Fare Voci di maggio 2025 è un rinnovato appuntamento d’incontro.
E questo mese con particolare attenzione con il fare arte di Vittorino Curci. A partire dal suo nuovo libro di poesie “Tutto il resto è letteratura”, per poi proporre una selezione di suoi disegni, del periodo 2021-2025, e anche un suo reading poetico, dove si mostra anche come musicista, al sax.
La poesia è anche nella nuova raccolta di Cristina Micelli, “Battiti sottotraccia”, negli inediti di Marco Di Pasquale, in una selezione di testi che anticipano la sua nuova e prossima uscita editoriale, e in quelli di Giovanni Granatelli.
Ed è anche quella degli autori palestinesi ospitati nell’antologia “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”, documentazione drammatica di una tragedia sotto gli occhi di tutti.
Alessandro Agostinelli ci porta il suo testo inedito “Autoconfessione e Ucraina tramite Justin Quinn”, raccontandoci di sé e facendoci conoscere questo importante autore irlandese.
Il ti racconto è nel nuovo romanzo di Leandro Lucchetti, “Polveri di matrimonio”, e nel racconto “Della difficoltà di educare figli inesistenti”, tratto dalla raccolta di racconti “Cartacce” di Jacopo Masini.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
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Disegni 2021-2025
Nove opere
di Vittorino Curci
Voce d’autore —————-
Il passaggio all’imperfetto mi spingeva a fare tardi
Vittorino Curci, “Tutto il resto è letteratura”
di Giovanni Fierro
Entrare nel fare arte di Vittorino Curci è permettersi un viaggio in più dimensioni, che si sviluppano in modo autonomo, si sfiorano, vanno a confrontarsi.
E questa sua nuova raccolta poetica, “Tutto il resto è letteratura” è la piacevole scusa per cui in questo numero di Fare Voci parliamo del suo fare poesia, proponiamo una selezione di suoi dipinti e un reading musicato da lui stesso.
È bene iniziare da queste sue nuove pagine, dove il suo dire si fa paesaggio, non a caso; una raccolta di paesaggi, ai quali ci si può avvicinare con uno sguardo che ha la finitezza dell’attenzione pittorica e la cui libertà di composizione si manifesta in totale libertà, così vicina da poterla indicare, poterla toccare.
“In quell’imbroglio di immagini/ i bambini tracciavano con le braccia/ ampi cerchi nell’aria. era l’estasi/ della loro momentanea immortalità”. Ovvero l’immagine, il gesto e il tempo. Queste le tre coordinate per individuare lo spazio dove la sua poesia accade, il luogo riconosciuto dove “le cose che non ricordo non sono mai esistite” e che “quel poco che era possibile prevedere non ha tradito./ men che meno la buona solitudine”. Vittorino Curci con questo nuovo libro trova ancora di più parole e frasi che vogliono rimanere, che non si arrendono alla dimenticanza.
Che poi questi paesaggi/poesie sono il riflesso di paesaggi interiori, sedimentati nel proprio vissuto e indicati dall’attrito con il tempo attuale, che consuma ed innesca, sciupa e accende.
Anche nel difendere quel mistero che comunque, ancora e sempre, ci sorprende e ci dona la sorpresa: “non so come sia accaduto e quando. ma ora/ l’inizio è un tempo sovrapposto che resta in mezzo/ e aspetta”.
Vittorino Curci esplora il mondo che rimane, ciò che sopravvive per disperazione o per gioia, che si confronta sempre con la parte livida e tumefatta di una società sempre più in crisi, il cui unico talento oramai è quello di inventare ogni giorno una atmosfera sempre più irrespirabile.
Ma è in questa dimensione che la sua scrittura trova gesti che si oppongono, riferimento vitale del proprio resistere: “nelle gravine delle mie notti/ si accapigliano la realtà/ dei metri e l’infinito dei sogni”.
Il fare arte, il costruire cultura, è il capire che è fondamentale non fermarsi in superficie, non accontentarsi, rinunciare al primo piano per vedere meglio cosa c’è nel campo lungo, “non guardare questi muri/ queste case/ ma le luci in fondo alla strada/ il cielo che sta dietro”.
Truffaut diceva che fare un film è narrare una storia, ma anche il mostrare cosa si intende per cinema. E “Tutto il resto è letteratura” è anche un raccontare il pensiero che l’autore ha della poesia. Con considerazioni che, per chi legge, sono appunti da prendere e da imparare: “Il presente della scrittura è l’esatta ricognizione di/ tutte le cose perdute sulla linea di confine”, “le parole hanno la premura di aspettarci/ (a volte anche per anni) nei posti/ più impensati”.
Curci trova in questo suo nuovo appuntamento con la parola scritta anche il ritratto preciso dell’insicurezza che nutre la nostra società attuale, e lo fa con parole calibrate, che non hanno bisogno né di rimbombo né di ostentazione, le parole giuste, calibrate nel ventre di una verità, “forse vogliamo troppo (il molto di qualcosa che non conosciamo)”. Lo scrivere contenuto in “Tutto il resto è letteratura” è il punto esatto da cui ripartire.
dal libro:
l’autocombustione delle ere secche
e le frasi lasciate a mezzo quando la bravura
va a male e il lume della solitudine
è miserevole virtù dei giovani
sei tu o sono io, che importa?
le luci della stazione non sono più vincolate
allo sguardo che piega l’orizzonte.
le cose che non ricordo non sono mai esistite
*
1.
aspettare il momento sentirlo
quando arriva come un punto coronato
perfetto è terribile perché niente
è perfetto i colori sono stanchi
l’uomo scende dal taxi e torna in albergo
sulla brutta copia del mondo
erano ben tracciate le crepe del presente
l’orizzontalità di una comunione abbietta
ignora i suoni dell’estate
si scrive per toglierne il rumore
2.
possiamo tirare giù lo sfondo e pigiare
gli immortali in un mare di piccoli sogni
e giorni lenti ci basterebbe poi scavare
una strada di automobili e bestie
per tutto il tempo che resta
nell’arte di sfrondare la morte ci fa
un gran bene il rumore viòla ci oltrepassa
ma quelli sono sordi ai flagelli della notte
ci buttano fuori e saremmo dei lupi
se non avessimo una lingua che trattiene
*
Lampi di magnesio
su infiorescenze tardive ossa sbiancate
cavalli in salita fugge da se stesso
con una gamba rotta il dopo che era facile
così dicevano tutti dicevano al montare
dell’onda sotto la polvere di grafite si fa
più veloce il picchiettio dei morti sui muri
tra non molto non resterà più niente
*
l’oggetto che vive se è guardato
se non smette di parlare
dell’eternità e dell’istante
nei luoghi della prima volta
scontorna l’avvenire del passato
ma resta incompiuto nel suo
piccolo inverno, senza ormeggi
come una nota carpita
al silenzio – altro paradosso
del vivere – e sciogliendo
il pianto per ogni vita che è stata
*
risali al dimenticato, all’unica volta immobile
tra due lunghe file di alberi.
avevi già in mente le tue parole
la flaccida giustizia dove ogni povertà
è ricchezza, ma è qui che hai scelto di vivere
e morire, è qui che biascicano i tuoi fratelli
anime frante sulla linea orizzontale del tempo.
agli imbelli che congiurano alla luce del sole
prospetti il significato di un secolo
che accresce il valore dei sopravvissuti
Intervista a Vittorino Curci:
Mi sembra che in questi tuoi nuovi testi, il tuo fare poesia è un dire che diventa paesaggio. Una raccolta di paesaggi, ai quali approcciarsi con uno sguardo quasi pittorico, e dove la libertà di composizione è manifesta, la si può indicare. Mi sbaglio?
No. Hai colto con precisione una delle idee fondamentali del mio modo di fare poesia oggi. Non ho mai pensato veramente a “un dire che diventa paesaggio” (bellissima immagine), ma la sostanza è quella: più passa il tempo, più mi convinco che la poesia non sia altro che una pura contemplazione del linguaggio.
In effetti, cosa facciamo davanti a un paesaggio? Lo contempliamo in silenzio. Ed è proprio ciò che consiglierei ai lettori per rapportarsi a questi miei nuovi testi. E consiglierei anche di tener conto di un fatto importantissimo, almeno per me: credere nella poesia vuol dire credere nel linguaggio della poesia.
Il che vuol dire che, al di là dei temi trattati, più o meno evidenti, il suono di una poesia, la sua forma e il suo ritmo producono continuamente senso.
E sono paesaggi che in qualche modo riflettono altri paesaggi, interni e propri, di pura percezione nel momento in cui l’esterno è il luogo dove riflettere ciò che si è…. C’è (anche) questa dinamica in “Tutto il resto è letteratura”?
Sì, è tutta una continua dialettica tra mondo interno (con la sua parte inconscia) e mondo esterno, significante e significato, immaginazione e ragione, io biografico e storia collettiva, poesia (intesa come linguaggio) e realtà, non dimenticando mai comunque che la poesia non è una cosa astratta ma un fatto concreto in quanto anch’essa fa parte della realtà.
Ogni testo contiene una verità, che sia una frase, un pensiero, un gesto (“presente e passato stanno insieme con molte dimenticanze”, “il raccolto è magro e le cose più lontane si toccano”, “gli spaventi, i treni che ho perso”, “la non garanzia del tempo è polvere di grafite”…). È come se nella coralità del testo si possano cogliere degli attimi destinati a rimanere, capaci di un riverbero fondamentale, a cui affidarsi. È così?
Non c’è poeta al mondo che in cuor suo non speri che rimanga qualcosa del proprio lavoro. Anche una sola poesia. Anche un solo verso. E per quanto si possa essere chiusi in se stessi (o isolati dagli altri) non bisogna mai dimenticare che noi esseri umani viviamo in società. Se non fossimo animali sociali, l’arte la musica la letteratura neanche esisterebbero.
Può sembrare un paradosso ma per me il più grande contributo che la poesia dà alla società è la sua stranezza e la sua sostanziale asocialità. Nella poesia c’è una forza spirituale invincibile che può trasformare il pensiero delle persone. Per attivare questa forza è necessario creare una frattura, un’interruzione dei processi ordinari con i quali approcciamo la realtà. È, insomma, “l’incespicare” di cui parlava Montale.
Il testo di pagina 68 ha un passaggio molto importante: “forse vogliamo troppo (il molto di qualcosa che non conosciamo)”. Mi viene da pensare e da dire che questa frase è il ritratto preciso dell’insicurezza che nutre la nostra società attuale. Cosa ne pensi a riguardo?
Oggi sono sciolti tutti i legami che tenevano insieme la società di un tempo. Sono cambiati i rapporti personali, i modi di lavorare, pensare, comunicare, desiderare, consumare. Siamo dominati da una ideologia della crisi e dell’emergenza. L’utilitarismo, con i suoi parametri quantitativi (come l’efficienza e la produttività), è l’unico criterio con cui si giudica e si viene giudicati. Dappertutto regna il presentismo, cioè un’idea della vita come pura immanenza.
Ne consegue che il passato e il futuro non sono più quelli di una volta. Il passato non serve a niente. E al futuro è meglio non pensarci perché è solo fonte di preoccupazioni, angosce e paure.
Oggi i confini tra la realtà e l’immaginazione sono sempre più incerti. Nel 2008 il comico Antonio Albanese si inventò il ministro della Paura e il sottosegretario all’Angoscia (che assumeva continuamente stupefacenti e psicofarmaci). Nel 2018 la Gran Bretagna ha nominato ufficialmente un ministro della Solitudine per far fronte ai disagi che la solitudine può provocare a livello emotivo, fisico e sociale. Ancora una volta: vero e falso, realtà e immaginazione.
Le parole non valgono più niente. Ecco perché oggi abbiamo più che mai bisogno di poeti.
“Tutto il resto è letteratura” è anche una continua considerazione sullo scrivere poesia. Come il finale del testo di pagina 33, “è un sollievo sapere che l’autobiografia è già scritta negli/ spazi bianchi tra le parole o nelle incrostazioni prodotte/ dalle innumerevoli cancellature”, o passi come “il presente della scrittura è l’esatta ricognizione di/ tutte le cose perdute sulla linea di confine” oppure “le parole hanno la premura di aspettarci/ (a volte anche per anni) nei posti/ più impensati”… È un bisogno/desiderio di confrontarsi sempre con ciò che anima lo scrivere poesia?
La poesia moderna è spesso contraddistinta da elementi metapoetici. Basti pensare a “I limoni” del giovane Montale. Lo stesso titolo del mio libro, “Tutto il resto è letteratura”, rimanda alle ultime parole di una poesia del 1874 di Verlaine, “Art poétique”, nella quale il poeta ci ricorda che prima di tutto viene la musica, poi occorre scegliere le parole con qualche imprecisione affinché all’esatto si unisca l’incerto. Solo così può torcere il collo all’eloquenza e raggiungere altri cieli e altri amori. La conclusione di Verlaine è questa: “Il tuo verso sia l’avventura buona/ sparsa al vento increspato del mattino/ che va sfiorando la menta e il timo…/ E tutto il resto è letteratura“.
Aggiungo un’altra breve, brevissima considerazione. Tanta poesia degli ultimi decenni si presenta, oggettivamente, come poesia per poeti, caratteristica non estranea al mio mondo poetico. Per molti autori contemporanei la poesia e la riflessione sulla poesia viaggiano insieme. Naturalmente si può anche non essere d’accordo su questo. Va da sé che ognuno ha il diritto di scegliere la propria strada.
In questo numero di Fare Voci proponiamo anche una selezione di tuoi lavori pittorici. Da che cosa prendono spunto? Quale il legame che li tiene vicini?
Io, sin da quando ero piccolo, ho sempre disegnato. Lo faccio ancora oggi con una certa frequenza, pur considerando la poesia la mia principale attività artistica. Disegnare per me è un ottimo esercizio per attivare la parte destra del cervello. Un esercizio che mi rilassa e allo stesso tempo mi fa scoprire, attraverso processi analogici (allusioni, similitudini, libere associazioni ecc.) parti inesplorate del mio immaginario. È così che metto insieme i miei materiali da costruzione.
Nel loro mostrarsi, il gesto è molto importante, deciso, eppure è sempre in sintonia con gli altri soggetti e le forme che riempiono l’immagine e i colori che ne rivelano lo spazio. Quale l’equilibrio che cerchi, o che hai trovato, in queste opere? Cosa ti dice che l’opera è terminata e che ha trovato il suo perché?
È sempre una ricerca al buio e mai predeterminata. Prima o poi qualcosa comincia a formarsi. A un certo punto senti che sta accadendo qualcosa, ma non sai altro. È un momento concitato, frenetico. Per capire cosa sta accadendo devi soltanto andare avanti. A volte è niente. Altre volte è una vera e propria rivelazione che ti sarà utile per il resto della vita perché capisci che esperienza e conoscenza sono due cose completamente diverse. E capisci anche (come dico nel mio libro appena pubblicato: “Note sull’arte poetica”, Spagine, Lecce 2025) che l’ispirazione è all’inizio di un lavoro ma anche alla fine. Senza l’ispirazione è quasi impossibile rendersi conto di quando l’opera non ha più bisogno di te e può essere abbandonata al suo destino.
Quale il punto di contatto tra lo scrivere poesia, i lavori pittorici e le improvvisazioni al sax?
Per me poesia, musica e pittura sono tre cose separate. Tre linguaggi diversi e autonomi. Al posto della musica, per esempio, potrebbe esserci qualsiasi altra cosa: la filatelia, il giardinaggio, il nuoto, la gastronomia. Ogni artista ha il suo mondo. Quello che tu giustamente chiami “il punto di contatto” è un vero mistero, secondo me. Sono sicuro però di una cosa: tutti gli artisti hanno bisogno di alcuni termini di paragone per capire quello stanno facendo. Il termine di paragone di Debussy per esempio era la poesia di Mallarmé (i due erano amici e si frequentavano). Il termine di paragone di John Cage invece erano i funghi perché, lui diceva, nel dizionario inglese la parola fungo (mushroom) è quella che precede la parola music.
L’autore:
Vittorino Curci, poeta, musicista e artista visivo, vive a Noci (Bari) dove è nato nel 1952. Nel 1999 ha vinto il Premio Montale per la sezione “Inediti”.
Sue poesie sono apparse su Nuovi Argomenti. Dal 2019 al 2023 ha curato la Bottega della poesia per il quotidiano la Repubblica-Bari. In campo musicale ha collaborato con numerosi musicisti italiani e stranieri, è presente in circa 60 album e ha diretto l’Europa Jazz Festival di Noci (1989-2000).
I suoi libri più recenti: “Note sull’arte poetica – Primo Quaderno” (Spagine 2018), “L’ora di chiusura” (La Vita Felice 2019), “La lezione di Hemingway e altri scritti di letteratura” (Macabor), “Note sull’arte poetica – Secondo Quaderno” (Spagine 2020), “Poesie (2020-1997)” (La Vita Felice 2021, con prefazione di Milo De Angelis – Premio Giuria Viareggio e finalista al Premio Viareggio-Rèpaci 2021), “Cadenze per la fine del tempo” (Musicaos Editore 2023) e “Un giorno, due oppure vent’anni” (Lyriks, 2023).
(Vittorino Curci “Tutto il resto è letteratura” pp. 83, 15 euro, Musicaos Editore 2024)
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Disegni 2021-2025
Nove opere
di Vittorino Curci
Tempo presente ————————–
La vertigine del debito ci sbianca
Sette testi inediti
di Marco Di Pasquale
spesso l’occhio reflex cattura dai margini ciò che di rado s’imprime con reticoli di fatti minimi e sagome che saziano di potenzialità la gola di narrare e procreare poesia nella foia che insemina la pagina
*
il tocco denso dell’acqua questa
mattina sembra avvertire che la mano
del mondo può in ogni momento
caderci sulla spalla, affondarci
nella gravità sommersa del silenzio
*
più sale la collina più la cortina
della pioggia si fa ferrea
ti affronta goccia a goccia
le chiome ti chiamano colpevole
quando colpa significa aver agito
onorato un rito di cui non conosci
il messale – tutto s’incastra
nel cartoccio di idee che ti incolla
il cervello, lascia impasti di testo
in alluminio presto allo strappo
delle delusioni
*
i conti sono stati rimodulati, la lista
è sempre più corta, le scorte annullate
ma il costo di vivere non si è placato
le offerte volatilizzate dai progetti
di saldo a mese entrante
davanti alla boria della cassiera l’urlo manca
e la vertigine del debito ci sbianca
*
registra i battiti:
una lampada azzurra
una sedia che abbaglia
un vaso che lascia semi alla primavera
un ossessivo sfuggire alle campanelle
una marina filtrata dal finestrino
una passeggiata prima della clausura
il fermaglio che scompiglia la mattinata
il nylon smagliato dove, quando non dovrebbe
lo screenshot da riderci su a quattr’occhi
la fila rada per branzini e verdure
il giovedì pomeriggio dentro camerini
il giorno dopo incoraggiare l’impasto
fissare la lievitazione
*
oggi sul movimento verde e zitto
del mare, accanto alla spiaggia
che spopola col vento di settembre
si spegne la sete di sole e nuda libertà
nelle mani resterà a lungo questo
attrito delle sabbie umide, letto
funebre di molluschi rami appigli
anche se non ami sentirlo l’inverno
piomberà su questo anno, lascerà qualche
ombrellone per appendere la pelle stanca
*
la rondine in alto riflette
la luce che ci resta, vortica
nel volo la follia di una fame
che schianta sulla parete della notte
il muro ci fa svoltare strada
pentirci piano dei malumori costretti
in mano se ci lasciamo catturare
da questa musica casuale accesa
tra una stella e il campanile
(i testi qui proposti sono una anticipazione del nuovo libro di Marco Di Pasquale, a titolo “La mano del mondo”, di prossima uscita per Puntoacapo editore)
L’autore:
Marco Di Pasquale è nato a Ripatransone (AP) nel 1976, si è laureato in Lettere Moderne a Macerata, dove risiede. È presidente dell’associazione UMANIEVENTI, è direttore artistico di Festival, contenitori poetici e rassegne letterarie sul territorio regionale marchigiano.
Ha collaborato come giurato a diversi concorsi nazionali e come critico letterario e musicale con riviste online ed emittenti radiofoniche.
Sue sillogi sono uscite in diverse antologie, tra cui “Scrittura amorosa” (2008) e “La nostra classe sepolta” (2019), oltre che in diversi siti internet (Atelier, La poesia e lo spirito, Pordenonelegge, Poetarum Silva, Versante Ripido, Perigeion, Poesia del nostro tempo, Vatra, Revista Brasileira).
Ha pubblicato i volumi “Il fruscio secco della luce” (2013), “Formula di vapore” (2017) e “Dai sentieri divorati” (2019).
Nel 2015 e nel 2017 è stato ospite straniero in Romania al Festival “Turnilur scriitorilor” di Sighisoara ed al “Festivalul international de poezie” di Bucarest. Suoi testi sono tradotti in rumeno e portoghese.
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Disegni 2021-2025
Nove opere
di Vittorino Curci
Voce d’autore ———————-
Confinato il moto a cuore
Cristina Micelli, “Battiti sottotraccia”
di Giovanni Fierro
Ritorna Cristina Micelli con una nuova raccolta di poesia, “Battiti sottotraccia”. E il suo scrivere testimonia nuovamente un fare poesia attento e prezioso, ancora più libero nel creare e riconoscere un’atmosfera in cui ognuno di noi è coinvolto, “Nel paese senza nessuno/ i monti scendono dai sentieri, con i piedi/ tracimati delle radici, gli occhi bassi degli arresi”.
Parlano dell’oggi e della nostra società questi testi, della nostra difficoltà del viverli e del coraggio che richiede l’essere disponibili a tenere gli occhi aperti, a costruire uno sguardo che è importante difendere dall’omologazione imperante, dallo stato costante di puro svilimento sociale che sempre più si impone, anche con violenza.
Cristina Micelli, in questo quadro contemporaneo per nulla facile, si muove con la tenacia della poesia, sa cogliere gli attimi che valgono un infinito, “La rondine dondola alla cieca cercando la finestra/ è contenta del volo delle travi e confonde il tremare/ delle scale, gli anni”, sottolinea lo scarto tra l’essere al mondo e il raccontarlo, “Era la cantilena, la scelta/ della membrana fra l’isolamento e l’uscire allo scoperto”. Anche per indicare “La ribellione punk nelle calze bucate/ essere giovani e precari, difendersi dai padri”.
Il suo è un appartenere alla virtù dello scrivere poesia, è un gesto destinato a rimanere in quel centro preciso dove le parole ancora sono significato e luogo di incontro, alfabeto necessario e manuale di sopravvivenza, tempo in cui “Si pensa sia un affare di temporali e di chi./ Il vento cade sui pannelli, la freccia dice: Voi siete qui”. Dove le indicazioni sono ancora più precise: “Prendemmo appunti e il coraggio come lame/ e con quello spirito lasciammo l’anno”.
In queste pagine Cristina Micelli scrive di ciò che c’è e che non funziona, ma anche di ogni cosa che rimane e che non si arrende. È rinnovato il patto con il resistere: “Nei trenta centimetri sotto le suole/ la terra è viva, i vegetali lo sanno sempre prima”, “Guardare come si sorride, tagliare una crostata su un letto di rovine”.
Tutto “Battiti sottotraccia” ha un suono rinnovato, calibrato nella tensione che lo anima. I testi che lo compongono vivono di un riverbero ancora più intenso ed armonioso. La loro è la forza di un dire che coinvolge, annulla ogni distanza, svela il vuoto che sempre di più la nostra società impone e lo sostituisce con un qui ed ora a cui ognuno di noi è chiamato a risponderne. Per non concedersi al nulla, per fare seme di ogni possibilità umana rimasta. “Nei vicoli si riciclano rottami/ arnesi tubolari per i codici di domani/ battiti on the street barricada rumble beat”.
Dal libro:
Filtri, insetti, manganelli nei cervelli. Ciascuno
lontano dalla gioia, rintanato in cella propria.
Confinato il moto a cuore
il moto a luogo, il viaggio fra sogno e reale
spacciato il muro per la gabbia ideale
la colata di marmo sul viso. A ciascuno.
Stanno in fila e piove l’ordine delle gocce armate
il guardare basso fa quadrato sul selciato.
Si pensa alle lettere in soffitta
malgrado ciò sto bene e spero il medesimo di voi.
*
Il pieno del giorno nelle cornici dell’abbandono
un centro ritrovato di ortiche sopra le vigne.
Dalla camera al primo piano vedeva
i bagliori sul Carso tenere la linea sopra Sagrado.
La rondine dondola alla cieca cercando la finestra
è contenta del volo delle travi e confonde il tremare
delle scale, gli anni.
*
Nella stagione della centrifuga dire di no
ultima risorsa nel kit di sopravvivenza
nella tasca laterale dove le mani cercano le chiavi.
*
Lo stacco è un cardine nella pianura
la trasparenza è nei sentieri in salita, lo sforzo
dei passi per vedere l’ombra luce che siamo.
Ho trovato la metà del portale di Cjasotis
nel fondale di roccia di Coritis.
La “I” di idrante è rimasta sul muro di casa
mi appoggio a una somiglianza, l’arsura non basta
perché si sa siamo fatti di acqua e toponomastica
del loro lasciare tracce e scavo
del nostro scalcinato tenerle in guado.
Intervista a Cristina Micelli:
Cosa c’è di nuovo rispetto al tuo precedente scrivere poesia in “Battiti sottotraccia”?
È una scrittura più asciutta e, a tratti, disincantata, anche se questa tendenza era già presente in “A chi scorre” (Qudulibri, 2017). In “Battiti sottotraccia” ho inoltre scelto l’abolizione quasi totale dell’io narrante, trovando più interessante e dinamico far assumere il punto di vista alla terza persona oppure lasciare che siano le cose a parlare nella loro nudità. L’approccio può sembrare forse impersonale, ma questo è ciò che mi ha restituito l’osservazione della realtà. Penso che i veri protagonisti di questa raccolta siano le azioni e gli stati d’animo, piuttosto che le persone che li hanno vissuti o suggeriti.
Un aspetto importante, penso, è il come suonano queste tue nuove poesie. È come se vivessero di un differente riverbero, rispetto a quelle precedenti incluse negli altri libri, pur essendone ovviamente una naturale prosecuzione… È come se la loro radice fosse in qualche modo differente, e il pronunciarle dia loro una diversa tensione… Mi sbaglio?
C’è sempre un lavoro (o un gioco) preventivo dietro la scelta di ogni verso, sentire come le parole possono stare assieme al significato che evocano. Talvolta sì, vanno anche in collisione le une con le altre; accade quando non si può evitare il grido di dolore sottostante.
Anche perché In queste nuove pagine si percepisce una scrittura più libera, più capace di esplorare atmosfere e condizioni emotive. Quanto questo corrisponde al vero?
Libertà è anche libertà di pensiero, come la poesia per sua natura invita a fare. Ho preso semplicemente spunto da alcuni fatti, personali o collettivi, chiedendomi non tanto “cosa” raccontare ma “come” dirlo. I versi in esergo di Marco Ercolani (Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. / Da dove si inizia?) dicono bene, a mio avviso, il condizionamento a cui siamo sottoposti.
Sì, le parole hanno un diverso peso, si avverte una diversa dinamica nella scrittura. È come se all’interno di se stesse contenessero un silenzio più profondo, più intenso, che ne accresce il valore. Può essere così?
Il silenzio porta con sé la dimensione dell’ascolto della propria e altrui voce interiore. È una necessità vitale per me, come pratica di indagine e di collegamento col “qui e ora”.
Negli spartiti musicali il termine “Tacet” (che ho riportato in un mio verso) indica una pausa, l’assenza di note musicali ma non per questo l’assenza di altre casuali sonorità. Il silenzio fa da cornice per affinare la percezione di esperienze impercettibili.
Il tuo fare poesia ha sempre caratterizzato il tuo sguardo con una presenza costante di luoghi. In “Battiti sottotraccia” questa presenza è decisamente minore, c’è meno collegamento diretto con il territorio. Come mai?
Non credo che ci sia meno collegamento diretto col Friuli. Anche in questa raccolta ci sono molti testi ispirati ai luoghi, ma resi come sfondo o personificazione di vicende umane. Ad esempio, i versi “sul cumulo anche noi siamo Enfretors/ fra la torre in piedi e quella scomparsa” rappresentano metaforicamente uno stato di precarietà, dopo essere risaliti dal bunker. Enfretors, piccola località della Valle del But, deve il suo nome al fatto di trovarsi fra due antiche torri, di cui oggi ne rimane soltanto una.
Oppure, in un’altra poesia, nel verso “in bocca d’anfora la verità si arena” mi riferisco al silenzio stampa sui danni ambientali nell’ipotesi della costruzione (poi sfumata) di una mega-acciaieria a ridosso della laguna (Riserva naturale e Sito natura 2000). Bocca d’Anfora è una località della laguna stessa.
Nella raccolta ci sono anche altri riferimenti a luoghi, memorie, toponomastica e scritte sui muri, come fosse una mappa parallela e un omaggio al loro stato di muti testimoni e compagni di viaggio.
Comunque “Battiti sottotraccia” vive anche di una critica severa rispetto alla nostra società contemporanea. Ma, allo stesso tempo, evidenzi ciò che non va ma sottolinei anche ciò che rimane e che non si arrende… Anche da questo attrito sono nate le tue nuove poesie?
In questo tempo di scenari in rapido cambiamento si avverte un potere soverchiante. Contemporaneamente, le voci del dissenso vengono prontamente zittite o discriminate. Lo shock emotivo che ne deriva è talmente devastante che quando invece incontri persone o atteggiamenti fortemente radicati nell’umano, avverti una forte sorpresa e gratitudine per aver trovato una grazia che si è conservata intatta.
Sono momenti molto semplici e invisibili, ad esempio una ragazza che mangia un melograno, una rondine che cerca l’uscita in un casolare disabitato, il canto spontaneo e ancestrale di una donna, ecc…. Mi è sembrato naturale raccoglierli come “battiti”, tentare di ricordarli.
Queste sono pagine che si ascoltano ad occhi chiusi… le hai anche scritte ad occhi chiusi?
Certamente scritte ad occhi chiusi, nel dormiveglia ascoltando i battiti sottotraccia.
L’autrice:
Cristina Micelli è nata a Udine e vive a Basiliano (UD).
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Stato di veglia” (Ed. Dot.com Press 2011), 2^ classif.. al Premio Giorgi 2011 e finalista al Premio Beppe Manfredi 2012, “A chi scorre” (qudulibri 2017), menzione al Premio InediTO Colline di Torino 2016, e “L’ospite di spalle” (qudulibri 2020).
Suoi testi sono presenti in alcune riviste, siti web e antologie.
Ha partecipato a diverse rassegne di poesia, fra cui Fare voci, Resistenze estive Duino, Festa di poesia di Pordenone, Bologna in Lettere, Carta Carbone Festival, La poesia non fa paura, Notturni diversi.
Ha ottenuto diversi riconoscimenti, fra cui il Premio Letterario Nazionale di Galbiate 2018.
(Cristina Micelli “Battiti sottotraccia” pp. 37, 12 euro, qudulibri 2025)
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Disegni 2021-2025
Nove opere
di Vittorino Curci
Ti racconto ————————-
Autoconfessione e Ucraina tramite Justin Quinn
Un testo inedito
di Alessandro Agostinelli
(Alessandro Agostinelli)
1.
Nel 1999 ero nel punto più basso della mia esistenza. Non potevo più definirmi giovane, ma non avevo ancora raggiunto alcun risultato apprezzabile nella vita. La politica mi aveva distratto per circa dieci anni da altri impegni e non mi aveva lasciato nulla. O peggio, aveva prodotto dentro di me una rabbia e un rancore piuttosto complessi da raccontare in questa circostanza.
Sì, perché se è spesso facile misurarsi con le cose che ci capitano e con le persone che incontriamo, più difficile è confrontarsi con i propri dubbi, con alcuni sciocchi principi e quindi con i limiti che quasi sempre arrivano infine a definirci, come fanno le cose che teniamo nascoste in tasca.
Eppure il decennio dei Novanta era stato fenomenale: il toro in ascesa sulla Broadway, a Manhattan. La fine del mondo diviso tra Stati Uniti e Unione Sovietica, la globalizzazione dei mercati, la crescita dei commerci, la presidenza Clinton-Gore, così solare e fortunata. Insomma, non c’erano motivi perché le cose andassero male, neppure a me.
Ma in quel momento avevo fatto un po’ quello che scrive Justin Quinn, un poeta irlandese che mi era capitato tra le mani dopo un viaggio in Inghilterra, col suo libro Privacy (1999). La prima poesia di quel libro parlava proprio di me. A un certo punto, mentre il testo descriveva il paesaggio che si può vedere dal finestrino di un autobus, c’era scritto: A sessanta miglia orarie/Il mondo viene ripiegato/In una valigia. Dove/Dove la disferò?
Era esattamente così. Non stavo andando a quella gran velocità che ci vuole per mettere un segno nella propria vita, e per giunta tutto il mio mondo era come se si fosse ripiegato su se stesso. E non avevo manco un luogo dove poterlo dispiegare e cercare di capire, di analizzare o anche soltanto di indossarlo, come si fa con una camicia.
Avrei avuto bisogno di uscire da me stesso, innamorarmi, incrociare nuovi amici, cambiare prospettiva, per tornare a credere che almeno qualcosa fosse possibile. Non dico che poi tutto sarebbe andato bene – mi sono allontanato ormai parecchi anni da quel tempo, tanto da poter affermare con sincerità che non andò alla grande – ma sostengo che una nuova nascita, una traduzione diversa sulla visione del mondo avrebbe dato via libera a nuove avventure, quelle dell’età adulta. Ed è stata ancora una poesia di Justin Quinn, o meglio la sua duplice interpretazione, a darmi il segno che la realtà è, in parte, quella che riesci a descriverti col linguaggio.
I am a rock
Perched on the fifth floor
Of this apartment block
Which was exploded
About eight years ago;
That is, a breath, a cloud.
Avrei potuto interpretare letteralmente questo testo, come una perduranza che non muta, come qualcosa che non troverà cambiamenti, ma anzi fisserà anche una nuvola in un momento pietrificato nel passato. In questo senso: Sono una roccia/ Posata al quinto piano/ di questo condominio/ fatto esplodere/ circa otto anni fa/ cioè un soffio, una nuvola.
Ma la cosa poteva anche essere vista al contrario, pensai, cioè come se la roccia non fosse posata lì da qualcuno, ma fosse momentaneamente lì per propria decisione e potesse, intrinsecamente al sé umano, prendere il largo, diventare altro, tradursi in respiro. In questo senso: Sono un macigno/ Appollaiato al quinto piano/ di questo caseggiato/ che saltò in aria/ quasi otto anni fa/ cioè un fiato, una nuvola.
Insomma, avevo individuato una speranza. Era stata la poesia a darmela. Lo aveva fatto indirettamente, tramite questo poeta irlandese che in Italia nessuno conosceva. Lo dico anche nel mio ultimo libro “Baltico” (2025): La poesia non serve a nulla; finché non serve a qualcosa. E in quel caso servì, eccome.
2.
Oggi, che la mia vita è una pacchia, rimettendo in ordine alcuni scaffali della libreria mi è capitato tra le mani questo vecchio libro di Justin Quinn, il poeta che in Italia nessuno conosce ancora. Accanto al libro c’è anche un quaderno di appunti, con alcune prove di traduzione.
Ma la cosa che più mi ha impressionato è la memoria di un sentimento del passato, legato a un’attualità feroce che ho trovato in una poesia che non avevo notato all’epoca, e cioè “Muratori ucraini”. Justin Quinn l’ha scritta nel 1996 a Praga, dove vive da molti anni e insegna alla Charles University. Il tema è un classico del lavoro nero, che nella poesia sembra ispirato al film “Moonlighting” (1982) del regista polacco Jerzy Skolimowski, in cui un capo elettricista e tre operai polacchi sbarcano da Varsavia a Londra per condurre in pochi giorni la ristrutturazione di un palazzo e in cui, il capo squadra sfrutta gli operai che sono all’oscuro del compenso e della rivoluzione di Solidarnosc nel loro Paese. Nella poesia c’è un di meno rispetto al tema sindacale – potremmo dire –, ma un di più rispetto alla nostra attualità, al nostro modo di guardare adesso al rapporto tra ucraini e russi, tra ucraini ed europei. Essa indica un livello sociale degli ucraini che non ha più un suo paragone col presente. I venticinque anni che separano questo testo dall’inizio del terzo millennio, le vicende accadute in questi ultimi dieci anni tra Russia e Ucraina, la guerra in corso, hanno modificato ampiamente il convincimento degli europei nei confronti degli ucraini. Tuttavia resta scolpita la frase che si trova nella poesia: È un’occasione questo inferno, contro il capriccio di Mosca. Si riferisce allo sfruttamento dei muratori ucraini nella Repubblica Ceca, in cui due praghesi, addirittura, li vedono ancora come gli invasori della primavera del 1968, mentre i lavoratori edili sono probabilmente i padri di quei soldati che oggi sono sul fronte, in guerra contro la Russia di Putin. E così, scatta un corto circuito. All’improvviso il tempo si restringe e diventa tutto un attimo, il 1996 legato indissolubilmente al 2025.
Piuttosto l’inferno del lavoro nero che il capriccio di Mosca. Una frase illuminante, perché è esattamente così: La poesia non serve a nulla; finché non serve a qualcosa.
Qui sotto la traduzione italiana:
Muratori ucraini
Viaggiano due giorni o più su un autobus
Per finire qui:
Una miseria, niente assicurazione, pane e birra –
Le pratiche burocratiche le ha espletate il loro capo,
Significa che loro sono contabilizzati come merci.
Non esistono.
Se cadono da una sporgenza, non mancheranno.
Nessuno dovrà essere sepolto nel bosco.
La strada è tranquilla. Un’oscurità nuvolosa e invernale.
Alle 9 del mattino
Hanno già quattro ore difficili alle spalle.
Si scolano le birre e tornano al lavoro “finto”.
Passano due cechi. Uno dice: “Almeno questa volta
Non sono nei carri armati”.
In questi giorni camminano sulle assi delle impalcature
Per costruire al meglio una città, non per farla saltare in aria –
Qualunque cosa sia, per loro è più o meno la stessa cosa.
I travetti, i blocchi
Girati in posizione per trovare una base o una scatola
Con cinquecento viti all’interno (secondo l’istruzione),
Queste cose sono leggere come il compensato per le loro mani forti.
I loro occhi alieni
Guardano dritto attraverso il cemento solido fino al cielo
Perché non conoscono nessun mattone ingenuo
È un occasione questo inferno, contro il capriccio di Mosca.
Cose trasparenti
Come questi insediamenti di palazzoni, edifici civici,
La nuova vita promessa a tutti da Tesco,
È ciò che gli uomini trasparenti costruiscono e strappano
dritto a domani.
Ciò che resta è meno una capitale e più un posto
Dove milioni di persone si muovono nell’aria.
Praga, 1996
(Justin Quinn)
Gli autori:
Alessandro Agostinelli, scrittore, poeta, giornalista e viaggiatore. Laureato in Lettere e dottore di ricerca in Storia delle arti visive. Ha fondato il Festival del Viaggio. Dal 2000 dirige la collana poesia di Edizioni ETS. Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI Tre, L’Espresso, Il Riformista. Ha fondato la webzine alleo.it.
Ha scritto due guide per Lonely Planet. Tra i suoi ultimi libri il romanzo “Benedetti da Parker” (2017), i reportage di viaggio “Giordania Stilografica” (2023), “Da Vinci su tre ruote” (2019), le raccolte di poesia “Le vive stagioni” (2023), “Il materiale fragile” (2021), e in Spagna “En el rojo de Occidente” (2014).
Ha tenuto reading poetici con musicisti jazz in Italia, Svizzera, Germania, Francia, Spagna, Usa.
È stato scrittore residente a Tarazona (Spagna), Heidelberg (Germania), Mende (Francia), Ventspils (Lettonia). Ha diretto alcuni documentari in varie nazioni del Mondo. Tra gli ultimi: Water System in Palestine (2021, SIV), Sulla Linea Gotica (2015, doppiozero), Tra Samarcanda e il west (2012, L’Unità).
Insieme a Marzia Stevenson Maestri ha riscritto Sermone di Natale di Stevenson, Lettera alla fidanzata di Pessoa, le poesie di Carver, traendone tre “confessioni” teatrali, dirette per il Teatro d’Appartamento di San Jacopo (Pisa).
Justin Quinn è un poeta e critico irlandese, dottore di ricerca presso il Trinity College di Dublino. Vive a Praga da molti anni ed è docente presso la Charles University e l’Università della Boemia Ovest.
Intensa la sua attività critica e di traduttore. Tra i suoi libri, “The ‘O’o’a’a’ Bird” del 1995 è stato nominato al Forward Poetry Prize per la miglior opera prima. Tra i suoi ultimi volumi di poesia citiamo “Early House” (2015) e “Shallow Seas” (2020).
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Disegni 2021-2025
Nove opere
di Vittorino Curci
Tempo presente ———————-
Fermate il fuoco sui nostri petti
Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza
di Roberto Lamantea
“Ho diciannove anni/ e ho vissuto molte morti./ La prima quando avevo quattro anni./ Non c’è dubbio che ho preso/ la mia parte di dolore,/ paura e nostalgia./ Quando la vita si mostrerà a me?”. Nato nel 2004, poeta di Gaza, Haidar al-Ghazali ha studiato letteratura inglese e traduzione fino a quando la sua Università è stata rasa al suolo. Dall’inizio dell’offensiva israeliana racconta la guerra in versi, scrivendo ogni giorno, come dice lui stesso, “versi che sanguinano”.
“Scrivere in guerra”, recita un verso di Dareen Tatour, poetessa e fotografa nata a Raineh, città araba in Israele, nel 1982, “è una morte rapida/ In essa c’è vittoria e c’è suicidio/ E c’è salvezza […] Perché la poesia/ È come il filo delle spade/ Come il tuono del cielo/ Perché tutti i proiettili che hanno sparato/ Per soffocare le parole/ Per uccidere la nostalgia, per uccidere l’antico e il nuovo/ Per il nostro annientamento/ aumentano la resistenza/ rafforzano la volontà”. Condannata più volte, Dareen Tatour è stata incarcerata per la poesia “Resisti o popolo mio, resisti loro”, pubblicata in rete nel 2015: a Gaza la poesia è resistenza già dalla Nakba (l’esodo forzato della popolazione palestinese) del 1948, anche se la maggior parte di queste poesie è stata scritta dopo il 7 ottobre 2023.
È molto di più di un libro di poesia “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”, fresco di stampa per Fazi Editore, 32 poesie di 10 autori palestinesi, alcuni morti giovanissimi, fatti saltare per aria dall’esercito israeliano, arrestati, torturati e uccisi per aver scritto versi. È un altro volto della guerra che la maggior parte dei giornali occidentali non raccontano. In quelle celle “le penne sono vietate/ Né inchiostro né carta/ Il cuore scrive memorizza i versi/ La poesia in prigione è luce e fuoco/ La poesia della mia prigione/ È nutrimento/ È acqua e aria” scrive Dareen Tatour.
“E anche tu, poesia mia, morirai sicuramente,/ eppure scriverò/ e possa tu vivere anche solo un po’/ dopo di me”: “Versi senza casa” di Marwan Makhoul (al-Boquai’a, Galilea, 1979).
Fa paura, la poesia? “Perché gli assassini temono i poeti? Non eri un combattente. Non portavi armi. Scrivevi parole su carta. Eppure, tutta la potenza dell’esercito israeliano è stata mobilitata per venirti a stanare” scrive Chris Hedges nella “Lettera a Refaat Alareer”: Hedges, scrittore e reporter americano vincitore del Premio Pulitzer, corrispondente dall’estero per The New York Times, scrive al poeta palestinese Refaat Alareer: “In tempi di angoscia, quando il mondo è avvolto dalla crudeltà e dalla sofferenza, quando le vite sono in bilico sull’orlo dell’abisso, la poesia è il triste lamento degli oppressi. Ci fa percepire la sofferenza. È intuitiva. […] È un atto di speranza, un atto di sfida, una resistenza, con la sua erudizione e sensibilità, che irride chi ti deumanizza”. “Nel paradiso c’è una nuova Gaza che si sta formando ora, senza assedio” scrive Heba Abu Nada, biochimica e poetessa nata nel 1991, morta il 20 ottobre 2023 a Khan Yunis, uccisa da un bombardamento israeliano.
Non solo poesie ma anche testimonianze agghiacciant: “Quando ero a Gaza, ho visto un bambino di non più di nove anni con le mani e parte della faccia spazzate via da un barattolo di cibo esplosivo, che i soldati avevano fatto trovare ai bambini affamati di Gaza. Ho saputo poi che avevano lasciato cibo avvelenato anche per la gente di Shujayya e che negli anni Ottanta e Novanta i soldati israeliani avevano lasciato nel Sud del Libano giocattoli che esplodevano quando i bambini, nella loro eccitazione, li prendevano in mano. Il male che fanno è diabolico, ma pretendono che tu creda che le vittime sono loro. Invocano l’Olocausto europeo, gridano all’antisemitismo e si aspettano che tu metta tra parentesi la fondamentale ragione umana e accetti di credere che il lavoro quotidiano dei cecchini che sparano i cosiddetti “colpi mortali” contro i bambini e il bombardamento di interi quartieri che seppellisce vive le famiglie e cancella la loro intera discendenza siano legittima difesa. Vogliono farti credere che un uomo che non ha toccato cibo per 72 ore e ha continuato a battersi con il solo braccio valido che gli era rimasto, che quest’uomo sia motivato da un’innata barbarie e un odio irrazionale per gli ebrei, piuttosto che dall’indomabile desiderio di vedere il suo popolo libero sulla propria terra”: è una pagina del “Discorso alla Oxford Union” di Susan Abulhawa, scrittrice, poetessa, saggista, scienziata e attivista palestinese-americana: il 2” novembre 2024 è stata invitata dall’associazione studentesca Oxford Union, insieme al poeta palestinese Mohammed el-Kurd, per discutere la mozione “Quest’Assemblea crede che Israele sia uno Stato di apartheid responsabile di genocidio”.
Nell’introduzione, dal bel titolo “Una casa di versi”, quella palestinese è chiamata “letteratura selvaggia. Perché selvaggia? Perché fraintesa, degradata, misconosciuta o, più colpevolmente, ignorata”. “Fare poesia a Gaza”, aggiunge la nota, “vuol dire farla nell’impossibilità di un luogo – in ogni luogo possibile. Per questa ragione, gran parte dei testi che presentiamo è stata pubblicata in rete, per essere tradotta e diffusa”. “Perché scrivere in guerra è una morte rapida/ In essa c’è vittoria e c’è suicidio/ E c’è salvezza// Scriverò/ dalle tenebre delle caverne/ Forse potrò risuscitare il fiore del mattino/ Perché la poesia/ È come il filo delle spade/ Come il tuono del cielo/ Perché tutti i proiettili che hanno sparato/ Per soffocare le parole/ Per uccidere la nostalgia, per uccidere l’antico e il nuovo/ Per il nostro annientamento/ aumentano la resistenza/ rafforzano la volontà” (Dareen Tatour).
È poesia politica? Non può essere altrimenti, scrive Marwan Makhoul: “Per scrivere una poesia non politica,/ devo ascoltare gli uccelli,/ e per sentire gli uccelli/ bisogna far tacere gli aerei da caccia”. “La distruzione sistematica di Università, scuole, centri culturali, siti archeologici rivela uno degli aspetti più tragici di questo genocidio: la sua premeditazione”: chiese bizantine e ortodosse, moschee, musei, biblioteche, nove Università, il Conservatorio; “molti edifici”, annota Refaat Alareer (1979-2023), “erano stati in gran parte minati dall’interno, dopo che l’IDF ne aveva preso possesso per farne centri di detenzione e tortura. Questa dinamica escluderebbe la possibilitò che al loro interno si trovassero dei terroristi, contrariamente a quanto sostenuto dal governo israeliano”.
Il libro raccoglie versi di Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul, Yahya Ashour, Heba Abu Nada, Haidar al-Ghazali, Refaat Alareer, prefazione di Ilan Pappé, l’introduzione è dei curatori del volume Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti, traduzione dall’arabo (testo originale a fronte) di Nabil Bey Salameh, traduzione dall’inglese di Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni.
Per ogni copia venduta 5 euro saranno donati a Emergency per le sue attività di assistenza sanitaria a Gaza.
Dal libro:
Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?
Significa chiedere scusa,
chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,
agli uccelli senza ali, alle case schiacciate,
alle lunghe crepe sul fianco delle strade,
ai bambini pallidi, prima e dopo la morte
e al volto di ogni madre triste
o uccisa!
Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?
Significa vergognarsi,
del tuo sorriso,
del tuo calore,
dei tuoi vestiti puliti,
delle tue ore di noia,
del tuo sbadiglio,
della tua tazza di caffè,
del tuo sonno tranquillo,
dei tuoi cari ancora vivi,
della tua sazietà,
dell’acqua disponibile,
dell’acqua pulita,
della possibilità di fare una doccia,
e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!
Mio Dio,
non voglio essere poeta in tempo di guerra!
(Hend Joudah, nata nel 1983 nel campo profughi di al-Bureij a Gaza. La sua prima raccolta di poesie è intitolata “Nessuno se ne va sempre“. Ha fondato e diretto la rivista 28 Magazine di Gaza).
*
8/10/2023
La notte della città è buia, tranne che per il bagliore dei razzi, silenziosa tranne che per il suono dei bombardamenti, spaventosa tranne che per la serenità della preghiera, nera tranne che per la luce dei martiri.
Buonanotte, Gaza.
(Heba Abu Nada, 1991-2023.Biochimica e poetessa cresciuta a Gaza. Nel 2017 si classifica al secondo posto allo Sharjah Award for Arab Creativity con il romanzo “Oxygen is not for the dead“. Muore il 20 ottobre 2023 a Khan Younis, uccisa da un bombardamento israeliano)
*
25/04/2024
Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e lanciano la loro voce nel vento.
Oggi vediamo cuori sgozzati come i nostri
e piangono per le madri che non hanno trovato tempo
per piangere.
Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e non verrà promosso
chi non supererà l’esame di umanità.
Oggi il mondo mostra una certa giustizia,
una certa umanità,
il loro grido è la mia voce
e il loro sangue è il mio
bolle come la mano di una bambina amputata sulla terra.
Siamo un buon mondo,
governato da demoni bianchi
Perché non diventiamo un solo mondo?
Perché non cresciamo insieme?
La mia voce, la vostra voce
e il mio sangue, se accresce la vostra rabbia,
ora è vostro.
Insegnate ai vostri figli
che il corpo della terra è uno,
che i confini della terra sono un’invenzione
e chi non rifiuta di uccidere
sarà ucciso facilmente.
Fermate il fuoco sui nostri petti,
fermate il fuoco
perché possiamo seminare
la nostra terra
e nutrirvi.
*
26/08/2024
Ti hanno uccisa come si uccidono le farfalle,
e l’alba ha pregato per te,
poiché da una fossetta sulla tua guancia sorge il giorno.
Ti hanno uccisa, affinché l’aurora non torni mai più,
affinché restiamo al buio, senza vedere.
Hanno detto che minacciavi il paese
con una cintura esplosiva in vita.
Solo io
sapevo
quanto amavi
le cinture di rose.
(Haidar al-Ghazali, poeta di Gaza. Ha studiato Letteratura inglese fino a quando la sua Università è stata rasa al suolo. Dall’inizio dell’offensiva israeliana scrive versi ogni giorno raccontando l’assedio. La poesia “I giovani liberi” letta in tutto il mondo nella traduzione “The intifada of free youth”, e rivolta ai giovani in protesta nelle Università occupate, contiene il verso che dà il titolo alla raccolta di Fazi)
(autori vari “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza” pp. 156, 12 euro, Fazi Editore 2025)
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Nove opere
di Vittorino Curci
Tempo presente ———————
Il febbraio feroce
Cinque testi inediti
di Giovanni Granatelli
1
Poi tornano esatti
i giorni accampati
fra vetrate distrutte,
la gelida prepotenza
del soffio del lupo,
la notizia feriale
dalle lettere acide:
che non ha resistito;
esposto al tramonto
(magnifico e inutile)
rovina, si abbatte
l’edificio friabile
in cui cercavi riparo.
2
Torna la legge del gelo
– un ostile frattempo
di parentesi nere
e di diavoli logorroici,
di finestre sbarrate
e molecole soccorrevoli.
La creatura aggredita
dalle manovre delle streghe
nella tana temporanea
fatta di neon e di bianco
sogna parchi e maree
e domanda protezione
– aspetta che le ore
diluiscano il veleno.
3
È il febbraio feroce
– dove i passi procedono
per cieli e chilometri
sopra sottili
lamine di cristallo,
sopra veli di ghiaccio
visitati dalla paura.
Di un intero orizzonte
così privo di pace
la regione più arida,
la più inospitale:
l’osceno quartiere
del dolore più inutile.
4
Apprendi a tentoni
le nuove unità
di misura del tempo
e come si aggirano
le buche più nere,
a stringere i denti
davanti ai crepuscoli
e come funzionano
le promesse sintetiche
disposte con ordine
sui carrelli metallici
– come si attende
che ti venga ridata
una traccia di musica
dentro il respiro.
5
Si accede portando
ricambi molteplici,
volenterosi linguaggi
oltre gli ingressi
vigilati e sprangati
e nuovi racconti
per notti a migliaia
orientati al contrario
dove chi narra
prova a proteggere
la regina più fragile
dalla sua distruzione.
Se appena riesci
afferrane un capo
– dispongo le frasi
come ponti sospesi,
corridoi sminati.
L’autore:
Giovanni Granatelli è nato a Catania nel 1965, e vive da sempre a Milano. Ha pubblicato sette libri di versi, tra i quali “Musica Questuante” (ed. Nino Aragno, 2014, Premio Città di Arcore, Premio Tra Secchia e Panaro e Premio Il Meleto di Guido Gozzano) e la recente antologia “Resoconto. poesie 2002-2022” (Scalpendi, 2023).
Nel 2020 e nel 2024 sono invece uscite due raccolte di prose e racconti, rispettivamente “Spostamenti” (ed. Nardini) e “Nomi, cose, musiche e città” (ed. Arkadia).
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Nove opere
di Vittorino Curci
Ti racconto ———————
Della difficoltà di educare figli inesistenti
dalla raccolta di racconti “Cartacce”
di Jacopo Masini
Un bambino che non c’è e non è figlio nostro ha la naturale vocazione a sottrarsi a qualsiasi consiglio. Se per caso vi azzardate a dirgli: «Fai attenzione quando attraversi la strada» lui non si tapperà le orecchie, ma non vi ascolterà.
È praticamente impossibile far giocare col Lego un figlio inesistente: ogni tentativo in questo senso si risolverà in una solitaria opera ingegneristica che vi riporterà alla vostra infanzia, ponendovi nei confronti del tempo come ci si pone di fronte a uno specchio. Senza avere, perciò, in nessun momento, la certezza di vedere un’immagine coincidente con la realtà.
I figli inesistenti non vanno a scuola, non hanno nessuna voglia di imparare, non sono curiosi, ma non litigano e non fanno dannare i genitori.
I genitori, una volta preso atto della considerazione precedente, si accorgono di essere a loro volta inesistenti: «Sono forse un genitore, io?» Si domandano sulle prime, innervando subito dopo nel proprio sistema nervoso l’idea del genitore potenziale, del genitore che potrebbero essere in un futuro non troppo lontano. «Non sono un genitore» concludono, alcuni evaporando e riducendosi allo stato gassoso.
I figli inesistenti non crescono. Rimangono, come è loro connaturale, allo stato di eventualità. L’età media e immuta94
bile dell’eventualità oscilla tra i due e gli otto anni.
Un figlio inesistente non vi confiderà mai le proprie paure. Vi lascerà a fare i conti con le vostre per un tempo indefinito che potrebbe coincidere con quello della vostra vita. A meno che non siate a vostra volta figli inesistenti. Nel qual caso, ognuna delle parole precedenti non ha alcun valore.
L’autore:
Jacopo Masini è nato a Parma nel 1974. Scrittore, sceneggiatore, autore di testi teatrali e altre forme di narrazione, ha pubblicato, fra gli altri, “Santi Numi” (Exòrma), “Polpette e altre storie brevissime” (Del Vecchio Editore), “L’amore prima della fine del mondo” (Epika), “Dei luoghi comuni” (Feltrinelli Zoom), “Ed Gein – La madre di tutti i serial killer” e “Robert Johnson” (Edizioni Inkiostro), “Lo strano caso di Bone” (Loescher) e racconti sparsi in antologie Feltrinelli, Fandango, Transeuropa e Epika.
Collabora con la Scuola Comics Torino e Scuola Comics Brescia, ha fondato Benbow – Scrittura e Narrazione ed è attualmente direttore commerciale di Coconino Press.
(Jacopo Masini “Cartacce – Sta tutto miracolosamente in piedi” pp. 180, 19 euro, NFC edizioni 2024)
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Nove opere
di Vittorino Curci
Ti racconto ———————-
L’inesausto contrasto ideologico
Leandro Lucchetti, “Polveri di matrimonio”
di Anna Piccioni
In questo nuovo romanzo a titolo “Polveri di matrimonio“, Leandro Lucchetti ritorna ad un tema a lui caro, la Storia, e soprattutto la
Storia di questa città sospesa; e di riflesso la Storia mondiale. Gli anni dal 1945 fino ai giorni nostri sono scanditi dagli eventi di cronaca, di politica, dagli eventi sportivi. A volte la memoria dei protagonisti riporta ricordi antecedenti.
Ma il senso di questo romanzo, o meglio la sua sintesi, la troviamo nei pensieri del protagonista Nereo quando si affaccia sul belvedere dell’Obelisco e guarda e ammira la città, Trieste, dall’alto “…era bella sembrava placida, incorniciata dallo spettacolare sito naturale come un quadro d’autore. Pareva impossibile che fosse stata teatro di avvenimenti dolorosi e laceranti e tuttavia lui sapeva di quali omertà, di che odi irrisolti e di che malcelati rancori ancora sobbollisse”.
Nereo ha un’oreficeria ereditata dal padre Lamberto, fascista convinto, acquistata da un’ebrea sefardita di Salonicco. Nereo sembra tormentato da uno stato di insoddisfazione, dovuto forse a una forma di inettitudine. Pur avendo fatto parte del CNL, non ha mai sparato un colpo col suo mitra.
Avrebbe voluto verso la fine della sua vita raccogliere tutti gli appunti scritti nel tempo, per inserirli in un romanzo che avrebbe intitolato “Odissea Trieste”, ma non lo fa perché si rende conto che la città si stava “infognando in un presente grigio”.
Margot è la moglie, nome di battaglia della partigiana Margherita sempre comunista, coerente con la sua ideologia Staliniana fino a parteggiare per le Brigate rosse, che pagherà con il carcere. Continui battibecchi tra i due: una estremista proveniente dal rione popolare di San Giacomo, dogmatica o fanatica, Margot dimostra quel moralismo ipocrita del PC; Nereo invece moderato e realista, deve fare i conti con un altro fanatismo, quello della madre, anziana e ancora convinta fascista. Ognuno ha un figlio: Lamberto è di Nereo rimasto vedovo, e Irene figlia di Margot, quasi coetanei. Una famiglia allargata.
Le vicende della città entrano nelle diatribe domestiche perché vissute in modo contrastante, secondo i valori di ognuno dei protagonisti. Ma sono contrasti che riducono in polvere il loro matrimonio.
La vita dei protagonisti dà a Leandro Lucchetti l’occasione per descrivere in modo schietto, lucido, distaccato una città come Trieste, che spesso dimentica la propria storia dove ancora Pacifismo e Tolleranza sono parole che i Triestini non accettano, come se accettandole perdessero qualcosa.
È sufficiente andare indietro nella storia di questo territorio per capire che ognuno ha radici sparse, che si intrecciano con luoghi lontani. IDENTITÀ è una parola che qui non ha alcun significato, potrebbe valere se ci aggiungiamo di frontiera, parafrasando il titolo di un profondo saggio storico e culturale di Claudio Magris e Angelo Ara.
La lettura di questo romanzo è utile per rinfrescare vecchi ricordi e conoscere la Storia, per andare oltre e superare i confini mentali che restringono ogni capacità di giudizio.
Intervista a Leandro Lucchetti:
Cosa ti ha portato a scrivere questo romanzo?
Nella marea di appunti che avevo accumulato per scrivere la trilogia di “Bora scura” stazionavano fatti storici, avvenuti nel corso della nostra vita quotidiana, che non avevo utilizzato e invece mi pareva che andassero riportati alla memoria perché sempre mi colpisce, leggendo rievocazioni di avvenimenti accaduti in passato, il fatto che tali avvenimenti ci coinvolgono e ci interessano nel momento in cui avvengono e i media ne parlano ma poi, fatalmente, nel corso del tempo che scorre ce ne dimentichiamo e ci sorprendono di nuovo quando vengono rievocati sui giornali o in televisione.
D’altro canto mi avevano sempre incuriosito i fallimenti di matrimoni di coppie di amici e conoscenti, del mio stesso primo matrimonio e in primis di quello dei miei genitori che avevano afflitto la mia infanzia e adolescenza con i loro continui battibecchi e litigi: matrimoni usuratisi non per fatti eclatanti tipo adulteri e simili ma per il semplice fatto che al di là dell’iniziale innamoramento fra lui e lei nulla c’era in comune, caratteri diversi che avevano interessi diversi e divergevano nelle opinioni verso qualsiasi fatto che li riguardasse o di cui leggessero.
Da qui l’idea di scrivere un romanzo non lungo, di facile e scorrevole lettura, che rievocasse fatti storici avvenuti a Trieste, in Italia e nel mondo, visti nell’ottica di una coppia i cui caratteri diversi e quindi incompatibili si scontrano continuamente fino alla completa usura di una unione che pure era stata generata dall’amore.
Qual è il significato del titolo?
Polvere, secondo me, è ciò che resta di un matrimonio che si consuma lentamente nel corso del tempo, si usura non a seguito di fatti drammatici, ma perché l’incompatibilità di carattere e le quasi costanti divergenze d’opinione agiscono come le termiti che rodono il legno da dentro, lo svuotano fino a che non si sfalda e resta polvere.
Chi è il personaggio principale?
Credo che ci sia parità di genere: Nereo e Margot sono i protagonisti che, in qualche modo, rappresentano la doppia anima di Trieste e dei triestini, l’inesausto contrasto ideologico, retaggio della Seconda Guerra Mondiale, mai risolto e forse irrisolvibile.
I personaggi sono reali o verosimili?
I personaggi sono certamente verosimili. Magari qualche coppia che legga il libro troverà vari spunti per discussioni che riguardano la loro vita quotidiana. Naturalmente io qualche spunto l’ho preso da coppie reali che ho conosciuto.
Essere stato per professione dietro la macchina da presa agevola il tuo stile narrativo, così agile e distaccato?
Assolutamente sì. Non so scrivere se prima non ricostruisco nella mia mente la scena e la vedo come se fosse parte di un film.
L’autore:
Leandro Lucchetti nato a Trieste nel 1944. Ha diretto i film “Maledetta Euridice”, “Apocalypse Mercenaries”, “Getting Even”, “Bloody Psyco”, “Caged” e “Aids – La tela di ragno”.
È stato regista della RAI, autore di programmi culturali e di documentari.
Nel 2016 ha scritto il primo romanzo “Amorosi sensi” (Fuorilinea Ed), che ha vinto il Premio Letterario Città di Sarzana (2017).
Il 2017 è l’anno di “Bora scura” (La saga del confine d’Oriente) (Robin ed.), romanzo in tre volumi indivisibili che narra la tragica epopea del confine orientale durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nel 2018 esce “Il canto dell’Orinoco” (Robin ed.), secondo classificato al Premio Carlo Piaggia 2020, nel 2020 “Presnitz”, una raccolta di racconti che nel 2018 aveva vinto come inedito il Premio Letterario Città di Sarzana, e nel 2023 pubblica “Arilli”, una raccolta di racconti vincitrice del Premio I Murazzi di Torino.
(Leandro Lucchetti “Polveri di matrimonio” pp. 224, 16 euro, Fuorilinea 2025)
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di Vittorino Curci
Le altre note —————————-
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di Vittorino Curci
La performance la si può vedere ed ascoltare qui
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.