Ecco il nuovo numero di “Fare Voci”!!!
La poesia continua ad essere il centro attorno al quale il nostro muoversi si orienta.
E in questo numero lo facciamo andando a scoprire il nuovo libro di Francesca Del Moro, “L”. Lavoro intenso, in cui la poesia si ridefinisce, trova nuove espressioni e si interroga sul suo appartenere all’espressione umana.
E poi gli inediti di uno dei poeti di riferimento del nostro panorama nazionale: Marco Marangoni.
La nuova e giovane narrazione italiana è presente con Sonia Aggio, e il suo romanzo “Nella stanza dell’imperatore”, motivo di rinnovata fascinazione narrativa.
Il ti racconto è anche lo scrivere di Carmen Palazzolo Debianchi con “Cherso”, e il racconto “L’invito” firmato da Lorenzo Fain.
Dall’Argentina Antonio Nazzaro ci invita a conoscere Alberto Cisnero e la sua poesia, e Marina Sorina ci accompagna nel dire di Yuliia Iliukha, e i suoi racconti brevi contenuti nella raccolta “Le mie donne”.
I margini di poesia ed altro sono quelli di Franca Alaimo e le sue “100 poesie”. Stefano Dovier ci porta il suo fare poesia in gradesano.
In questo numero immagini e parole vanno assieme, grazie a Luisa Gastaldo e il suo progetto “Endecanuvole”. La poesia del quotidiano incontra il cielo e le nuvole. Suoi gli scritti e le foto.
Buona lettura!!
Giovanni Fierro
(la nostra mail: farevoci@gmail.com)
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Voce d’autore ————————-
Del mio passo sospeso
Francesca Del Moro, “L”
di Giovanni Fierro
Ci vogliono più passaggi, aggiunte e cancellazioni, più correzioni, per arrivare alle parole da mantenere e da destinare alla pagina. E se questo succede nella scrittura, nella umana sopravvivenza succede la stessa cosa.
Francesca Del Moro ne è la testimonianza. Colpita dalla tragica scomparsa del figlio, con il suo scrivere ne indaga tanto la presenza quanto l’assenza, prova ad andarne a capo, apre e chiude capitoli, trova il titolo a cui fa appartenere il tutto.
E così, raccontandosi e svelandosi, interroga la poesia nella sua necessità, nel suo desiderio di esistere e di trovare la forma adatta per essere condivisa.
Perché in “L”, sua recente raccolta, dice chiaramente la sua attuale condizione: “ugualmente/ attratta e impaurita/ dalla morte, dalla vita”; il luogo preciso dove “camminando/ come con la febbre alta/ ogni parola/ mi spacca le labbra”.
E quindi è un sopravvivere quando comunque “non è il dolore, è l’amore./ È l’amore a tenermi al buio”, quando una possibile pace è il pacificare i ricordi, trovare un’adesione al proprio vissuto, drammatico ma custode anche di momenti di preziosa bellezza, dove bisogna in qualche modo accettare che “lo abbiamo preso tutto/ il male che ci toccava”. Ma ora è il tempo di un altro passo in avanti, di certo non facile, ma che sta già misurando la direzione intrapresa, la trasformazione del proprio stare al mondo. Con nuovi riferimenti e nuove vicinanze. Un luogo in cui però si può ancora avere la certezza che è impossibile stare al sicuro.
Francesca Del Moro in “L” costruisce una nuova appartenenza, la dichiara e la mostra, la indica: “sarò sempre un vaso/ con l’oro tra le crepe.// Nessuno mi vedrà più intera”. E l’intensità del dolore rimane intatta (“ma lui è sempre qui/ sempre qui a mancare”), in cui però si possono trovare nuovi equilibri (“ho un equilibrio/ da dosaggio chimico/ la scrittura/ come via di fuga”).
E il passo in avanti è anche il varcare una linea che prima non c’era, che ora è chiara e che riporta in una vicinanza ed appartenenza tanto la presenza quanto l’assenza, “la soglia è nella casa/ invisibile, moltiplicata”. In un silenzio che, se possibile, si fa ancora più intimo, ma dove ora è pensabile un altro tipo di incontro con la vita, “abbraccio tutti/ tutto abbraccio”; senza dimenticare il nervo che dell’esistenza si è fatto inevitabilmente più doloroso, “sono io/ contro la vita”.
Perché allora è il calore umano che disegna nuove possibilità di esistenza, vicinanza che trova parole con cui rinnovarsi o semplicemente ricordarsi di sé, in una nuova immagine dove “camminiamo/ e lui mi mostra/ a una a una/ le cose belle./ Poi ferma gli occhi/ su di me/ come se fossi/ la più bella di tutte”. Dove difendersi dal mondo è ancora possibile.
Dal libro:
La barca non si è ancora
staccata dalla riva.
Lui è salito per primo
e mi ha preso la mano.
Gli anni scorrono nell’attimo
del mio passo sospeso.
*
È di altri la vita che ci resta.
È per proteggerli.
Lieve cura dire noi.
Noi superstiti.
*
Io non so più
cosa vuol dire questo giorno
del primo maggio ricordo
la strada vuota, l’aria ferma
e la tovaglia rossa
che appendeva alla finestra
le mie mani
vicinissime ai suoi fianchi
e la carezza dei miei occhi
sulla sua schiena.
*
Ho cresciuto
una siamese di dolore
di giorno
la tengo nascosta
di notte
appoggia la testa
sul cuscino
e lui
ha braccia buone
e calde
ci tiene strette
entrambe.
*
L’hai decisa tu
la corsa a ritroso
a ripesarmi dentro
un grumo d’amore
e io che ancora aspetto
di ridarti alla luce.
Intervista a Francesca Del Moro:
Penso che “L” sia un libro che vive il dire da dove si arriva; ma che ha la forza, non solo in filigrana, ma anche nelle proprie vene e in evidenza, di ipotizzare un’altra direzione possibile e già intrapresa. Seppur sia al suo inizio… Può essere così?
Sì, hai colto perfettamente lo spirito del libro. Mentre “Ex Madre” descriveva lo strappo, lo spezzarsi brutale di un legame, “L” tenta di ricucirlo, a fatica e seguendo un percorso tutt’altro che lineare.
Si tratta in verità di un legame duplice: da un lato il rapporto con il figlio che mi ha abbandonata; dall’altro il mio stesso attaccamento alla vita. “L” non è solo l’iniziale del nome di Lorenzo, ma è anche la prima lettera di lutto e luce e il libro segue i miei primi traballanti passi dall’uno verso l’altra.
Tutto parte dalla decisione di tenere sempre al collo la catenina che feci fare per il suo battesimo. A lungo sono rimasta nella rabbia e scegliere di non separami mai da questo ciondolo con l’iniziale è stato il mio primo segno di pace.
La tua poesia continua nell’essere un qualcosa di assoluto, un andare nelle viscere ma con disciplina, ordine espressivo, immagine che porta con sé la luce di cui si ha bisogno. Nel caso di “L”, è un tuo mostrarti ancora più a nudo, o è invece una messa a fuoco più precisa di te?
Ti ringrazio per aver colto questo modo di procedere a cui tengo particolarmente. Uno dei fari che mi guidano da tempo nella scrittura è il distico di Christian Tito “Non importa se voi non leggete le poesie/ perché sarà la poesia a leggervi tutti”.
Nel libro tento di cogliere un’esperienza straordinaria (certo, non in senso positivo) nella sua essenzialità, di restituirne i minimi dettagli cercando di non filtrare quanto accade attraverso il giudizio o l’emotività. Lavoro in questo modo da molti anni e se parli di una messa a nudo e a fuoco più precisa di me (direi in quanto essere umano) probabilmente riscontri un affinamento di cui non posso che essere soddisfatta.
Anche in questo caso, come nel tuo libro precedente, le tue pagine chiedono alla poesia quale sia il suo significato, il suo senso. Se in “Ex Madre” la parola era sfogo e cura, in “L” la parola che identità assume?
La scrittura per me non è mai stata uno sfogo e mi dispiace che possa essere percepita come tale. Quando ho bisogno di sfogare il dolore piango e sono arrivata anche a picchiarmi e a battere la testa contro il muro. Raramente parlo, preferisco lasciarmi abbracciare. Quando mi sento così, non scrivo per un pezzo.
In “Ex Madre” ho voluto descrivere i miei crolli e la violenza contro me stessa in maniera asettica, come un medico che osserva il paziente e compila la cartella clinica. L’irrompere delle emozioni, come sapeva Wordsworth, difficilmente sfocia in una buona scrittura. Si perde il controllo della parola, della disciplina e dell’ordine espressivo di cui tu stesso hai parlato.
Faccio mia invece la definizione della scrittura come cura e questo vale sia per “Ex madre” sia per “L”. In entrambi i casi, scrivere è come assumere psicofarmaci: quanto è accaduto è ben presente alla mente, non dà tregua, ma il farmaco e la scrittura lo staccano da me e lo pongono a una certa distanza.
È come avere il fiato di un leone sul collo: potrebbe azzannarti ma qualcuno lo tiene al guinzaglio quel tanto che basta da impedirgli di raggiungerti. In “L” però c’è qualcos’altro, che nel libro precedente era solo accennato: la parola tenta un cammino spirituale, cerca di cogliere la presenza nell’assenza, di farsi strumento per il superamento di una soglia: tra il visibile e l’invisibile, la vita e la morte, il qui e un possibile altrove. Per questo diviene forse più delicata, più essenziale, il verso si assottiglia per combaciare con la trasparenza di questo limite.
A pagina 61 il tuo scrivere si muove incontro ad altre persone, “esseri spezzati” come li descrivi, con cui hai un destino in comune. Eppure questo condividere, seppur “tenuti assieme alla meglio/ da rimedi chimici”, mi sembra una prova di resistenza, di umana sopravvivenza. Cosa ne pensi di questo?
Sopravvivenza è parola chiave. Il termine tecnico per definire in psicologia coloro che hanno perso una persona cara per suicidio è proprio sopravvissuti (survivors). Si sopravvive in quanto si vive più a lungo del proprio caro perduto, ma si sopravvive anche a una sciagura che ci colpisce con una tale violenza da spingerci a nostra volta alla morte o da allentare drasticamente il nostro legame con la vita.
Si sopravvive in quanto continuare a vivere diventa estremamente faticoso e per molti impossibile senza un supporto psicologico e farmacologico. E infine – questa accezione che trovo per ultima sul dizionario Treccani mi colpisce particolarmente – si “continua a vivere idealmente dopo la propria morte”.
Il dizionario porta come esempio la sopravvivenza di una persona deceduta nel ricordo privato o pubblico, o attraverso le sue opere. Ma sopravvivere a un suicidio significa esattamente questo: essere morti eppure continuare a vivere. Come scrive Rose Ausländer, “sono sopravvissuta alla mia morte”.
Le persone di cui parlo nei versi che hai citato sono i sopravvissuti al suicidio che fanno parte di un gruppo di auto mutuo aiuto gestito dalla fondazione De Leo di Padova. Questi incontri sono un’opportunità per capire sé stessi e per sentirsi capiti. Si creano legami molto forti e la compassione che si prova per gli altri, il fatto che mai li accuseremmo del gesto dei loro cari dovrebbe lenire il nostro senso di colpa.
Dovremmo imparare a guardare noi stessi come guardiamo gli altri superstiti. Uso il condizionale perché per me è un risultato ancora molto lontano. È a queste persone che è dedicato “L”, sono citate per nome in apertura di libro.
Mi ha colpito una cosa in particolare. Inevitabile che queste pagine abbiano ‘confidenza’ con il dolore. Ma in alcuni momenti il dolore è diventato male. Quasi a volerlo asciugare, renderlo più astratto (ovviamente non per questo meno pericoloso e pesante), ma forse per permetterti una distanza, mi viene da dire di sicurezza, con la quale iniziare a limitarlo, per difenderti da lui. È così?
In realtà trovo che la parola male sia più forte, per me rappresenta un assoluto. Il dolore è un concetto un po’ abusato in poesia e io stessa l’ho utilizzato abbondantemente. Ho conosciuto il dolore in varie forme, ho sofferto, come tutti, per diversi motivi. Ma qui si è superato il limite, ci vuole un’altra parola.
Il male è qualcosa di più grande, qualcosa di infernale. Ricordo che i primi tempi, quando qualcuno mi chiedeva come stessi, io rispondevo: “È un inferno”. Mi sentivo mangiare dentro, non ero più nel mondo, nella vita. Ho provato dolore quando non sono stata amata, quando sono stata umiliata, quando ho perduto persone care portate via da una malattia o dalla vecchiaia.
Proverei un dolore fortissimo, credo, se mio figlio fosse morto in un altro modo, un dolore di gran lunga superiore a quelli che ho appena nominato. Ma pensare a quell’ultimo giorno, a quello che ha fatto, a cosa potrebbe aver provato e pensato in quei momenti e chissà in quanti altri prima, immaginare i gesti, la scena che per fortuna non ho visto, non è più dolore, è qualcosa di molto più atroce: è il Male.
Diversi sono i passi di “L” dove la tua femminilità e la tua sensualità diventano protagoniste. Con molta dolcezza e tanta delicatezza. Ma il calore che senti, che arriva dalla persona vicina, che ti abbraccia e ti guarda, che ti ascolta e ti veglia, è di sicuro un nuovo germoglio. Quanto di questo ti ha sorpreso nello scriverlo? Nel trovargli pagina ed attenzione?
Alcune delle poesie a cui ti riferisci sono state pubblicate a sé qualche mese prima di “L”, grazie alle edizionifolli di Silvia Secco. Il libro si chiama “Questo posto buono” e, come tutte le pubblicazioni di Silvia, è un piccolo gioiello artigianale. In copertina c’è una cianotipia di Ksenja Laginja realizzata a partire da una foto che aveva scattato a me e al mio compagno Andrea, a cui è dedicato il libro.
Con le edizionifolli avevo già pubblicato “Una piccolissima morte”, che parla di una relazione intensa ma dolorosa, e stavolta ho voluto dare alle stampe un canzoniere d’amore felice, qualcosa di insolito, credo, nella letteratura. Come disse una volta Anna Maria Curci, io scrivo sempre poesie d’amore, che siano per uomini o donne desiderati o amati sensualmente, per amici, per artisti, per ideali, perfino per incontri fugaci. Quindi non mi sono sorpresa nello scrivere di questo amore. Ma nel viverlo sì, nell’avere incontrato una persona che non solo mi capisce e sa confortarmi ma è riuscita a riattaccarmi alla vita e a farmi persino dire di essere felice. Non è stato il solo ad aiutarmi, e il male è ancora in me e ci sarà sempre, ma se sopravvivo sempre meno e vivo sempre di più lo devo soprattutto a lui.
E comunque, poi a pagina 91 scrivi “Sono io/ contro la vita”. La pace, ma non saprei dirti quale, è oramai impossibile? O quale pace, invece, senti più vicina?
La poesia che citi esprime una volontà di rivalsa. Qui chiamo vita ciò che altrove chiamo Dio, destino, un principio astratto e a me sconosciuto che ha deciso che la mia esistenza debba andare così. Sono stata una bambina inoffensiva e sensibile e per questo bullizzata, ho vissuto una lunga relazione all’insegna della violenza psicologica e dello svilimento della mia persona, del mio corpo e della mia intelligenza.
Uscita da tutto questo, il rapporto che mi legava al mio unico figlio era qualcosa di talmente bello da ripagarmi di ogni cosa. Sennonché la vita, o il destino, o Dio o chi per loro, ha deciso di portarmelo via nel più atroce dei modi. E allora in quel momento, in quella poesia, ho voluto come abbracciare tutte le donne ferite che sono stata e la madre annientata che sono adesso e prendermi la mia rivincita. Dichiarando l’intenzione di non lasciarmi distruggere, di pretendere un risarcimento di amore e di gioia.
Quanto alla pace di cui mi chiedi, “L” esprime proprio la volontà di pacificare i ricordi, di ripensare a mio figlio con dolcezza, allontanando l’interferenza di quell’ultimo gesto terribile. Ma questa pace che cerco è ancora lontana, c’è di buono e di nuovo che ho fiducia, che non la credo più irrimediabilmente perduta.
L’autrice:
Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della traduzione. Ha pubblicato i libri di poesia “Fuori tempo” (2005), “Non a sua immagine” (2007), “Quella che resta” (2008), “Gabbiani ipotetici” (2013), “Le conseguenze della musica” (2014), “Gli obbedienti” (2016), “Una piccolissima morte” (2017, ripubblicato nel 2018 come ebook), “La statura della palma. Canti di martiri antiche” (2019), “Ex madre” (2022), “Questo posto buono” (2023) e “Sovraliminale” (2023).
Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa e ha pubblicato una traduzione isometrica delle “Fleurs du Mal” di Baudelaire (2010) e la traduzione dei “Derniers Vers” di Jules Laforgue (2020).
Fa parte del collettivo Arts Factory e del Club Pavese+Tenco insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini.
Propone performance di musica e poesia insieme alle Memorie dal SottoSuono.
Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo “La rosa e la corda. Placebo 20 Years”, edita da Sound and Vision.
Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie associazioni bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.
(Francesca Del Moro “L” pp.156, 14 euro, Gattomerlino 2024)
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Tempo presente ———————–
Da una viandanza
Cinque poesie inedite
di Marco Marangoni
L’augurio
L’augurio è che in un momento tuo solo,
sempre vicino eppure distante,
arrivi il soffio delle cose mute, la vena
che quasi ci raggiunge
(…imparassimo da Hölderlin
o dagli usignoli)
ma quale fondo o fonte sia la misura, non so, del cuore
delle domande
*
Il viandante
Avevo raccolto dell’uva tardiva
e rincasavo per il sentiero,
mentre il sole scendeva, grado a grado, il paese
e la collina;
me ne andavo –mi disse-
ma come se i passi retrocedessero
verso il posto dell’uva,
da cui nasceva la sera, la vendemmia
e quell’ora,
controra quasi tra le mani
e il canestro che si riempiva
della parola
*
La pagina
C’è sempre un ritorno
e c’è Qualcosa
(di accaduto che sempre accade).
Non è una cosa, non è una voce.
Pare un’ombra
o quello che nell’ombra ristà,
riposa.
Stato al presente, perfetto,
che tutto assorbe, revoca.
C’è nell’attenzione che non si distrae
questo pensiero che si inverte,
e dici ricordo come già il nuovo
che ti attende
o fondo/sorpresa/ fine.
Ma quale concetto, quale metafora?
No, niente o niente più
che questo trascorrere limpido,
la pagina
*
Ricominciare
Si deve pur ricominciare,
rifacendo ordine per quel che si può
e si deve. Si deve e si può,
quasi un motto (ma del cuore).
La mente è già lì
dove il verbo si fa giorno e dove il saluto
è in due parole.
È semplice l’etica more
demonstrata dalla pioggia fina
come di luglio tra le case, il bosco
e la memoria. Quanto fondo ricade
il tuono che rotola,
quanto la vita sta in un limite
e ne deborda (…)
così i tuoi gerani che curavi
oltre la cura e il vaso
di terra cotta
*
Come un abbandono
Ci sarà pure un qualche autunno,
migliore di questo,
come una summa d’anni e foglie
o un fuoco
(con un dio dentro); un fuoco
che senza estinguersi mai
vada, via via, ardendo;
e quale che sia
questo darsi, questo evento,
un sogno c’è qui
e per davvero,
ma come un abbandono lo diresti
o la traccia…la traccia, che si dissemina
per il cielo
L’autore:
Marco Marangoni (1961), ha pubblicato i testi poetici “Tempo e oltre” (Campanotto Editore, 1994), “Dove dimora la luce” (I quaderni del Battello Ebbro, 2002), “Per quale avventura” (Raffaelli Editore, 2007), “Congiunzione amorosa” (Moretti & Vitali, 2013), terzo classificato al Premio Gozzano 2016, “La passione degli anni” (Stampa editore 2018) e “Sentimentalissima luce” (Puntoacapo 2021).
Suoi testi sono stati tradotti in vari Paesi. Come critico, è autore di diversi interventi, tra cui: “La poesia e la paura”, in ‘Griselda Online’, 2015; “Della lirica”, in ‘Punto. Almanacco della poesia Italiana’, 2016.
È segretario della giuria scientifica del “Premio di poesia San Vito al Tagliamento”.
Collabora con http://poesia.blog.rainews.it e con il Dipartimento di Italianistica e Filologia Classica dell’Università di Bologna, per cui ha ideato e cura ‘Ossigeno nascente. Atlante dei poeti contemporanei’, on-line.
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Ti racconto ————————-
Grandi occhi verdi che sembrano volergli divorare il volto
Sonia Aggio, “Nella stanza dell’imperatore”
di Roberto Lamantea
Dopo “Magnificat” (2022) Sonia Aggio torna al romanzo con “Nella stanza dell’imperatore”, sempre pubblicato da Fazi. Il periodo storico in cui il libro è ambientato è poco frequentato dalla letteratura, l’Impero Romano d’Oriente del X secolo, l’Anatolia, la Turchia, l’Asia minore, la figura di Giovanni Zimisce, imperatore dal 969 al 976.
L’arco degli avvenimenti narrati nel libro, 41 anni, è disegnato nella metafora di una giornata che dal Prologo (Mezzanotte) si snoda via via – proprio come il trascolorare della luce e lo snodarsi del tempo – in Alba, Giorno, Crepuscolo, Notte, Zenit, Epilogo (Mezzogiorno) e ha il suo cuore nella “Città delle città”, Costantinopoli, con i suoi palazzi, labirinti, il porto e la Basilica di Santa Sofia.
Nella pagina dell’autrice veneta la storia s’intreccia con la leggenda e il sogno, la cronaca con il brivido metafisico quando non esplicitamente horror, l’affresco delle scene corali stacca, come in una sequenza cinematografica, con il dettaglio, come in Paolo Uccello o Hieronymus Bosch – un infinito teatro di miniature. Sonia è una tessitrice, il romanzo un arazzo.
Ma il dato stilistico principale, rivelato in “Magnificat” e qui confermato, è l’intreccio fra storia (anatomia del potere, tessitura psicologica dei personaggi) e irrazionale: nel primo romanzo è l’immagine di un’edicola votiva, ispirata a un magnifico ovale di Botticelli, qui la profezia delle streghe dal Macbeth, che attraversa come una faglia tutto il libro ed è rivelata nel finale, tanto che l’immagine che la lettura richiama è la stupenda sequenza iniziale del Macbeth di Polanski: il trascolorare del paesaggio nel campo lungo di una spiaggia, il grido dei corvi, l’arrivo delle sorcières che scavano nella sabbia, seppelliscono un braccio umano, compiono il rito magico e camminano storte verso l’orizzonte.
Anche il lungo finale è al confine tra sogno, allucinazione e ricordo. La precisione storica – Sonia Aggio è laureata in Storia e alla base di questo romanzo c’è, come per l’altro, una seria documentazione, gli alberi genealogici dei Curcuas, gli Sclero, i Foca e la corretta terminologia greca, con glossario e bibliografia – ha sempre sottopelle un brivido metafisico.
Come in Shakespeare, gli spettri “visitano” questo libro: il primo è un cavaliere, occhi neri, pelle olivastra, sulla cima di un sentiero, tra i corvi che volteggiano nel cielo: Costantino Foca. Ma è impossibile: “è appena morto, di febbre, o di veleno, nelle carceri di Aleppo”. Subito dopo “una donna vestita di nero, capelli grigio ferro, piedi scalzi, occhi celesti incassati in un reticolo di rughe”: “Salve, tu che un giorno sarai basileus ton Romaion”, imperatore.
Poi una donna dai “grandi occhi verdi che sembrano volergli divorare il volto […] vuoti e lucenti come quelli dei gatti”: tracciando un arco nell’aria sarà lei a vaticinare: “C’è guerra e guerra, Zimisce. E dentro di te c’è qualcosa di terribile, freddo e limpido. Oh, è affilato come la lama di una spada. O forse una catena di montagne in un mattino d’inverno. Oppure una serpe. Sì. Assomiglia a un serpente che si prepara ad attaccare”. È la lotta per il potere, conquistato con un assassinio crudo, da mattatoio, dove però la crudeltà non si distingue dalla giustizia: “È facile veder morire un uomo. Non ha fatto altro per tutta la vita”. Un’ombra di donna sul molo. Una ragazza con il viso “pallido e a forma di cuore, come il muso di un barbagianni”. Tre figure incappucciate nel turbinio della neve. Un mostro marino con un “largo occhio morto”, pescato al molo e rivisto in un affresco – un affresco, come in “Magnificat”.
Questo brivido nero attraversa tutto il romanzo, è la luce sinistra della trama. Ma la bellezza di questo libro – finalista al Premio Strega – è, dicevo, lo sguardo da regista che ha Sonia Aggio per quelle che al cinema si chiamano scene di massa. La battaglia, dove “gli eserciti si fronteggiano e infine si schiantano, duri e poderosi come le onde sugli scogli”, pagine – magnifica la sequenza da pagina 71 a pagina 74 – dall’epica classica, omerica. Come la scena dell’assassinio dell’imperatore Niceforo, di cui Zimisce prenderà il posto.
Nelle scene di battaglia c’è il senso della Storia con la maiuscola: storia di guerra, l’odore del sangue, del ferro, il grido dei corvi e l’ululato dei cani selvatici, i corpi smembrati, i soldati in agonia e il loro disperato addio, la notte delle ombre e degli spettri, le luci delle torce e dei bracieri.
E il dolore, il dolore ovunque, il fuoco, la pelle che brucia. Sonia Aggio descrive anche la ferita incisa sulla pelle, le cicatrici, ma il sottotesto è sempre un grido di pietà. La guerra di Bisanzio nel X secolo è la Gaza, è l’Ucraina di oggi.
Un altro elemento stilistico, già presente in Magnificat, è la capacità di Sonia Aggio di dipingere con le parole, disegnare gli odori, evocare i suoni della città come una musica. Ci sono passi che sono acquarelli: “La Città si annuncia con un odore peculiare: legnoso, dolciastro, acre, marino, intenso come l’afrore di un corpo enorme. In fondo alla strada, ancora invisibile, ruggisce il mare. Sul Bosforo la nebbia si sposta a banchi, vorticando e sollevandosi sulle onde verdastre; i tetti sull’altra riva appaiono poco per volta, a mano a mano che il velo brumoso si solleva”; “Il sole affonda in un cielo velato dal pulviscolo, una luna informe viaggia attraverso il cielo”; una frase che sembra un verso: “La pioggia ruscella sulle pietre del cortile”; una sinestesia: “voce che profuma di alloro, rose e olio d’oliva”.
L’agonia di Giovanni Zimisce è un teatro delle ombre dall’intonazione shakespeariana. Sono “gli attori che si attardano sul palcoscenico dopo che lo spettacolo è finito e il pubblico è andato a casa e tutte le luci sono state spente. Relitti lasciati a riva dalla tempesta”.
Per tutta la vita, di guerra in guerra, di palazzo in palazzo, Giovanni Zimisce porta, sotto la tunica, un giocattolo, un cavallino di legno, Basileio. Nell’ultima notte (10-11 dicembre 969) con le mani lo cerca tra le coltri: una testa scolpita, il disegno di una criniera. Solo allora l’imperatore, il protagonista di tante guerre, di amori e tradimenti, di ferocia e sogno, può dire addio al mondo. La nostalgia dell’innocenza? Il bambino che ciascuno di noi resta anche attraversando la vita? Le ultime righe di questo romanzo stupendo hanno il cuore della pietà.
Dal libro:
La voce di Pulcheria è una sferzata, la raffica che spazza il mare. Ma io penso anche al pugnale che ho appena consegnato – onde e arabeschi intrappolati nell’acciaio.
“Sei in ritardo. Ancora una volta”, dice; se scoprissi il fianco mi inciderebbe la carne fino all’osso.
I miei piedi affondano nella mistura di sabbia e neve. Non ho amato il viaggio, l’aria scura contro la faccia, sulle gambe, la vastità del mare sottostante, pieno di relitti e mostri squamosi e intricate foreste d’alghe, e ora non amo la forza dei miei sensi, che vanno oltre queste mura di pietra ed entrano nelle stanze ammucchiate l’una di fianco all’altra, l’una in cima all’altra, svelando ciò che contengono: pupazzi o spettri che si muovono lasciando brevi scie.
Ho cento occhi e non riesco a chiuderli tutti.
Intervista a Sonia Aggio:
Il romanzo è ambientato nell’impero bizantino, periodo poco frequentato dalla letteratura, con riferimenti precisi a luoghi, nomi, personaggi, date: come mai questa scelta?
È stata una scelta dettata dal cuore. Ho amato e amo molto l’impero bizantino, e in particolare le vicende che sono poi raccontate nel romanzo; perciò per me è stato naturale, nel momento in cui ho cominciato a scrivere, dare risalto alla componente storica, per quanto possa sembrare “di nicchia”.
Come in “Magnificat” storia e leggenda s’intrecciano e si sovrappongono, scelta stilistica che rende la narrazione ancora più avvincente: quali materiali hai scelto per documentarti? Nel libro, oltre a un glossario, proponi anche una bibliografia.
Forse faccio prima a dirti quali materiali non ho scelto per documentarmi!
Scherzi a parte, la bibliografia che si trova nel libro è solo una parte di quella che ho utilizzato nella stesura del romanzo. Ho utilizzato sia fonti primarie, cioè coeve o poco più tarde rispetto agli eventi narrati, sia fonti secondarie, cioè articoli e saggi pubblicati negli ultimi duecento anni, integrate da una serie di poesie, fotografie, canzoni selezionate per entrare in sintonia con la storia.
Un tema a te congeniale è il sovrannaturale, come nel tuo primo libro. Nella “Stanza dell’imperatore” torna più volte l’eco del “Macbeth”, la profezia delle streghe, poi rivelato nel finale. Anche qui, come in “Magnificat”, qualcosa di magico, oscuro, misterioso, sembra guidare, almeno in parte, i destini umani. La storia è anche qualcosa di irrazionale?
Certamente! E l’essere umano ha inventato mitologie, schiere demoniache, incantesimi e superstizioni per comprendere il mondo e sé stesso, per cui credo che la sfera del sovrannaturale e dell’inconscio debba essere presente, se vogliamo raccontare qualcosa di veramente umano.
La tua scrittura è tesa, acuminata, tagliente, plastica, persino cruda nelle scene di battaglia, ma c’è sempre un forte pathos per i personaggi: Giovanni Zimisce è un assassino, un eroe, il suo destino è già scritto? Un simbolo attraversa tutto il romanzo, un giocattolo a cui Zimisce è legatissimo, un cavallino di legno, Basileio. È nostalgia dell’infanzia, dell’età dell’innocenza? È l’ultima immagine sul letto di morte, dolcissima, l’effetto per il lettore è struggente…
In questo romanzo la scrittura deve aiutare il lettore a confrontarsi con una materia quasi inedita, per questo l’ho curata molto. Gli aggettivi che hai usato per definirla mi piacciono molto, grazie.
Il cavallino Basileio è la madeleine di Zimisce, il totem che lo riporta all’infanzia. Anche se Basileio si ricollega a un evento traumatico dà a Zimisce qualcosa di molto prezioso: un ricordo che riguarda soltanto Giovanni, non lo mette in relazione con le figure carismatiche che gli hanno cambiato la vita.
E qui mi ricollego alla tua domanda: Zimisce è un guerriero, ma è soprattutto un uomo solo, privato in giovane età dei suoi primi amici e confidenti. A questo punto, con questo dolore e questa solitudine, diventa facilissimo scivolare in certi estremismi, trasformarsi in mostro oppure in eroe.
Qual è il tuo metodo di lavoro? Di un romanzo definisci prima l’architettura, lo schema della trama, o ti lasci andare al ritmo della scrittura e la storia si compone durante la stesura dei capitoli? Qual è il tuo “tempo” di narratrice?
Ogni romanzo nasce da una scintilla, una piccola idea. L’inizio del lavoro coincide con la fase di ricerca, che mi serve sia per prepararmi alla scrittura che per capire se l’idea resiste ed è in grado di reggere un intero romanzo. A quel punto abbozzo una trama, comincio a pensare alla suddivisione in capitoli e in scene, raduno tutte le suggestioni che possono tornarmi utili.
Dopodiché comincio a scrivere.
L’autrice:
Sonia Aggio è nata a Rovigo nel 1995, laureata in Storia, lavora come bibliotecaria. I suoi scritti sono stati segnalati più volte dalle giurie di premi importanti come il Premio Calvino e il Campiello Giovani.
Tra il 2008 e il 2020 ha collaborato con il lit-blog “Il Rifugio dell’Ircocervo” e, nel tempo, ha pubblicato diversi racconti su “Lahar Magazine”, “L’Irrequieto”, “Narrandom”; “Altri Animali”.
Con Fazi Editore nel 2022 ha pubblicato il suo primo romanzo, “Magnificat”.
(Sonia Aggio “Nella stanza dell’imperatore” pp. 300, 18 euro, Fazi 2024)
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Tempo presente ———————-
Reflejo de las aguas quietas Il riflesso delle acque quiete
Quattro testi inediti in italiano
di Alberto Cisnero
consideraremos cada signo. el reflejo
de las aguas quietas. aludir, catalizar
una mella. de la que se derive el conocimiento
de todos los otros. hay dos movimientos
influyentes nomás. la palanca de tiro
y descorrer el seguro. a tales dedico
mi caballo. hemos vuelto a ver la luz
del día. por el grato vaivén mecida.
a la orilla del río, con el rostro
hacia el cielo.
prendiamo in considerazione ogni segnale. il riflesso
delle acque quiete. alludere, catalizzare
una sbeccatura. da dove derivare la conoscenza
di tutti gli altri. ci sono due movimenti
influenti nient’altro. il grilletto
e togliere la sicura. a questi dedico
il mio cavallo. siamo tornati a vedere la luce
del giorno. per il piacevole vai e vieni ondulato.
sulla sponda del fiume, con la faccia rivolta
al cielo.
*
7-
las estrellas iluminaban un pozo. otrora
hubieses escrito que titilaban y se hundían
en el estanque. igual no se te perdió nada ahí
como para tener que regresar a resarcir
nasa. te volvés cada día más viejo. difieren
los ocasos. manéjalo, persignate en silencio
y cotejá los latinos por minuto del corazón
bajo la palma de la mano. no son palabras,
música, versos o terapia familiar. ni donde
la luz vaya a descubrirte.
7-
le stelle illuminavano un pozzo. una volta
avresti scritto che brillavano e affondavano
nello stagno. fa lo stesso non hai perso nulla lì
come da dover ritornare per risarcire
qualcosa. diventi ogni giorno più vecchio, ritardano
i tramonti. gestiscilo, fatti il segno della croce in silenzio
e verifica i battiti per minuto del cuore
sotto il palmo della mano. non sono parole,
musica, versi o terapia familiare. né dove
la luce ti scoprirà.
*
4-
cuánto tiempo resiste una palabra. hay cosas
que no haríamos por amor ni por dinero
y que no tendrían existencia fuera de las páginas
de un libro. hay versos que quisiéramos repetir
en una noche cualquiera, cuando la luna no ciñe,
no precisa, y sólo nos restituye su desgastado frío.
vente y reposa, decimos. dónde estará nuestra vida.
una palabra es la mejor equivocación
de una palabra.
4-
quanto tempo resiste una parola. ci sono cose
che non faremmo per amore né per soldi
e che non avrebbero un’esistenza fuori dalla pagina
di un libro. ci sono versi che vorremmo ripetere
in una notte qualsiasi, quando la luna non cinge,
non determina e solo ci restituisce il suo consumato freddo.
vieni e riposa, diciamo. dove sarà la nostra vita.
una parola è il migliore errore
di una parola.
*
Recuerda
para Ricardo Mendoza, in memoriam
recuerda esa palabra. nadie tiene más
que una vida que ofrecer. y recordar
es vivir dos veces. es viajar gratis a la luna.
o a rosario, Ricardo. los hombres son hombres
y el cielo, una esfera. absorbíamos vitamina d,
paleando, revocando, de pie sobre el tablón.
imaginábamos un país distinto para que todos
nosotros pudiéramos soñarlo como nuestro.
información secreta: todos nosotros, obreros,
provincianos, negros, hacemos que suceda.
en este mismo rincón, que ustedes no conocen,
miré alrededor para comprobar si habíamos
olvidado otras cosas. y entonces empecé
el poema. cuando lo termine vamos a conversar
acá. casi nunca decidimos a dónde ir,
pero sí con quiénes.
Ricorda
per Ricardo Mendoza, in memoriam
ricorda questa parola. nessuno ha più
di una vita da offrire. e ricordare
è vivere due volte. è viaggiare gratis alla luna.
o a rosario. Ricardo. gli uomini sono uomini
e il cielo, una sfera. assorbiamo vitamina d,
combattendo, intonacando, in piedi sull’impalcatura.
immaginavamo un paese diverso cosi che tutti
noi potessimo sognarlo nostro.
informazione segreta: noi tutti, operai,
provinciali, neri, facciamo in modo che succeda.
in questo stesso angolo, che voi non conoscete,
ho guardato intorno per vedere se avevamo
dimenticato altre cose. e allora ho iniziato
la poesia. quando la finisca andiamo a conversare
qui. quasi mai abbiamo deciso dove andare
però sì con chi.
(Tutte le poesie di Alberto Cisnero sono state selezionate e tradotte in italiano da Antonio Nazzaro).
Alberto Cisnero, lo scrivere irrefrenabile
di Antonio Nazzaro
Parlare della poesia di Alberto Cisnero, poeta ed editore della casa editrice Barnacle, è come raccontare un verso che non finisce mai in quanto riflette la vulcanica vita dello scrittore.
Attenzione però, non stiamo parlando di una vita avventurosa o sfrenata ma dell’avventura del vivere di un uomo che continuamente, attraverso la parola, cerca di dare un significato alla quotidianità. E non è forse un’avventura essere padre single di due ragazze oramai ventenni?
Alberto è un poeta nato nella lettura dei libri e non nel mondo di chi fa letteratura o la studia. Per quindici anni le sue mani non stringono una penna ma una cazzuola che a volte diventa un segnalibro nelle pause che il cantiere offre. Poi l’amore smodato per i libri lo porta a studiare da bibliotecario e alla scrittura.
Il suo bisogno di scrivere (ha all’attivo ben 18 libri di poesia) e di dialogare con il mondo gli fa aprire la casa editrice Barnacle, all’inizio pensata solo per pubblicare i suoi versi e oggi una delle case editrici indipendenti più interessanti nel panorama editoriale argentino.
La visione politica del poeta attraversa l’intera sua opera alla ricerca di quel pensiero di “sinistra pura” che sembra mancare nella storia argentina. La poesia di Cisnero è una poesia militante ma non guidata da schemi ideologici, bensì dal tentativo di trovare un ordine, un senso al dissesto politico e culturale dell’Argentina in particolare e del mondo in cui viviamo.
Per questo i versi che qui presentiamo sembrano a volte un pastiche di espressioni e termini che in verità riflettono e raccontano il delirio dell’odierno. Il suo scrivere è irrefrenabile e allo stesso tempo alla ricerca continua di una sistemazione.
Per capire “l’agire poetico” basta leggere la sua biografia posta alla fine di questa breve nota.
L’autore:
Alberto Cisnero, 1975, La Matanza, Argentina. Ha pubblicato: “El límite de la materia” (2012) e altri libri. Nel 2024 pubblicherà “De rayos negros”, nel 2025 “Román paladino”, nel 2026 “Clase 75”, nel 2027 “Este libro es para ti”; eccetera…
Sito web: https://albertocisnero.wixsite.com/home
@acbmlp
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Ti racconto ———————-
In guerra ed oltre
Yuliia Iliukha, “Le mie donne”
di Marina Sorina
Capelli rossi e occhi verdi: Yuliia Iliukha sembra l’autrice perfetta per le belle storie d’amore, ed infatti in passato era celebre a Kharkiv per i suoi racconti natalizi, toccanti e divertenti. La leggerezza, la gioia di vivere erano la sua cifra stilistica, anche se nel romanzo “La sindrome dell’Est” ha raccontato le vite intrecciate di tre giovani, che si incontrano a causa della guerra.
L’autrice ha scelto di evitare le scene cruenti di battaglia e i dettagli agghiaccianti, concentrandosi sugli aspetti psicologici di gente comune che affronta la guerra e che riesce a lasciarsela alle spalle, ma che gli rimane incastrata nell’anima. Eppure, la maggior parte dei suoi libri prima del 2022 erano di narrativa per gli adolescenti, fra le vivaci avventure e la fantasia liberatoria.
Il febbraio del 2022 ha cambiato tutto. Yuliia ha affrontato in pieno la guerra: la città di Kharkiv colpita dai bombardamenti, il marito al fronte, il volontariato per coprire le emergenze sociali e le preoccupazioni di una madre che deve proteggere il figlio.
Nonostante tutto – o forse proprio per far fronte alle difficoltà – Iliukha ha continuato a scrivere. Ha conservato il talento narrativo e la precisione dei dettagli psicologici: quel che è cambiato, invece, è la gamma di emozioni che esprime, naturalmente diventata più cupa di una volta, ma sempre improntata ad una sincerità che non fa sconti al lettore.
I suoi testi sono diventati più brevi, stringati: quando sei sotto le bombe, è difficile pensare ad un formato più lungo. Nello stesso tempo c’è l’urgenza quasi diaristica di trascrivere, fissare la nuova realtà.
Così è nato il progetto “Le mie donne”, unito dal filo rosso dell’incipit “La donna che…”, a cui seguono destini incrociati delle donne ucraine, osservate da un occhio a volte partecipe, a volte distaccato.
Ci sono diverse età, diverse origini, diversi modi di reagire alle avversità. L’insieme compone un quadro sociologico completo, che permette al lettore di immergersi rapidamente nel vissuto delle donne ucraine.
Così racconta Yuliia la genesi del suo libro: “Ho iniziato a lavorare al progetto a partire della mia esperienza di donna, madre di un figlio di 10 anni, moglie di un militare delle Forze armate ucraine, residente a Kharkiv, costretta a lasciare la mia casa dopo lo scoppio della Grande guerra e a trasferirsi in un luogo sicuro in un altro Paese. Le storie confluite in “Le mie donne” non si basano solo sulla mia esperienza personale, ma anche su quella delle mie parenti, amiche o donne sconosciute di cui ho ascoltato i racconti. Queste storie di donne – profughe, soldatesse, madri, mogli dei militari, nonne, donne sotto occupazione, – sono una reinterpretazione artistica dei fatti documentati della guerra che sta accadendo ogni giorno in Ucraina”.
Ho conosciuto Yuliia grazie ad una sua poesia, “Profuga”, che mi ha colpito proprio perché evocava le situazioni e le emozioni molto diffuse fra le profughe ucraine che ho conosciuto in Italia.
Dopo aver tradotto le poesie di Yulia, ho cominciato a lavorare anche ai suoi testi di prosa, all’inizio pubblicati singolarmente e già così coinvolgenti. Il suo progetto ha preso forma durante una residenza creativa a Gratz, dove Yuliia era ospite di Kulturvermittlung Steiermark (https://kulturvermittlung.org/).
“Le mie donne” è un libro davvero europeo: concepito in Ucraina e completato in Austria, ha visto la luce per la prima volta in Italia, per i tipi di Mezzelane edizioni, arricchito da immagini in rosso e nero realizzate da Iryna Sazhinska (https://www.instagram.com/sazha_z_vodoiu/), che illustrano la maggior parte dei racconti.
La casa editrice l’ha inserito nella collana “La pelle non dimentica”, collegando così la guerra in Ucraina ad un più ampio contesto di violenza di genere e al tema del femminismo (https://negozio.lemezzelane.eu/prodotto/le-mie-donne-carta).
Yuliia Iliukha sarà presente al Salone del libro di Torino: domenica 12 maggio 2024 la si potrà incontrare sia allo stand della editrice, che alle due presentazioni previste:
– ore 11:30 allo stand della Fuis
– ore 17:00 allo stand della Regione Marche, padiglione 3, Stand Q13-R-14.
di Yuliia Iliukha:
БІЖЕНКО
Біженко, твої ноги обійшли пів Європи,
де тільки їх тепер не носило.
Ти усім говориш сенкс, данке, граціе
й усміхаєшся через силу,
У спеку носиш зимову куртку,
в якій втікала від бомб крізь лютий,
Твоє життя – ніби роман Ремарка,
прочитаний в юності і забутий.
Біженко, день далеко від дому
видається тобі високосним роком.
Ти досі мерзнеш, хоч уже майже осінь
і яблука бризкають солодким соком.
Вчишся читати чужою мовою
як першокласниця по складах,
Мовчки тримаєшся за обручку,
коли від нової реальності їде дах.
Біженко, ти вмить постаріла так,
що батьки не впізнають тебе на фото.
Увечері ти миєш посуд у шумному барі –
тепер у тебе така робота,
Довго молишся на ніч, хоч у бога не віриш,
до ранку лежиш без сну
І карбуєш склади у речення:
“Я не-на-вид-жу цю вій-ну”.
Profuga
Profuga, hai camminato ormai dappertutto,
mezza Europa hai girato.
Rispondi sempre: thanks, danke, grazie,
e fai un sorriso forzato.
D’estate porti la giacca pesante:
ci scappavi dalle bombe, è lo stesso vestito.
In un romanzo dimenticato sulla prima guerra
si è trasformata la tua vita.
Profuga, un tuo giorno lontano da casa,
come un anno bisestile dura.
Hai ancora freddo, anche se è già autunno
e le mele sono mature.
Impari a leggere una lingua straniera,
sillabando come una scolaretta.
Silenziosa, accarezzi la fede, per non impazzire
nella nuova realtà imperfetta.
Profuga, passi la sera in un bar rumoroso,
– lavando i piatti, – per ore e ore.
Sei tanto invecchiata che nelle foto
non ti riconoscono manco i genitori.
Insonne, anche se non credente,
preghi tutta la notte, fino alla prima stella
e scolpisci le sillabe, scandendo la frase:
sia–maledetta–questa–guerra.
Dal libro:
Donna numero 4
La donna che ci aveva messo tanto a scegliere il colore dello smalto finalmente si era decisa per il rosso.
«È sicura?» – L’estetista era sorpresa, perché di solito la donna preferiva una french manicure da ufficio o sfumature pastello più tranquille.
«Voglio vivere finalmente una vita brillante!» aveva risposto la donna, sorridendo imbarazzata. «Chissà, forse domani scoppia la guerra e non avrò mai provato le unghie rosse.»
L’estetista aveva fatto spallucce, e aveva applicato lo smalto color sangue fresco.
Per il resto della giornata la donna aveva ammirato di nascosto le sue unghie, avvicinando ogni tanto la mano agli occhi e muovendo le dita.
Aveva fatto addirittura qualche scatto per le stories, ma poi si era vergognata: pubblicare cose così frivole non stava bene per una donna della sua età. Quella sera aveva deciso di non lavare i piatti, per non rovinare la manicure fresca che la faceva felice come una bambina.
Prima di coricarsi, aveva spalmato sulle mani una crema nutriente. La notte era stata tormentata dagli incubi. Aveva sognato che lo smalto color sangue si tramutava nel sangue vero e, gocciolando senza sosta dalle punte delle sue dita, si riversava per terra in deboli fiotti che confluivano in un grande fiume di sangue. Svegliandosi, si era seduta sul letto e aveva fatto il segno della croce.
«Come passa la notte, così passa il sogno» – aveva ripetuto a voce alta il proverbio che le aveva insegnato la nonna. Poi aveva preso un sonnifero ed era sprofondata nel buio ovattato, senza sogni.
La donna modesta aveva ancora lo smalto rosso quando era scoppiata la guerra.
Il mondo l’aveva visto.
L’autrice:
Yuliia Iliukha è una poetessa, scrittrice e giornalista, nata nella regione di Kharkiv, in Ucraina. È autrice di oltre dieci libri per adulti e bambini. Le sue poesie e i suoi racconti sono stati tradotti in inglese, tedesco, italiano, bulgaro, ungherese, catalano, polacco, svedese, portoghese, francese.
Iliukha ha ricevuto numerosi premi, tra cui il premio letterario internazionale ucraino-tedesco Oles Honchar, il premio del Concorso letterario internazionale Word Coronation 2018, il premio Smoloskyp, il premio International Chapbook Prize 2023 della rivista 128 LIT (USA).
Dall’inizio della guerra in ucraina nel 2014 si occupa di volontariato. Insieme a un’amica hanno raccolto oltre 500 kit medici individuali per i soldati ucraini.
(Yuliia Iliukha “Le mie donne” traduzione Marina Sorina, illustrazioni Iryna Sazhynska, editing Marinella Giuni pp. 92, 18 euro, Le mezzelane Casa Editrice 2024)
La traduttrice:
Marina Sòrina, nata a Kharkiv nel 1973 in Ucraina, in Italia dal 1995, è laureata in Lingue straniere presso l’Università di Verona. Nel 2009 ha conseguito un dottorato di ricerca in letterature comparate presso lo stesso Ateneo.
Dal 2014 fa parte del direttivo di “Malve di Ucraina” APS, l’associazione che riunisce la comunità ucraina veronese presso il Centro per le donne migranti “Casa di Ramia”.
In ambito letterario ha pubblicato i libri di narrativa “Voglio un marito italiano” (Punto d’incontro 2006) e “Storie dal pianeta Veronetta” (Tra le righe 2018).
Ha tradotto il libro di narrativa “Diario di un fallito” di Ėduard Limonov (Odradek 2004), le poesie di “Lettere non spedite” di Oksana Stomina e i racconti del volume “Le mie donne” di Yuliia Iliukha. Vive a Verona.
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Voce e immagini d’autore ————————
E se ne va lontano, lontanissimo
Luisa Gastaldo, “Endecanuvole”
di Giovanni Fierro
Sorprende “Endecanuvole”, il nuovo progetto di Luisa Gastaldo, dove parole e immagini si trovano, si ospitano vicendevolmente, lasciano alla vista e alla lettura il compito di una esperienza.
Perché tutto il libro è una continua accensione di sensi ed immaginazione, immagini a tutta pagina di cieli catturati al volo, con brevi frasi a dire di un raccontare. In un silenzio dove le nuvole sono una scrittura ulteriore, il segno e l’atmosfera. Perché questo libro è anche un vero e proprio oggetto d’arte, merito di Roberto Barazzuol, autore del progetto grafico.
Luisa Gastaldo, con le sue parole e le sue fotografie, indovina questa alchimia di convivenza, dove il senso della frase trova significato nell’azzurro del cielo che la accoglie, con l’intonazione delle nuvole che si fanno tanto presenza quanto assenza. Nei toni di azzurro, di delicato rossore, di quieto grigio, di pacificante bianco.
E allora “l’inossidabile signora Ines”, “le nuvole, la luna e sono stanca”, “ci sono limoni vecchi come il cucco” sono frasi che diventano l’essenza di una storia, messe lì, indicative di una emozione, nuovo codice di un vissuto che forse è già stato, o forse si sta solo sognando, proprio ora.
Sono frasi che provengono dal parlato di ogni giorno, ma che estrapolate da quel contesto acquisiscono nuova valenza, hanno nuova radice e sono in vita come fosse per la prima volta.
Frasi che sono dei veri e propri readymade (giusta l’intuizione di Rodolfo Zucco, alla presentazione del libro a Gorizia) che danno alle parole stampate su questi cieli fotografati una nuova possibilità di narrazione.
Se prima per la Gastaldo era l’orto il cielo a cui affidare la propria cura, adesso è il cielo a diventare l’orto da accudire, a cui affidare la propria attenzione. Dalle ortografie alle cielografie.
In questa creazione che si muove in totale libertà, scrivere “punta da sei per trapano battente”, “l’ombra si allunga anche sul nostro tavolo” e “una forse impossibile catarsi” è affidare a cirri, cumuli, strati e nembi la nostra umana presenza, è trovare testimonianza del nostro parlare, mossi dalla curiosità che lo sguardo ogni volta rinnova quando si volge al cielo.
E, ancor di più, è immergere la scrittura in quella luminanza che è propria delle nuvole, quella loro luce riflessa che è diffusa dalle particelle che le compongono.
Una immersione che libera le parole dal loro vecchio significato, e come in questo “Endacanuvole” le invita, nelle frasi in cui si compongono, a raccontare di una nuova sorgente di significato, di una nuova provenienza di senso, in una inaspettata direzione di narrazione.
“Delle foglie, del fuoco, della polvere”, “un buon odore di animale sano”, “le belle divinità della pioggia”, perché nuvole e parole si assomigliano: non ho mai visto una di loro tornare indietro.
Intervista a Luisa Gastaldo:
In qualche modo lo dici subito, ad inizio libro, del tuo muoverti da orto a cielo. E quindi ti chiedo, prima c’era l’orto che era il cielo in cui piantare, adesso c’è il cielo e che orto è?
Rispetto alla dimensione chiusa e intimissima del kèpos (giardino o paesaggio protetto), cioè del mio rapporto con la “natura coltivata”, ancorché condivisa grazie alla didattica ambientale (esperienza anch’essa conclusa), e per quanto riguarda la scrittura, l’apprendistato e le prime, timide prove, lo spazio con cui ora mi metto in relazione è più indeterminato e libero, non è circoscritto.
La mia attitudine contemplativa ne esce rafforzata, ma si affranca dall’eccessivo ripiegamento, e al tempo stesso cade ogni narcisistica pretesa di controllo. La poesia cui fai cenno – sette quartine e un verso conclusivo – e che ho utilizzato in “Endecanuvole” come introduzione e antefatto, risale al momento della separazione forzata da un luogo che per me ha significato molto, in un tempo di perdite dolorosissime: è stato allora che ho “scoperto” le nuvole. Sollevare lo sguardo oltre un basso orizzonte mi dava sollievo.
Restando nella metafora, dopo la fase della scrittura come medicamento, del ricucire alla bell’e meglio gli strappi (ed è natala mia raccolta “La linea del rattoppo”), ho cominciato a guardare il cielo sempre più spesso e a scrivere più saltuariamente, magari solo un verso.
“Endecanuvole” racconta la fascinazione per le nuvole; cosa hanno di così speciale?
Sono consapevole del fatto che guardare e fotografare nuvole sono gesti comunissimi, ma a un certo punto ho stabilito con questi “oggetti” uno stretto rapporto di consuetudine e di necessità.
Cercherò, qui con te, di indagarne le ragioni. La loro eccedenza, in quanto fenomeno naturale, rispetto alla misura delle cose umane – che ne risultano assai relativizzate e messe in discussione – non ha solo a che fare con la grandiosità dei cieli, ma anche con la sorprendente mutevolezza di forme e colori, con una certa esteticità. Ma soprattutto la variabilità e l’imprevedibilità – il loro addensarsi, diradarsi, trascorrere – suggeriscono riflessioni sul tema dell’impermanenza, della disgregazione ed espansione dello spazio-tempo e diventano per me un nuovo medicamento, che in “Endecanuvole” si affianca alla scrittura e la influenza.
Le nuvole, ricordandomi che tutto è trasformazione ed evoluzione, sono insomma diventate uno dei luoghi che mi abitano e mi modificano.
La parte del libro dedicata alla scrittura è, di fatto, un togliere alcune frasi dal comune dire, dal comune comunicare. Che significato hanno poi trovato?
In effetti sul laconico frontespizio del libro c’è scritto “nuvole e versi catturati al volo” (scarne, ulteriori indicazioni nel colophon): quasi degli objects trouvés.
Nello scorrere intorno a me di nuvole e parole ho voluto individuare (isolare) una forma: gesto artistico elementare prettamente umano, io credo, che replica il tentativo di opporsi al caos.
Ebbene, questo libro è nato mentre accompagnavo mio padre nel suo tempo estremo ed è diventato un dono che ho voluto fare a me stessa e agli amici nell’occasione di un compleanno dalla cifra tonda.
Dicevo della forma: “Endecanuvole” è un oggetto d’arte anche per merito di Roberto Barazzuol, che ne ha curato il progetto grafico. Per la fotografia è stato il riquadrare e il circoscrivere un oggetto del quale ho individuato caratteristiche peculiari; quanto agli endecasillabi, incastonati nella lingua e presenti già nelle sue strutture inconsce, essi affiorano nel/dal “comune comunicare”, come tu dici. Basta “catturarli”.
Colti e isolati in mezzo a una conversazione, o sull’insegna di un negozio, oppure da un appunto sull’agenda o sulla nota della spesa diventano altro, non solo mera funzione comunicativa, ma ritmo, assonanza, “musica”.
Nel libro queste unità minime, singoli versi che possiamo tutto sommato definire poesie brevi, hanno intorno molto silenzio, molto spazio, e coinvolgono il lettore invitandolo a ricontestualizzarle: in quanto frammenti possono essere stati pronunciati da chiunque e chiunque può immaginare uno sfondo o un antefatto, o supporre un epilogo, o inventare una storia, o far gemmare da essi altri versi.
E, in particolare, qual è il loro rapporto con le nuvole che hai fotografato? A cui le hai affidate?
I versi e le fotografie condividono un procedimento non programmato di selezione dal flusso della realtà; tanto è vero che in mancanza di matita o di cellulare queste “manifestazioni”, sempre improvvise e impreviste, sono perdute per sempre; e proprio perché perdute sembrano più preziose di altre.
Si tratta forse di un gioco; ma questo scacco, riportato alle cose ultime, comporta una continua resa al tentativo di catturare il tempo, di arginare l’imponderabile, l’ineluttabile; per contro, accogliere il fortuito e l’inaspettato esorta al distacco emotivo e consapevole dalle passioni più o meno tristi.
Un secondo tratto che nel libro accomuna poesie e nuvole è, coerentemente con quanto detto sopra, la composizione aleatoria e casuale sia nella sequenza sia nell’abbinamento. Aggiungo che, a ben guardare, c’è un contrappunto tra la materia aerea e quasi atemporale delle immagini e la puntualità e la concretezza della scrittura: una tensione tra alto e basso…
Caro Giovanni, come ti ho detto, ragiono con te su questo libro mentre vado scrivendo, e forse ragiono troppo, perché quando fotografavo e trascrivevo e decidevo poi di mettere insieme le due cose, non pensavo certo ai massimi sistemi e ho agito istintivamente, reattivamente, a una data situazione psicologica.
In tutto “Endecanuvole” si vive una sospensione, dal significato e dal giudizio (è una mia impressione…). È così?
Hai ragione. Questa tua impressione deriva dal fatto che sono versi irrelati e colti nella quotidianità. Accadono. Hanno una intonazione eterogenea, quasi mai meditativa o lirica. A volte sono feriali e mai, proprio mai, sono capaci di folgorazioni; è piuttosto poesia delle piccole cose, estratta dal lessico familiare, dai gesti normali, da minute esperienze fortuite. Sono versi lineari dove in controluce si possono scorgere gli appunti per un diario, e tuttavia non c’è narrazione né personaggio. Non c’è l’io.
Vi si tenta una oggettivazione e insieme uno sguardo netto e dettagliato: credo che molti amici lettori si siano riconosciuti nelle poesie proprio in virtù di questo filtro oggettivo. La lettura e la visione del libro, nonostante le poco rasserenanti premesse, è risultata addirittura divertente: questo mi conferma in quella che è stata l’intenzione di farmene e di farne un dono.
Le nuvole nascondono un qualcosa che c’è anche dietro di loro. È così anche con le parole?
Curioso che io non abbia mai considerato quel che c’è dietro le nuvole. In realtà non ho posto loro molte domande e mi sono lasciata sopraffare dalle loro volubili, potenti – e prepotenti – manifestazioni.
Salvo considerare, come capita a molti, la totale indifferenza del cielo, così come è indifferente ai nostri destini ogni entità fisica e naturale (viceversa, potremmo discutere per ore delle interferenze umane…).
Quanto alle parole, penso che noi siamo la nostra stessa lingua, come comunità di parlanti e via via come specificati singoli individui, e che a sua volta da essa siamo parlati: si tratta di un codice che interpreta la realtà e insieme la modifica e la ricrea incessantemente.
Questo “lavorio” mi fa di nuovo pensare alle trasformazioni delle nuvole. La lingua della poesia è una creatura ulteriormente complessa, bicefala, ambigua, obliqua: chi può dire se annotando un certo frammento di discorso e stabilendo che quello è un verso, precisamente l’endecasillabo della nostra secolare tradizione, io non sia stata colpita dalla catena fonica come dalla fragilità di un vecchio, più da una certa accentazione che dal colore delle vocali, dalle assonanze come dalla coda scodinzolante di Jambo?
L’autrice:
Luisa Gastaldo è nata a Tarcento (Ud). Con il gruppo di scrittura “Anna Achmàtova” ha pubblicato racconti e poesie nei libri collettanei a cura di Marina Giovannelli, “Sepegrepetipi. La lingua dell’origine fra parola e afasia” (2009) e “Fiabesca. Storie di donnole, galline, briganti e regine rivisitate” (2012).
Ha pubblicato le raccolte di poesia “La culla sospesa” (2011), “Dalla tua voce” (2013), “La linea del rattoppo” (2020).
Ha curato con Valeria Bertesina la mostra itinerante e l’antologia-catalogo “Luciano Morandini: lo sguardo e la ragione. Mostra internazionale di libri d’artista” (2012).
Ha svolto attività di educazione ambientale nelle scuole e nell’Orto del Tasso barbasso, con gli incontri annuali di “Orto-grafie. Poetiche tra le aromatiche”.
Sue poesie sono state tradotte in sloveno e in ceco.
(Luisa Gastaldo “endecanuvole” fotografie e versi, progetto grafico di Roberto Barazzuol, 2023)
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Margini. Di poesia ed altro ————————-
Il lontano che azzurra
Franca Alaimo, “100 poesie”
di Roberto Lamantea
I poeti amano la pioggia. Guscio, velatura, bisbiglio, culla, amnio. O acquario, prigione (le “sbarre” di Baudelaire). “Diluvia ormai da ore/ e la città sembra un acquario/ dove le luci delle insegne/ tremano come pesci argentei” scrive Franca Alaimo in “100 poesie” (peQuod, collana “Portosepolto”).
Una rosa, fiorita chissà quando, alta sullo stelo, sul balcone: “Per un istante illimitato/ sono lo Sguardo e la Rosa”.
Nella prefazione Alessandro Fo scrive che il libro è un’”aiuola di testi”, come se fossero foglie le parole, e petali, o angeli: e Rilke è uno degli autori più amati e citati dalla poeta siciliana; in un altro libro appena uscito, “Il pettirosso rosso”. Haiku, che Franca firma con Andrea Castrovinci Zenna, Daìta Martinez, Pietro Romano, edito da Ladolfi, si legge: “affondo tutta/ dentro la vertigine/ se leggo Rilke”.
La pagina è un erbario: “Le belle incantate/ di rosso, le rose/ di primavera, i fiordalisi/ la zagara e il giglio./ Il mio foglio/ è un giardino”. Anche la luna è “bianca come un mughetto”. Ed è l’azzurro, l’azzurro amato dai poeti della Mitteleuropa, l’azzurro del sogno che in Novalis ricongiunge con l’amata, il colore della gioia: “Giungi nell’ora/ dell’azzurro nascente/ con una rosa/ raccolta dal roseto./ Benedicimi, gioia”. E la luce ha la grazia mistica delle visioni di Doré.
Non tutto il libro ha questa luminosità gioiosa, queste epifanie dello sguardo: è la vita a gravare, a volte, con il peso del tempo, i dolori del corpo, lo iato lancinante tra ciò che siamo e i nostri sogni: “Si sfarina piano il cuore,/ perfino l’ombra smuore/ nel fitto senza luce della sera”: ma la delicatezza è in quello “smuore”, non muore, è un trascolorare, un diluire, non una cesura.
Rispetto a “7 poemetti” (Interno Libri 2022), il nuovo libro di Franca Alaimo ha in più una domestica grazia, sempre in quell’alveo di poesia cólta, da Eliot a Bonnefoy, Char, Blanchot, che ha la sua anima nel tema del tempo.
Quanta delicatezza in questi versi. Il tempo non è rimpianto, è fluire (la sera, il trascolorare, il canto); il dolore della solitudine non è un dilaniamento, un vuoto di spine: è un giardino dove colori e profumi sono silenzio e la notte è ascolto.
Dal libro:
Nella bottiglia di plastica verde
l’acqua barbaglia come uno smeraldo
quando la luna affiora tra le nuvole viola.
Riposano tutte le cose in un incanto quieto:
la fruttiera con le arance d’oro,
i barattoli di spezie, l’azalea con i boccioli
rosei come capezzoli infantili.
Il respiro della mia gatta è un soffio di niente
nel niente della notte.
I bambini dormono sogni in fondo al mare,
i pugni chiusi come valve di conchiglia.
Il cuore già da tempo ha detto addio.
*
Quando la luna si apre
come un fiore colmo
bianchissimo e la vastità
della notte sconfina
in un silenzio attonito,
ti sembra di sentire
come un cigolio
di cancelli dischiusi
(saranno stati gli angeli
o le piccole anime erranti?).
E sai che per un immisurabile
istante ogni cosa è tornata
al suo principio.
Si inebriano di canto
le gole delle allodole
nel primo biancore dell’alba.
*
Il lontano che azzurra:
il nulla ed il nulla
del cielo e del mare,
la mano, la luce.
Ascendere o affondare:
le scale celesti degli angeli,
l’acqua scura e profonda.
Solo nel sogno del mito
risplendono ancora
le mele d’oro,
gli occhi neri di Palinuro.
*
Lei più non mi tocca.
Non ci saranno altri ritorni:
le rondini fuggono,
il tempo rimane indietro,
la mano in movimento
non raggiunge il cuore.
Per guardarla ancora
mi inginocchio davanti alla luna,
il volto più bianco del mondo.
Perché sorge ancora l’alba,
se non so più dire Dio,
se non so più comprendere
il bisbiglio dei tigli?
Ho voglia di nostalgia
e ora è dicembre,
ora fa freddo,
e lei ha chiuso gli occhi.
*
Nelle crepe sui muri sono cresciuti
i fiori gialli dell’urospermo
dalle foglie sinuose e vellutate.
La poesia, tutto sommato,
è un rito di ricomposizione:
somiglia all’arte giapponese
del kintsugi che sparge sulle ferite
un po’ di polvere d’oro.
L’autrice:
Franca Alaimo è nata nel 1947, vive e opera a Palermo. Esordisce nel 1991 con la silloge “Impossibile luna”. Ha pubblicato altre venti raccolte poetiche, due delle quali in forma di ebook. Tra le più recenti “Elogi” (Ladolfi), “Sacro cuore” (Ladolfi), “Oltre il bordo” (Macabor), “7 poemetti” (Interno Libri 2022), “Fiori”, quattro haiku per Edizioni dell’Angelo, con incisioni di Fabio Sgroj (2022).
È autrice anche di tre romanzi, l’ultimo è “La gondola dei folli” (Spazio Cultura Edizioni), e di un epistolario. Nel 2020 è uscita con la casa editrice Macabor un’antologia di testi poetici scelti dalle sillogi pubblicate tra il 1991 e il 2019.
(Franca Alaimo “100 poesie” pp. 124, 15 euro, peQuod 2024)
(Franca Alaimo, Andrea Castrovinci Zenna, Daìta Martinez, Pietro Romano “Il pettirosso rosso – Haiku” pp. 108, 12 euro, Giuliano Ladolfi Editore 2024)
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Tempo presente ———————–
E me te vardo incantào E ti guardo incantato
Sei testi in gradese
di Stefano Dovier
Bruza al casón
Zè tinpi duri e mundi crùi
solo al fughèr te dà la paze
sufia al maistro refuli fridi
e sul palù par duto taze.
Drento al casón ‘na maravègia
‘ntela caǐna zè al cugiaròn,
stiopussa al fogo e ‘l stiarisse la sera
e drento la napa zè duto un splendòr.
Sbola per aria un mièr de falische
che par lunserne sora al casòn,
e le se puza co’ siera triste,
proprio sul colmo de la costrusiòn.
Vanpa de colpo duta la mota
comò mitralia canta la cana,
al sielo ‘l stiarisse comò lanpo de ton
e la sinisa da color a la dozana.
Pùo co’ le lagreme al vanpa de più,
e se riflete al fogo ‘ntei vogi,
ormai stissuni….restài…. i fuma mogi
e la gno casa ‘ntel tapo, no hè più.
‘Desso al maistro al porta via
quela siniza che gera un casón,
i và a sigonda l’anima mia
e duti i recordi passài in quel pagión.
Brucia la capanna
Sono tempi duri e molto crudi/ solo il caminetto ti dà la pace/ soffia il maestrale refoli freddi/ e sulla laguna sembra che tutto taccia.// Dentro la capanna una meraviglia/ sulla catena c’è il pentolone,/ scoppietta il fuoco e illumina la sera/ e dentro la cappa c’è tutto uno splendore.// Volano nell’aria mille faville/ sembrano lucciole sopra la capanna,/ che si appoggiano con aria preoccupata,/ proprio sul tetto della costruzione.// S’illumina di colpo tutto l’isolotto/ come mitraglia canta la canna,/ il cielo si schiarisce come luce di saetta/ e la cenere dà colore all’acqua che cala.// Poi con le lacrime arde di più,/ e il fuoco si riflette negl’occhi,/ ormai i tizzoni, rimasti, fumano mogi/ e la mia casa sull’isolotto non ho più.// Adesso il maestrale porta via/ quella cenere, che era la mia capanna,/ con lei va via l’anima mia/ e tutti i ricordi passati in quel letto.
*
Figia mia
Figia mia,
lagreme e vogi a l’infinìo,
int’un silensio valìo,
al sogno al par svanio.
Ma un àlboro col cresse,
al ganbia foge e ‘l slonga le rame,
sercando nove brame
e aqua dolse pe’ fai caresse,
e tu int’un cantòn squasi spazemagia,
comò un glisine strenta a quel cussìn,
sercando Gesù banbìn,
pre ‘nà speransa valizagia.
Cresse zè comò un barco in mezo ai siùni,
al vento ‘l te tagia, le ristie te pesta,
zè un cuor in mezo ala tenpesta,
che’l vien segnào de tanti sgrafuni.
Ma no tu sarà mai sola,
anche se fulignào e vecio staro,
in me tu catarà senpre un faro,
un’ala che te coverze e te consola.
Figia mia, figia mia,
ultimo fiào de la gno vita,
no stà ‘vilite và ‘vanti drita,
…t’hà scuminsiào a fa la to’ ssia.
Figlia mia
Figlia mia,/ lacrime e occhi all’infinito,/ in un silenzio vellutato,/ il sogno sembra svanito.// Ma un albero quando cresce,/ cambia foglie e allunga i suoi rami,/ cercando nuove brame/ e acqua dolce che gli faccia carezze,// e tu in un angolo quasi spaventata,/ come un glicine stretta a quel cuscino,/ cercando Gesù bambino,/ per una speranza sicura.// Crescere è come una barca in mezzo alle trombe d’aria,/ il vento ti taglia, le onde ti picchiano,/ è un cuore in mezzo alla tempesta,/ che viene segnato da tanti graffi.// Ma non sarai mai da sola,/ anche se mal messo e molto vecchio,/ in me tu troverai sempre un faro,/ un’ala che ti ripara e ti consola.// Figlia mia, figlia mia,/ ultimo respiro della mia vita,/ non avvilirti vai avanti diritta,/ … hai cominciato a fare la tua strada.
*
L’anema de Gravo
E serco ‘ncora l’anema de Gravo,
int’un paluo che’l tenpo là ganbiao,
al riva comò aqua de montana
che la strassina via duto int’un fiao.
Zè un patimento veghe ‘ntel stradon,
che l’anzolo zè mezo sofegao,
de trapole int’un nio duto ‘sfaltao
e grù che issa ‘ncora costrussion.
Ma ‘ndola tu son ‘ndagia anema “mia”,
che zogia tu me divi ‘ntii maruzi,
e i nuoli che in corona ‘ndeva via,
comò che fossa un ciapo de muruzi.
Te serco comò ‘l mar serca le sture
che ‘l corso pian le peteneva,
sparie comò ‘l ponente ‘nte la sera
sensa lassà nianche sfumadure.
Me sè che tu son viva e per catate,
lontan me toca ‘ndà del dosso biondo,
‘ntii cuori de quii mamuli persi ‘ntel mondo
che i se ‘ndormensa pe’ podè sognate.
L’anima di Grado
E cerco ancora l’anima di Grado,/ in una laguna che il tempo l’ha cambiata,/ è arrivato come un fiume che si mescola con il mare/ trascinando via tutto quello che incontra.// È una patimento vedere quando arrivi dalla litoranea,/ che l’angelo è mezzo soffocato,/ tra ingorghi in un paese tutto asfaltato,/ e gru che lavorano alacremente.// Ma dove sei andata anima mia,/ dov’è quella gioia che mi davi tra i marosi,/ e vedere le nuvole che correvano via,/ come un gruppo di fidanzati.// Ti cerco come il mare cerca le conchiglie/ che la corrente pettinava piano,/ scomparse come il sole quando va a ponente/ senza lasciare i colori del tramonto.// Ma io lo so che sei viva e per trovarti,/ devo allontanarmi da Grado,/ per cercarti nei cuori dei miei compaesani sparsi per il mondo/ che si addormentano solo con la speranza di poterti sognare.
Madonina mia
…e me te vardo incantào,
cô ‘l dosso ‘l sgrisola,
vissin de tu nasse un’oltra isola,
che’l Creator no ha ‘ncora piturào.
Dolse anema mia,
cô i corcài in bandiera i te corona,
in quel barco, fato pre tu, Madona,
i gno pinsieri, co’ ili i sbola via.
No zè tignùe pre la gno comossiòn,
te vardo incantesemao,
e sbasso i vogi…emossionao,
vignindo a rente, co’ tu in processiòn.
Oravo basate e ciacolà co’ tu,
ma son un’ anema picola,
e la gno fede la zè massa ridicola,
che oltri, tanti oltri i ha più bisogno de Tu.
Ma son contento ‘desse graizan,
anche, solo pre dì…Madonina mia!
Perché a lefè te sento mia,
sensa sintime un rufiàn.
Madonnina mia
… e ti guardo incantato/ mentre un baco di sabbia luccica, / vicino a te nasce un’altra isola,/ che il Creatore non ha ancora dipinto./ Dolce anima mia,/ quando i gabbiani ti veleggiano sopra,/ in quella barca, fatta per te, Madonna,/ i miei pensieri volano con loro.// Non ci sono freni per la mia commozione,/ ti guardo incantato,/ e abbasso gli occhi … emozionato/ venendoti vicino in processione.// Vorrei baciarti e parlare con te,/ ma sono un’anima piccola,/ e la mia fede è troppo ridicola,/ che altri, tanti altri hanno più bisogno di te.// Sono contento di essere gradese,/ anche solo per dire … Madonnina mia!/ Perché sinceramente ti sento mia,/senza sentirmi un adulatore.
*
Mare
Furlana bela, al tenpo al t’hà smarìo,
lassando solo i signi de tristessa,
cavili grisi e vogi all’infinìo…
e in gola un sigo, muto, de amaressa.
T’hà dao la vita el ben pel tovo nìo,
sensa pretende amor e gentilessa,
al tovo omo, ormai, al zè partìo,
lassando svodo al tenpo e ‘nà caressa.
I tovi figi vissin no tu li hà più,
le giosse tove ciamàli volarave,
ma tu tu sà che’l fruto al zè cagiùo
e nà semensa nova, hà de lassane.
Tu…tu và fiera, in mezo a quela zente,
che nà foresta senpre, tu son stágia,
ma la tò anema furlàna, zè restágia,
neta e contenta comò nà vela… mai fruágia.
Mamma
Friulana bella, il tempo ti ha sbiadito,/ lasciando solo i segni di tristezza,/ capelli grigi e occhi all’ infinito…/ e in gola un grido, muto, di amarezza.// Hai dato la vita e il bene per il tuo paese,/ senza pretendere amor o gentilezza,/ il tuo uomo, ormai è partito,/ lasciando vuoto il tempo e una carezza.// I tuoi figli vicino non li hai più,/ e le tue lacrime chiamarli vorrebbero,/ ma tu sai che quando un frutto cade,/ un nuovo seme deve lasciare.// Tu … vai fiera in mezzo a quella gente,/ che una forestiera sempre sei stata,/ ma la tua anima friulana, è rimasta,/ pulita e contenta come una vela … mai consumata.
*
Solo vela
Comò podè dezmentegate
se sento ‘ncora ‘l tovo dolse odòr
se strenzo tra le mane ‘na promessa
comò che fa la bava intorno al fior.
Tu son al miel de la gnò vita,
la bava fresca che me bagna ‘l viso
la luze ‘nte la rogia del narciso
che dà luzòr a ‘na figura sita.
E pur zè zurni che tu và lontana,
sabiòn che no se riva tignì in man,
rapìa de vogi persi in tramontana,
che i veghe la so’ paze più lontàn.
Voravo esse co’ tu in quii muminti
pe’ esse finalmente ‘na roba sola,
me, pala del timon ‘ntele curinti,
tu man che strenze forte la rigola;
ma me contento d’esse solo vela,
che tu la issi o cala a to’ piasser,
pronta pre portate senpre in tera,
cô tu và via de ela, col pinsier.
Solo vela
Come potrei dimenticarti/ se sento ancora il tuo dolce odore/ se stringo tra le mani una promessa/ come fa il vento quando avvolge un fiore.// Tu sei il miele della mia vita,/ la brezza fresca che mi bacia il volto,/ la luce del narciso riflessa nella roggia/ che dà chiarore ad una figura spenta.// Eppure ci sono giorni che ti allontani,/ sabbia che non riesco stringere nella mano,/ occhi rapiti che si perdono nel tramonto,/ e che vedono la tua serenità molto lontana.// Vorrei essere con te in quei momenti/ per essere finalmente tutt’uno,/ io, pala del timone che lotta contro le correnti,/ tu mano che stringe forte la barra del timone;// ma mi accontento di essere solo una vela,/ che la issi o cali a tuo piacere, pronta per portarti sempre in porto,/ quando ti smarrisci col pensiero.
Intervista a Stefano Dovier:
di Antonello Bifulco
Biagio Marin dei suoi compaesani gradesi amava dire: “tutti poeti a casa mia”. Anche tu come nella buona tradizione locale di autori e poeti hai mantenuto il buon uso del dialetto nelle tue poesie, ci racconti come è nata la passione per la poesia e cosa ti ha portato ad usare il dialetto?
Da giovane navigavo, ho visto terre che non avrei mai pensato di vedere, ma nonostante tutte le bellezze che vedevo il mio pensiero tornava sempre alla mia amata Grado. I giorni li passavo sempre con quel pensiero, così per sentirlo più vicino ho iniziato a scrivere in gradese.
All’inizio solo pensieri, poi leggendo i versi del professore Sebastiano Scaramuzza, di Domenico Marchesini (Menego Picolo) e di Biagio Marin ho iniziato a scrivere versi in rima. Questo mi rendeva sereno e felice, perché riuscivo ad esprimermi meglio che non parlando, anche a causa della mia balbuzie.
Leggendo le tue poesie forte è il tema dell’isola amplificata dal connubio terra – famiglia senza dimenticarsi del mare. Quanto sono importanti per te e per la tua poesia questi temi?
Sono i miei tre pilastri, la mia “poesia” si basa esclusivamente su loro. La famiglia è la mia certezza, quella che è riuscita a darmi serenità e forza per continuare la mia scrittura. Grado è il mio nido, il contenitore dove estrapolare tutti i miei ricordi e trasformarli in rime. Poi c’è il mare, la mia “mamma” dove solo immergendomi mi sento a casa. Il mare mi dà serenità, calma e gioia. Solo respirando l’aria salmastra la mia mente elabora rime che, a volte, non so nemmeno io come mi “escono”.
Vincitore di vari premi di poesia, presente in molte antologie dedicate a Grado e ai suoi poeti, scrittore di testi musicali c’è un motivo particolare per il quale non hai ancora pubblicato una tua silloge fino ad ora?
Probabilmente perché non mi sento ancora pronto, o forse a “causa” dei social network dove puoi pubblicare e lasciare libera scelta se leggere o non leggere. Non ho mai avuto l’esigenza di pubblicare una mia raccolta, ma chissà…
L’autore:
Stefano Dovier è nato nel 1966, appassionato di poesia ha cominciato a pubblicare le sue poesie sul sito Graisani.com e su Facebook.
Ha vinto il II° Festival dell’arte di Grado 2013, il Premio “Giglio Boemo” nel 2019, e il 12° Concorso Poesia in Piazza “Tino Sangiglio” 2023.
Alcune sue poesie sono state pubblicate in “Sghiribissi”, (2006), in “Voga a sigonda”, in “Versi gradesi in memoria di Sebastiano Scaramuzza” (2013) e in “Grado la voce della sua poesia” (2014).
Scrive testi di canzoni per il “Festival della canzone Gradese” dove si è classificato per due volte secondo (2018 e 2021), vincendo anche il Premio Internazionale (2019) e secondo nel Premio del Triveneto (2018).
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Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
Ti racconto ———————–
Le origini di una storia
Carmen Palazzolo Debianchi, “Cherso”
di Anna Piccioni
Con il volume “Cherso“, Carmen Palazzolo Debianchi vuol rendere omaggio alla sua terra natale, l’isola di Cherso. E inoltre così scrive: “L’intento di carattere divulgativo, mirava a far conoscere agli esuli chersini, e soprattutto ai loro discendenti sparsi per il mondo dalla diaspora, la millenaria storia romano-veneta della loro terra d’origine”.
La storia dell’isola incomincia dalle origini dell’arcipelago delle Apsirtidi. Legato al mito di Apsirto o Absirto, il fratello di Medea che fu dalla stessa smembrato e gettato in quel mare, di cui ogni pezzo del suo corpo generò le tante isole.
Già Pomponio Mela, geografo del primo secolo dopo Cristo, ci dice che col nome di Apsyrtis ci si riferisce a Cherso, mentre Apsorus si chiama Lussino; in questo modo definendo separatamente le due isole, che per molto tempo furono considerate un’unica isola. Appena nel 1300 in un documento appare il nome di Lussino.
L’origine del nome di Cherso è dovuta alla radice Kar, roccia, rupe pietra, che tiene conto della natura del suo suolo.
La posizione favorevole per i commerci, in mezzo all’Adriatico, fu causa di passaggi e stazionamenti e dominazioni di vari popoli: Fenici, Iberi, Liguri, Greci, Illirici, Liburni, Romani, Franchi, Bizantini, Turchi, Ungheresi, Veneziani, Francesi, Austriaci; e non dimentichiamo la presenza dei popoli slavi, soprattutto nelle campagne e Carmen Palazzolo si chiede chi siano i Chersini; una domanda a cui solo la genetica potrebbe dare delle risposte.
Nella prima parte l’autrice ripercorre i fatti storici avvenuti su suolo italico, europeo e confronta le conseguenze e i coinvolgimenti di quei fatti con la storia particolare dell’isola.
Quanto in quelle terre siano rimasti reperti della conquista romana lo possiamo vedere ancora oggi, oltre alla presenza veneta e altre ancora.
Considerato che questo lembo di terra, comunque la più grande isola dell’Alto Adriatico, ha seguito la storia dei popoli che l’hanno occupata, è interessante lo studio dei “Libri dei Consigli della Magnifica Comunità di Cherso” che riportano puntualmente l’organizzazione comunale durante il periodo veneziano. Questi documenti sono stati copiati dall’ultimo podestà, Niccolò Lemessi e poi pubblicati da P. Bommarco in cinque libri.
È interessante poi il capitolo che riguarda la storia della pirateria. Quelle coste con tutti quegli anfratti sono state per molto tempo rifugio di pirati: “La pirateria ebbe una parte importante nella vita della popolazioni sulle coste dell’Alto Adriatico”. Dal tempo dei Romani si sono succeduti Narentani, Saraceni, Almissani, Aiducchi e Uscocchi. Era molto pericoloso navigare per quei mari.
Per quanto riguarda la cultura istro/dalmata, questa appartiene alla tradizione romana; fino a tutto il 1300 i documenti pubblici sono redatti in latino e greco, a cui va aggiunto l’arabo e il serbo-cirillico. La gente parlava il dalmatico, una vera e propria lingua, formatasi nell’età medioevale, che presenta affinità con il ladino, il friulano, il tergestino, l’istrioto.
Alla fine Carmen Palazzolo ci racconta gli usi e i costumi chersini e le antiche credenze. Non possono mancare infine le storie di alcuni personaggi illustri dell’isola di Cherso, e le testimonianze legate alla sua definitiva annessione alla repubblica jugoslava nel 1945.
L’autrice:
Carmela (Carmen) Palazzolo Debianchi – insegnante in pensione, giornalista pubblicista, scrittrice, operatrice culturale – nasce nel 1934 a Puntacroce, il villaggio più meridionale dell’isola di Cherso, frazione del comune di Neresine, a quel tempo un comune italiano della provincia di Pola.
Dopo la cessione dell’isola alla Jugoslavia, nel 1947, è esule in Italia con i genitori, che stabiliscono la loro dimora a Trieste.
Dagli anni ’90 scrive con continuità su argomenti di storia, cronaca, personaggi ed altro sui periodici della diaspora Comunità Chersina e Lussino, a cui si sono aggiunti in seguito La nuova Voce Giuliana, Neresine, L’Arena di Pola, Opinioni Nuove Notizie.
Suoi articoli sono apparsi anche su La Voce del Popolo e America Oggi.
(Carmen Palazzolo Debianchi “Cherso” edito dalla Associazione delle Comunità Istriane)
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Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
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L’invito
Un racconto
di Lorenzo Fain
Con la fine delle medie si era aperta in noi ex compagni di classe una voragine di desideri e quel picnic e l’estate che incombeva sembravano spingerci dentro senza pietà.
Sergio aveva detto: puntuali alle nove in parcheggio; da lì avremmo preso via Sottomonte fino a Brazzano e poi avanti direzione Dolegna e Vencò. Nino sapeva di un posto abbastanza isolato vicino al torrente. Lui c’era già stato con suo zio a caccia di porcini. Fai attenzione a non passare l’acqua, gli aveva detto, perché di là è Jugoslavia. C’è gente che è stata presa e non è mai più tornata. Eravamo una decina di amici, tutti pronti a partire; solo Sara e Cristina erano in ritardo. Senza di loro io non vengo, disse Martina. A quel punto le vedemmo sbucare insieme a Silvia che avremmo dovuto recuperare più avanti e invece era arrivata lì con le altre due. Sergio mi guardò seccato. Scusate, gridarono all’unisono, ma è colpa di Argo che non ci voleva mollare. Argo era il cane di Silvia, un meticcio nero che stava sempre a ringhiare. Uddio-dio, disse Enrico che era terrorizzato dai cani. Si mise le mani alle orecchie per non sentire e contemporaneamente cantava “Vola, con quanto fiato ho in gola, nemmeno una parola, la notte vo-la…”. Io ed Enrico eravamo del genere sfigato: io un chiodo e lui una palla, brufoli ovunque e baffetti posticci. In comune c’era che eravamo perennemente arrapati, io per le ragazze e lui per me. Non osava ammetterlo nemmeno a se stesso e per tutti eravamo migliori amici e basta.
Ivan si era portato la chitarra, suonava di schifo ma aveva i capelli lunghi e la bandana come Miguel Bosè e ci sapeva fare. Tutte le ragazze gli giravano attorno. Sarà stata la canottiera attillata o il polsino di spugna… Enrico teneva banco con le canzoni della Carrà o della Cuccarini che conosceva a memoria; si perdeva nel gossip e in coreografie improvvisate alla Japino. Io dalla mia avevo una Graziella gialla, litigavo con un ciuffo ribelle e non avevo ancora mai baciato nessuna sulla bocca.
A Brazzano si aggiunsero Mirko e sua cugina Marzia, di Treviso, che siccome si fermava da loro per le vacanze gliel’avevano affibbiata. Mi bastò un attimo per rimanere folgorato. Primo perché non centrava niente con le altre, secondo perché era bellissima. Venne subito rapita dalle ragazze, più per curiosità che altro. Io feci finta di niente. Mi metto in coda, gridai a Sergio, per chiudere la fila! ma in realtà non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Solo nel libro di inglese avevo visto una tipa con i capelli così rossi. La spiavo senza farmi notare, rubavo fotogrammi. Una piega della bocca, il bianco lunare della pelle, la parentesi delle fossette… E poi i pantaloncini da pallavolo azzurri e i seni che spingevano contro la faccia di Vasco stampata sulla maglietta. Fingevo indifferenza e sudavo perdizione. La strada era piena di curve e le discese facevano sbandare il serpentone delle nostre bici dove ci si alternava affiancati a chiacchierare. Io dal fondo di tanto in tanto urlavo “Macchina!” sperando di attirare la sua attenzione. Non avevo muscoli da gonfiare e la camicia di fuori e i jeans strappati erano l’unico vezzo di cui ero capace per trasgredire al mondo regolare degli adulti. Arrivammo al fiume; nel trambusto delle sistemazioni le passai accanto; tentai un saluto alla Mork & Mindy per fare il simpatico; mi guardò sconcertata e alzando una mano mi disse: “Augh!”. Era quasi mezzogiorno, Ivan aveva già sfoderato la chitarra ed era partito con Questo piccolo grande amore. Sui plaid intorno si era formato un gruppetto di ragazze con gli occhi da panda; io scartai il mio panino al salame, presi la palla e cercai un ceppo su cui mangiare.
Il torrente non era profondo. Solo in alcuni punti le pozze si allargavano e qualche salto di pendenza faceva gorgogliare l’acqua in un cinguettare allegro. Avrei preferito ascoltare quello piuttosto che la nenia stonata dei miei coetanei. Rimasi a lanciare sassi con lo sguardo perso. Mi sembrava impossibile che fosse affidato a un ruscello l’impegno di tenere separati due Paesi così diversi: il mondo di qua da quello di là. Le canzoni andarono avanti per un po’, Ivan era una specie di jukebox a cui bastava uno sguardo languido per attaccare l’ennesimo disco. Ma nessuno si accorge di quanto è stonato? pensai. Nino puntava a Martina e Fabio alla Silvia ma era evidente che non ne potevano più. Iniziai a palleggiare. Fabio diede una gomitata a Mirko e poi anche gli altri, come tessere del domino, abbandonarono quel Festivalbar a se stesso. Posso giocare anch’io? Era la voce di Marzia, unica tra le ragazze. Feci solo un cenno con il mento e indicai la squadra avversaria. Non era possibile delimitare un campo. Più che una partita di calcio sembrava un percorso di guerra. Si trattava di portare avanti la palla dribblando tra gli alberi e i rovi. Dalla porta della mia squadra si faceva difficoltà a vedere quella avversaria. Due grossi ca-stagni nel mezzo stavano piantati come fantasmi di vecchie glorie. Io giocavo sull’ala destra ma quando Marzia prendeva la palla mi buttavo nella mischia a cercare un contatto. Allora lei faceva le facce concentrata per non farsi fregare e ci fu un attimo che ci guardammo negli occhi. Mi sembrò eterno e mi lasciai scartare per dargliela vinta. Eravamo quattro pari poi Sergio, che stava in porta, per rimandarla in centro la fece volare al di là del torrente. Sudato fradicio e con il cuore che mi pulsava nelle orecchie, andai fin dove l’acqua era più fonda e mi tolsi la maglia per rinfrescarmi. In quel momento Nino che era ritornato da Martina saltò in piedi e gridò: Fermo! Sei impazzito? Noi che stavamo giocando eravamo in un’altra dimensione. Nessuno più pensava ai soldati o alla Jugoslavia ma solo alla partita da finire. Nino allungò una mano verso il bosco e noi ci girammo tutti a guardare. Erano in due e camminavano lenti. La divisa mimetica, il berretto calato sulla fronte e il fucile appoggiato alla spalla. Uno teneva in bocca una margherita e sorrideva ammiccando con il mento il suo invito ad andare di là; l’altro portava un pastore tedesco al guinzaglio e guardava serio la palla a una decina di metri. Liberò il cane, quello andò, la prese tra i denti e la riportò al suo padrone. Poi si mise a sedere in attesa di nuovi ordini. Con un cenno il militare gli indicò il torrente e quello andò a bere alzando lo sguardo su di noi tra una lappata e un’altra. Era come se non bevesse da giorni. A un breve fischio ritornò indietro e rimase in attesa. Anche noi eravamo in attesa e non solo della palla. Sembrava che l’aria buona fosse finita e che il torrente fosse sparito, che bastasse un gesto sbagliato. Sembrava che anche gli alberi avessero smesso di crescere. Poi il torrente riprese a cinguettare, indifferente e libero di continuare il suo corso. Il militare con il fiore in bocca si fece passare la palla e la calciò dalla nostra parte. Nino disse “Hvala”, che significa grazie. Noi restammo immobili, Marzia prese la palla e la portò da me per farmi vedere che era bucata. Non dissi niente ma sfiorare le sue dita mi diede un brivido che non conoscevo. Appena i soldati se ne furono andati raccogliemmo le nostre cose e tagliammo la corda.
Enrico si appese al mio braccio. Era pallido e parlava fitto della paura che aveva avuto e di quel cane che avrebbe potuto sbranarci. A tratti qualcuno rideva forte ed era come se una corda della chitarra di Ivan fosse sul punto di spezzarsi. Arrivati a Brazzano accompagnammo a casa Mirko e sua cucina. Le feci il saluto di Mork & Mindy e lei di nuovo “Augh!” alzando la mano. Mentre Enrico parlava senza sosta io pensavo a quanto ero stato stupido, che le avrei potuto dire qualcosa di carino, magari una battuta, magari chiederle fino a quando si fermava. L’aria tiepida mi faceva sorridere, ero felice senza sapere il perché. Arrivammo a casa di Silvia. Lei e Fabio ridevano, forse era fatta. Io ed Enrico ci fermammo a bere alla fon-tana per lasciarli da soli. Mentre i due ciondolavano davanti al cancello aperto, Argo corse in strada, ci raggiunse e in un attimo azzannò Enrico al sedere. Lui urlò terrorizzato e mi saltò in braccio stringendomi forte. Silvia richiamò subito il cane che rientrò tenendo basse le orecchie. Ci fu un susseguirsi di: scusami tanto, non mi ero accorta, proprio tu che hai paura dei cani! Enrico tratteneva le lacrime; i pantaloni erano strappati ma non c’era sangue, il cane lo aveva solo pizzicato. Continuava a tenere la mia mano tra le sue, indifferente al mio imbarazzo. Scusa, mi disse poi. Ma figurati, sei il mio migliore amico, risposi. Ti accompagno a casa, così ti disinfetti. Non sapevo cosa fare. Gli volevo bene ma non volevo alimentare il suo interesse nei miei confronti… Ti fa ancora male? Gli dissi. Solo un po’, rispose. E quella tipa? Marzia? Ti piace?
L’estate aveva un sapore buono ed era appena incominciata.
L’autore:
Lorenzo Fain è nato nel 1970. Vive a Cormòns (Go).
Gli piace definirsi operaio sociale perché da vent’anni il suo cantiere è la comunità, per adolescenti prima, per mamme e bambini adesso.
Per lui la scrittura è sempre stata: lettere, diari e racconti che ha seminato in attesa di germoglio. Spesso l’inchiostro ha fatto luce in mezzo alla polvere e al sudore.
Ha pubblicato due romanzi e diversi racconti in antologie e riviste. Frequenta il Portolano, scuola di scrittura onesta e autobiografica a Treviso.
Immagini e parole —————————-
Endecanuvole
di Luisa Gastaldo
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso.