del desiderio, a trovare l’origine più pura: “per te blasfemo annuncio la Parola./ Che da lì sono sorto:/ cosce, parole, verbo, luce, vertebra./ Non ti penso da sola”, i corpi si fanno più vicini ancora. Anche le parole.
E ti ritrovi nel pieno dell’ora indovinata, di cui si ha bisogno, “che giunti a questo punto della sera,/ in questa solitudine perfetta,/ la più bassa parola, la più vera,/ sentiamo che non è mai stata detta”.
Pagina dopo pagina Birolini costruisce anche un ammonimento, a cui c’è bisogno di tornare più spesso, quel “avevo visto il finale. Avevo una previsione/ abbastanza approssimativa./ E nessuna sorpresa./ Né da voi né dalla vita”, che è il passo che sa concludere con eleganza questo tempo a volte rimandato, in un libro di poesie che devono solamente essere ballate.
Dal libro:
Citazione
Come un sasso pesante
è diventato il cuore,
tanto che pensa a scrivere
le poesie melense,
sapendo che non muore
per strofe troppo intense:
“l’alba è un gioco di trina,
la morte è più lontana, più vicina.”
*
A chi appartieni?
A chi appartieni e chi ti ha generato?
Chi l’ha fatta la neve, chi la nebbia,
chi ha disposto il creato?
E chi ha pensato al figlio,
chi al volto della perdita, al non nato?
Così nel buio ti faccio le domande,
ti dico che è difficile parlare,
complicata la favola del tempo,
la guarigione, il lampo
che mi resta, il guardare.
Guardo e mi cresci, guardo e mi consoli.
Stiamo insieme da soli.
*
Sempre e soltanto aprile
Ci vorrà tempo
per riparare i torti di gennaio.
La tettoia e l’incanto
delle crepe nel pozzo, i telai
sconsacrati e i ricci, gelidi
morti di questa guerra,
i sarti pavidi della brina.
Neanche un fuoco tardivo parlerà
abbastanza del divino, della nostra
richiesta di salute e fortuna,
di quello che aspettiamo
e ci aspettiamo.
Che poi è aprile, in fondo,
sempre e soltanto aprile.
*
Importante è il desiderio
e la visione. Alzarsi
ogni decennio, la base
del cono che si allarga
ed al vertice tu, lo sguardo
ampio su pini e sugheri,
su donne e discendenze,
sulle notti alla fonda e sugli amori,
sui figli luminosi e sulle rotte,
sugli spiriti audaci.
Tutto deve succedere
e tutto è già successo.
Più in alto e più vicino,
elevato e distante.
Che se c’è un dio ci accoglie e ci perdona,
se c’è un dio lo capisce
che siamo stati simbolo e parola,
emuli e figli suoi,
poeti immaginari, verbo e sangue,
canzone che consola.
*
Provvida e silenziosa la terra,
piena di senso e gravida.
Inutili i passi senza un dio,
senza un nuovo rosario da sgranare.
Per questo e per il lascito del ligustro
segnavo i grani: dovevo, devo,
ritrovare un respiro, ritrovare,
trovare, fare il gesto del fulmine.
(Per questo amavamo il teatro.
Per questo il magma.
I negozi degli uomini, le ninfe.)
Segnavo i grani a tempo col respiro,
le necessità del giorno,
il pasto dell’eterno.
L’autore:
Paolo Birolini è nato a Napoli nell’aprile del ’59, si è laureato in Letteratura Italiana con una tesi su Dino Campana e il Cinema. A 25 anni si è trasferito in Emilia, dove vive e lavora.
A partire dagli anni ’80 ha dato vita e diretto le riviste letterarie “Probabile” e “IDUNA“.
Ha collaborato a varie riviste e pubblicato “M’hanno cresciuto Dei” (Edizioni del Leone, 1987); “Canzoni” (Pulcinoelefante 1990); “I Dolori del Bosco” (2002); “Napoletani” (Monogrammi di Iduna, 2009); “Diario del Comandante” (Monogrammi di Iduna, 2012). Nel 1988 ha vinto il premio Lerici-Pea per l’inedito.
Con l’avvento del terzo millennio ha interrotto le attività pubbliche e ha stampato in proprio e per una ristretta cerchia di amici una serie di testi confluiti poi, nel 2017, nell’antologia “La mano felice – Poesie 1987/2017”.
Sempre nel 2017 ha cominciato a scrivere i propri versi direttamente on-line, sulla sua pagina Facebook, condividendo sul social sia la scrittura “in diretta” che il lavoro di modifica successivo.
(Paolo Birolini “Milonga” pp. 64, 15 euro, Transeuropa 2021)
Immagini ——————————
Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Tempo presente ———————–
Un transatlantico a dondolo
Cinque testi
di Massimiliano Lancerotto
Tu hai così poca vita
ed io
che ne ho in avanzo
che strano
adesso danzo,
con te io danzo.
Ci passa intanto una stagione,
un ‘altra,
senza vuoto a rendere.
Mi chiedi:
verso cosa tendere?
Ed io,
oramai,
da tutto assente,
tendo verso niente
eppure
fingo….
Meravigliosa notte
con te
distesa
su un fianco
ed io sempre più stanco
Potevo forse più
e meglio
quando ancora tu non esistevi
ma io
son diventato io
soltanto adesso
né prima
né dopo
né troppo poco
né spesso
IO SONO IO
con te
(soltanto) adesso.
*
Sono profondo
o in me si tocca?
Lo devo ammettere per pudore
che ho tot centimetri di spessore?
Dio si nasconde
oppure ha scoperto di non esistere
o di essere privo di onnipotenza
quindi è inutile
essere buoni per convenienza.
Ciò che divide il bene dal male
il contadino dal maiale
la tolleranza dal menefreghismo
il nepotismo dal vassallaggio
Lando Buzzanca da Paolo Villaggio
è un non so che di indefinibile
che nel dettaglio sembra risibile.
Per congedarsi dal mondo dell’arte
è imprescindibile farne parte?
*
La vita è a termine
prendo un appunto:
pensare, ridere,
financo vivere
diventa x
se non xy.
È tutto a termine
pensieri, opere
persino
parole ed omissioni…
quella genziana, la gatta Bianca
il barbiere dietro la banca
mia nonna, mia zia,
un ispettore di polizia
il sindaco Ceschia,
la figlia illegittima di Maria
2 operai dell’acciaieria,
l’ombrello, una sciarpa, la pila
la signora con gli occhiali in seconda fila.
E’ tutto a termine,
anche io lo sono
come
mia madre, l’estate, l’inverno
addirittura il capo del governo.
*
Un transatlantico a dondolo
Un transatlantico a dondolo
e intanto io gongolo.
All’una
la luna
oscilla,
lontani dal mondo immondo che mondo
da ogni nequizia
cullando il tuo cuor
liquirizia.
Sarà questa notte a strisce
o un treno che passa e nitrisce
mi sento abbastanza
anche se
non ancora del tutto.
Hai saputo?
Io libro.
Che libro?
Io libro su tutto
la spiaggia, la neve
una corda, un rutto,
io libro su tutto
e mi basta…
un transatlantico a dondolo
e intanto…
io gongolo.
*
È necessario
l’odor di depliant pieghevoli
l’intimità del fare tardi
esplodere mele coi petardi
centrar la buca
vuotare nel vaso la sambuca
oltre che svicolar certe serate
che se si può: “sto male, ho le vampate..”
Mi chiedevo sempre cosa fosse meglio tra:
trovare l’ultima figurina,
o
fare colazione al bar ogni mattina
o
…..
Massimiliano Lancerotto, senza timore reverenziale
di Massimiliano Bottazzo
Massimiliano Lancerotto con la vita ha dimestichezza.
Magari non sarà la bella vita e il sospetto, che è più di un sospetto, è che probabilmente della bella vita non saprebbe che farsene, ne avrebbe a noia dopo poco.
Perché il tempo e l’esperienza gli hanno concesso il dono di saperla raccontare, guardandola dall’alto verso il basso, certamente senza timore reverenziale anzi prendendola a sonori ceffoni se necessario.
Poesia lo è certamente, la scrittura di Lancerotto non lascia dubbi, ma vi è un tratto che eccede, che l’autore stesso tende a dissimulare, perché in realtà compie un esercizio, askesis direbbero i filosofi, esercizio di vita prima ancora che di stile.
Il ritmo, le rime, le immagini anche ridicole e pertanto divertenti sono semplicemente i vestiti dell’ironia con cui affronta ciò che accade, si direbbe il reale ad essere hegeliani.
È la sua una poetica del punto di vista, del proprio, che lo fa certo unico come tutti, ma che gli regala la consapevolezza di essere solamente uno dei tanti.
In ciò si compie l’esercizio, il ridimensionamento, la relativizzazione di ciò che si è, il distacco dalle cose e dalle situazioni.
Si comincia la lettura sorridendo, si conclude riflettendo, la poesia di Lancerotto si scopre così esercizio di vita e di pensiero.
L’autore:
Massimiliano Lancerotto è nato a Udine nel 1969 dove vive abbastanza bene.
Studia al liceo con poco profitto ma volentieri. Scrive da sempre racconti, poesie, commedie teatrali rappresentate nei più periferici teatri della regione.
Negli ultimi anni con altri autori porta avanti il Progetto Poesia Parlata di cui fa parte a sua insaputa.
Immagini ——————————
Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Libroelibro ——————————
Che mondo
Fabio Bacà, “Nova”
di Laura Mautone
Il perturbante può essere affascinante e misterioso e attirare, ma pure rappresentare qualcuno o qualcosa di pericoloso e irritare profondamente, anche annichilire, forse.
Mettiamo che il perturbante entri nella vostra esistenza, nella vostra vita quotidiana e si materializzi nel vicino di casa prepotente, nello sconosciuto che vi fa uno sgarbo al semaforo, allora entra nella vostra vita anche la possibilità della violenza, che pare semplicemente per alcuni, a volte, essere l’unico modo concreto di risolvere questioni scottanti.
Oppure … ti chiami Davide, sei un neurochirurgo. Sei in un ristorante e stai per cenare con tua moglie e tuo figlio, a casa ti aspettano un cane e due gatti. Tua moglie Barbara, che è vegana, e tuo figlio Tommaso, che è fin troppo sensibile e filosofo, sono entrati per primi al ristorante; tu sei in ritardo, sei sull’uscio, perché davanti a te ci sono delle persone. Un uomo molesta tua moglie, la minaccia: tu rimani immobile a guardare la scena, qualcuno interviene al posto tuo, qualcuno più abile di te nel raccogliere in sé tutta la violenza possibile, in potenza, qualcuno come un maestro zen.
In realtà tu sai tutto sul cervello, ma non sai come reagire nella vita quotidiana. Sei costretto a riconsiderare le tue teorie sulla violenza e, di conseguenza, i tuoi comportamenti, mentre ti barcameni tra l’estremismo ecosostenibile di tua moglie e le angherie del tuo capo.
A volte eventi insignificanti, come per esempio l’inspiegabile atterraggio in giardino di un boomerang aborigeno in arrivo da oltre la siepe, possono cambiare ogni cosa. Si tratta di una questione di prospettive e in quella nuova situazione si nasconde una vibrazione più sinistra, che all’improvviso un pretesto qualsiasi, una discussione al semaforo, una lite per i decibel con un vicino di casa, rischia di rendere insopportabile e ineluttabile.
Questo è quello che accade al protagonista del romanzo di Fabio Bacà, “Nova”, finalista al Premio Strega 2022.
Il perturbante si insidia nella quieta biografia di Davide per diventarne sovrano. Un romanzo curato nel linguaggio e nella costruzione inchioda il lettore come se fosse un thriller, spiazza con le sue contraddizioni, i suoi discorsi zen e le fredde riflessioni sulla violenza intimamente legata all’esistenza e annidata ferocemente da qualche parte nel cervello di ognuno di noi. Dalla parte del rancore.
Dal libro:
[…] Sua madre era una donna bisbetica, ipercritica, capace di formulare i suoi assunti sulla malignità dell´universo tramite il maggior numero di stereotipi espressi nel minor numero di parole:
Dove finiremo.
Siamo alla frutta.
Non se ne può più.
È la fine.
Siamo circondati da pazzi.
e decine di altri, in seguito sussunti, appunto, nel folgorante:
Che mondo.
Davide non ricordava di aver mai utilizzato la sua espressione più tipica, ma quel giorno, in ufficio, seduto con la testa tra le mani, dopo quarantotto ore in cui aveva assistito a un´aggressione ai danni di moglie e figlio, e subìto un velato invito a risolvere una disputa di vicinato in un duello a colpi di cavatappi, accarezzò l´idea di riesumarla.
È questo il mondo in cui viviamo, pensò amaramente.
Quello in cui un penoso avvitamento nella seduzione può essere risolto solo dall´intervento di un energumeno, che riduce alla ragione il molestatore per mezzo di un coltello e di un discorsetto di commendevole incisività. Quello in cui un vicino di casa proferisce un’obliqua minaccia giocando di sponda su un allucinante episodio di anni prima. […]
L’autore:
Fabio Bacà è nato nel 1972 a San Benedetto del Tronto, dove vive e lavora.
Si è occupato di giornalismo per qualche anno prima di approdare all’insegnamento delle ginnastiche dolci.
Ha scritto alcuni racconti brevi e un romanzo inedito. Nel 2019 Adelphi ha pubblicato il suo esordio, “Benevolenza cosmica“, finalista al premio opera prima al premio The Bridge e al premio Megamark.
Vincitore del 40° premio città di Moncalieri, lo scorso ottobre ha vinto anche il prestigioso premio Severino Cesari di Umbria Libri.
(Fabio Bacà “Nova” pp. 279, 19 euro, Adelphi 2021)
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Disegno
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Ti racconto —————————
Disobbedienti, ribelli e pericolose
Giuliana Cadelli, “Le trasgressive. Il coraggio di dire No”
di Anna Piccioni
Giuliana Cadelli, grecista laureata in lettere classiche all’Università degli Studi di Trieste, pubblica “Le trasgressive. Il coraggio di dire no”, studio approfondito sulla condizione delle donne che dalla notte dei tempi hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla legge degli uomini, che le relega all’interno dell’oykos e toglie loro l’uso della parola e del pensiero… Dalla lettura di questo saggio sembra di capire che la strada degli uomini e quella delle donne sono destinate a non incontrarsi mai.
La mancanza di rispetto, di considerazione per la donna come persona si perde nella notte dei tempi: è un giudizio radicato nella memoria genetica dell’uomo
Non viene concessa alla donna nemmeno il ruolo generativo: Già Eschilo nelle Eumenidi dirà ”Non è la madre la generatrice di colui che si dice da lei generato, di suo figlio, bensì la nutrice del feto appena in lei seminato. Generatore è chi getta il seme” e ancora Aristotele (in De generazione animalium), sosterrà che nel processo riproduttivo il seme maschile “cuoce” il residuo femminile (sangue mestruale) trasformandolo in un nuovo essere..”. La conseguenza è che” l’uomo è per natura migliore, la femmina peggiore“. Se una autorità come Aristotele ha affermato questo, nessuno può contrastarlo, anzi condizionerà tutto il pensiero occidentale.
Ci sono delle contraddizioni nella legge degli uomini: se le donne che hanno osato dire di NO avrebbero dovuto pagare con l’oblio come mai conosciamo le loro storie? Certo si tratta di miti e di personaggi epici e delle tragedie; ma ricordiamoci che i miti hanno sempre fondamento nella realtà: ”…la mitologia è l’espressione di una struttura ideologica che si manifesta attraverso differenti forme narrative in possesso di un preciso codice semantico. Ma ciò che lo rende così importante è il valore di verità che gli attribuisce la cultura che lo produce. Capire il mito è dunque importante, perché il mito, e il mito greco in particolare riflette un sapere originario e fondante” [pag.17].
Sapendo inoltre che gli autori Omero, Esiodo, Eschilo, Euripide, Sofocle sono uomini e misogini, raccontano di donne per dire quello che non bisogna fare, e che la punizione degli dei e degli uomini è giusta e sacrosanta.
I miti e le tragedie trattano di donne, ma le donne non sono presenti sulla scena: gli attori sono maschi. La realtà trasferita in una dimensione fantastica diventa mezzo educativo e stimola attenzione e curiosità negli uomini che devono sapere come trattare le donne se osano ribellarsi.
Sulla vita delle donne reali non ci sono documenti; nella democratica Atene le donne non sono cittadine, come i meteci e gli schiavi. Non ci sono documenti al femminile, per lo più si parla di mogli o madri, o sorelle di qualche uomo.
La cultura occidentale si rifà al mondo greco, cristiano e ebraico: tutte queste tre culture riconoscono l’origine del Male in una figura femminile: Pandora, distributrice di doni, seducente, un danno per uomini mortali e perciò incute timore; Eva disobbedisce per sapere; e Lilith, prima sposa di Adamo, rifiuta l’Eros tradizionale.
Da queste tre donne inizia la galleria delle protagoniste di questo saggio. Donne di cui il mondo maschile ha paura, considerate addirittura non appartenenti alla razza umana.
Alle donne che hanno sovvertito la legge degli dei e degli uomini, Medea, Circe, Cassandra, Clitemnestra, Antigone, Fedra, le Amazzoni, si affiancano quelle come Ismene e Crisotemi, e Penelope, le donne prudenti, avvedute che rientrano nei canoni dell’ordine stabilito dai maschi. Sono dotate di buon senso e spirito di adattamento, ma non passeranno alla Storia.
Otre alle eroine del mito Giuliana Cadelli ci presenta donne storicamente esistite, eccezionali, pochi però gli esempi: Aspasia, Diotima, Ipazia.
La lettura interessante coinvolge emotivamente in quanto l’autrice affronta realisticamente il sentire e la sofferenza femminile, che oltrepassa il mito.
Intervista a Giuliana Cadelli:
Perché questo libro?
Molte sono le risposte, sicuramente il mio interesse per l’antichistica, il mondo classico e gli studi sulla discriminazione di genere sono alla base di questo lavoro. Quando sento parlare di quote rosa per equilibrare la presenza tra uomini e donne nelle sedi decisionali, resto sempre senza parole.
Un provvedimento pensato a favore delle donne è quanto di più discriminatorio possa esistere, perché legittima un pensiero sotteso: che le donne valgono meno, ma siamo costretti ad avvalerci della loro presenza non perché siamo convinti della loro uguale competenza, ma per non essere discriminanti.
Solo questo dovrebbe indignarci: ma non accade.
La discriminazione ha radici nel mondo antico?
Il pensiero greco in particolare propone un’ostilità verso il femminile, che molti hanno sottolineato come tratto evidente. Nella Teogonia Esiodo non parla della nascita dell’uomo, perché figlio della terra. L’omissione del mito della creazione è significativa: l’uomo è sempre esistito, la donna invece viene creata, è Pandora, un valore gestito da altri.
Tutto ciò non è privo di senso, ma giustifica la superiorità dello spirito sulla materia, del maschio sulla femmina, del soggetto sull’oggetto. Questa dualità percorre e organizza il rapporto gerarchico nella cultura greca e più in generale in tutta la cultura occidentale
Quali sono i capisaldi della cultura occidentale?
La matrice cristiana e classica sono i capisaldi: Eva e Pandora, da lì è iniziato tutto. Il pensiero cristiano considera la donna responsabile del peccato originale, che grava su tutta l’umanità.
La Bibbia ci narra che Eva cede alla tentazione del desiderio di sapere, di capire e coglie il frutto proibito dall’albero della conoscenza determinando la cacciata dal paradiso terrestre.
Un atto di disobbedienza femminile è all’origine della storia della cristianità. Sull’altro versante la rappresentazione dell’immagine femminile nel mondo greco è il mito di Pandora che incarna l’archetipo della donna fatale, seducente e malefica la cui bellezza, di cui si rimane incantati, è solo esteriore, e in quanto tale riveste un’indole tutt’altro che buona.
Chi sono le protagoniste di questo saggio?
Le protagoniste di questo libro sono disobbedienti, trasgressive, ribelli e pericolose. Perché sanno troppo, perché sono violente; perché seducono e affascinano; perché non si piegano a un destino prestabilito, ma inventano per sé un nuovo modello, perché minano le fondamenta di un sistema patriarcale che continua ad essere imperante di oppressione politica, economica, culturale e religiosa che conferisce potere e privilegi solo agli uomini.
Perché è importante partire dai miti?
Il fatto che la gran parte delle figure di disobbedienti siano personaggi del mito, non è privo di significato; il mito certo è un racconto, ma è il primo racconto, quello che narra l’origine di tutto ciò che è ritenuto importante, agisce come paradigma della realtà.
La mitologia è l’espressione di una struttura ideologica che si manifesta in differenti forme narrative in possesso di un preciso codice semantico; la cultura che lo produce gli attribuisce valore di verità.
L’autrice:
Giuliana Cadelli, grecista, è laureata in lettere classiche all’Università degli Studi di Trieste, nel 1994 con una tesi in antichistica sulle rappresentazioni e le funzioni di una grande dea greca, Afrodite.
Ha collaborato alla cattedra di Storia delle Religioni antiche come cultrice della materia; da anni studia mitologia, storia religiosa del mondo antico e organizzazione simbolica dell’identità di genere con uno sguardo particolare alla condizione del femminile nel mondo antico. “Le trasgressive” è il suo primo libro.
(Giuliana Cadelli “Le trasgressive” pp. 272, 20 euro, Battello Stampatore, 2021)
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Figura
Dieci lavori
di Gaetano Lamonaca
Intervista a Gaetano Lamonaca:
di Luigi Auriemma
Osservando le tue opere, immediatamente la nostra visione viene colpita dalla deformazione che assume il corpo umano; distorsioni di arti, del corpo nelle figure intere o dei tratti somatici nei ritratti. Da dove si origina questa distorsione morfologica: da una sofferenza psicologica o fisica?
Ho avuto una visione “traviata” della realtà, nel momento in cui ho preso coscienza di essa stessa in tutti i suoi aspetti, che riguardano il mio vivere.
Inevitabili le influenze, da quelle più remote: Il Manierismo, con i suoi Parmigianino, Pontormo e soprattutto El Greco. Nel percorso le visioni più vicine si sono indirizzate verso artisti quali Bacon e, in particolare ad un artista tanto caro, Frank Auerbach.
Come posso dimenticare anche un artista che ha influenzato la mia giovinezza e che per tutta la vita ha cercato di “uscire dall’ombra”: Raffaele Lippi.
Un’altra riflessione sulle tue opere che mi colpisce sono i titoli che sono sempre e solo “FIGURA”. Questo termine potrebbe venir fuori dal tuo modo di fare arte, di dipingere, ovvero, dall’uso di una materia pittorica densa e spessa dove il gesto si trasforma in segno, dove la pennellata scava e costruisce la figura, la plasma e la modella?
I titoli dei miei lavori hanno sempre una fondamentale importanza, perché rappresentano il mio vivere. Sono il racconto del mio celato che ho trasportato sul supporto. L’inquietudine mi porta spesso a cambiarli. Spesso il termine più usato è “figura”, ma il termine non stabilisce un significato eterno.
Nel divenire spesso cambia. La materia è fondamentale nel mio lavoro, in senso pittorico ma soprattutto con l’intento di essere plasmata, per poi farla vivere.
Le tue “figure”, figlie di un pensiero contemporaneo hanno nell’impostazione una fierezza di sapore classico. Mi parli un po’ di questo doppio aspetto?
Le figure che dipingo, a mio avviso, fanno un percorso che cerca di citare tutto quello che è stato in arte. Spaziano da una realtà cosiddetta “Classica” ad una vicinissima al contesto odierno.
Il concetto di “Nomadismo” è un qualcosa che mi ha sempre coinvolto e appartenuto. Secondo il mio pensiero un dipinto non ha bisogno di alcun progetto.
Stabilire delle cose a priori toglie gran parte dell’energia a quel che si vuole raccontare. Di fronte allo spazio azzerato le idee non hanno forma, il tutto viene suggerito da quella che è la parte nascosta nei meandri della mia persona. Alla fine che fine non è. Il tutto viene decifrato per capire quel che si voleva dire.
Il tuo modo di dipingere ti porta a sovrapporre e a modificare costantemente, con inquietudine visionaria, sia le figure intere che i ritratti, quasi come se questi numerosi ritratti “velati” uno sull’altro andassero in cerca, affannosamente, di una loro identità sia psicologica che fisica. Quanto e quale di queste due identità prevale e in che misura si influenzano?
Modificare costantemente è un presupposto che mi appartiene, che fa parte della mia indole prolifica nel dato visionario. Il tutto comincia con la rappresentazione di figure che mostrano la loro chiarezza grafica e cromatica, ma poi soggette ad una distruzione del dato reale che distruzione non è.
L’identità dei miei lavori prevale nel momento in cui si ha ipotetica conclusione, ma sono cosciente che una conclusione non abbia mai un termine. Il tutto è suggerito da una perpetua inquietudine nella ricerca affannosa di un qualcosa che spesso non è chiaro.
Questa ricerca identitaria, che forse non raggiungeranno mai anche nell’ultimo stadio “evolutivo” del tuo percorso pittorico, è dovuta dallo smarrimento dell’uomo contemporaneo in questa società “liquida” ma soprattutto schizofrenica? E quindi anche tu, come membro di questa società, partecipi con una tua inquietudine personale?
Ho la sensazione che il mondo in cui vivo sia quello che non mi appartiene. Una riflessione però mi porta a pensare che forse è proprio di questo mondo che ho bisogno, perché non avrei elementi per gridare la mia inquietudine.
Forse il tutto anche nei tempi passati è stato sempre lo stesso, è una peculiarità che appartiene all’umanità stessa, il non essere d’accordo con gli anni che si vivono.
Il tuo modo di fare arte è orientato più verso una ricerca sui “moti dell’anima”, tanto cari a Leonardo Da Vinci, che su una ricerca spirituale. Personalmente che rapporto hai con la sfera spirituale?
Il rapporto con la sfera spirituale è fondamentale nella mia persona. Una volta ho raccontato che in alcune occasioni ho fatto uso della preghiera, per arrivare a stabilire una liturgia che mi accompagnasse a risolvere un qualcosa che sembrava irrisolvibile. Sono stato “deriso” nel raccontarlo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
In questo periodo il lavoro continua costante. Ci sono alcuni contatti per organizzare una esposizione nella città di Milano.
L’artista:
Gaetano Lamonaca è nato a Pozzuoli nel 1961. Allievo di Domenico Spinosa, si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Attualmente è docente di Discipline Pittoriche presso il “Liceo Artistico U. Boccioni di Milano”.
Ha partecipato a numerose esposizioni sia personali che collettive, nazionali ed internazionali.
Tra le tante le più recenti sono “Motus Animi” al Palazzo delle arti di Capodrise (CE) nel 2020; nel 2019 “Dentix” (personale), nella Chiesa di San Severo al Pendino (NA); nel 2018 “Segno Disegno Gesto”, Centro polivalente Marigliano e nel 2019 alla galleria Spazio Vitale, Aversa (CE); nel 2016 “Collettiva”, allo Studio Crozzi di Legnano (MI); nel 2015 “Collettiva”, all’ Accademia Domus (CO); nel 2013 “Collettiva”, allo Spazio l’Immagine, Sondrio; nel 2012 “EUTIMIL”, personale alla galleria Aphoteca, Pozzuoli (NA); 2012 alla Fiera di Bergamo con la Galleria A. Pizzagalli, Mantova; 2011 ”Collettiva” allo Spazio Civico Legnano (MI); nel 2010 nella Galleria darte10, Lissone (MI); 2009 Mostra personale alla Galleria Lake Art, Dongo (Co); 2008 collettiva alla Galleria Mario Maggiore. Mantova; 2006 al Palazzo Gallio, “collettiva di Artisti Lariani”; 2005 personale alla Galleria A.Volta, Como; 2002 alla Galleria A_Z, Busto Arsizio (MI); nel 2000 collettiva allo Spazio ENAC, Milano.
Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private e pubblicate in libri, riviste di settore e cataloghi d’arte.
I suoi lavori qui proposti:
Figura 35×50 olio su tela
Figura 20×20 olio su tela 1
Figura 24×30 olio su tavola
Disegno 13×18 tecnica mista
Figura 13×18 olio su tela
Figura 70×80 olio su tela
Figura 20×20 olio su tela
Disegno 20×30 carbone matita colorata
Figura 20×30 olio su tela 4
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Livio Caruso.