Fare Voci marzo 2025

Prepariamo la primavera, con una serie di gemme pronte a sbocciare alla vostra attenzione.

Ad iniziare dalla nuova raccolta poetica “L’intravisto” di una delle firme oramai più autorevoli della poesia italiana, Elisa Biagini.

La frontiera si apre con i tre testi inediti in italiano della poetessa slovena Lucija Stupica, con la continua ricerca d’autore di Sandro Pecchiari e il suo nuovo “Atropo Lachesi Cloto” e con le sei poesie inedite di Guido Cupani.

Spazio per le altre note del progetto Bande Rumorose in A1, nuova creatura del cantautore Matteo Bosco, e il nuovo disco “Gli inquilini del sottoscala”.

Sempre la poesia è protagonista con la voce d’autore di Valentino Ronchi con “Ma tu l’hai letto il giovane Holden?” e di Biagio Accardo con “Esercizi di riparazione”. A cui aggiungere i testi inediti di Ivan Pozzoni.

Giuliana Cadelli ci accompagna nel mondo del mito, con il suo “Afrodite. L’arte dell’inganno”.

Le immagini sono una selezione di lavori esposti alla mostra “I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà”, che si è tenuta nel mese di febbraio a Gorizia, nell’ambito del programma di GO! 2025 – Nova Gorica e Gorizia Capitale Europea della Cultura. Ce ne parla Franco Spanò, uno dei curatori, ed artista coinvolto nel progetto.

Buona lettura!

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini        ——————————-

Border line n. 27

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Alfred de Locatelli

 

 

 

 

Voce d’autore         ——————————–

Le ombre che prima non c’erano

Elisa Biagini, “L’intravisto”

di Roberto Lamantea

Da quale confine, da quale altrove nasce un verso? “Dove più fortemente percepisco l’altrove” scrive Elisa Biagini nel suo ultimo libro, “L’intravisto”, fresco di stampa per Einaudi, il “brusio dell’impensato”.
Ha ragione Lacan secondo cui l’inconscio è un linguaggio? Quell’universo dove si sedimentano conglomerati – per citare Zanzotto – di memoria (strati di vissuto e di immaginato), l’esperienza fisica, visiva, tattile, sensoriale si sovrappone ai ricordi, le nostalgie. Perché in poesia è quella la “parola esatta” per il ritmo, il suono, il suo fantasma iconico e cromatico? “La pelle/ sente in sé la prima/ e l’ultima lingua”. Dall’allegoria alla metafora al simbolo (come non ricordare i colori delle vocali di Rimbaud?) la poesia è prima di tutto il silenzio da cui affiora la parola, come spiega Antonio Prete in un piccolo prezioso libro edito da Mimesis.
È metamorfosi: immagine, colore e suono che si trasformano in altro. Ed è l’altro, ciò che è “più in là”, a disegnare le parole: “la parola/ ancora seme” scrive l’autrice in “Sotto lo sguardo di Rubén Darío”.
Tra le autrici più colte e raffinate in assoluto, Elisa Biagini è con “L’intravisto” alla sua quinta silloge einaudiana. Traduttrice dal tedesco e dall’inglese, la poeta fiorentina ha firmato versioni da Emily Dickinson e Paul Celan – della dama in bianco di Amherst sempre da Einaudi, di Celan nel 2020 da Ponte alle Grazie ha firmato l’antologia “Non separare il no dal sì”.
“Da una crepa” è il titolo del libro del 2014, “l’occhio appoggiato alla crepa” è la formula che compare già nella prima riga de “L’intravisto”, in prosa lirica: “qui, eppure sempre altrove di sguardo”, la faglia, il più in là di cui scriveva il poeta di Pieve di Soligo, “dove più fortemente percepisco l’altrove, lì affondo in me stessa, ripesco la bussola, sollevo lo specchio” (ancora: non attraverso lo specchio di Alice ma dietro lo specchio): “La lingua bagnata nel suono del rompere, risuona fuori da sé”.
Il paradosso: il “più in là” ci avvicina all’antico, l’infanzia, dove l’immaginario e il vissuto s’intrecciano, si sovrappongono in filigrana: “Tanto più ti allontani tanto più si avvicina la patria dell’infanzia”, come ben sapevano Leopardi, Pascoli, il petèl di Zanzotto. Per dirlo Elisa Biagini ricorre all’ossimoro: “Remota vicinanza di prossime distanze”.
La pelle/ sente in sé la prima// e l’ultima lingua”. “What is the Word”, che cos’è la parola, scrive in “Tra Beckett e Bashō”, una serie di versi brevi che rinvia agli haiku: “airone grigio/ in volo: un verso/ si allontana// due conigli oltre/ il vetro, scelgono/ sillabe d’erba”: la metafora del paesaggio-natura come linguaggio in un acquarello giapponese.
Come nelle altre sue plaquettes – da ricordare anche un librino di 32 pagine pubblicato nel 2006, “Fiato. Parole per musica” (Edizioni d’If di Napoli), dove Biagini gioca con i versi “da cantare”, i testi per le canzoni, ricorrendo anche alla rima alternata – la scrittura è labirinto dello sguardo, specchi di specchi e vertigini di prospettive come in Escher: “Questa stanza sussurra/ come foglie:/ è il tuo respiro/ nell’orecchio dell’orecchio”. Forse è la vertigine la metafora migliore per la poesia di Elisa Biagini, dove “lo sguardo/ si apre/ come un’arancia sbucciata” – che de “L’intravisto” è l’esergo – quello di un mondo che cerca di vedere dalla luce dell’abisso.

 

dal libro:

Un istrice

Quanto rimasto
dalla cancellatura prende
la forma spinosa
del vedere: tintinna
mentre si appoggia
al cuscino del cuore.

Racconta l’intravisto,
l’inclinato, la vita
al confine del piede –

accanto siamo due bestie di silenzio,
le ombre che prima non c’erano.

*

per Emily

Ancora lei ma nuova
perché sempre la stessa
ma mai vista: in una mano
una ciocca color castagna e foglie, una
fetta di pane e un sasso dentro l’altra.
Nessuna palma del martirio,
né stigmate né
occhi gialli mangiati dal fegato:
una donna con un piede ben piantato,
la conoscenza degli angoli,
il suo guardare da quel tratto-trampolino
in bilico sul mondo e raccontare.
Perché lasciare la stanza? Spifferi larghi
abbastanza per le voci e gli odori
quando scrive del ghiaccio che si forma
mentre si scioglie, dell’alfabeto di
luce tra le case, del buio-caldo
nella zampa di Carlo. Se a volte le
vene si ritraggono nel fondo
dopo, ogni parola è lapillo
nella neve, un’eclissi stampata
sulle lunghe finestre. Gli appunti
sudano nella tasca bianca, si arricciano
come dentro la stufa, le schegge di
matita sulle labbra. Non un tu di carne
o aria ma di lettere e virgole, l’Altro –
parola, infinito
nella finitezza del suono.
E: un’iniziale alta,
scala che vede oltre
lo steccato degli anni.

(Amherst)

*

sono venuta a potare
prima un respiro di
acqua e poi di sasso,
a stare al passo con
l’evaporare delle alghe

sono venuta a cercare
le voci arrochite, le corde
sfilate, le tracce
che si perdono nell’erica

sono venuta a sudare
le tossine della mia storia,
a portare le spore sotto
le suole, ad aprire il
libro del lì

sono venuta a studiare
il disfare, la piega dell’erba,
a mandare avanti la coda,
a vedere il colore di un odore
in controluce

ho seguito l’altro cane che sono
cercare nella biblioteca delle ossa.

(brughiera)

 

 

Intervista ad Elisa Biagini:

Molte poesie del libro hanno in calce il nome di un luogo geografico o generico: c’è la Amherst di Emily Dickinson ma anche notazioni come “di lato all’autostrada”, “in strada”, “oltre il prato”. Che cosa sono per te i luoghi e che rapporto hanno con la tua scrittura?
L’intera raccolta “L’intravisto” s’interroga proprio su questo. Quando degli spazi diventano luoghi, ovvero quando vengono investiti da una storia che è naturalmente la mia storia ma anche la storia idealmente del lettore, allora assumono delle caratteristiche precise. Nel libro non ho voluto dare troppe indicazioni, tranne qualche raro caso, talvolta ho indicato la strada o l’autostrada perché volevo che il lettore avesse una minima coordinata.
Altrove ho deciso di restare generica ma anche di non essere troppo criptica: devo trovarmi a metà nella pagina-stanza con il lettore.

Come nasce un tuo libro di poesie? Quando ti accorgi che le composizioni possono avere l’architettura di una raccolta?
Nei miei libri di poesia i testi sono sempre molto strutturati, architettura è il termine giusto. Nelle precedenti raccolte, “Nel bosco”, ma anche in “Da una crepa” e “Filamenti”, erano organizzati in tre sezioni. Di solito c’è un tema centrale, penso appunto a quello su filamenti ed elettricità come frammenti di vita e morte nel nostro corpo e fuori dai nostri corpi. Intorno a quello ho costruito le tre sezioni. Altre volte è accaduto con un personaggio della famiglia.
Nella prima sezione mia nonna, che era un’ostetrica, mi ha fatto nascere, poi Nicola Tesla, Mary Shelley, m’interessava confrontarmi e cercare anche delle forme leggermente diverse: un racconto più sincopato e concitato in Tesla, in forma di diario per Mary Shelley, più tradizionalmente lirico nella prima sezione. Ne “L’intravisto” i testi erano stati scritti in occasione di viaggi, esplorazioni, attraversamenti di luoghi, per poi constatare che erano stati solo intravisti, anche se credevo che ci fosse stata una visione piena. A uno specifico luogo possono essere dedicate una o più liriche.
Quello che m’interessa è l’impasto della scrittura, che è anche dettato dalla natura del luogo, da come il luogo modifica il linguaggio che io decido di usare a seconda del contesto preciso e la storia di quel luogo. Naturalmente i testi su un luogo preciso sono anche molto politici: quelli su Buenos Aires, per esempio, o sulla Sardegna. Vedersi come capaci solo di intravvedere, non con l’io umano al centro, è già una postura a mio avviso politica.

Quali sono i poeti più importanti per te?
Molti sono stati i poeti importanti, oltre a narratori e artisti visivi. La mia formazione è da storica dell’arte, questo è sempre presente nel tessuto dei miei testi, diciamo però che quelli che sento ancora sono anche i protagonisti di “Da una crepa”, ovvero Paul Celan ed Emily Dickinson. Naturalmente nella mia formazione sono stati importanti molti altri poeti e continuano ad esserlo.

La poesia non vende”, “è di nicchia”, “è difficile” sono frasi comuni quando si tratta di poesia, ma a scrivere versi sono moltissimi. Recentemente una casa editrice di poesia ha pubblicato un avviso sui social chiedendo di non inviare più manoscritti e avvertendo che il programma editoriale è già completo fino a tutto il 2026. Molti scrivono ma non leggono: come spieghi questa contraddizione?
Sono dati che vanno un po’ ripensati. Certo è tutto un problema di come si parla di poesia: nei giornali, per esempio, lo spazio che viene dato alla poesia è minimo, penso agli inserti culturali del Corriere della Sera o la Repubblica.
Il presupposto è che alla gente vanno date cose semplici, quindi si premiano raccolte estremamente retoriche, compiaciute. La poesia in verità vende più di molta narrativa. Non pensiamo ai soliti 10/15 nomi di narrativa molto pubblicizzati che sono sempre quelli e sono ovunque.
Però alla fine un libro medio di narrativa se fa mille copie, nonostante appunto l’investimento da parte dell’ufficio stampa, ha già fatto tanto. Invece ci sono libri di poesia che vendono anche molto di più. Andrebbe tutto ripensato anche alla luce del modo particolare di rapportarsi con la lingua, profondamente antico e anche fortemente legato alla dimensione musicale, quindi arcaico, una cosa che ci appartiene da sempre.

Che ruolo possono avere i social nella diffusione della poesia? Diversi profili di Facebook pubblicano inediti, brevi recensioni, segnalano novità di editori medio-piccoli di qualità, sono spazio di dialogo tra chi scrive e chi legge. Sempre dal mondo dei social arriva Edoardo Prati che, giovanissimo studente di Lettere classiche, ha trasformato la sua passione per la letteratura in uno spettacolo teatrale: che ne pensi?
Non ho particolari pregiudizi sui social media, ho un sito dove ci si può mettere in contatto con me e dove dialogo con i lettori, posto poesie, parlo di libri. A me mettere in rete le foto della pizza che ho mangiato a pranzo o cose simili francamente non interessa e non credo che sia quello di cui abbiamo bisogno. Può essere utile Facebook per pubblicizzare un lavoro, ma questo può farlo l’editore.
Dobbiamo tornare a un dialogo reale: andrebbe fatto un lavoro serio, per esempio, nella scuola, rispetto al linguaggio poetico, invece la poesia viene vista come un hobby o un lavoro elitario, da torre d’avorio. Credo vada fatto un discorso diverso all’interno dei giornali e delle riviste di poesia. Quello che vedo però spesso sono molte chiacchiere: di sostanza, francamente, ne vedo poca.

 

L’autrice:
Elisa Biagini è nata a Firenze nel 1970. Da Einaudi ha pubblicato le raccolte L’ospite (2004), Nel bosco (2007), Da una crepa (2014), Filamenti (2020).
Ha curato e tradotto l’antologia Nuovi poeti americani (Einaudi 2006) e Non separare il no dal sì (Ponte alle Grazie 2020), una scelta di poesie di Paul Celan.
Con Antonella Anedda ha pubblicato Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola (chiarelettere 2021). Sue poesie sono tradotte in più di quindici lingue in volumi e antologie.
Il suo sito è www.elisabiagini.it

(Elisa Biagini “L’intravisto” pp. 84, 10 euro, Einaudi 2024)

 

 

 

 

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Senza titolo

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Roberto Kusterle

 

 

 

 

Tempo presente        ————————

Sneg v marcu   La neve a marzo

Tre testi inediti in italiano

di Lucija Stupica

Tulipani s Švedske

Sneg v marcu. Smetarski tovornjak nama zapre pot,
dobrodušni velikan skoči s sedeža, mahajoč z rokami,
Kar mimo, mimo, naj vama pomagam, v angleščini
in malo v švedščini, in jaz poskušam reči, da bova že,
ko otrok na saneh potone v sveže zapadli sneg.
Stresanje snežink, opravičevanje,
Kaj pravi, kaj pravi, mama?
in jaz: Dobro je, res, vse je v redu.
Rada imam sneg, reče otrok.
Velikan tega ne razume.
Kasneje ga spet srečam.
Počakaj, počakaj, reče. Ravno sem mislil nate.
Dva zavoja že odvrženih tulipanov
v prozorni foliji z napisom Från Sverige.
Vse vas imam rad, vse vas imam rad,
dviguje roke proti nebu, kot bi hotel objeti
še snežinke, ki neprestano naletavajo.

Tulipani dalla Svezia

La neve a marzo. Il camion dei rifiuti ci ostruisce il passaggio,
l’affabile gigante salta giù dal sedile, gesticolando,
Passate, passate, vi aiuto io, in inglese
e un po’ in svedese, io cerco di dire che ci proviamo
Quando un bambino su una slitta sprofonda nella neve da poco caduta.
Scuotere di neve, le scuse,
Cosa dice, cosa dice, mamma?
E io: Sta bene, davvero, va tutto bene.
Mi piace la neve, dice il bambino.
Il gigante questo non lo capisce.
Più tardi lo incontro di nuovo.
Aspetta, aspetta, dice. Stavo proprio pensando a te.
Due confezioni di tulipani già gettati via
nella carta trasparente con la scritta Från Sverige.
Vi voglio bene, un gran bene a tutti,
solleva le mani al cielo, come volesse abbracciare
anche i fiocchi di neve che cadono incessanti.

*

Kulturni dialog

Se vračaš?
Vračam se.
Tam ti je bolje.
Kaj je bolje?
Boljši so.
Boljši ljudje?
Veliki so.
Mi smo majhni?
Manjši.

Dialogo culturale

Torni?
Torno.
Là stai meglio.
Cos’è meglio?
Sono migliori.
Persone migliori?
Sono grandi.
Noi siamo piccoli?
Più piccoli.

*

DOLGO POLETJE se je prelilo v še daljšo jesen in nato zimo in pomlad, leta so kar trajala in se zdela neskončna. Otroška leta, ki so še verjela v prihodnost. Potem so se končala. Zamenjali smo državo in nekaj imen za denarne enote. Morda tudi lastna imena. Šli v svet in si domišljali, da smo ga vsega objeli.
Znova in znova se vračam k njemu, otroku na ulici gruzijske prestolnice, niti shodil še ni. Odpusti mu, saj ni vedel, kaj dela. Da bi beračil, so ga posadili na nekaj blazin, in mi smo šli mimo, mimo, za hip ustavili korak.
Odpusti nam. Vem, da se niti za kanček ne bomo rešili. Vračam se, v nočnih urah se vračam, ga dvignem v naročje in tečem, vse do Lete, da bi izbrisala spomin, in nato vse do konca sveta.

LA LUNGA ESTATE si è riversata in una ancora più lungo autunno e poi l’inverno e la primavera, gli anni passavano e parevano senza fine. Gli anni dell’infanzia, che ancora credevano nel futuro. Poi sono finiti. Abbiamo cambiato Stato e qualche nome per la valuta monetaria. Forse anche per i propri nomi. Siamo andati per il mondo, immaginando di abbracciarlo tutto intero.
Ancora e ancora torno da lui, il bambino nella via della capitale della Georgia, non camminava ancora. Perdonalo, perché non sapeva quello che faceva. Perché elemosinasse lo hanno fatto sedere su dei cuscini, e noi siamo passati accanto, accanto, fermando per un attimo il passo.
Perdonaci. So che in nessun modo ci salveremo. Ritorno, alle ore notturne ritorno, lo prendo in braccio e corro, sino al Lete, per cancellare il ricordo, e poi fino alla fine del mondo.

(Le traduzioni in italiano dei testi di Lucija Stupica sono a cura di Michele Obit)

 

L’autrice:
Lucija Stupica (1971) è una poetessa slovena. È stata tra le fondatrici del Pranger Festival, un incontro annuale di poeti, critici letterari e traduttori di poesia. Il suo debutto poetico risale al 2000 con la raccolta “Čelo na soncu” (Violoncello al sole) che le è valso il premio miglior libro d’esordio dell’anno in Slovenia. Sono seguiti altri libri, l’ultimo dei quali, “Magnolija, njena zgodba” (Magnolia, la sua storia) è stato pubblicato lo scorso anno.
I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo, svedese, croato, serbo e macedone e le sue poesie sono rappresentate in numerose antologie internazionali.
Oggi vive in Svezia.

 

Il traduttore:
Michele Obit (1966) vive a Cividale (Udine).
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Notte delle radici” (1988), “Per certi versi/ Po drugi strani” (1995), “Epifania del profondo / Epiphanje der Tiefe” (Austria, 2001), “Leta na oknu” (2001), “Mardeisargassi” (2004), “Quiebra-Canto” (Colombia, 2004), “Le parole nascono già sporche” (2010), “Marginalia/Marginalije” (Lubiana, 2010) e “La balena e le foglie” (2019), libro vincitoro del III Premio internazionale Rilke 2024.
Ha curato e tradotto il volume “Quel Carso felice”, antologia di poesie dell’autore sloveno Srečko Kosovel, edita da Transalpina nel 2018.
È direttore del Novi Matajur, il settimanale sloveno della provincia di Udine.
Ha tradotto in italiano i più importanti poeti sloveni della nuova generazione e le opere degli scrittori Miha Mazzini, Aleš Šteger e Boris Pahor.

 

 

 

 

Immagini        ——————————-

Il tuo pianto che non si vede

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Maurizio Gerini

 

 

 

 

Voce d’autore         ————————–

Sfilando con un lieve strappo

Sandro Pecchiari, “Atropo Lachesi Cloto”

di Giovanni Fierro

Risistemare, mettere a posto, togliere il superfluo e riconoscere il significante. È questo il filo rosso che percorre tutto il nuovo scrivere di Sandro Pecchiari, in un lavoro, “Atropo Lachesi Cloto”, che funziona da filtro letterario, educazione sentimentale, geografia del tempo ed attento ed originale autoritratto.
Questa è una fucina di pianeti/ scaraventati senza nome” in una costellazione umana di cui farne parte, in un presente che è stato ma che ritorna, anche con maggior nitidezza, dove con più precisione solo adesso puoi dire che “questo posto bucolico fa orrore/ noi confusi come cibo d’una specie/ cannibale di se stessa”. E qui il ritratto si allarga a tutta la compartecipazione sociale, nel suo rappresentarsi nel vero di una esistenza, di tutte le esistenze.
“Atropo Lachesi Cloto” trova parole ancora più necessarie rispetto alle recenti pubblicazioni del poeta di Trieste, dove anche lo sguardo fa maggiore selezione, senza alcuna distrazione: “Torno a voi per quel poco/ amore di ricatti/ per non farmi male/ se qualcosa resta –“.
E poi il corpo, luogo del desiderio di esistenza, condanna al non fuggire mai alla forza di gravità, occasione per riconoscere l’assoluto di un attimo solo, incessantemente: “La giacca sequestrata nel tuo odore/ il sudore della conclusione”. Sì, quel desiderio che è l’innesco della passione, combustione felice di una vicinanza che si fa appartenenza reciproca, “Chiamarti dio nella freccia dell’orgasmo”, in un consumarsi che è il nutrimento dello stare al mondo, del confessarsi a vicenda la propria esistenza, “Questi resti di noi/ coi pugni afferrati sullo sguardo/ la nube disvela tra le case/ lo sguardo ridotto ad aquilone”.
Le pagine del nuovo libro di Pecchiari già si svelano nel titolo che portano, le tre divinità capaci di decidere il destino di tutti, uomini e dei. Cloto filatrice dei giorni di ogni vita, Lachesi a decidere di quanto filo ogni vita può avere, Atropo a stabilire il momento di quando proprio quel filo si deve spezzare.
Così Pecchiari porta sulla pagina anche la presenza di chi la presenza l’ha tolta a sé e al mondo: “Elena che ridi scaglie di mica,/ hai varcato lo spigolo/ d’aria di cava abbandonata/ per finire”, in un tempo che è successo ma che è solo il preludio al tempo odierno: “Ci vogliono occhi sani per/ un mondo marcescente”. E questo per andare sempre più nel preciso, nell’attuale e nel non più sognabile, quando “Si lima sempre lo scalpiccio del quotidiano/ di questa vita già ridotta all’osso –“. La vita si fa adesso, e mai più.
In questa sua nuova esplorazione d’autore, Pecchiari mette in evidenza il bisogno di segni e letture, simboli e autenticità, dell’aprire di più e meglio gli occhi, per vedere che “Il corvo salta/ il suo rumore strappa l’aria/ e ricuce il mondo”.
“Atropo Lachesi Cloto” è anche antro di silenzio, luogo dove è chiaro che a volte il nascondere è proteggere, trovare il segreto e il suo piccolo spazio da condividere, per stare più vicini, saperlo misurare con l’attenzione del cuore: “Quanto abbiamo celato l’amicizia/ indossandola come il rosso delle more”.
È raccolta di minute ed assolute attenzioni, capaci di riconoscere la misericordia dell’essere umano, nella sua avventura nell’esistenza, nel suo folle gesto di stare nella vita, il suo trovarsi spaurito nella natura di ogni cosa, nell’accettare il non rimanere: “La foresta è intrico di passaggi/ trasforma i caduti/ in sottobosco”.
C’è sempre molto di più di quello che scrive, nel fare poesia di Sandro Pecchiari.

 

Dal libro:

la lentezza del dolore è il segnalibro
o l’orecchio d’asino alla pagina
cerchiare versi con la biro
esclude il resto e il resto è
la sorpresa

va aperto a caso il libro
scrutarlo con prudenza

*

dimenticando via via
le righe lungo il grano
i pioppi a cadenzare il silenzio
le cicale a sfregiarlo

la sillaba liscia delle biciclette
la strada di ghiaia delle coste

il suo arrochirsi
nel ripeterne i discorsi
sfilando con un lieve strappo
un non m’ama

*

qui nasce il vento
da questo verde avvallamento
scuro s’alza col canto
disturbato degli uccelli

la nonna m’imponeva vieni dentro
quando lo sfidavo
la stufa scaldava la faccia solamente

la casa aveva pentole e bicchieri
mastelle di bucato
binari di trenini in corsa circolare –
ormai tutto giù in cantina
le persone anch’esse polvere

l’ora è questo stare nell’ascolto
della sosta dentro ai refoli
del muoversi muto oltre i vetri

come se potesse tornare
dando per ovvia questa vita
passarci ignari, averla vista
esserci guardati
sempre da un millimetro

*

che il tuo filo di vita
sia la strada percorsa
tra me e te l’aria fragile
delle arenarie
così questo è il tuo labirinto di pelle
e le mani le vie segrete
dove imbocchi le nuvole, fidati.
in questo cupo di temporale
siamo offerte per gli dei

*

portami del cibo
un po’ di vino su questa tovaglia a girasoli
qualche fetta di pane
tovaglioli di carta
– la carta per scrivere ce l’ho –

portami il sole di questo giorno intatto
i tuoi jeans che disegnano le gambe
con i tratti di un pontormo
il tuo sposarti arioso attorno
portami il peso fulvo dei capelli
un abbraccio del tuo odore caldo

portami via

 

Intervista a Sandro Pecchiari:

“Atropo Lachesi Cloto” è un libro che hai avuto il desiderio di scrivere, o un libro che ti sei trovato a scrivere?
A dire la verità, questo è un libro che mi ha inaspettatamente travolto.
Avevo ammonticchiato una certa quantità di poesie sulle persone significative della mia vita: alcune defunte, di morte naturale o per disgraziati incidenti, alcune che hanno preferito il suicidio, alcune perse per distrazione o scientemente, ma anche, fortunatamente, contatti rinverditi, belle persone incontrate per caso, quelle che a volte il Fato ci riserva, alcune presenti in modo significativo, altre che sono state un determinante turning point nella vita.
Tutte storie vere di persone vere con tanto di nome, in un tentativo di omaggiarle e fissarle nel mio continuum mentale. Poesie quindi di addio e di benvenuto. Ma se ne restavano in un mucchietto random nel cassetto della scrivania e nel file del computer.
Fino al momento epifanico della rilettura per puro caso di una poesia di Rilke che io amo molto: Alkestis. Durante i festeggiamenti per le nozze di Admeto arriva il dio Thanatos con l’annuncio della sua morte non differibile. Nel suo terrore e disperazione Admeto tenta di barattare la sua vita con quella dei vecchi genitori o con quella di Creonte, il suo amico più caro, nel fiore dell’età. Ma nessuno accetta. Finché non arriva Alkestis, la sua sposa che si offre con queste parole: “Nessuno è a lui compenso. Io solamente./ Io lo sono. Perché nessuno è al fine/ come me. Cosa resta a me di quello/ ch’ero qui, cosa resta oltre il morire?/ Lei non ti ha detto nel mandarti a noi/ che quel giaciglio che di là ci aspetta/ è d’oltretomba? Io già presi commiato,/ io presi ogni commiato. (…)/ Ma una volta/ ancora egli le vide il viso, indietro/ rivolto, in un sorriso chiaro come/ una speranza, una promessa: a lui/ tornare adulta dalla cupa morte,/ a lui vivente…”.
Questo prendere commiato e accettare la morte nello stesso momento in cui ci sarebbe dovuto essere un benvenuto alla nuova vita ha sbaragliato l’ordine acquisito e sovrapposto e confuso i significati di addio e benvenuto.
È stata una folgorazione. Sono andato a prendere le poesie e il libro è nato all’improvviso, entusiasmante.

In ogni pagina c’è una intimità importante, sia per i contenuti che per la forma usata. A volte si respira l’affetto, altre la fascinazione, altre ancora il legame quando si fa stretto e unico…. Solo così si può scrivere poesia? Solo così può esistere questo tuo nuovo libro?
Credo che non avrei potuto farlo esistere in un altro modo. Il “narratore onnisciente” che in poesia a parer mio è “superonnisciente” perché lavora sul contenuto ma soprattutto sulla consapevolezza del linguaggio usato, rendendo precisi ed essenziali i versi, qui ha dovuto restarsene in disparte. Un po’ alle “spalle delle cose” come nel libro precedente. Da una parte le persone e le loro storie nelle poesie sono vere, dall’altra ho preferito suggerire, coinvolgere e suscitare un’emozione e un dubbio sul dipanarsi e sulla conclusione dell’intero accaduto.
Così il treno che giunge nella notte inaspettato (Eugenio): “scavalcata la scrittura di rotaie/ tra un treno e l’altro/ un buffetto che diventa abbraccio/ ampio tra le mani/ il sommarsi quieto delle labbra// un treno in manovra la vita/ alla deriva”, o il non allacciarsi alla corda del bungee jumping (Herbert): “porta del cibo la tua bevanda preferita/ per questo pasto estremo/ non avrai bisogno della corda/ né di imbrago per saltare -/ come un’eco nel veloce andare/ addio”; o il davanzale testimone del salto (Fabiano): “mesi di lotta per rifare sulle pagine/ i tuoi sguardi veloci, le tue scuse// troppo distante tu, troppo alta la casa/ la tua finestra ha visto il passo/ il niente”, mantengono delicatezza, riserbo, rispetto, compassione e rimangono volutamente non definibili: una perla e un rebus che lascia poche parole per esprimerli (Nadia), “e nessuna sa levarsi/ quanto questo fiotto inconoscibile/ che ci innesta i frammenti d’una vita.// osserviamo da un silenzio in esplosione -/ tu condividi una perla e un rebus“.

Il corpo è sempre il luogo dell’accadere (e anche nei tuoi libri precedenti…). Cos’è che lo fa essere così importante, così imprescindibile?
Il corpo, finché esiste, mantiene tutto registrato, a volte a livello lucido e razionale con dei ricordi precisi. Ma sono i files raramente aperti che il corpo ha immagazzinato, emozioni sopite, segni e cicatrici di vecchie ferite, ansie incomprensibili che muovono questo enorme giocattolo dove noi stiamo per alcuni (si spera svariati) decenni. Farei ironicamente miei i versi di William Butler Yeats, “The Spur”, “Lo sprone”: “You think it horrible that lust and rage/ Should dance attention upon my old age;/ They were not such a plague when I was young;/ What else have I to spur me into song?”, “Ti sembra orribile che lussuria e furia/ Mi faccian scorta nella mia vecchiaia;/ Non erano tanto assillanti quand’ero giovane;/ Che altro mi resta per spronarmi a cantare?”.
Ne siamo solo parzialmente consapevoli e dei ricordi non bisogna fidarsi troppo perché vengono ricostruiti sempre con variazioni significative. Quindi la memoria sì, il corpo sì, ma come contenitori un po’ arruffati e sgualciti. A volte il corpo sa essere poco amichevole, “l’alternativa della vita/ è la vita d’altri/ allacciata stretta a strozzo// a volte inaspettatamente diventa rassicurante// si pattinava sul ghiaccio qui/ prima che nascessimo/ risalendo le colline da Trieste/ e il posto era una vertigine/ di risa e scialli”.

È come se tutto “Atropo Lachesi Cloto” fosse il semplice guardarti allo specchio… È il tuo ritratto?
È un ritratto à rebours dove mi sono permesso di dislocare le Parche in ordine inverso, dal taglio netto del proprio esistere alla discussione sulla lunghezza della vita su su fino alla creazione del filo stesso. Cloto, la filatrice della vita, Lachesi, che ne decide la durata e Atropo, che la conclude sono presenti sotto altre forme nella nostra contemporaneità: Atropo è una farfalla con una serie di macchie nere sul dorso che sembrano raffigurare un teschio umano. Il suo aspetto macabro viene smorzato da Lachesi, serpente il cui veleno devastante può però curare eccitazione e depressione, per arrivare alla rassicurante Cloto che è la proteina che riduce i processi degenerativi in numerose malattie e riduce l’invecchiamento e la perdita di tessuto osseo.
Siamo sempre alla rilessicazione della mitologia che per definizione rimane sempre viva e ricca di interpretazioni sempre nuove.
Esattamente quello che succede a noi stessi che sembriamo sempre eguali, ma siamo in continua mutazione e sempre con possibili reinterpretazioni. Cosa vedo nello specchio quindi? Tutte queste storie sono uno specchio che si narra e che forse si chiarisce, ma solo forse, chissà… “eppure il vero può nascondersi qui/ fingi che sia così”.

Tutto il libro è comunque un dare forma. Principalmente al tuo vissuto, ma anche al concetto di tempo in sé… Ti ritrovi in questo?
Un vissuto certo che appare come la sovrapposizione delle onde in Virginia Woolf in cui tutto casualmente gentilmente rotola e si sovrappone. Anche qui le voci si confondono in un unico fiato, come un’onda che racconta l’esistenza di ciascuno dei personaggi della raccolta, e non solo la loro. Le onde sono la forma di questo libro: le onde del mare, della luce, del tempo, dell’emozione, dei gesti e dei dolori.
Il tempo della vita diventa del tutto diverso dal tempo cronologico ampliandone la libertà di fare.
Laura Ricci nella sua bella nota di lettura su questo libro aveva chiarito che “il gioco della memoria agisce non solo a ritroso, ma in un avvicendamento non cronologico e disordinato – come è proprio della memoria involontaria bergsoniana, a ben notare, la più aderente al meccanismo del ricordo nella vita reale – così che l’alternarsi e l’apparire e lo scomparire di presenze e assenze, e in definitiva di Vita e Morte – o meglio, di Amore e Morte – si definiscono reciprocamente. I momenti della nascita e della morte non sono affatto precisi, non solo per l’imprevedibilità delle tre Moire, ma per la volontà del poeta stesso, che decide fino a che punto stare al gioco delle apparizioni della memoria o sottrarsi, tanto da diventare lui stesso colui che recide il filo, doloroso o fastidioso che sia: “dopo anni e anni/ il mio coraggio di cocci/ si scompagina in scenari/ di stracci, in tracce/ a ritrovarti e riporti nell’orrore/ nel tuo vivere/ io mi arrendo; oppure: sarai astuto a trasformarti/ perché non ti conosci – un nuovo ruolo, la finzione/ in cui vivi tra le vite./ ne sarò parte fino a traghettarti./ ma io non passo””.
È un dare forma al tempo che si fa prendere e contemporaneamente scivola dalle mani.

Anche il linguaggio usato mi sembra diverso dalle tue precedenti pubblicazioni. Ora si è fatto decisamente più essenziale… Come è avvenuto questo cambiamento? O trasformazione…
Accennavo prima alla riservatezza e al pudore di trattare di persone vere e delle loro storie. Così la struttura si è rarefatta ed è diventata estremamente attenta. Bisogna che le parole siano solamente sostegni e che ognuno possa costruirci sopra emozioni e sovrapposizioni.
Ho sempre presente un haiku di Santôka: “Ushiro sugata no shigurete yuku ka”, “Sono io quella figura che si allontana nella pioggia?”.
Questo haiku implica un totale apprezzamento e abbandono alla transitorietà della vita, l’esserci in un tempo non troppo definibile, esserci così come siamo, poco riconoscibili, dando valore all’interazione con le persone e ai cerchi nell’acqua che ne conseguono.
Questo lo tengo sempre presente quando scrivo: scrivere, ma… “non riconoscersi nunc et semper/ ogni rimbalzo il grido della gioia/ dai, dai, 1, 2, 3, 4, ah, peccato! niente 5/ ogni rimbalzo perde forza/ e finalmente non si afferra”.

Lo sguardo di “Atropo Lachesi Cloto” è decisamente rivolto principalmente al passato. È per poterlo sistemare e preparare il tempo futuro?
Assolutamente sì. Spero che le Mojre non me ne vogliano per averle scombinate in questo modo. Sotto sotto sospetto che si sarebbero divertite.
Raccontarle in retromarcia quindi ri-filare quello che si era spezzato rivela l’organizzazione di queste poesie: un taglio all’amore antico, riconsiderare l’intervallo tra il taglio e la creazione del filo, rappezzare tutto, risistemare tutto e ritrovare una strada possibile. Una strada che sia una vita in morte e una morte in vita come nella Ballata dell’Antico Marinaio di Samuel Taylor Coleridge. A ritroso è anche tessuto e spezzato il filo delle Parche, generalmente espresse in ordine inverso secondo il susseguirsi degli stadi dell’umana esistenza: Cloto, filatrice della vita, Lachesi, dispensatrice dei destini e della loro durata, Atropo, che taglia inesorabilmente il filo al momento assegnato. Basta già questa inversione a dirla lunga sulle mie intenzioni: come Atropo il libro reciderà il filo dei passati convocati amori, come Lachesi ne ripercorrerà il tempo assegnato, – Diario della peste è il sottotitolo della sezione Lachesi, dunque un tempo malato – come Cloto, infine, li farà ri-nascere nella memoria: che siano morti realmente o, per essere passato non più ripercorribile, morti in vita. Questo è il senso della convocazione-celebrazione ad una cena in cui tutti i personaggi vengono evocati, come nella pratica dell’Ô-bon dello Scintoismo, venata di sottile catartico divertimento con il dubbio di capire chi convoca chi.
non ho mai cenato con i morti./ questa sera si adagiano sul tramonto/ le posate e il vino// i giapponesi li accolgono a casa/ nei giorni pensosi dell’o-bon/ offrono cibo, danze e luce// io me li porto in trattoria/ ho prenotato una tavolata vuota/ e mi sorrido quieto”.

Che poi a lettura del libro terminata, la sensazione che si ha è quella di avere di fronte un atto di fiducia nell’adesso, nel presente in cui tutto accade, anche il passato che si ripresenta… Può essere così?
Nella parte finale la raccolta parla dell’esserci adesso. Dopo tutte le perdite, il periodo di mezzo di dubbi e insicurezze, ora Cloto è al lavoro per filare nuovamente.
Lucidamente Laura Ricci ha evidenziato che l’amore di cui si parla “ha prodotto una crepa nell’esistenza abituale, che ha spostato tavoli e cose, ridipinto pareti, risistemato libri e armadi, rendendo nuove cose “già dette e dette ancora”; un amore a cui il poeta chiede cibo e sole, che ha avvolto dove la vita doleva, portando linfa che “sapeva di futuro”, così che finalmente una resa nuova si manifesta e, nell’amplesso, penetra nell’intimità più segreta e nel perdono: “lo lascio venire se mi vuole/ lo porto attraverso i miei segreti d’erba/ insieme penetriamo nel perdono“. Finché ogni corpo trova e prende posto nel corpo dell’altro imboccando, oltre la cautela, “la via di casa”.
“Qui è la coscienza del farsi e soprattutto del disfarsi degli amori a trascinare in un viaggio che, con forza dilavante e alluvionale, spinge il poeta a gettar nomi e storie come sassi nell’acqua – “un sasso nell’acqua/ distacca dal dolore del contatto/ questa è una fucina di pianeti/ scaraventati senza nome/ una manciata lanciata a disossare la croce” – e, al tempo stesso, a convocare, uno a uno, i suoi convitati di pietra, inscenando un gioco di apparizioni e sparizioni in cui una sottile vena di ironia stempera la dolorosa ineluttabilità del dissolvimento: “puntellare con tutori le talee/ con etichette di riconoscimento/ con guanti grossi da giardiniere/ mantenerne sottile il tocco/ decidendo di sbagliarne i nomi/ vi chiamerò tutti e siete tanti“. Un ricordare per lasciar scorrere via, per dilavare e purificare, per – finalmente liberi – ritentare: “i sassi snudati oltre il fango/ rinasceranno se lapidi il passato e/ lo ritenti/ l’alternativa della vita/ è la vita d’altri/ allacciata stretta a strozzo””.
Come nella parte finale della “Waste Land” di Thomas Stearns Eliot: “I sat upon the shore/ Fishing, with the arid plain behind me/ Shall I at least set my lands in order?”, “Sedetti sulla riva/ A pescare, con la pianura arida dietro di me/ Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?”.
Alla conclusione del libro l’affetto e l’amore vengono rassicurati e consolidati nonostante la devastazione precedente. Si può stare così finalmente, a chiedersi se si sono sul serio sistemate le proprie terre, “ho preso posto nel tuo corpo/ il tuo fiato pesa come pioggia/ o bruma sulla pelle/ a parlare con suoni coraggiosi/ con ostacoli spalancati/ – la via dilava la gente in pesci oscuri –// il tuo corpo una bruma sulla pelle/ oltre i vestiti, oltre la cautela/ vola come nebbia che va via”.
Nessun rimpianto può cambiare il passato, nessuna ansietà può cambiare il futuro; “l’ora è questo stare nell’ascolto/ della sosta dentro ai refoli/ del muoversi muto oltre i vetri// come se potesse tornare/ dando per ovvia questa vita/ passarci ignari, averla vista/ esserci guardati/ sempre da un millimetro”.

 

L’autore:
Sandro Pecchiari, triestino, laureato in lingue e letterature straniere con una tesi sull’opera poetica di Ted Hughes, ha pubblicato le raccolte “Verdi Anni” 2012, “Le Svelte Radici” 2013, “L’Imperfezione del Diluvio – An Unrehearsed Flood” 2015, il lavoro antologico “Scripta Non Manent” 2018 e “Alle spalle delle cose” 2023.
Inoltre in spagnolo “Le Svelte Radici”, con il titolo “Despojando Raíces” e la silloge in inglese “Kidhood” nello Special Issue, Writing in a Different Language, NeMLA, Italian Studies, The College of New Jersey, USA.
Presente in antologie e riviste in diverse lingue straniere, nel “Quarto Repertorio della poesia italiana contemporanea” Arcipelago Itaca 2020, con cui pubblica anche la raccolta “Desunt Nonnulla (piccole omissioni)”.
Attualmente collabora alla sezione Traduzione del sito QB – Quanto Basta dell’Independent Poetry di Faenza, con la rivista Graphie di Cesena e il blog Versante Ripido di Bologna.
Scrive anche per le riviste Il Ponterosso di Trieste e per Fare Voci di Gorizia.

(Sandro Pecchiari “Atropo Lachesi Cloto” pp. 74, 12 euro, puntoacapo editrice 2024)

 

 

 

 

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Omaggio a Basaglia

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Giacinto Iussa

 

 

 

Tempo presente         ———————

Viene meno la mia alleanza con la realtà

Sei poesie inedite

di Guido Cupani

Le pieghe

Stiro le pieghe della canottierina
come un neopatentato che ancora fatichi

con un parcheggio a S, avanti indietro,
avanti indietro, e ne faccio altre, di pieghe,

più difficili da cancellare perché scottate
dal vapore, e mi dico dài, è una canottiera,

andrà sotto la maglia e la maglia a sua volta
sotto la felpa, perché perderci del tempo.

E mi viene chissà come in mente una generica
gargouille di Notre Dame, e i merletti

della flèche, tanto accuratamente
ricamati perché nessuno li vedesse

tranne Dio che a quanto pare ha chiuso
gli occhi la sera dell’incendio non credendo

più neanche lui a sé stesso. Mi dico che oramai
deve capitargli spesso. E così perdendomi

a momenti non mi ustiono il dito… Dovrei
inabissarmi a districare un senso

nello scherzo? A mezzo fra l’inutile
e l’indispensabile, continuo a passare

il ferro sulla piega, ché altro
non posso fare.

*

La bottiglia

La bottiglia di vetro che manine
ignare lasciano cadere
si spacca sul pavimento.

Hai visto cos’hai fatto.
C’è della fisica da insegnare
e della paura da tamponare
mentre gira il pomeriggio.

C’è anche una poesia da scrivere,
mi pare, ma è veloce,
corre sul pavimento
sfugge all’asciugamano.

Mi metterei in ginocchio a cercarla
ma è pieno di cocci
e non voglio ferirmi.

*

Esercizio d’assenza

“El agua de la selva es feliz; podemos ser malvados y dolorosos”
Nils Runeberg

Non c’è luna in queste righe,
non fuga d’orizzonte, non vento
che inquieti le bandiere, che ronzi
sulle funi tese, campanella
che scandagli il buio in eco
di preghiera. Non ho posato piede
sulla riva pullulante d’erba.
So che l’acqua è dolce e gelata
senza averne attinto. Da un sito
conosco la posizione degli astri
sulla scena in questo istante
e non mi dice nulla: triste
esercizio d’assenza sempre
più convincente. Altrove,

credibilmente,

il lago Manasarovar esiste.

*

A messa

Hai ragione,
ti obbligo a pregare.
Giungo le tue mani. Ti indico
fronte petto spalla spalla.

Nel centro esatto del gesto,
la tua anima,
che io devo riempire.

Stamattina in primo banco
ce l’avevi con me.
Col dito hai segnato sul libretto,
gli occhi torvi,
Padre, Figlio.

Come disperatamente
chiedevi e non riuscivi
a credere in me.

*

Canzone

Viene meno la mia alleanza con la realtà
mi guardo intorno dal baricentro esatto
di un tardo pomeriggio / e non so dove scappare

E credimi, potevo fare cose buone, darling
credimi, potevo fare cose buone

Dovrei percorrere quasi vent’anni in retromarcia
il braccio sul poggiatesta del passeggero
e sperare che a quel punto / non abbia già fatto buio
che si riesca a leggere una mappa / nel cono di un lampione

Non mi sono mai impegnato ad amare ciecamente
come in questi ultimi giorni di post-scadenza
e mi accorgo di averlo fatto solo per me / per essere riamato

E credimi, potevo fare cose buone, darling
credimi, potevo fare cose buone

*

BUČA

Lavati le mani
anche sotto le unghie,

stai seduto composto,
non sdraiarti per terra,

datti una rassettata, guardati,
sei tutto sporco di terra,

guardami quando ti parlo,
è modo di giocare questo,

chi ti ha legato i polsi,
chi ti ha sepolto la testa,

rispondi, sono tredici giorni
che ti chiamo per il pranzo,

mi farai diventare matta,
sono stati quei disgraziati

dell’altro blocco,
andrò a dirne quattro

alle loro madri, e anche tu
farai una brutta fine

se non mi ascolti, ma ora
esci da sotto terra,

lavati le mani e
smettila di essere morto,

tocca sempre a noi madri
pulire

 

Guido Cupani, nel centro esatto del gesto

di Antonello Bifulco

La poesia di Guido Cupani è luogo d’incontro e di vicinanza in un periodo dove allontanarsi dagli altri pare sia diventato virale, le sue parole si fanno voce andando a cercare dell’uomo ciò che di umano ancora “re-esiste”. Poesie che scavano che si fanno introspezione, poesie che sono la geografia di una ricerca esteriore, poesia che è mancanza, distanza, ossessione, tormento e, perché no, imprescindibile vicinanza.
Nel centro esatto del gesto,/ la tua anima,/ che io devo riempire” parole alla ricerca dell’altro della persona più prossima, in una ragione dello stare insieme che si sta smarrendo, che sta lasciando spazio allo stare senza parlarsi, senza più dirsi che vivere è un luogo d’incontro, è lo spazio dove sapere che c’è sempre qualcuno anche se siamo soli, anche se è pieno di cocci rotti e abbiamo paura di ferirci perché “C’è della fisica da insegnare/ e della paura da tamponare”.
La poesia di Guido Cupani è un’alleanza con la verità lasciata cadere sopra ogni cosa, niente pare nascondersi, niente è tralasciato al caso anche quando le parole si fanno forti e parlano di morte “lavati le mani e/ smettila di essere morto,/ tocca sempre a noi madri/ pulire”, vedere quello che è passato vivendolo ora sulla pelle, percorrere in retromarcia una vita, un anno, un giorno e farlo solo perché non ci siamo mai impegnati ad amare veramente e se lo abbiamo fatto è stato solo per essere riamati.
È una Poesia che aspetta di vedere come andrà a finire, che aspetta di attraccare al porto di quell’isola delle cose non dette e per un momento tacere.

 

Due domande a Guido Cupani:

di Antonello Bifulco

La tua poesia è uno scontro con la realtà, è il luogo dove vivere l’inutile e l’indispensabile. La poesia come luogo d’incontro, la poesia come collante tra l’io e il mondo esterno, poesia come medicina dell’anima. Quale ruolo ha avuto e ha per te la poesia?
Mi riconosco in tutte queste definizioni, ma voglio essere onesto con me stesso: spesso le interpreto in un modo non del tutto sano. Spesso per me la poesia è un tentativo di mettere le cose a posto, di sistemare il disordine che ho dentro, o anche un tentativo di controllare il caos (meglio, la complessità) che c’è fuori. E non sono sicuro allora se si tratti di una medicina o al contrario di una forma di malattia.
Quando funziona, la poesia sa andare oltre anche a questo bisogno di dominio sul reale. Perché alla fine a questo si ridurrebbe, se non sapesse spiccare il balzo e trasformarsi in accettazione. Quindi sì: lo scontro con la realtà fa male, ma accettandolo (addirittura cercandolo, a volte) ci si rende conto che a ben vedere non esiste. Nessuno scontro. Tutto è già perfettamente a posto nel proprio caos. È un caos che suona, e che risuona (si spera) anche nei versi.

Si dice che la poesia sia un luogo dove stare. Quale il tuo luogo della poesia e dove vive la poesia di Guido Cupani?
Concretamente, vive per lo più sul regionale veloce che mi porta al lavoro la mattina, e di nuovo a casa a sera. Al di là della battuta, la mia poesia si è fatta con gli anni sempre più tollerante rispetto ai luoghi. Vive praticamente dovunque.
Da ragazzo scrivevo en plein air, ed era bellissimo (si respira tanta buona aria fresca) ma raramente funzionava. Ancora una volta, tentavo di portare un luogo dentro la poesia, in modo che altri volessero entrarci. Sforzo carino, ma non sincero.
Ora che non sono più un ragazzo, ho imparato a fidarmi. La poesia costruisce da sola i propri luoghi e ti ci tira dentro, se solo le allunghi una mano. E non è neanche che questi luoghi debbano essere per forza una glorificazione dell’ordinario, del quotidiano: a volte sono luoghi sconcertanti, dove non vorremmo stare.
In questi giorni sto combattendo con una serie di brevi poesie sull’Islanda. Combattendo, perché non riesco a legarmi dalla memoria specifica dei posti e del loro vissuto. A tratti, però, è la poesia stessa a guidarmi verso un’altra Islanda, trasfigurata rispetto al dato concreto, dove il mio vissuto appare quasi alieno, sconcertante appunto, ma in un modo emotivamente produttivo.
C’è tanto, tanto spazio fra le parole.

 

L’autore:
Guido Cupani ha pubblicato due raccolte di poesia, “Le felicità” (Samuele 2011 e 2015) e “Meno universo” (dot.com 2018), oltre a lavori in poesia e prosa su numerose riviste online, nazionali e internazionali.
Ha vinto tra gli altri il premio Giorgi Cantiere 2015 e il premio Versante Ripido inedito 2024.
È tradotto in inglese da Patrick Williamson e in romeno da Mircea Dan Duta.

 

 

 

 

Immagini        ——————————-

Voltižiranje   Volteggio

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Jasmina Rojc

 

 

 

 

Le altre note       ————————-

D’estate si contavano le ossa dei cani

Bande Rumorose in A1, “Gli inquilini del sottoscala”

di Giovanni Fierro

Matteo Bosco, cantautore con all’attivo già alcuni album firmati con il moniker Te Ho, ritorna nel panorama musicale contemporaneo con il nuovo progetto Bande Rumorose in A1, assieme a Valeria Molina, e il lavoro “Gli inquilini del sottoscala”.
Lavoro che lo vede ampliare ulteriormente la qualità della sua scrittura musicale, ora ancora più personale e capace di nuovi approcci sonori, con arrangiamenti che impreziosiscono ulteriormente le sue nuove canzoni.
Da sempre la musica di Matteo Bosco è anche uno sguardo sul nostro presente, uno sguardo mai addomesticato, mai arreso. E che concentra la propria attenzione proprio dove il più delle volte non si vuole né guardare né vedere.
Già l’iniziale “Il blues di Evin” apre da subito lo spazio d’ascolto a sonorità allo stesso tempo rarefatte e messe a fuoco, un incedere lento con un cantato sospeso ad indicare immediatamente un cortocircuito di immagini che è la cifra stessa della canzone (e dell’intero album?), “Ho tenuto troppo pianto in affitto, Medioriente con le forbici in mano” a dire di come si sta, di come non si può più stare.
La segue “Faccio pena a Pavese”, indolente nel suo andare, quasi un carillion che gira su se stesso, è lo sguardo all’odore in cui si è immersi, con un’armonica che porta lontano in un affresco di situazioni irrisolte.
“Thomas Sankara”, dedicata al rivoluzionario del Burkina Faso, è canzone tesa, in costante attesa che qualcosa accada, la tensione sale e si concentra in una drammaticità che si sente, si vive in presa diretta, che si spezza poi nei pochi suoni di chitarra acustica che la concludono.
Si prosegue poi con “Gli Stati Finiti”, in un sussurro dove “d’estate si contavano le ossa dei cani”, la chitarra porta nel blues in un ritmo narcotico per nulla sognante, “fino a maggio può nevicare” e polvere ovunque.
Ascolto dopo ascolto “Gli inquilini del sottoscala” cresce, si svela nella sua bellezza, nella sua scrittura messo a fuoco, che sa portare dentro di sé il seme dell’ispirazione e della costruzione sonora.
C’è anche il matematico napoletano Caccioppoli, genio assoluto, antifascista durante il fascismo, in “L’analista Renato”, che si sviluppa in un parlato che si contamina di un suono più fragoroso, è palpabile l’elettricità che si carica e si ferma, che cerca il silenzio e non lo trova, nel suo finire in un qualcosa che si increspa a trovare il rumore.
Poi con “Mi commuovo ai sondaggi” la musica si rilassa, quasi appesa ad una leggerezza tanto sognata, il ritmo si fa più sbarazzino, quasi si balla ad occhi chiusi, “l’effetto che si sceglie la causa”, fa la corte al pop.
In chiusura due composizioni che mettono ulteriormente in chiaro la qualità del percorso delle Bande Rumorose in A1: “Nuvole rosse” con le sue chitarre a disegnare un intreccio ritmico che rimane e segna il tempo, una cantilena che coinvolge tutti, fra minaccia e poesia, un organo leggero ad indicare la via e suoni e ritmi ad inventare un incedere morbido tutto attorno. E la conclusiva “Canzone pop per fidanzate indie” con la melodia più ariosa di tutto l’album, è il pop quando suona bene, guarda un po’ più in là, a trovare un orizzonte dove “Sognavo un ritornello indie, stile Vasco Brondi, ma non mi viene in mente”.
“Gli inquilini del sottoscala” è questa nuova avventura musicale, che porta la narrazione artistica di Matteo Bosco in una nuova dimensione, dove espressione e racconto fanno di queste canzoni un luogo dove poter stare bene, paesaggi sonori a cui affidarsi. Chapeau.

 

Gli inquilini del sottoscala” delle Bande Rumorose in A1 lo si può ascoltare qui

 

 

Intervista a Matteo Bosco:

Cosa ha motivato la nascita di Bande Rumorose in A1?
Quello che motiva ogni storia che racconto e ogni canzone che scrivo: la curiosità. Per curiosità non intendo semplicemente il “capriccio” di scoprire quello che c’è dietro (e dentro) le cose, ma anche e soprattutto l’empatia che provo nei confronti di molte situazioni e molte persone. In questo senso l’essere curiosi ti permette di far parte delle vite degli altri e, se possibile, di far conoscere queste vite.
Questo percorso non ha una fine, si rinnova continuamente e contiene, dentro di sé, anche la mia paura più grande: non essere più stimolato di fronte a quello che vedo, di fronte alle persone e alle loro esistenze (la canzone “Mi commuovo ai sondaggi” è proprio questo).

“Gli inquilini del sottoscala” sta dalla parte dei dimenticati, degli ignorati e maltrattati della nostra società. Il tuo sguardo è sempre e comunque di denuncia. È la musica a cui appartenere?
Credo sia il pensiero a cui appartenere: la gamma di forme artistiche è sconfinata ma il loro “atteggiamento”, a mio avviso, deve essere questo: l’attenzione nei confronti di chi non può parlare, di chi subisce le decisioni, di chi riceve gli ordini e non può discuterli, di chi viene osservato ma non può mai guardare.
Certo, è la musica a cui appartenere, non ho mai creduto all’artista “al di sopra” dell’impegno e non credo che le canzoni si dividano semplicemente in “belle e brutte”.

In questo album la scrittura musicale ha messo in evidenza paesaggi sonori ancora più personali che in passato. Merito sicuramente degli arrangiamenti, più ricchi ma allo stesso tempo più essenziali, e di una visione creativa in ogni singola canzone più coraggiosa. Mi sbaglio?
Non sbagli, la parte musicale è stata molto importante e, come giustamente dici, è stata frutto di scelte personali e “coraggiose”. In fase di produzione ci siamo detti “non dobbiamo rispettare nessun canone, nessuno standard, se una cosa ci piace e “piace al testo” la mettiamo”.
In tutto questo Davide Tosches e Luca Swanz Andriolo (che hanno prodotto artisticamente il disco) hanno fatto un lavoro incredibile: come musicisti e come produttori, mettendo a disposizione idee, capacità, esperienza e, soprattutto, ascoltando e rispettando la “canzone”. Siamo molto soddisfatti di come “suona” questo disco.

Bande Rumorose in A1 è anche Valeria Molina. Quale il suo contributo al progetto?
Enorme. Valeria, oltre ad una straordinaria musicista e una persona stupenda.
Valeria ha una fortissima personalità musicale, il suo basso non è mai banale e i suoi arrangiamenti non sono mai un tentativo di “accompagnare” il brano, ma di capirlo e arricchirlo.
Il suo contributo potrei definirlo in questo modo: di fronte a ogni brano e a ogni storia ha sempre cercato di dire (musicalmente) “non è stato ancora detto tutto, possiamo esprimere ancora qualcosa”.

I testi anche sono cresciuti per intensità e capacità di mettere a fuoco soggetto e significato. Mi sembra che vivano di una maggiore libertà. È così?
Credo che i testi de “Gli inquilini del sottoscala” vivano maggiore empatia nei confronti di quello che racconto. Non c’è un taglio “giornalistico”, non è una cronaca, è una lunghissima e amara considerazione e proprio per questo è totalmente libera.
Questo tipo di approccio mi ha permesso di essere più diretto, di mettere a fuoco, come dici, soggetto e significato, e di comunicare chiaramente quello che ho visto dentro alle storie che racconto.

Penso che il filo rosso che unisca tutti i componimenti dell’album sia un mettere in evidenza la necessità attuale di avere una realtà sociale dove il senso umano sia più importante e presente. È questa la richiesta che “Gli inquilini del sottoscala” fa ad ognuno di noi?
Esattamente: il “senso umano”, l’attenzione nei confronti delle persone. Per agire e cambiare è necessario, paradossalmente, fermarsi: di fronte ai fatti, ai singoli comportamenti, alle “vite” degli altri.
Con questo disco abbiamo cercato, per quanto possibile, di andare contro il “fare per non pensare”, contro l’atteggiamento utilitaristico del “risultato” (che danneggia anche il fine migliore). Più che di una richiesta, credo si tratti di un’offerta: “Gli inquilini del sottoscala” offrono un punto di vista.

Di cosa si è nutrito il disco nel suo costruirsi?
Ritorno alla prima domanda: la curiosità, ma non solo. Man mano che crescevano le idee e gli spunti, nascevano anche le ipotesi su come comunicare queste idee, su quali reazioni avrebbero scatenato. Quando scrivo o elaboro un concetto ci metto molto entusiasmo, sia nella ricerca delle fonti che in quella del linguaggio da utilizzare, direi quindi che è questo l’“alimento” principale del disco: l’entusiasmo.
Spero che non manchi mai e spero, ovviamente, che ne arrivi un po’ anche a chi ascolterà il disco.

 

 

 

Immagini       ——————————-

#tablets

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Damjan Komel

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ———————-

Ora che il tempo è passato

Valentino Ronchi, “Ma tu l’hai letto il giovane Holden?”

di Roberto Lamantea

C’è un “paesaccio”, una costellazione di borghi, di apparenti non-luoghi, attorno a Milano. A renderli uguali i riti, lo sciamare verso fabbriche e uffici, il silenzio della domenica ritmato dal ronzìo delle radioline con la cronaca della partita, o i campetti dove squadre dai nomi improbabili si disputano una coppa di cartone.
O forse no, non c’è niente di anonimo in tutto questo: ci sono mille identità, mille giovinezze che cercano il loro posto nel mondo. Valentino Ronchi lo canta, quel mondo, ne fa intuire la bellezza nascosta, i semi di umanità, la tenerezza, o persino l’amore adolescente nella stanzina-abbaino, una finestra un po’ rotta che nessuno ha mai aggiustato. E scopriamo che siamo tutti giovani Holden, che cerchiamo il nostro posto nel mondo e, forse, sappiamo che è qui, in questo campetto di terra battuta, in viale Mac Mahon, di cui nessuno ha mai visto la fine.
Il poeta lombardo pubblica da Graphe.it, nella collana “Le mancuspie” diretta da Antonio Bux, “Ma tu l’hai letto «Il giovane Holden»?”, il nuovo libro di versi che arriva dopo due titoli da Fazi, “Buongiorno ragazzi” (2019) e “Riviera2 (2021) e “Quasi niente” da FVE (2024).
Può sembrare “poesia verso la prosa”, per usare la formula di Alfonso Berardinelli, la scrittura di Ronchi, a conferma di quella “linea lombarda” che, dall’Ottocento a Sereni, l’ultimo Montale, De Angelis e tanta produzione di oggi è uno dei percorsi fondamentali della lirica contemporanea italiana.
Ma Valentino Ronchi va al di là delle definizioni, anzi si può persino dire che molti suoi versi rinviano più alla chanson d’Oltralpe (con quella malinconia ma non la disperazione esistenzialista): “E così, in questo modo ormai indolore/ cadono le mie certezze una ad una/ e ne sono fiero. E altre si rifanno/ per finire poi, domani, sul letto sfatte/ insieme ai giorni”: un mondo, aggiunge subito dopo, dove anche “i ricordi traballano, le classifiche si ribaltano,/ le cose fatte viaggiano con quelle ancora/ da fare”. Mentre la scrittura viene tesa fino all’espressionismo: “nel paesaccio bigio/abbraccato a Milano”. Nella sintassi del parlato la scrittura è torsione dello sguardo.
In una delle poesie più belle del libro, la “prim’alba d’amore” di Murilo Mendes si rovescia ed è la musica del tempo a intonare un accordo che, forse, è quello giusto: “Sicura che è con lui che vuoi/ vederti e passeggiare? E tu diresti sì, capitemi:/ prendevo il primo treno quell’inverno all’alba,/ solo per il gusto di vederlo arrivare”. E se la figura di una maestra di musica d’altri anni anche nel nome – signorina Lavìta – rinvia a Gozzano, malinconica figura tutta didattica ma di cui è facile intuire amori e malinconie – “nel suo stanzino c’è odor di vaniglia/ e avanzi ancora buoni di matita” e “un senso di tempo e d’infanzia sospesi” – tra prati spelacchiati, paesi dai nomi fantozziani, bar di periferia, ritratti come bozzetti a filo di matita, questo libro ti fa sentire – come già diceva Hoffmansthal – che la profondità della vita è nella sua superficie.

 

dal libro:

Venite, ora vi porto nell’unico vero mistero:
la quiete splendida, sospetta, silenziosa
e potente della domenica nel paesaccio bigio
abbraccato a Milano. L’alba da pellicola sensibile,
la mattina deserta, distesa, il giro il perno
del mezzogiorno, il dopopranzo immobile,
fatato, le porte chiuse, il sonno steso del vino
che corregge i versi peggiori, e Novantesimo
minuto che tutto inghiotte e sutura. Seguitemi
entriamo in questa pace simile alla miglior morte
alla miglior vita. Fermiamoci a una partita
di perenni esordienti oppure a pedinare la banda
di due amici che scavallano il confine diretti
alla città, o gl’innamoratini le mani nei jeans
al fondo bagnato dei giardini. I padri di famiglia,
sconsolati, un secolo di settimana alle spalle,
le madri con le madri a somigliarsi, le carte
sui tavoli a riposare. La festa dei giusti
e degli ingiusti, tirati assieme e confusi
nel piazzale vociante, affollato.

*

(Signorina Lavìta)

Prima fai una lunga parte del lungo viale
– Mac Mahon nessuno che io sappia,
ne ha mai visto la fine – lasciandoti portare
dal vecchio tram. A un certo punto scendi
e pieghi su Principe Eugenio, in leggera
discesa. Ancora alberi e case grigio lamé
e bruma in gennaio, se è gennaio, il principio
dell’anno. È allora che di sfondo compare
la scuola di musica. Già è al lavoro,
nello stanzino al primo piano, la signorina
Lavìta. Un poco di trucco sempre lo stesso,
due dita di tacco. Fra le sue cose nascoste
un’Odissea col testo a fronte che talvolta
pedissequamente controlla, una foto in Cenisio
dei suoi genitori e un diapason dorato
forse un ricordo, un regalo, non è dato sapere.
Archivi parziali e registri ordinati alle pareti
e un senso di tempo e d’infanzia sospesi,
a guardarci tutti che siamo dietro i vetri.

*

Ho scritto di paesi in cui non sono mai stato
di fumo senza fumare e vino che ero quasi
astemio, per quattro soldi ho parlato di libri
che non ho mai letto. Di te invece soltanto
qualche allusione, fra una riga e quell’altra,
sotto falso nome, o nel fondo nascosto
di un passaggio, di un paesaggio, parlando
d’altro. Un’immagine prestata imprestata
senza nulla chiedere in cambio, una bugia
come tante se ne dicono, scrivendo.

*

Ora che il tempo è passato, potrei venire io
fuori dalla tua aula dove insegni elegante
il greco di Alcmane e aspettarti, lì, in strada,
possibilmente al gelo, respinto sconosciuto
all’entrata dell’Università. E potrei portarti
per Milano come neanche nei giorni buoni,
al miglior lustro bistrot di Sant’Agostino,
coi lampadari accesi nel pomeriggio del nuovo
inverno. Avrei anche un paio di libri
che dovrei restituire. Così magari qualcuno
potrebbe domandare, chi è quel cagnolino
che ti aspetta, rintanato nel montgomery
alamari sbeccati, gli occhi azzurri ma opachi.
Non ce l’ha una casa dove stare, una vita
una compagna? Sicura che è con lui che vuoi
vederti e passeggiare? E tu diresti sì, capitemi:
prendevo il primo treno quell’inverno all’alba,
solo per il gusto di vederlo arrivare.

*

E così, in questo modo ormai indolore
cadono le mie certezze una ad una
e ne sono fiero. E altre si rifanno
per finire poi, domani, sul letto sfatte
insieme ai giorni, come un’amante sfianca.
E i ricordi traballano, le classifiche si ribaltano,
le cose fatte viaggiano con quelle ancora
da fare. Va bene, va bene così e vi confido,
a voi che avete letto: a me una cosa
sempre più di altre sarà piaciuta, stare
al mondo, partecipare. E su Miralago
e i suoi personaggi scende un poco poco
di notte chiara.

 

L’autore:
Valentino Ronchi (Milano 1976) ha pubblicato i libri di poesia “L’epoca d’oro del cineromanzo” (nottetempo 2016), “Primo e parziale resoconto di una storia d’amore” (nottetempo 2017), “Buongiorno ragazzi” (Fazi 2019) e i romanzi “Riviera” (Fazi 2021) e “Quasi niente” (FVE 2024).

(Valentino Ronchi “Ma tu l’hai letto Il giovane Holden?” pp. 96, 12 euro, Graphe.it Edizioni 2024)

Immagini       ——————————-

Soggetti al controllo… e tu slegati

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Franco Spanò

 

 

 

 

Voce d’autore        ————————-

E non sapevamo in che modo chiamarti

Biagio Accardo, “Esercizi di riparazione”

di Giovanni Fierro

Ma che erano i versi/ prima che fossero? Un rossore/ forse, lo sbiancare/ del viso, la trepidazione –“. È questo iniziare che dona a tutto “Esercizi di riparazione”, di Biagio Accardo, un capire che si è costruito nel tempo, esperienza dopo esperienza, nel vivo di una vita che si compie anche attraverso lo scrivere poesia.
Ma come sarà – mi dico – il ciottolo/ sì, il ciottolo di questa quarzite/ resa perfetta dal tanto rotolare,/ tanto scendere, tanto cadere”, perché il muoversi di questa sua raccolta poetica è un trovare il momento in cui ci si ferma, si osserva l’istante in cui si è immersi e lo si fissa in una parola, lo si affida ad un verso. Chiedendo così alla poesia di custodire i momenti della propria esistenza, per preservarli al tempo stesso che a volte li difende e sempre dà loro la forma.
C’è un senso profondo di spiritualità, c’è un Dio invocato, e a volte indicato, in “Esercizi di riparazione”, con la coscienza aperta nel suo affermarsi, nel dire che “riparare, rialzare, aggiustare: ci rimarrà/ solo questo da fare. Lasciamo a Dio/ la creazione, l’incessante compito/ di guidare l’invisibile filo che dal Big Bang/ conduce sino a noi”. “Ecco, si potrebbe saper qualcosa di più su Dio,/ se a questa terra non si facesse torto,/ se s’indagasse il cielo, come si studia un orto”.
Ed è poi la figura del padre, di suo padre, che trova nella poesia di Accardo la ricerca non solo espressiva, ma anche capace di mostrare un legame doppio, di figlio e di adulto, che si muove fra sentimento e pensiero critico, per farne un ritratto attento e delicato, unico e assoluto, “Eri tu padre l’uomo che andava/ per la tormenta, o era/ la tormenta che ti portava giù,/ lì dove i treni sapevano sempre/ dove andare, quando partire,/ dove fermare”. E attorno alla sua figura il misurare l’intensità che unisce comunque la famiglia, che dà la forza di dire “Perdona la ricerca degli accordi,/ le poche rime, questo fare casa/ con ramaglie di parole”.
Biagio Accardo trova nel respiro del suo scrivere poesia la risposta possibile, ancora da interrogare, ancora da rivelare, “che la vera poesia se viene, se ce la fa a nascere,/ non dovrebbe tradire quello che il gesto/ lascia nella carne”. Che Dio, padre e poesia, hanno radice forse nello stesso mistero, nella stessa sorpresa che nutre ogni pensiero a cui si appartiene, a cui si è legati e in cui ci si riconosce.
La stessa radice, sì, poiché “d’altronde non è solo morendo che un seme/ si sveglia pesce, uccello, uomo/ senza nutrire nostalgia per ciò che era?”.
Ed è propria l’assenza di nostalgia che fa di “Esercizi di riparazione” una continua affermazione del tempo vissuto, curato e indagato, mostrato nel suo legame profondo con il proprio stare al mondo.
Perché poi le poesie di queste pagine sono un invito a non buttare via, a non rinunciare a ciò che si rompe, che si danneggia. Sono “Esercizi di riparazione” con una attenzione particolare alle persone, ai sentimenti, alle relazioni. A quella forza che poi in qualche modo tiene ogni fioritura di senso nel momento stesso del proprio splendore, anche quando per vederle meglio bisogna chiudere gli occhi: “Sono belle le parole dell’amore:/ dicono quello che le viscere/ sentono e non sanno”.

 

dal libro:

Lampada ad acetilene

Mi guarda da sopra un tavolato
che l’umido ritorce, avvitata,
quasi soffocata da due grandi mani
che sapevano di ferro e di bitume.
Aloni ramati serpeggiano sul suo corpo zincato.
Basterebbe poco a ridarle vita,
poco a ridarle calore, ma voglio
che resti così, che nulla profani
lo scrigno del silenzio ove lui la pose.
Noi – qui – si faccia altra luce,
si vada per questo sentiero d’ombra,
nell’umile chiarore così a lungo generato,
così a lungo, in tante sere, sperperato.

*

A volte, quando ti svegli e vedi un cielo nero,
tinto d’inchiostro, pare che un evento
incomba, pare che un fortunale
sia lì lì a schiarire radiche e fogliame.
Ma insiste questa luce, questa evidenza
così chiara s’insinua e disattende,
s’insinua e diluisce, schiara l’aria,
e torna pure qualche voce,
s’arrischia qualche passo per la strada.
E il giudizio è ancora rinviato:
s’aggruma qualche nembo, piove,
ma non tanto da prendere un ombrello.

*

Nella tormenta

Eri tu padre l’uomo che andava
per la tormenta, o era
la tormenta che ti portava giù,
lì dove i treni sapevano sempre
dove andare, quando partire,
dove fermare. Solo tu, padre
non sapevi dove andare.
Sei stato di casa, senza aver
mai fatto casa, povero Ulisse
su un carrello ferroviario:
tu e il tuo binario, la manovella
che va su e giù, lo sguardo dritto,
la testa alta e scura, gli occhi
lontano, troppo lontano da noi,
che non tenevamo il tuo passo,
che ti correvamo dietro,
e non sapevamo in che modo chiamarti,
in che posto, per un attimo, fermarti.

*

Alberi

Alti e bruciati gli eucalipti
lungo le vie che portano al mare:
stanno per clivi, radicati
e chini, offendendo
le leggi della gravità.

Stanno, come può essere
lo stare non più equinoziale
lo stare bruciato, lo stare
soltanto, lo stare svuotato.

 

 

Intervista a Biagio Accardo:

“Esercizi di riparazione” è un invito a “non buttare via”, a non rinunciare a ciò che si rompe, che si danneggia. Non solo le cose e gli oggetti, ma anche le persone, i sentimenti, le relazioni. È corretto?
Sì, è corretto. È proprio così! La storia di ciascuno di noi, quella dei suoi atti, non deve mai coincidere con la sua vera identità, la quale è sempre un cominciamento, qualcosa cui dare volto ogni giorno.
E dunque, anche se l’uomo è tutto il suo passato, è anche incredibilmente di più, una sorta di eccedenza o una dismisura: da un lato egli è chiamato a leccarsi le ferite per le sue tante cadute, ma dall’altro sente il fascino e vive l’attesa, ma anche le doglie, di un parto come a “vita nuova”.
Ecco, siamo sempre nel nostro inizio, pronti a essere ridestati dalla meraviglia dell’essere che accade, in noi e accanto a noi, solo se gli offriamo il modo di parlare.
E dunque si entra nel domani con ciò che siamo e che portiamo. Proprio per questo la dimensione della “riparazione” è qualcosa che da sempre innerva il mio percorso poetico. E in questo percorso la poesia costituisce una sorta di memoria, memoria di “antico”, di originario, ma anche atto del risveglio interiore.
Il riparare, oltre a dare profondità allo sguardo che si apre sull’unicità insostituibile degli esseri, ci apre alla nozione di un passato di cui siamo impastati e che non possiamo abradere da noi. Ci aiuta a liberarci dall’esaltazione dell’istante e dalla predazione emotiva dell’oggetto.

E in tutto questo leggo anche un altro rapporto con il tempo, una confidenza che rende ogni legame più vero, più sentito, più sincero. Che lo fa durare. Mi sbaglio?
No, non si sbaglia. Il tempo è una realtà strana per i poeti. Non è riducibile a una sequenza di semplici istanti che si succedono inesorabilmente, ma si offre come una sorta di continua gestazione del disegno originario che in fondo siamo. Sicché “gestazione e distensione” sono sempre un’unica realtà: il tempo siamo noi che continuamente moriamo alle apparenze nel tentativo di dare volto a ciò che veramente vale la pena di preservare. E questa è l’unica cosa che conta.
Ecco, in questa prospettiva, un’attenzione particolare va concessa alla “durata”, che ha a che fare con l’attesa, ma anche con la cura, con la pazienza, col valore da dare a ciò che viviamo, perché il tempo della schiusura ci coinvolge tutti, e tutti custodiamo questa responsabilità di dare voce a ciò che viene alla luce. Insomma, o il tempo è tempo della vita o ne diventa il suo implacabile giudice.

Nel libro una presenza fondamentale è quella di Dio. Ma è un Dio che in questo suo fare poesia diventa più umano; come quando ne vuole sapere di più (“se s’indagasse il cielo, come si studia un orto”) o lo si vuole rendere più vicino (“ti abbiamo sostituito/ con qualcosa che ci somiglia”). È così?
Non posso negare che Dio sia l’ospite perenne della mia poesia; a volte è solo un invitato che tarda ad arrivare, a volte invece è molto di più, e quando è molto di più la poesia si ritrae e può anche concedersi una pausa. Credo che la poesia, tutta la poesia, viva e soffra di questa presenza che, come una nube, copre il nostro cammino.
Ecco, “Esercizi di riparazione” costituisce anche il momento di un capovolgimento del solito rapporto che istituiamo con questa presenza. Fin quando questa è posta all’orizzonte, ed è in qualche modo oggettualizzata, essa è inafferrabile e indicibile, se non per “assenza”. Ma se mutiamo prospettiva, allora il Dio che può abitare i versi di una poesia, diventa quello che l’uomo riesce a convocare nella materia dei versi, dandogli volto, conferendogli parola.
Il Dio di cui parlo non è né ricordo né sapere, ma l’accadere stesso di una bellezza che si ridesta in noi, ma anche fuori di noi. Siamo noi la parola di Dio. E Dio è questo infante che si dimena in ciascuno di noi, che cerca uno spazio, una maglia rotta per venire alla luce. La poesia, sempre, ne preserva una traccia indelebile. E ciò perché non c’è poesia che non canti una sorta di eccedenza tra parola e senso, tra segno e significato.
Poi, al ritrarsi di questa presenza, ai momenti di grazia, deve succedere lo studio, l’analisi onesta, precisa. Ma questa è vera se reca il sapore di un’esperienza e non di un sapere inutilmente erudito.

Un altro padre è molto presente in “Esercizi di riparazione”, ed è il suo. La sua vicinanza è a volte un’ombra, sempre una radice. Cosa significa per lei scriverne?
Scrivere del padre, per me, è scrivere di un’origine. E questa origine è a un tempo ombra e per altro luce. L’esserci ci è stato donato, lo abbiamo ricevuto, ma non basta riceverlo perché esso sia riconosciuto come tale. Compiacimento è il termine che lega ogni padre al figlio, ma ogni figlio reclama un’identità che può non collimare con quella col padre, e quando questo accade la distanza determina una solitudine che può angosciare. Io ho vissuto il mio esserci come un’esperienza nella quale presto si è ritratta la mano del padre, un esserci quindi che ha sempre dovuto ricominciare a rimettere mano alla propria identità di figlio. Ma ho vissuto anche la stagione in cui le parti si sono capovolte, e in cui ho riscoperto la tenerezza e la fragilità del padre.
Parlare del padre è quindi, emblematicamente, parlare del mio rapporto con l’origine e dunque anche di Dio, perché non posso negare che nel rapportarmi all’Essere, io non possa aver finito per rifarmi ai caratteri di questa relazione, ora nascosta o oscura, ora rilevantesi e gioiosa.
Per ultimo: la vita mi ha dato la gioia di occuparmi delle cose che mio padre mi ha lasciato, e così, occupandomi ancora del suo mondo e delle sue cose, ho scoperto in me saperi sepolti la cui origine era insita, ma non manifesta, nel nostro stesso rapporto; scoperto come questo mio ultimo compito sia un atto riparativo nei suoi confronti, atto che, pur non lenendo la ferita, mi ha conferito una gioia e una serenità prima di adesso sconosciute: forse, in un certo qual modo, frutto di un assenso postumo del padre.

Una cosa molto importante è anche la necessità che è alla base delle parole che lei usa, che ha scelto. Così da mettere meglio a fuoco il dire. In che modo ci ha lavorato?
Necessità e libertà sembrano indicare dimensioni diverse del nostro esserci: con la prima si ha la sensazione di spegnere il fuoco vivo della creatività in noi, ovvero di quelle che sono le nostre capacità di scegliere e darci una direzione di vita; la seconda invece esalta questo momento e parrebbe corrispondere meglio alle esigenze di ogni essere umano.
In realtà, essendo la poesia una sorta di memoria, essa è coscienza vigilante ma sommessa, consigliera discreta ma coraggiosa nell’indicarci sempre che l’unità è a fondamento di ogni scelta; essa prova a costituirsi come specchio tra ciò che esperimentiamo nel nostro quotidiano esserci e ciò che riposa nel fondale sul quale è affisso il nostro sguardo interiore.
In questa sorta di colloquio tra l’esserci e la sua sete, la poesia spinge sempre per uno sguardo rivolto alla casa da cui siamo partiti, perché solo la casa, e ciò che essa rappresenta, fonda la nostra capacità di orientarci nel mondo. E dunque non è che io abbia lavorato in un modo particolare su questo aspetto: ho solo atteso che il tempo rendesse limpida la memoria di un dono e mi desse una parola giusta per fare la mia strada di ritorno verso casa. La necessità è la casa, la libertà è la strada che scegliamo, la poesia è la parola che ci arriva a ogni crocevia del nostro cammino.

Anche l’amore è ben presente. E si presenta nel suo essere un profondo delicato. Un amore che trova il silenzio di una ammirazione, di un condividere prezioso. Quindi si può ancora scrivere d’amore senza essere banali. E come si fa?
Come si fa non lo so e non l’ho mai imparato, forse perché non è una questione di scrittura ma di disposizione. Provo a spiegarmi: all’amore è necessaria la “distanza”, distanza e non lontananza. E la distanza insegna a vedere e vedendo si conferisce il giusto peso alle parole. Sin quando ci muoviamo dentro la logica che tutto ci è funzionale e che, dunque, persone e cose “sono” nella misura in cui appagano la fame del nostro io, allora l’uomo non può fare esperienza dell’amore, perché l’amore nasce e cresce dove c’è uno spazio per venire alla luce, per farsi presenza, per essere, in fondo, dono.
La distanza, e con essa anche il silenzio che tanto atterrisce, è l’invito che porgiamo agli altri perché abitino la nostra prossimità, senza che sia loro richiesto di rinnegare nulla di ciò che sono. Dentro questa esperienza l’amore è solo riconoscenza, una sorta di gratitudine per l’altro che è. La gioia è riconoscere l’essere dell’altro, non volerlo a nostra immagine e somiglianza.

Mi viene da dire che la natura è il respiro di “Esercizi di riparazione”. Che sia un albero o una pioggia, è la sua presenza a donare atmosfera e il suo esserci a volte è come corpo che si muove, con la propria vita. Vi si ritrova in questo?
Sì, pienamente. Senza natura non ci sarebbe la mia poesia, ma credo non ci sarebbe nessuna poesia. E questo perché, in fondo, scrivere una poesia consiste nel recuperare una sorta di linguaggio che abbiamo perduto, quello dell’immediatezza, che caratterizza il manifestarsi di tutti gli altri esseri viventi.
A noi è rimasta la parola, e lo sforzo poetico è teso, non tanto all’immediatezza, quanto alla naturalezza, ovvero al felice collimare tra l’immediato, che subito svanisce, e il duraturo che solo la parola può offrire. Ma la naturalezza non è una conquista e neanche una volontà: è un approdo che si consegue solo col tempo e nel tempo, facendo tacere le tante sovrastrutture intellettuali che ci caratterizzano per riscoprire un “respiro” che è respiro comune, universale.
Ecco, nel mio poetare, cose ed esseri convocati sulla pagina sono lì in veste di “varchi”, di porte che aprono su un “inedito” del vivere che possiamo sempre portare in superficie e inverare nella nostra esperienza del vivere.
Dice San Paolo che “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”: ecco così come un fiore dice di un progetto, il frutto di un seme, un figlio di un padre, ognuno di noi è sempre ciò che lo precede, ma che resta del tutto insondato e insondabile. A restare sono solo i segni, le parole, la loro memoria, qualcosa insomma venuta alla luce, pur permanendo tenacemente nell’ombra.

Il libro è anche una continua riflessione sulla poesia, sullo scriverla; è il domandarsi del suo perché, del suo prendere forma. A riguardo ha trovato una risposta che la soddisfa?
No, una risposta a questa domanda è davvero impossibile, e penso sia prudente anche evitarla. Non che io non l’abbia cercata o proposta in qualche momento della mia vita, ma siccome ho ormai diversi anni sulle spalle, ho imparato che più si sta lontani dalle definizioni, meglio si serve la poesia.
Ecco, se riguardo al mio percorso vi trovo tante tappe: c’è quella iniziale nella quale mi occorrevano le immagini della natura o del mondo per dire, ma celandomi; c’è poi quella del cercare o anche del confessare (non granché); c’è quella pre-testuosa, ovvero quella in cui la sovrabbondanza citazionale finiva per oscurare il dato reale da cui partivo per stendere i versi.
Una volta una cara amica mi ha detto: “guarda che nelle tue poesie ci sono troppi verbi al passato”. Per me fu una scossa, capii che non potevo spremere più di tanto dal mio passato e che dovevo correre il rischio di una sorta di nuova “incarnazione”.
Desideravo una parola che non sapesse soltanto di me, ma anche e soprattutto del mondo, delle cose, che potesse situarsi senza pretendere di essere universale; che fosse imperfetta per amore del mondo e che non si amasse troppo. Ecco, il desiderio era quello di scrivere finalmente una sorta di poesia “plurale” in cui le cose non fossero un espediente per dire, una materia su cui stendere lo spessore della parola, ma che fossero esse stesse parole, esse stesse fuoco, linguaggio.
Volevo scrivere un libro come questo; il tempo mi ha dato l’occasione di farlo, non so se bene o male, ma sono contento, anche se il cammino di una poesia che voglia essere parola incarnata non è mai definitivo, e la parola è sempre messa alla prova se salvarsi da sola o portando in cielo anche un cardo o una margherita.

 

L’autore:
Biagio Accardo è nato nel 1954 a Santa Ninfa in Sicilia. Nel 2009 dà alle stampe “La notte ha lunghe radici”. Nel periodo che va dal 2010 al 2015 sue poesie compaiono su varie riviste e antologie italiane.
È del 2016 l’uscita del suo secondo libro, “Fratello in ombra”, per la Casa Editrice Aletti. Il 2019 vede l’uscita di “Ascetica del quotidiano”, per conto della Samuele Editore e nel 2022 pubblica “Luce del più vasto giorno”, collana Portosepolto, per l’editore peQuod.

(Biagio Accordo “Esercizi di riparazione” pp. 97, 15 euro, collana portosepolto, peQuod 2024)

 

 

 

 

Immagini        ——————————-

Utelešanje divjine   Incarnazione della natura selvaggia

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Anja Kranjc

 

 

 

 

Voce d’autore         ———————–

Capire il mito

Giuliana Cadelli, “Afrodite. L’arte dell’inganno”

di Anna Piccioni

Dopo “Le trasgressive – Il coraggio di dire di no”, Giuliana Cadelli, profonda conoscitrice del mondo greco e dei suoi miti, si presenta ai suoi lettori con un altro saggio in cui tratta il mito di Afrodite (“Afrodite. L’arte dell’inganno”), la dea della bellezza ma anche dell’inganno, come leggiamo nel sottotitolo.
Nell’immaginario collettivo Afrodite è la dea della bellezza, per i Romani è Venere: tutti abbiamo nella mente la meravigliosa Nascita di Venere di Botticelli, la dea sorgente dalle acque. La spuma immaginata da Botticelli è aphros, lo sperma uscito dal membro immortale di Urano che viene evirato dal figlio Crono.
La nascita di Afrodite ci viene narrata da Esiodo nella Teogonia (VII secolo a. C.). È la più antica di tutti gli dei dell’Olimpo. Nata senza madre, l’ambiguità della divinità inizia dalla sua nascita, dal doppio significato di aphros (spuma e sperma) e dal fatto che presiede alla mixis tra i sessi. La doppiezza genera l’inganno e da questa si generano le nostre debolezze, i nostri errori e la nostra fragilità.
Il mito racconta che la dea della bellezza sposò Efesto, zoppo e deforme, che la ottenne con il ricatto e l’inganno; ma altri ancora sono i paredri (chi siede accanto) divini di Afrodite o gli dei con cui si accoppia e ciascuno rappresenta quella parte che la Bellezza nasconde: Ares dio della guerra rappresenta l’opposto più logico, ma a una analisi più attenta eros e sessualità da una parte e guerra e violenza dall’altra si uniscono: “il potere del desiderio agisce come il furore guerriero, lo spossamento inferto dallo stress emotivo e sessuale, il desiderio stesso, lo stravolgimento dei sensi, tutto ciò è simile a quando si è colpiti in battaglia: perdita di forza, offuscamento della vista, cedimento delle ginocchia”; Ermes dio della comunicazione e del passaggio, messaggero degli dèi, tramite tra il mondo divino e quello umano, è il dio che spezza i tabù e si unisce ad Afrodite per la complementarità della sua funzione, e come Afrodite è un mediatore; Dioniso il dio che porta l’uomo fuori di sé, è l’inebriamento, la perdita della ragione, ebbrezza del vino, eccitazione sessuale; Eros viene “percepito come una forza implacabile, entità soprannaturale irresistibile”.
Qui sopra ho voluto affrontare una parte che considero importante per spiegare perché Giuliana Cadelli ha sottotitolato il suo libro “L’arte dell’inganno”; ma non solo, nell’introduzione l’autrice scrive: “Quando si parla di Afrodite i generi sessuali si confondono, basti pensare all’immagine della dea di Cipro: un corpo di donna armonioso e leggiadro, ornato di abiti preziosi e gioielli, che tuttavia ha una barba, uno scettro e una statura da uomo”.
Ma Afrodite non è solo questo, nei templi più antichi le statue della dea presiedono alle Magistrature, anzi Afrodite è importante nella polis in quanto viene riconosciuto il suo legame con il collegio dei gynaikonomoi (moralisti) che ha il compito di controllare la condotta delle donne, ed emanare una serie di misure per reprimere gli eccessi: “la bellezza femminile è strettamente connessa con il potere di seduzione, un potere che sfida il desiderio maschile cercando di depotenziarne il carattere egemonico e, proprio per questo, deve essere controllato”.
Questo saggio è ricco di interessanti passaggi, ogni pagina fa meditare. Non è una storia fantastica: “la società greca si qualifica e chiama continuamente in causa per determinare se stessa e i suoi aspetti fondanti, un universo simbolico fatto di esseri sovrumani, dei, che si differenziano nettamente dall’universo umano per essere immortali, athanoi”.
Ancora una volta l’autrice mette in evidenza come la condizione di inferiorità, che per secoli ha condizionato il ruolo della donna nei confronti dell’uomo, abbia la sua esegesi nei miti.

 

Dal libro:

Afrodite non è la dea delle donne; proprio contro di loro più grave può essere la sua vendetta perché sono per natura gli strumenti passivi dei suoi raggiri.
È la doloploke l’annodatrice d’inganni invocata da Saffo che ben conosce la sua potenza che si dispiega nel funzionamento perfetto del meccanismo amoroso che si nutre dell’eterno rapporto tra l’amante e l’amato; un rapporto “giusto” in cui la negazione dell’amore al pari dell’amare troppo o essere troppo amati è sempre visto come una colpa imperdonabile, fonte di disordine e pericolo per lo spazio privilegiato della città degli uomini di cui è garante.

 

Intervista a Giuliana Cadelli:

L’amore per il mondo classico è nato nei tempi della scuola, perché hai deciso da poco di scrivere due saggi su quel mondo e in particolare sui miti?
Per vari motivi, sicuramente uno degli aspetti è proprio legato a come viene percepito il mondo classico.
Oscilliamo sempre fra due poli opposti. Lo studio delle lingue antiche, del greco e del latino e del mondo classico in genere viene visto come inutile, obsoleto, superato, e in un mondo digitalizzato che guarda al futuro, all’intelligenza artificiale e a ChatGPT, chi perde pomeriggi, ore, energie ad apprendere lingue letterarie “che non servono a nulla” sembra sempre più un alieno. Oppure, proprio in nome della sopravvivenza dei classici minacciati dal mondo attuale e da presunti barbari ignoranti, del mondo classico se ne fa un oggetto di culto, fragile da proteggere e custodire come in uno scrigno…
Ecco, io ho cominciato a scrivere per andare oltre. Amo il mondo antico, credo sia fonte di bellezza, di profondità, passione, ma non per questo è depositario dell’assoluta verità. Lo amo proprio perché lo conosco o comunque continuo a tuffarmici dentro e vi trovo sempre una certa idea del mondo, non sempre condivisibile ma degna di essere conosciuta, raccontata, studiata, per capire meglio il nostro tempo.
Il mondo antico non è una reliquia intoccabile, un piccolo mondo a cui solo gli addetti ai lavori possono avere accesso; al contrario, deve essere portato fuori alla portata di tutti per conoscerlo, interrogarlo, amarlo e, se necessario, metterlo in discussione.
Gli studi sul mondo antico NON DEVONO ESSERE UTILI, non sono oggetti da usare, non devono servire, sono un tesoro di bellezza da trasmettere per collegarci alle idee, ai sogni, alle domande, alle risposte di tutti coloro che ci hanno preceduti, vivendo e pensando anche per noi. Continuiamo la loro opera.
E in tutto questo il mito è quella parte profonda che ci parla di noi, quel racconto che contiene la memoria di un popolo, e trasmette il complesso dei suoi valori attraverso la parola dei poeti. Capire il mito, conoscere il mito è un viaggio dentro noi stessi.

Sia “Le trasgressive” che “Afrodite” sono espressione del femminile, figure di donne che il mito ha reso immortali; mettere al centro della tua ricerca le donne è voler trovare l’origine della “innaturale” sottomissione della donna all’uomo?
Assolutamente sì. L’emarginazione femminile è presente ancora dovunque, frutto di una cultura dominante che attraversa tutto il globo e non ha colore, non ha religione, non ha connotazione politica. È una cultura che ancora oggi, nel terzo millennio, è tesa a discriminare la donna in quanto tale, relegandola a ruoli stereotipati e impedendone di fatto la piena espressione di sé.
E se vogliamo veramente cambiare le cose, se vogliamo un mondo dove le donne siano considerate nella loro unicità di genere, diverse dagli uomini, ugualmente belle, ugualmente capaci seppur in modo diverso, e possano uscire dai ruoli e dai modelli di riferimento prestabiliti, allora dobbiamo per forza passare per una riflessione più profonda che parta dalle origini; e le nostre sono lì nel mondo classico e nel mondo giudaico cristiano e dobbiamo fare in modo che questo non sia un pensiero per pochi, ma diventi accessibile ai più. Ritorniamo a quanto detto sopra. Credo sia fondamentale ripensare alle nostre radici e andare a vedere “dove” e “come” tutto è cominciato.
Non possiamo non ricordare che Aristotele il filosofo dell’ipse dixit afferma con assoluta certezza nella Politica che “Il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore, l’uno atto al comando, l’altra a obbedire. È quindi necessario che questo sistema di rapporti regni tra tutti gli uomini”.

Una ricca bibliografia accompagna il tuo saggio, in modo particolare ci sono molte citazioni e riferimenti alle opere di Nicole Loraux. Chi era NicoleLoraux?
Io, come tutti e tutte coloro che si occupano di mondo classico e di gender system sono profondamente debitrice agli studi di Nicole Loraux che ho conosciuto, studiato ed apprezzato sin dai primi anni dell’Università grazie alla mia insegnante Ileana Chirassi Colombo, storica delle religioni, recentemente scomparsa a cui va tutta la mia gratitudine.
Ileana Chirassi Colombo, professoressa ordinaria di Storia delle Religioni presso l’Università degli Studi di Trieste, è stata in Italia la più innovativa e originale studiosa nell’affermare uno studio delle religioni storico, antropologico e laico in una prospettiva interdisciplinare e in questo assolutamente in linea con Nicole Loraux.
Nicole Loraux (1943-2003) è stata una pioniera degli studi classici di genere. È stata una filologa e storica francese, che ha proposto una rilettura originale e metodologicamente innovativa del femminile nella Grecia antica. Formatasi all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, affiancata dal maestro e famoso storico delle religioni Jean-Pierre Vernant, viene oggi riconosciuta come una tra le maggiori intellettuali francesi del secondo Novecento.
Il suo pensiero si muove, infatti, coniugando insieme storia, letteratura, antropologia, filosofia e psicoanalisi, senza mai adagiarsi in modo esclusivo su nessuna disciplina accademica. Attraverso i suoi studi ha fatto riemergere l’importanza dell’universo femminile per lungo tempo oscurato ed escluso, restituendolo a pieno titolo al processo storico degli studi classici e della tradizione filosofica occidentale.
Il presupposto dei suoi studi di genere si basa sulla convinzione che il femminile greco – escluso o nascosto – debba essere fatto emergere dalla storia, interrogando i suoi non-detti. La sfida è quella di occuparsi così di chi non viene considerato artefice della storia (le donne, in primis), ma sembra subirne solo le conseguenze e figurare solo come soggetto passivo.
Tanto più che la donna indagata da Loraux è principalmente quella ateniese colta nella sua quotidianità, la cui virtù consiste nel vivere una vita quanto più chiusa e segreta possibile.

Afrodite per l’immaginario collettivo è la dea della bellezza, è Venere: è la dea dell’inganno? o è la bellezza che inganna indifferentemente se maschile o femminile?
Non è la bellezza in sé ad ingannare, ma è Afrodite ad ingannare. Ma Afrodite è un inganno necessario per il mantenimento di un mondo in cui i ruoli di genere sono ben definiti. Afrodite è necessaria perché attraverso l’eros di cui è signora, fa da ponte da trait d’union tra l’uomo e la razza altra delle donne.
Lo fa attraverso le armi della bellezza e della seduzione funzionali all’unione eterosessuale essenziale alla riproduzione. Ed è qui l’inganno più sottile. Il mondo greco sottolinea più volte con Eschilo, ma ancor più con Aristotele, come nell’atto riproduttivo è il maschio ad essere fertile mentre la femmina è solo la materia inerte seppur necessaria.
Afrodite come signora della riproduzione sessuata è maschio, tuttavia utilizza sapientemente la maschera del femminile per rappresentare un cosmo e un sistema di valori funzionali all’uomo in opposizione alla donna. Usa quindi tutte le armi della bellezza, della persuasione, della seduzione, per depotenziare il femminile dall’interno e suggellare una distribuzione di ruoli che assegna al maschio il ruolo di soggetto attivo e alla femmina quello di oggetto passivo. Suddivisione che da millenni purtroppo continua a dominare le nostre vite.

Oggi abbiamo bisogno ancora del mito?
Certamente, ne abbiamo bisogno ma dobbiamo anche in questo caso riflettere su cosa significa mito e come attraverso quel tipo di racconto possiamo cogliere alcune verità che spesso rimangono celate.
Basti pensare all’utilizzo che ne fece Platone che, pur critico verso i miti tradizionali, non esitò a utilizzare il mito come uno strumento per comunicare le proprie dottrine in maniera più accessibile ad intuitiva; attraverso il mito, Platone potè trattare di realtà che vanno oltre i limiti dell’indagine razionale. I miti non sono racconti fantastici, favolette della buona notte. Sono le storie che ci parlano della nostra essenza, ci parlano di noi e lo fanno attraverso il thelgein, verbo che esprime l’incantamento, la seduzione, una magia che incanta e arriva direttamente all’anima di chi ascolta. Non è casuale che è il verbo che più di ogni altro esprime l’effetto del canto delle sirene.
Il mito è espressione profonda dell’io segreto dell’uomo, è un racconto che inventa se stesso ogni volta in modo nuovo, regolamentando il presente e l’attuale. Per questo ne abbiamo assolutamente ancora bisogno, o per lo meno abbiamo la necessità di conoscerlo, di svelarne i meccanismi per conoscere noi stessi e la nostra realtà.

 

L’autrice:
Giuliana Cadelli è nata a Trieste nel 1968 dove ha sempre vissuto. Nel 1994 si è laureata a pieni voti in Lettere Classiche presso l’Università degli Studi di Trieste, con una tesi in antichistica sulle rappresentazioni e le funzioni di una grande dea greca, Afrodite e l’organizzazione simbolica del gender system.
È stata cultrice della materia collaborando alla cattedra di Storia delle Religioni dell’Università degli Studi di Trieste. Da anni studia mitologia, storia religiosa del mondo antico e organizzazione simbolica dell’identità di genere con uno sguardo particolare alla condizione del femminile nel mondo antico.
Nel 2021 ha pubblicato “Le trasgressive, Il coraggio di dire no. Modelli di disobbedienza femminile nel mondo antico” edito da Battello Stampatore, da cui è stata tratta anche una pièce teatrale.

(Giuliana Cadelli “Afrodite. L’arte dell’inganno” pp. 232, 20 euro, Battello Stampatore)

 

 

 

 

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Odsoten pogled   Sguardo assente

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Aleksander Peca

 

 

 

 

Tempo presente      ————————

Senza avere un vuoto da colmare

Tre testi inediti

di Ivan Pozzoni

La mia depressione è chimica

Ci sono giornate che non ti alzeresti dal letto
non so se è questione di chimica o se son solo matto,
non vedi l’ombra di un futuro, no future, punkabbestia senza cane,
ti senti Mansell, in Williams, abbandonato a una chicane.

Non senti niente da dire, non trovi tasti da battere
la noia ti strangola dentro da non riuscire neanche a combattere
l’idea di te, inutile, l’idea di te, insensato, idee senza senso
non resta che stringere i denti e attendere i frutti di un altro scompenso.

Ci dicono che non funzionino noradrenalina e serotonina
pareggiano imbottendoti i sensi di dopamina e fluoxetina,
il tuo io, schiacciato tra ansia e euforia, è un puck sparato sul ghiaccio
e recita joie de vivre senza copione, farneticando a braccio.

La disoccupazione è al 15%, c’è coda sul reddito di cittadinanza,
i ratings italiani barcollano in mano agli squali dell’alta finanza,
nei grafici del nostro bilancio mi manca l’ascissa:
o sono alienato o io sono sano e l’Italia è depressa.

*

La vita agra

Sono curioso di conoscere se, una volta iniziato il testo
smetterò o meno di battere sui tasti,
lasciandomi avvincere dalla noia di non scriver in anapesto,
lasciandomi abbarbicare da un dolore che da dentro mi devasti.

Lascio andare la rima come chi non ha cose da dare
scrivo dove non c’è scritto niente
senza avere un vuoto da colmare
come se ogni lettera rappresenti un incidente.

Respiro lento, come un malato di Covid in riabilitazione,
ai bronchi lascio l’aria e ai nervi la disperazione,
non mi va di strozzarmi col cordone ombelicale
e rassegnare ogni mio bene alle aule del Tribunale.

Lockdownizzato fuori e carcerato dentro
balbetto nenie come un Guglielmo Hotel senza degnar d’un centro
la vita agra che da cinquant’anni mi accompagna
a scriver versi che sappiano di lagna.

*

Odio Mishima e Majakovski

La lettera che ti ho spedito ieri
non è mai arrivata a destino
era la più triste dei canzonieri
sarà la sfiga, sarà il declino.

Odio Mishima e Majakovskij
hanno avuto il coraggio, la nostalgia
il nichilismo di Bukowski,
di non ricoverarsi in cardiologia.

Lombardia mia, Lombardia in fumo
respiri Tavor Valium e Serenase
che fanno bene all’epitalamo
sempre presenti nei nostri beauty-case.

La lettera che ti ho spedito oggi
non so se è arrivata a destinazione
l’ho cercata invano tra i necrologi
dei morti vittima di distrazione,
l’ho cercata tra le lapidi mortuarie
tra i morti senza informazioni intestatarie.

Odio Majakovskij e Mishima
hanno avuto la forza e le mani
senza alcun filosofema
di scrivere la lettera di domani.

 

L’autore:
Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi, tra le quali “Underground e Riserva Indiana”, “Versi Introversi”, “Mostri”, “Galata morente”, “Carmina non dant damen”, “Scarti di magazzino”, “Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni”…
È stato fondatore e direttore della rivista letteraria Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è stato fondatore e direttore della rivista letteraria L’Arrivista; è stato direttore esecutivo della rivista filosofica internazionale Información Filosófica.
Il suo volume “La malattia invettiva” ha vinto il premio Raduga, menzione della critica al Montano e allo Strega. I suoi versi sono tradotti in diverse lingue.
Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).

 

 

 

 

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I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

di Ignazio Romeo

 

 

I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà”, esposizione d’arte contemporanea ispirata a Franco Basaglia, ha presentato trentanove artisti isontini e sloveni, negli spazi espositivi dell’Auditorium della Cultura Friulana di Gorizia, dal 1° febbraio al 2 marzo 2025.
L’iniziativa rientra nel programma di GO! 2025 – Nova Gorica e Gorizia Capitale Europea della Cultura.
La mostra è stata organizzata e curata dall’associazione culturale per le arti contemporanee Prologo, in collaborazione con il Comune di Gorizia, con il critico Giancarlo Pauletto e con l’artista Franco Dugo.

 

 

 

Intervista a Franco Spanò:

Presidente dell’associazione Prologo e co-curatore della mostra “I luoghi dell’incertezza e le emozioni della libertà

La mostra è dedicata alla figura di Franco Basaglia, che nella salute mentale ha fatto davvero una rivoluzione. Ha portato la follia ad essere una componente riconosciuta ed accettata di ognuno di noi. In che modo gli artisti hanno quindi esplorato il tema follia, e in che modo la consideri in ambito artistico?
Il pensiero di Franco Basaglia e la sua lotta per la riforma psichiatrica hanno cambiato radicalmente il modo di rapportarsi della società con le malattie mentali. Il suo operato ha contribuito a smantellare gli ospedali psichiatrici e a formulare una nuova concezione della cura psichiatrica, dove i pazienti erano messi al centro dell’attenzione e erano chiamati a gestire direttamente le comunità terapeutiche, contribuendo essi stessi alla cura della propria malattia.
Il suo pensiero e la sua azione rivoluzionaria lo resero pioniere della lotta per i diritti delle persone con disabilità mentale e non solo. La sua eredità rimane un punto di riferimento per tutti coloro che credono nella possibilità di costruire una società più inclusiva, solidale e libera.
Ma cosa è la psiche? Possiamo immaginarla come idea di “soffio”, come il respiro vitale, l’anima. Con molta meno poesia la definiamo la totalità delle funzioni e dei processi che danno all’individuo l’esperienza di sé e del mondo che lo circonda e che, di conseguenza, generano il suo comportamento e le sue reazioni.
Tutti noi, che siamo all’esterno di ogni singolo individuo, come possiamo comprendere la sua esperienza? Se non conosciamo o se non intuiamo il suo sé, il suo mondo, come lo possiamo capire?
E un’opera d’arte, quanto racconta dell’interiorità di un artista? Possiamo intuire la sua esperienza guardando l’opera, non solo dal lato estetico ma anche da quello introspettivo, cercando di sondare e analizzare lo stato psichico soggettivo?
I lavori presenti in quest’esposizione non si sono limitati a illustrare Franco Basaglia, la sua ricerca e il suo impegno per migliorare la psichiatria, ma hanno raccontato anche lo stato d’animo di una raggiunta libertà espressiva ed emotiva; ci hanno narrato le “scivolate” della mente oltre il limite consueto e ci hanno accompagnato nelle tenebre dell’inesprimibile.

Tanti gli autori e diverse le tecniche artistiche usate. Qual è il filo rosso che lega tutti questi lavori?
Per molti artisti questa è stata un’occasione per riascoltare le voci e le testimonianze di chi ha conosciuto Basaglia, arrivate a noi grazie agli scritti, alle interviste, alle opere di quanti hanno voluto rendergli omaggio fino a qui, riflettendo così sul suo pensiero e sulle sue azioni.
Dopo aver visto i lavori e aver collaborato al loro allestimento credo che, in primo luogo, sia giunto il messaggio che la “persona” deve essere messa al centro dell’attenzione della società, non il simbolo dello status sociale ma l’uomo come entità reale. Poi che la “libertà” raggiunta deve essere protetta e ampliata, Basaglia con la sua forza, con le sue azioni, correndo gravissimi rischi è riuscito a togliere i legacci fisici alle persone internate (camice di forza e manicomi, barriere tangibili); ora sta a noi procedere su questo importante cammino, abbattendo le barriere mentali, slegarci da costrizioni e preconcetti, non libertà anarchica ma la libertà nel rispetto, nell’assunzione di responsabilità, nell’accettazione … in pratica il senso di GO!2025.
Inoltre, come ha fatto notare Giancarlo Pauletto che ci ha aiutato nella cura dell’esposizione, l’artista, parlando in generale, è una persona che ricerca, che tende a risultati dei quali spesso non è soddisfatto, difficilmente si accontenta, o si accontenta per un po’ e poi riparte in traccia di qualcosa d’altro.
È insomma conficcato nella vita e nei sentimenti spesso contrastanti che essa suscita, ne può essere entusiasmato ma anche profondamente addolorato o addirittura disperato, e non occorre necessariamente pensare a Tasso o a Van Gogh per convincersi di questo.
È difficile che un artista sia realmente, intimamente “dogmatico”, uno sempre sicuro di sé, uno privo di dubbi. Proprio per questo con più facilità può mettersi in sintonia col disagio mentale, con il dolore, con il senso di esclusione che è forse la sofferenza più grande che il malato psichico deve sopportare.

La mostra è anche una sorta di geografia artistica della realtà goriziano isontina e della più vicina parte slovena. Cos’ha di così particolare questa realtà espressiva? Quali i suoi caratteri principali e peculiari?
Credo che le tensioni politiche e sociali che per molti anni si sono annidate nell’animo delle persone che vivono in questa terra abbia segnato profondamente il carattere e l’espressività di tutti noi. Per fortuna la natura ci aiuta a superare i confini.
Per esempio, per molti il Sabatino è un monte che chiude Gorizia a nord, non è un monte sloveno, naturalmente fa parte del nostro territorio e nessuna scritta gli farà cambiare il senso di presenza che ci fa sentire. Per l’Isonzo è uguale, scorre e attraversa il confine, non lo marca ma con la sua bellezza lo oltrepassa con naturalezza.
Per l’arte succede la stessa cosa, è bellezza e naturalezza a prescindere dalla storia. Gli artisti italiani e sloveni si sono sempre frequentati, si sono guardati, si sono parlati, si sono copiati….
Se non mi sbaglio non dobbiamo dimenticare che a Gorizia nel 1924 c’è stata forse la prima esposizione d’arte che includeva a pieno titolo autori del Litorale. La teoria esposta dal caro Luciano de Gironcoli sulla possibile Scuola di Gorizia ne è un chiaro segnale. Una commistione, per certi versi anche inconscia, tra la pittura e il colorismo derivante dall’influsso veneziano e il segno e la grafica derivante dall’influenza slovena e forse anche austriaca, ha creato un modo di fare arte particolare, presente in molti autori del nostro territorio, dove le due modalità espressive hanno la stessa forza, lo stesso peso nella composizione. Una visione interessante che andrebbe ulteriormente indagata.

Perché poi questo è l’anno di Nova Gorica e Gorizia capitali culturali dell’Europa… cosa ne pensi a riguardo?
Spero che nel suo svolgimento diventi un’occasione di ulteriore avvicinamento tra le due realtà. Sinceramente i principali progetti che per ora sono scritti sul Bid Book non mi hanno entusiasmato. Spero invece che tutti i piccoli progetti derivanti dal bando Gect avviino una collaborazione tra le associazioni del territorio transfrontaliero, attività che lasci una traccia durevole sia nei contenuti che nelle relazioni. Sappiamo benissimo che il problema principale per la comunicazione tra le parti è la lingua; per fortuna moltissimi novogoriciani (si dice così?) parlano da sempre l’italiano, per cui ci affidiamo alla loro capacità di conversazione per progettare gli aventi comuni.
Per le nuove generazioni è diverso, parlano l’inglese da ambo le parti per cui il problema per certi versi non si pone. Però mi aspettavo uno sforzo da parte delle istituzioni che ci governano, per l’inserimento dell’insegnamento almeno delle basi delle due lingue nelle scuole primarie, in modo che la cultura avvicini ulteriormente le popolazioni, cosa che però non è avvenuta, peccato.
Se le due città sono state prese a titolo d’esempio europeo come rapporto aperto tra le genti di stati diversi, allora forse bisognavo sottolineare decisamente questo aspetto, anche per noi stessi che forse viviamo inconsciamente una unicità relazionale.
Certo, una grande mostra attira il pubblico, fa girare l’economia, ma la cultura transfrontaliera e l’accettazione del “diverso” come si comprende, come la percepisce il visitatore delle due città? come si rafforza tra di noi?
Inoltre una grande mostra d’arte attira molto pubblico, ma perché non creare tutto attorno e in varie sedi una serie di piccole esposizioni dove presentare gli autori locali, così l’interessato d’arte ha modo di vedere come la cultura locale si esprime nelle varie forme artistiche?

Franco Spanò è curatore della mostra ma anche artista che vi partecipa. Ci vuoi ‘raccontare’ il tuo lavoro “Soggetti al controllo… e tu slegati”, che è nella selezione dei lavori esposti nella mostra che qui presentiamo?
Ho ripreso e modificato un lavoro del 2013. Si tratta di una immagine che ha diversi “sbarramenti” che si incrociano, che nascondono e limitano un bosco che si intuisce esserci alle loro spalle. Questi impedimenti sono fatti di diversi materiali e con diverse forme, anche di luce, indicando che le restrizioni che ci separano dalla natura sono di diversi tipi.
Una frase indica: “soggetti al controllo“. Perché anche se non lo vogliamo ammettere siamo imbrigliati in strutture che non ci appartengono; anzi, parlo per me, anche inconsciamente credo di essere limitato nell’agire da ostacoli che arrivano dal di fuori, che non ho scelto ma che mi sono stati imposti dalle strutture che mi circondano, la politica, la religione, l’economia, l0 status sociale, la consuetudine ….
E tu slegalo” è una frase pronunciata da Basaglia quando gli chiesero come agire nei confronti di alcuni pazienti contenuti. Allora ho parafrasato questa frase importantissima che indica tutta la potenza del pensiero di Basaglia, che con le sue idee e le sue azioni ha demoliti i confini fisici, riferendola in prima persona. Così oggi, per presentare questo lavoro al pubblico e ricordarmi che il lavoro su me stesso non è per niente finito, anzi, ho aggiunto “…e tu slegati“. È un invito a me stesso ad adoperarmi nello sciogliere i legacci mentali e a liberarmi da costrizioni e preconcetti, invito che allargo a tutti.

 

Il curatore e artista:
Franco Spanò è nato nel 1966 a Gorizia dove vive e lavora.
Fotografo autodidatta, dal 1993 ha partecipato a diverse esposizioni personali e collettive.
Dopo aver frequentato il bianco e nero, dall’anno 2000 passa allo studio del colore.
Negli stessi anni incomincia la sperimentazione e l’utilizzo della tecnica dell’esposizione multipla, in genere da due a quattro scatti sovrapposti, eseguiti con apparecchio reflex analogico.
Dal 2005 organizza e dirige le attività dell’associazione culturale per la promozione delle arti contemporanee “Prologo” di Gorizia.

Le fotografie di Spanò sovrappongono immagini, ricordi, sentimenti, parole. Ritraggono paesaggi, alberi, mari, castelli, foglie, raggi di sole. Come quando passeggiando si lascia il pensiero libero di vagare e lo sguardo si fa insieme esteriore e interiore, indifeso: è lì che è possibile una rivelazione, è lì che si può ritrovare lo stupore e l’incanto dell’esserci” (Franca Marri)

 

www.prologoart.it

 

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.