Il Fare Voci di aprile 2025 è qui. Con una nuova occasione di confronto.
Ad iniziare da Vanna Carlucci, che con il suo “La parola anfibia” ci porta nella necessità dello scrivere poesia e nelle domande che alo scrivere danno vita.
La poesia è anche protagonista negli inediti in italiano della poetessa austriaca Franziska Raimund e nel nuovo libro di Giovanni Turra “Peepshow”.
Ritroviamo Enrico Grandesso con il suo nuovo “Gli altri vedono il clown”, di cui avevamo anticipato un racconto; e la narrativa è presente anche con il testo inedito di Valentina Casadei, “Diciotto metri quadri”.
Presenza importante è anche l’antologia “Vorrei che questa poesia non finisse mai” del poeta palestinese Mahmud Darwish, ce ne parla anche Sana Darghmouni che l’ha tradotta.
E c’è ancora poesia con Valentina Pasquon e il suo “Per non perdere il conto”, con Monica Messa e le sue pagine di “Una pistola al luna park” e con una selezione di inediti di Mariapia L. Crisafulli.
Le immagini sono l’espressione artistica di Alessandro Vascotto.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail farevoci@gmail.com)
Immagini ———————————
Maditerranea – It’s like fencing off the sea
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Voce d’autore ———————–
Salvare il verso giusto
Vanna Carlucci, “La parola anfibia”
di Giovanni Fierro
La poesia come accadimento continuo, prova dell’esistenza di un qualcosa che ci assomiglia, che ci fa aderire al mondo, che ci invita ad appartenergli. Vanna Carlucci con il suo nuovo libro “La parola anfibia” entra un questo presente che costruisce domande e si muove dentro una riflessione sullo scrivere poesia.
È suo l’esplorare il cosa dire, quell’affermare che “Si scrive per fare di questa vita una corsa luminosa/ un tempo evaso/ si vive per fare di questa pagina una voce”.
Perché “La parola anfibia” è un corpo vivo, luogo di percezione e svelamento, con il coraggio di scegliere le parole a cui affidarsi, lo scoprire “La metrica del venir meno/ del farmi seme/ boccone tenero/ pagliuzza che inganna l’occhio/ utero/ in questa scelta di riduzione”.
Vanna Carlucci non si accontenta della superficie luccicante delle cose, ma sa cogliere la verità di una intuizione: “La poesia, questa parete di luce/ questo impianto di carne nell’universo/ batte un dolore”.
E dentro questa verità non può che andare ancora più in profondità, con il riconoscere che ognuno di noi è scrittura, di come il nostro essere, ma anche il nostro corpo, è già un alfabeto, perché siamo parole che vanno a capo, frasi che si raccontano.
Queste sue nuove poesie sono il suo andare oltre la pelle, del corpo e della poesia, di ogni significato che con le parole cerchiamo, di attimo in attimo; quando siamo disponibili al vivere.
“La parola anfibia” è anche i disegni che ne sono contenuti, la foto di copertina, i video che si possono vedere/ascoltare tramite i qr code stampati all’interno. Così la parola dice di avere bisogno di più spazi d’espressione, più luoghi dove poter misurarsi con l’esistenza, perché “Ogni parola è l’immagine di una mancanza” ci ricorda l’autrice, e allora scrivere poesia è forse ricomporre una presenza, che possa stare all’interno di ogni respiro che in ogni attimo ci tiene in vita. In quei momenti quando “Il vento è tornato a battere dentro a un covo di corpi/ che formano un intero”.
Ed è proprio in questa geometria esistenziale che si mostra davanti ai nostri occhi, che le formule poetiche di Vanna Carlucci trovano sempre l’area, il raggio, il diametro di ogni significato che lo scrivere poesia porta in evidenza, nel dare forma a necessità e desideri. Da oggi in poi.
Dal libro:
Salvare il verso giusto.
Una protesi sull’osso:
il taglio
la lingua
questa maledetta verità.
Ti scrivo la parola
un segnale.
Risorgere, tu ed io,
come cicale.
Cosa mostrare
cosa dire
lasciare masticare nella bocca
e dopo deglutire.
*
Il cuore è spaccato
quanta retorica – è vero – ma
la distanza tra me e te che non mi vedi
è questa ferita senza immagine.
“Della vita le zampe” diceva Friederike e tu resti illeso
senza sfondare la crosta del tuo sguardo
senza parole
col tuo linguaggio tra le corna,
senza ritorno.
Illeso e abusato
“della vita le zampe”.
Ti ho pensato tutta la notte ed eravamo in trappola.
Corpi crudi, pesanti.
Portami nel bosco.
*
Le foglie lungo i bordi delle strade
come un inciampo negli occhi dei passanti
si fanno lucciole
all’ombra dei lampioni
leggere e scuoiate dal ramo bagnato
si muovono verticali
scucite dal cielo.
Sul palmo della mano
il peso di un suono
come la pioggia sottile e
scioglie una scrittura ancora
lontana da una forma.
Finita la pioggia anche il tempo sarà in fuga
la sua immagine nel riflesso delle pozzanghere
strette dalle intermittenze di luce
come l’eco di una somiglianza impressa nel buio.
*
Lì dove dimora ogni cosa
che sprofonda e precipita
le mani premono leggere.
Eppure qualcosa
tira la pelle
fa male chissà dove.
Io non so, non so dire
di quella forma buia impastata nella mia bocca.
La notte lava la mente
eppure mi sembra che rinomini ogni cosa
la tiene sveglia, fa rumore nello stomaco.
La notte batte il tamburo ed
io non so, non so dire
dell’attrito del tram che sferraglia anche
i pensieri in corsa e
questa vita che brilla nel buio.
Intervista a Vanna Carlucci:
“La parola anfibia” mi sembra sia una riflessione sullo scrivere poesia. Il testo di apertura è emblematico. Il cosa dire, facendo poesia, è la domanda più grande, la domanda delle domande?
Il testo di apertura si rivolge direttamente a chi legge; è un’esortazione a rimanere aperti alle parole, ai versi che ci si accinge a leggere. Scrivere poesia e leggerla dilata la nostra percezione, affina i nostri cinque sensi ed è impossibile avvicinarcisi se non comprendiamo che essa ci denuda completamente dalle nostre sovrastrutture e lo fa violentemente.
“La parola anfibia” nasce da una domanda che non cerca una risposta definitiva ma tenta di dare corpo a quelle infinite verità che la poesia porta a galla.
E domandarsi della poesia è già scrivere poesia?
No, forse no.
“La parola anfibia” è anche i disegni che ne sono contenuti, la foto di copertina, i video che si possono vedere/ascoltare tramite qr code… Mi viene da pensare che c’è bisogno di altro spazio per la parola; la parola stessa ha necessità di esprimersi anche in altro modo?
Ho sempre lavorato con altre forme di linguaggio ma tutto questo ha lo scopo di manifestare un senso e il verso è solo una delle tante forme in cui la poesia può esprimersi.
L’immagine di copertina è parte di una serie fotografica dal titolo “Il grado zero della scrittura” e rispecchia il leitmotiv dell’opera in versi, lo completa alla stessa maniera delle immagini o dei video (uno di questi in collaborazione con il musicista sassofonista Francesco Massaro) contenuti all’interno del libro e che provano a tracciare una mappa sensoriale delle parole. È come se l’inchiostro non bastasse più e le mani fremono, gli occhi sfrigolano, l’orecchio vibra. È una pratica che sicuramente non nasce oggi, basti pensare alla poesia concreta degli anni 70.
Una sensazione molto forte, leggendo questi tuoi nuovi testi, è sentire il come ognuno di noi sia scrittura, di come il nostro essere, ma anche il nostro corpo, sia già un alfabeto, parole che vanno a capo, frasi che si raccontano. È così?
C’è un verso di Paul Celan che dice “scorzami dalla mia parola”. Quanta fisicità è presente in questo verso meraviglioso; leggendolo lo senti addosso, sulla pelle.
E si vive anche un continuo senso di vulnerabilità, ci si sente immersi in un qualcosa che è precario, momentaneo. È il nostro tempo contemporaneo?
L’uomo è sempre stato vulnerabile, fa parte della nostra indole. La nostra epoca invece ci costringe a nasconderla. Esposizione di immagini e parole, momenti della nostra esistenza. Vogliamo dimostrarci capaci, competenti, impeccabili, performanti, speciali.
I social ci impongono continuamente questa condizione che però è falsata, poco veritiera. I nostri volti diventano patinati, la comunicazione passa attraverso degli schermi e per ore ci si relaziona con la tastiera del telefonino anziché con la persona che ci è di fianco. La realtà è che viviamo purtroppo in un tempo di grande precarietà emotiva, professionale.
Anche il tempo ci è insopportabile, lo dobbiamo frammentare altrimenti ci diventa insostenibile. Siamo vulnerabili ed è una condizione che questa società non può accettare altrimenti ti rigetta.
Scrivi “ogni parola è l’immagine di una mancanza”. Avere a che fare con la scrittura è capire quale mancanza è?
Più che capire di quale mancanza si tratti, è accettare che esista. Prenderne coscienza.
Il testo di pagina 12 è rivelatore anche per quanto riguarda la ricerca da fare in noi stessi. Mi sembra sia l’invito a svelare cosa abbiamo dentro, quale la nostra natura… “Mi accarezza la bestia dimorata nel petto/ ogni tanto si risveglia/ mi chiede cosa siamo”. Mi sbaglio?
Prima parlavo di senso nella parola poetica e di come il senso si riveli a noi con tutta la sua prepotenza. Florenskij lo definisce senso incarnato.
In diverse occasioni ho parlato del significato di questa bestia. È un animale selvatico che vive al centro del mio petto. È il “daimon” della poesia con gli artigli della parola tra le sue zampe e dilania, ferisce e svela il senso incarnato, un linguaggio che sanguina, una ferita.
Tutte queste tue pagine dicono anche di un costante desiderio dell’altro, vivono in una sensualità che trabocca, che nutre la tua poesia. Ti ci ritrovi in questo?
Questo perché c’è una continua relazione con il Tu. Un corpo, una foglia, la pioggia che ti sfiora, ogni cosa diventa un Tu amoroso, diventa tentativo di accoppiamento con il mondo e, in fin dei conti, non faccio altro che questo con la poesia. Cercare di sentirmi piantata nel mondo.
L’autrice:
Vanna Carlucci è nata a Bari nel 1987, vive a Roma dove insegna materie letterarie. Ha collaborato come critico cinematografico per diverse riviste di cinema nazionali.
Come visual-artist ha approfondito il campo del linguaggio fotografico partecipando ad alcune mostre collettive e personali, e ha lavorato da archivista all’interno di una residenza d’artista per il recupero del patrimonio fotografico di famiglia.
È co-fondatrice di RaYo – Research About Your Origins.
In poesia ha pubblicato la raccolta “Involucri” (LietoColle 2017).
(Vanna Carlucci “La parola anfibia” pp. 42, 9 euro, Il Convivio Editore 2024)
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In darkness, we grow #1
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Tempo presente ———————–
Arrivare, partire
Undici testi inediti in italiano
di Franziska Raimund
Arrivare, partire
Odio le partenze
non voglio muovermi
non voglio partire
cambiamenti di luoghi
sono difficili per me.
Mi ammalo
prima di ogni partenza
non capisco per quale motivo
uno possa rallegrarsi
del fatto di essere in viaggio.
Temo l’ignoto
l’inconsueto
mi angoscia.
Potrei vivere
senza treni
macchine aeri
navi.
Non sono più
curiosa.
(1989)
*
Essere in lutto
Ogni passo fatica
le ore tra le mie dita
la vita si allontana
io resto
oggi è il giorno
di tutti i santi
la mia lingua
una mano tesa
un dolore
che si calma
gigli d’acqua sabbia
un fiocco bianco
nei capelli
di una bambina scura
che corre
attraverso campi di papaveri
il mio bambino mai nato
si chiama Emmanuel
come mio nonno ebreo
che non ho mai conosciuto
mio padre morente
dimmi
come si sopravvive?
(1989)
*
Il mio augurio di buon compleanno
in forma di un improvviso giardino
per Hans
Lascia accadere l’inevitabile
non pretendere o difenderti
lascia correre il sangue nelle tue vene
ascolta il fruscio
nella conchiglia bianca
e che il tuo colore preferito sia il giallo.
Ti auguro
una fontana di marmo
nascosta nell’edera
un libro ingiallito nelle mani
di una nobildonna vestita di viola
la statua di un fauno
sotto il lauro
odore di acqua di menta
e la freschezza di un prato
dopo una breve pioggia
d’estate.
(1990)
*
Erik Satie, Gymnopédies
Superficie liscia silenzioso
stagno verde di ninfee
stanchezza ombrosa
libellule le ali bagnate di rugiada
profumo di muschio acqua
fili di perle cristalli scintillanti
quiete velluto blu notte scura
rispecchiamento nello stagno
rose selvatiche sul gazebo
ninfe e fauni
rispecchiamento nello stagno
pesce argenteo chiaro di luna
guardati
voltati verso l’interno
resta rimani fermo arrestati
trattieniti vento di notte
superficie liscia silenzioso
stagno verde di ninfee
lucciole lauro
la luna attorcigliata di edera
e fresca
(1991)
*
Messaggio per mio padre morto
Per questa bambina coi cappelli ricci
eri l’uomo di sera
l’uomo che tornava a casa quando faceva già buio
per le bambine troppo tardi per giocare
per parlare con te.
Non ti vedevo mai presto la mattina
così silenziosamente uscivi di casa
ancora prima dell’alba
così poco rumore facevi
e non dicevi una parola.
La domenica ti guardavo in faccia
tanto in alto sopra di me
quando prendevi la mia mano
(veramente l’hai presa?)
e andavamo a messa.
In chiesa non dovevo parlare
tu pregavi.
Amavo l’incenso e l’organo
il rosso e l’oro e te.
Pensavo che fossi immortale
pensavo che forse un giorno
sarebbe stato possibile
che noi due finalmente
ci riconosciamo.
(1993)
Riviera del Brenta
Lungo il fiumicello, verde di alghe,
dai riflessi scintillanti
le ville venete abbandonate,
immerse nel fogliame folto
di platani e castani,
case patrizie dagli occhi chiusi
silenziose
non respirano più
il profumo dei mughetti
nelle sale da ballo
ragnatele e topi affamati.
La Malcontenta nell’ansa del fiume
penosamente circondata
da un‘ impalcatura arrugginita
apre a malapena
la sua porta minuta di legno
al visitatore di altri tempi.
(1993)
*
Giardini
Tutti i giardini appartengono ad altri
a quelli che sanno come si piantano i fiori
quando e in quale angolo
il girasole e il nontiscordardimé.
Anche gli alberi e gli arbusti
potati e protetti
offrono la loro ombra ad altri
hanno frutti per loro.
Io sto dietro steccati.
Eppure:
due viole di un blu pallido
su un sentiero sabbioso
e i denti di leone
gialli di tuorlo
nei ciuffi radi di erba
sono miei.
(1993)
*
Caleidoscopio
Il tetto a tegole rosse
che fa fronte al vento
alla pioggia che
con gesti lenti
si poggia sulle finestre, bianchi
sono i muri della stalla.
La tovaglia a scacchi blu
la sdraio nell’angolo
davanti alla porta un rosaio
e delle colline in lontananza.
Prugne nell’erba
il giardino soleggiato
invento tutto questo in un attimo
sparisce il paesaggio.
(1994)
*
Che tu respiri
Che tu respiri accanto a me,
che io senta i tuoi palpiti
quando appoggio cautamente la mia testa
sul tuo petto
e so che tu dormi
apparentemente senza paura
verso il risveglio,
verso il giorno nuovo,
tutto ciò dà pure certezza.
Come se
una piuma
volasse verso il blu del cielo.
(1995)
*
A Henny
L’arcobaleno si apre
in una bolla di sapone
ed il cappello di paglia
di quando avevi
dieci anni, non più,
riposa sul sofà
accanto all’orsetto di peluche
che è già un po‘ sciupato
dai troppi abbracci.
Il tutto bagnato di luce
di un pomeriggio di giugno.
Nient’altro.
(1995 / scritto originariamente in italiano)
*
Merlo
Merlo
ti regalo i peli
del mio cane
per il nido
tra gli arbusti
peli bianchi
soffici leggeri
un materasso
profumato
impermeabile.
A condizione che tu
un giorno
canterai
anche per quel cane
sdraiato al sole
che ti ascolta
stupito.
(1997 / scritto originariamente in italiano)
Le traduzioni in italiano delle poesie di Franziska Raimund sono a cura di Augusto Debove – tranne i testi indicati scritti direttamente in italiano dall’autrice – e fanno parte della raccolta “Chiaroscuro” che sarà pubblicata presso la casa editrice De Ferrari Editore di Genova nell’autunno 2025.
L’autrice:
Franziska Raimund, nata nel 1944 a Bad Hall in Austria, vive a Vienna e a Hochstrass/Lockenhaus nel Burgenland. Ha compiuto studi di germanistica e romanistica all’università di Vienna e ha svolto l’insegnamento universitario e nei licei per trenta anni in Austria, Francia e Italia, di cui tredici anni all’United World College of the Adriatic / Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico a Duino (Trieste), prima come insegnante di tedesco e francese incaricata dal ministero austriaco, successivamente come direttrice agli studi e infine come vice-rettore. Parla tedesco, italiano, francese e inglese.
Ha tradotto dal francese (Marcel Proust, Kreusnach; Michael Peppiatt, Zoran Music) e dall’italiano (Elena Salibra, Luigi Fontanella, Donatella Bisutti, Danila Boggiano, Mario Andrea Rigoni, Gerardo Vacana, Manfredi Lanza), pubblicati nella casa editrice LÖCKER VERLAG a Vienna.
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In darkness, we grow #5
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Tempo presente —————————-
Anche stanotte – una notte
Giovanni Turra, “Peepshow. Poesie 1996-2023”
di Roberto Lamantea
Architetture, finestre, cortili, condomìni, strade. L’obiettivo scava prospettive, profondità, geometrie, come l’occhio di una macchina da presa, le sequenze care al cinema francese dell’école du regard, carrelli che tagliano i piani in una vertigine dell’occhio. E fughe: nell’angolo del cortile, nella geometria. Movimenti lenti lungo un corridoio sino a superare una porta: come nel finale di Professione reporter di Antonioni, la macchina da presa dall’esterno attraversa magicamente un cancello, il muro, una finestra, una stanza; fuori campo rumori di vita.
Tutto questo per parlare della scrittura di Giovanni Turra: 52 anni, professore di liceo e ricercatore universitario, musicista jazz, quattro libri all’attivo e saggi critici (tra gli altri su Biamonti ed Emilio Cecchi), Turra pubblica nella Gialla Oro di Pordenonelegge, per i tipi di Samuele Editore, “Peepshow”, titolo che con ironia gioca sull’ambiguità tra il guardare di nascosto uno show erotico e l’acronimo Peep, Piano per l’edilizia economica e popolare: qui i condomìni di Mestre (dove l’autore è nato nel 1973) e Mogliano Veneto, dove vive e lavora.
Una poesia di sguardi e di sguardi-pensiero: è l’oggetto esterno – stanza, un letto, particolari di vestiti, un cortile (altro rimando cinematografico, hitchcockiano, nella prospettiva dell’occhio-macchina da presa), un corridoio, finestre e serrande, terra, erba – a intonare tutta la partitura.
Perché “Peepshow” non è solo la nuova raccolta di versi del poeta veneto (lo è l’ultima sezione, “Il bosco degli spiriti”, 2014-2023), ma il libro raccoglie, con minime varianti, tutto il lavoro poetico di Turra, da “Planimetrie” (1996-1997) a “Con fatica dire fame” (1998-2013), del 2014. La lettura in sequenza dei libri ne conferma l’unità stilistica.
Teatro della brevità, del senso frantumato della vita urbana: Turra è poeta di tracce, anche di tracce fonico-ritmiche, un bruit della lingua innestato su un tessuto linguistico e metrico di echi e citazioni e un lessico che mescola popolare e colto (da Dante all’amato Sereni, con musiche zanzottiane) e un ritmo mosso, una sintassi dall’anima jazz, come ha rilevato Isabella Panfido in una bella recensione sul Corriere del Veneto: “Da un cortile – prima neppure/ presupposto – ritira la luce/ la sua rete, le sue cose./ Come quando un uomo muore.// Allora bisognerebbe calarsi,/ metter mano,/ disporre a lato le parole/ prese a prestito dai libri”.
Jazz e cubismo: “Nel naso mi s’infila voltolando/ in bocca e tra le ciglia/ e fina e fitta neve.//Dal collo il collo sporgo/ dintorno se mi guardo e scende giù/ e tutto è bianco”. Una pennellata magnifica: “Nei lavori del mattino/ sono piene di vento e luce/ le case”. I versi come movimento (e torniamo al jazz): “L’io che ero io a sedici anni/io dico: era, è stato./ E vide, crebbe, disse./ E tutto è dentro me,/ ov’è uno spazio grande,/ adatto per il gioco”. L’intonazione classica tra Dante e Montale sbocciata da un endecasillabo: “L’implume che dal nido alza l’ala/ e non s’attenta, e subito la cala/ son io”. Il parlato dialettale (un toscanismo): “La notte,/ quando siamo per dormire,/ noi si volge il capo ad est”.
Molte le citazioni, anche subconscie (nelle Note Turra rivela divertito il riaffiorare di un verso di Jolanda Insana diventato il titolo della raccolta del 2014, “e quando con fatica dico fame”, scoperto da Francesco Targhetta). Ma tutta la poesia è un copiare e citare: la dedica agli amici è una terzina di Zanzotto: “Nessun diritto è riservato/ magari da me si copiasse/ quant’io dagli altri ho copiato!”.
Dal libro:
Peel slowly
Mai è stato violato
il mio essere solo.
Neppure le donne la notte.
Ma violalo tu
il mio essere solo.
In esso come sono
io tutto mi disvelo:
irreparabile, prezioso
vero e fuori luogo.
*
Il mulo
Era senza basto il mulo
e camminava a stento
ma libero finalmente
e prossimo a morire.
*
Cucinare
Su vanno le parole in linea retta,
rapide ed innocue:
‘afto’ ‘dilucolo’ ‘cercine’ ‘opimo’.
Rotolano in terra invece
rimanendoci aggrappate
le cose come lappe.
Così che finalmente
distano anche troppo
le cose, le parole.
Passare dall’una all’altra
non si può. Amare
non si può, non si può più
peccare. Come me:
ancora parlo
e non so neanche cucinare.
*
L’impronta che mi lasci sul cuscino
e te ne vai
odora di cannella
e garofani pesti.
Sai di droghe da dolce di Natale,
di semi di papavero
e pan pepato.
Anche stanotte – una notte
d’estate.
*
Condòmini
Domenica.
Indugia nelle scale
con i fumi dell’arrosto
un odore di canile.
Siamo noi:
casalinghi
e ferocissimi.
*
Quattro a.m.
Càlati in un sasso, dormi.
Inòltrati in un sonno senza
sogni. Fresco dev’esserci
lì dentro, e una penombra
d’acquario. Sono le quattro,
dormi. Ti attraversano correnti
contrarie, fredde bolle
sgorgano. ‘Arco’ per ‘ocra’
hai compiuto, ‘eruppe’
per ‘eppure’. Sono le sette,
dormi? Prima non c’eri
e invece: eccoti qui.
*
3.2
Domenica, ora viola.
Precipita a lento moto sul parquet
un peso piuma di rette sghembe.
O dovrei dire piuttosto un kiwi o
l’uccello trampoliere.
Ripeteva l’asimmetrica posa
di un piede sospeso a mezz’aria,
invece di cacciarlo nella bocca
allargata del pigiama.
Sottosopra mi vien fatto di pensare
a quanto avessero ab antiquo
avuto ragione:
di fare del cavallo
attributo di re.
Intervista a Giovanni Turra:
I tuoi versi nascono spesso dallo sguardo: condomìni, la tua casa, la strada, e c’è sempre una malinconia delicata nel tuo scrivere. Ti si potrebbe definire “poeta urbano”? Viene in mente naturalmente la linea lombarda, i “poeti della città”, anche la cronaca come poesia, il percorso che va dall’ultimo Montale a Cucchi e oltre. È così?
Volendo tracciare il mio orizzonte visibile e vivibile (dall’anonimo e sovrapponibile hinterland mestrino degli esordi, al condominio reale e immaginario della prima maturità, all’Ingens Sylva dei testi più recenti), la folla di necessari numi che mi tutelano include una vasta e vaga zona della poesia realistico-espressivista che, dalle origini della nostra letteratura, potrebbe arrivare, infittendosi di nomi via via che si attraversa il Novecento, sino al feticismo laterizio di Umberto Fiori, Esempi e Chiarimenti per intenderci. Maurizio Cucchi, che pure ho letto, e il Montale del dopo Satura, che ho frequentato pochissimo, alla distanza non mi pare che abbiano lasciato tracce evidenti nella mia poesia.
Semmai, non tralascio altre tradizioni, soprattutto quella inglese, con in testa Philip Larkin (“Man hands on misery to man”), e quella americana, in particolare William Carlos Williams (“No ideas but in things“).
Tu sei di Mogliano, dove vivono altri poeti che lavorano su stili diversi (Pier Franco Uliana, Silvia Salvagnini…), tra l’altro proprio a Treviso abita Francesco Targhetta, che alla poesia della città ha intonato la propria scrittura con la forma del romanzo in versi: esiste una “linea trevigiana”?
Risiedo a Mogliano Veneto da tanti anni, ma resto mestrino. Conosco e stimo Pier Franco Uliana e Silvia Salvagnini, anch’essi moglianesi d’adozione: se l’uno scrive nella parlata del Cansiglio e l’altra, invece, si esprime nei modi delle spoken words, ciò non mi impedisce di nutrire interesse per la loro ricerca.
Allo stesso modo, seguo e apprezzo il lavoro di Francesco Targhetta. Ma se questi sono i nomi, non credo che si possa parlare di una linea trevigiana. Forse è esistita negli anni Novanta e Duemila.
Con Maddalena Lotter e Sebastiano Gatto hai diretto per Amos una collana di poesia, “A27” (come l’autostrada): è stato possibile individuare delle tendenze in chi invia i propri versi a una casa editrice?
Nella direzione della collana, Maddalena subentrò a Igor De Marchi, che aveva lasciato nel 2018. Con De Marchi e Gatto, a metà dei Novanta avevo dato vita al cosiddetto gruppo dell’A27, l’autostrada che unisce Mestre a Belluno.
Più in profondo, la sigla dichiarava la volontà di indagare da poeti i rapidi mutamenti anche antropologici che si stavano verificando allora in una parte del Paese, a seguito di un’industrializzazione incontrollata e rapinosa.
Quando nel 2016 A27 passò a designare la collana di poesia di Amos Edizioni (che sarebbe cessata nel 2022), qualsiasi intento programmatico, più e meno esplicito, era caduto da tempo; per cui abbiamo potuto accogliere voci molto lontane dalle nostre ma tutte egualmente originali e robuste.
Io per me posso dire di aver amato Linoleum di Giulia Rusconi, Libretto di transito di Franca Mancinelli, Il mondo che fa per me di Valentina Proietti Muzi, Distacco del vitreo di Roberto Cescon, Il sogno di Giuseppe di Stefano Raimondi.
Non saprei pensare a cinque libri più diversi tra loro.
La tecnologia ha modificato anche le modalità di scrittura: tu scrivi a penna, al computer, allo smartphone? Secondo te le varie modalità incidono sullo stile?
Oggi la tecnologia ha stabilito che la comunicazione passa attraverso computer, cellulari, Internet. E non siamo liberi di privarcene: pena l’esclusione sociale.
I social hanno modificato il rapporto pubblico/poesia? C’è chi li rifiuta, chi su Facebook pubblica i propri inediti, chi vede in FB e nelle altre piattaforme occasioni per farsi conoscere, chi individua nella rete uno strumento di informazione sull’editoria di poesia che altri canali non offrono: che ne pensi?
Prescindendo dagli strumenti di cui decidiamo di servirci per continuare a leggerne e a scriverne, confido che malgrado tutto la poesia continui la sua rinsanguante opera di disturbo.
L’autore:
Giovanni Turra è nato a Mestre nel 1973. Vive a Mogliano Veneto. Insegna italiano e latino nei licei e lavora al Dipartimento di Studi linguistici culturali comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Dal 2017 al 2022, con Igor De Marchi, Maddalena Lotter e Sebastiano Gatto ha diretto la collana “A27 Poesia” di Amos Edizioni. Ha pubblicato i libri di poesia “Planimetrie” (Book 1998), “Condòmini e figure” (in Poesia contemporanea. Nono quaderno italiano, Marcos y Marcos 2007), “Con fatica dire fame” (La Vita Felice 2014).
Si è occupato di letteratura di viaggio e letterature straniere nella stampa italiana tra le due guerre, della ricezione del mito classico nella poesia italiana recente, della produzione in versi di Dino Buzzati, dell’opera in dialetto e in lingua di Luciano Cecchinel, delle trame reticenti di Francesco Biamonti.
(Giovanni Turra “Peepshow. Poesie 1996-2023” pp. 176, 13 euro, Pordenonelegge collana Gialla Oro/Samuele Editore 2024)
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Spazio di possibilità # 4
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Ti racconto ————————–
Nei tempi di adesso
Enrico Grandesso, “Gli altri vedono il clown”
di Giovanni Fierro
È davvero un grande piacere immergersi nelle pagine di “Gli altri vedono il clown”, il nuovo libro di Enrico Grandesso.
Nove racconti che sanno muoversi nel tempo, si va dagli anni Ottanta al presente immediatamente post covid, dando un ritratto della nostra Italia, principalmente il nordest, che si confronta con i propri desideri e le proprie fragilità, con il fare incarognito e la buona volontà.
“Gli altri vedono il clown” è raccolta di racconti, ma con una storia – quella di Renè – che in queste pagine si sviluppa e si ripresenta, intersecando in qualche modo le altre storie raccontate, costruendo così un lavoro ancora più definito ed articolato. Capace di creare una identità a cui appartenere, e a cui Enrico Grandesso con una scrittura brillante, coinvolge il lettore con una leggerezza illuminata che anima il suo scrivere.
Tutti i protagonisti di queste storie sono in movimento, in treno o in macchina, in biciletta, ma anche nel tempo. Il tempo della loro crescita, luogo che permette loro di migliorare o di appassire, mai luogo che non li influenzi in qualche modo, spazio da cui è impossibile uscirne incolumi.
“Ma perché, pensava, perché teorizzare la politica come un assoluto? Vogliamo cambiare il mondo e due secoli di laicità hanno insegnato così poco? “Tanto senta me: noi gente comune non contiamo una cippa”, “Il ragazzone riccio, in preda al sudore, si slacciò due bottoni della camicia, facendo intravedere una canottiera pregramsciana”; Grandesso è abile, con pochi tratti di scrittura a delineare una identità, una propria cifra esistenziale, che si manifesta nei dettagli, delle parole dette o dal modo in cui ci si veste.
“Erano arrivate le 11.50, carciofi! Faceva sempre più caldo, una calura fuori stagione sbifida come una zanzara: e pensare che in gennaio non aveva più smesso di nevicare, tutta tutta Italia si era imbiancata”, e questa è una cartolina da inviare, con gli auguri che tutto possa migliorare, società ed intimità, sguardo e fiducia. Questi racconti sono un viaggio sottopelle nella società italiana, che Grandesso rivolta ed indaga, mette sotto i riflettori ed ascolta, e che in queste pagine svela con garbata ironia ma tagliente osservazione.
“Poi un 31 dicembre scoprì che suo fratello si bucava. Ma kazzo, sei un architetto, hai una famiglia e due figli, hai pure la grana, ma cosa ti manca? Eppure quando gli aveva parlato per convincerlo a smettere, quello tra il lusco e il brusco gli aveva chiesto due milioni in prestito: due milioni! – ma stai scherzando?”: cos’altro aggiungere, se non che la disperazione è luogo comune dell’essere umano, incapace a volte a stare al mondo, perenne debolezza che prende nome e cognome, che rinuncia a sé e si perde, sempre di più.
Lo sguardo di Enrico Grandesso è il vedere chiaro e netto la deriva del nostro tempo quotidiano, alimentato dalla superficialità e nutrito dalla paura: “Un tipo alto, con la barba e un naso da capretto le aveva lanciato una brutta occhiata mentre tornava al suo posto. “Arabi” lo aveva sentito dire, “ammazzarli tutti! Senza pietà”. “Così il petrolio ce lo prendiamo noi, cazzarola!” aveva aggiunto uno seduto vicino a lui. “Li scannerei con la scimitarra”. Sapeva di non doverli neppure ascoltare”.
Perché poi ognuno di noi ha la responsabilità di mettersi davanti allo specchio, e con magari il domandarsi se si ha avuto il coraggio di mantenere tutte le promesse fatte, a se stessi.
E forse proprio per questo, i racconti di “Gli altri vedono il clown” hanno nella propria filigrana un che di resistente, perché emerge chiara e netta la sensazione che comunque, alla base di ogni accadere, ogni singola persona ha la possibilità di scegliere da che parte stare. La possibilità di svincolarsi dai meccanismi di una società sempre più occludente: “L’avevano anche votato preside per sei anni, incastrandolo lì, come Prometeo nella roccia; o più prosaicamente, preso per il culo come il coyote da Beep Beep”.
Enrico Grandesso con “Gli altri vedono il clown” fugge da ogni patente sicura di narratore, non si lascia influenzare dalle facili soluzioni e ci presente la nostra umanità nella sua rappresentazione più vera. Grazie.
Intervista ad Enrico Grandesso:
La struttura del libro è alquanto originale. È sì una raccolta di racconti, ma con una storia (quella di René) che si sviluppa nel libro, con un prima e un dopo, che si ripresenta fra i racconti, intersecandoli e caratterizzandoli, inevitabilmente. È così? E come è nata e come si è costruito “Gli altri vedono il clown”?
Il libro si stava profilando, agli inizi del 2020, con un altro schema narrativo. Poi, la crisi del covid19 ha spezzato gli equilibri… e ha fatto saltare in aria anche la mia idea del libro. Era ovvio che non potevo scavalcarla: infatti il mio primo racconto l’ho scritto a Piazza della Frutta, a Padova, a fine maggio 2020. Ero nello stesso bar e nello stesso tavolino all’aperto dove, ai primi di aprile 2017, avevo composto la prosa poetica “Nei portici lunghi”, che fa parte del libro di racconti precedente, “I dettagli sono importanti”.
Ora però tutto era cambiato: gli attori del racconto sembravano essersi appena svegliati da un incubo sconvolgente e assurdo.
René è il protagonista del secondo racconto “Di chi?”. Ambientato nel 1985, è un brano che parla del tempo – apparentemente così lontano – in cui non c’erano i cellulari né gli smartphones… i treni (allora come oggi) ogni tanto si fermavano per qualche guasto: e René, giovane ricercatore universitario pieno di entusiasmi, si trova a passare in uno scompartimento quattro ore con altri personaggi di cui non sa niente… parafrasando il grande Pirandello, potremmo dire che sono sei personaggi che rimpiangono un treno in orario.
Quando René ritorna sulla pagina, nel dicembre 2020, è quasi in età da pensione… e ha attraversato, senza poter far molto, tre decenni e mezzo di progressivo decadimento della società e della cultura italiana: ma qualche scintilla ideale e costruttiva, sincera e vigorosa, in lui rimane ancora. E si esprimerà nel racconto, imprevedibile e gioioso, che dà il titolo al libro.
Protagonista di questi racconti è quindi anche il covid, ben presente in queste narrazioni. In che modo ha inciso nelle storie che hai raccontato? E secondo te, ora cosa è rimasto, come strascico sociale, nel tessuto della nostra quotidianità?
Come ho detto sopra, è stato un periodo di crisi – e un dramma – che non potevo evitare. Estende la sua ombra lunga su quattro racconti su nove.
Tre sono racconti dove lo si avverte battere in sottofondo. Uno è invece un testo satirico: la decostruzione di un D.P.C.M., scritto idealmente il primo di aprile. In Italia molti hanno la memoria cortissima – e i media in genere aiutano a renderla sempre più corta: pochi ricordano che nell’inverno 2020 il nostro piano pandemico non era stato aggiornato da oltre dieci anni, che all’inizio mancavano le mascherine, che alcuni noti esponenti politici – di entrambi i due grandi schieramenti – agli inizi dei contagi al posto che convincere alla moderazione consigliavano, con pubblicità create in pochissimo tempo, di uscire tranquilli e riprendere la vita di tutti i giorni. E nessuno di loro ha risposto delle conseguenze di queste minchiate.
Aggiungiamoci non solo un governo che spesso ha agito in fretta e furia, ma anche i media che sovente non hanno fatto chiarezza, con tutti quei medici in TV pronti a scannarsi l’uno contro l’altro come gelose veline adolescenti.
Dopodiché – e questa è l’Italia, grazie a Dio! – ci sono stati innumerevoli singoli e alcune istituzioni e gruppi che si sono impegnati al massimo, in vari settori, per salvare vite e per operare nel modo migliore possibile.
Certo, il cosa raccontare. Ma è fondamentale anche il come raccontarlo. I tuoi nuovi racconti sono anche questo tuo esprimerti con una scrittura che coinvolge, che ha i tratti di una leggerezza illuminata, cha sa portare il lettore dentro alle storie che presenti. È stata una decisione presa per sintonizzarti meglio con ciò che volevi scrivere, o invece è il semplice accadere del tuo desiderio/bisogno di mettere su pagina quanto volevi raccontare?
La definizione di “leggerezza illuminata” è bellissima… grazie Giovanni.
È la seconda delle tue ipotesi: questa scrittura è il mio stile. Non voglio qui dire troppo e lascio alla curiosità dei lettori scoprire il resto. Sottolineo soltanto che la musicalità e la vivace ricchezza lessicale si inseriscono nella mia idea di mimesi: la scrittura deve confrontarsi con il parlato, incluso il dialetto; con gli anni in cui una vicenda è ambientata; con il ritmo e con le sfumature dei suoni e del pensiero. Per arrivare non propriamente ad imitare, ma ad un confronto dialettico ed estetico.
Mi baso su questa concezione di mimesi anche nella mia scrittura saggistica e critica; ancor più è centrale nella scrittura narrativa.
Nel racconto “Blackout”, il viaggiatore che Renè incontra sul treno ha poi con lui uno sfogo davvero potente. Analizza, a modo suo, il mondo com’è, con la legge del più forte come unica verità. È di certo un tornare indietro nella caverna dell’esistenza (e mi viene in mente lo scrittore norvegese Jo Nesbø, che in una recente intervista ha detto di come si ricorda molto bene della verità che un suo amico gli aveva svelato: “La vita è solo un fottere e l’avere la paura di morire”). È nelle parole di questo viaggiatore la brutalità del tempo contemporaneo che stiamo vivendo? È questo suo pensiero, il pensiero comune che si sta facendo sempre più forte e soverchiante?
L’interlocutore – deuteragonista di “Blackout”, che soverchia René nella tappa in treno da Firenze a Bologna, ha sia una valenza simbolica sia una che sta tra la realtà e il fantastico più perfido (la critica e poetessa Laura D’Angelo, che ha scritto la prefazione al libro, ha parlato di “splatterpsicotico”).
È innanzitutto il tipico personaggio, che penso molti di noi abbiano incontrato, che quando si è da soli (in uno scompartimento, in un bar o altrove) si confida senza esserne stato richiesto e sbrocca in maniera terrificante. È chi non vuole (perché non sa) ascoltare; ma è anche qualcuno che, nell’idealizzazione di un potere che è al tempo stesso follia, esalta la minaccia della persuasione nascosta dei media.
In una narrazione condita da tratti ironici – si veda il finale – invito il lettore a riflettere sui danni che la televisione può portare: in particolare in un popolo come quello italiano, con oltre il 70% della popolazione oggi immiserita dal semianalfabetismo. E, in maniera inversamente proporzionale, risucchiata dall’immagine.
Il viaggio, sì. Il viaggio è sempre presente in “Gli altri vedono il clown”. Che sia in macchina o in treno, è un protagonista importante. Cosa significa per te? Per quale motivo è così presente nel libro?
Quanti stereotipi superficiali sono stati coltivati nei decenni scorsi sul viaggio… sul conoscere “gli altri”… sul dovere ”civile e culturale” di viaggiare… e in troppi si sono dimenticati di quanto cantava Baudelaire ne “I fiori del male”: “Ma è un sapere amaro quel che si trae dai viaggi!/ Il mondo è uguale e piccolo, così in tutte le ore,/ Oggi, ieri, domani, rinvia la nostra immagine/…. / Partire? O restare? Resta, se puoi restare,/ Parti, se devi”.
Senza costrutto ad esempio viaggiano quei bauscia milanesi che, nel racconto “Questa poi!”, vanno in Alto Adige e fanno la parte dei pifferi di montagna, che vennero per suonare e furono suonati.
Il viaggio che dà frutto invece non può prescindere dall’osservazione esatta, dalla selezione di chi si incontra, dal raffronto onesto tra le emozioni esterne, la pochezza del reale e la propria crescita ed espressione interiore. E da un pizzico di humour e di ironia.
Il libro si muove anche in un tempo che si fa sempre più ampio. Gli anni ’80, il tempo del covid, l’immediato secondo dopoguerra. Che paesaggio temporale hai voluto disegnare e contenere con/in questi racconti?
Ho voluto ricostruire oggetti, atmosfere, espressioni idiomatiche o gergali di alcuni frammenti di tempo tra gli anni Ottanta e il periodo del covid – cioè l’altroieri… per questo ho pensato ad un protagonista, René, che collega speranze e tensioni, sogni e vissuti a distanza di quasi quattro decenni.
Negli anni Ottanta, tecnologicamente molto meno avanzati, c’erano però più sogni; la politica era ancora concepita da più persone come un dovere, una esigenza di rappresentanza; girava più cultura e molti credevano nell’opinione pubblica – oggi pressoché azzerata, discutibilmente a vantaggio di talk show spesso beceri e aridi di contenuti da un lato, delle notizie divorate in pochi secondi su internet dall’altro.
Il racconto finale ambientato nel 1944, “Sognando”, è invece un volo in uno spazio-tempo altro: che comunque, sottovoce, ha ancora qualcosa da dirci.
Le storie che hai scritto sono tutte ambientate nel nord Italia, nel nord est con una maggiore frequentazione. Che nord ne esce? Che paesaggio è?
Il Nord… il Nord Est… tra un po’ suoneranno come espressioni di archeologia sociologico-produttiva. Il mio primo volume di racconti, uscito nel 2018, era tutto ambientato nel Veneto, sviscerato in luoghi, drammi e contraddizioni differenti. Qui invece – a parte il primo racconto e quello conclusivo – il polo di attrazione è Milano: capitale una volta di più, perché unica grande città di riferimento per il Nord Est, che di suo non ne ha nessuna.
Capitale di ciò che è l’Italia oggi per quelli della mia generazione: un pallone gonfiato, che campa sui sempre più tenui ricordi di ieri (Cochi e Renato, Sofia Loren, i cantautori, la Fiat, Pertini, Pavarotti, i mondiali di calcio vinti ogni tanto, ecc…) mentre la realtà iperinformatizzata di oggi scappa via a più non posso. Le generazioni più giovani sono più smagate: mentre noi boomer stiamo qui, felici e contenti dei nostri ricordi – vuoti a perdere, magari gongolandoci tra una pizza e uno spritz per l’assioma di Madonna: “Italians do it better” (gli italiani scopano meglio). Che bravi…
Certo poi ci sono, come ho già detto, in ogni generazione le eccellenze, che remano contro: singole, in gruppi o caratterizzanti luoghi di lavoro o istituzioni. Una parte di loro vive e lavora all’estero; l’altra parte deve mettercela tutta e un po’ di più per farsi rispettare e affermarsi tra una popolazione così stordita e mediocre.
Però, nonostante tutto, ci siamo.
L’autore:
Enrico Grandesso è scrittore e studioso di letteratura. Ha pubblicato saggi, tra gli altri, su Rebora, Turoldo, Sbarbaro, Sciascia, Carlo Gozzi, Marlowe e T. S. Eliot. Ha diretto per dieci anni una collana di ricerche letterarie per Marsilio. Collabora con diverse testate stampa e internet.
È autore radiofonico, per Radio Rai, e autore teatrale.
Ha organizzato – e organizza tuttora – convegni nazionali e internazionali di studi, tra gli altri su Clemente Rebora, David Maria Turoldo, Bino Rebellato; e rassegne letterarie e critiche su numerose tematiche, dalle emigrazioni alla letteratura industriale ieri e oggi, dalle città degli scrittori ai classici novecenteschi della letteratura americana.
Ha esordito nella narrativa con “I dettagli sono importanti” (Biblioteca dei Leoni, 2018).
(Enrico Grandesso “Gli altri vedono il clown” pp. 102, 15 euro, Campanotto editore 2025).
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Spazio di possibilità # 5
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Tempo presente ———————-
Siamo figli dell’aria calda e dell’aria fredda
Mahmud Darwish, “Vorrei che questa poesia non finisse mai”
di Anna Piccioni
Quale poeta non ha mai sognato di avere un folto pubblico ad acclamarlo quando legge e interpreta i suoi versi? Eppure c’è stato un Poeta che ha riempito gli stadi ed è Mahmud Darwish, il più grande Poeta moderno in lingua araba. È sufficiente fare un giro sul web per sentire la voce di Mohamud mentre interpreta la sua poesia davanti a folle di persone che ascoltano rapiti la sua voce.
Dopo la sua morte gli hanno eretto a Ramallah un Mausoleo su di una piccola collina, da dove si domina la città, con a fianco un museo che raccoglie tutte le sue opere. Chi mai ha avuto tale onore! Certo possiamo pensare alla Chiesa di Santa Croce, a Firenze, al Pantheon, a Roma, ma sono i Grandi di altre epoche. Meraviglia che oggi, dove domina la cultura mangia e fuggi, dove i social stritolano parole e pensieri, ci sia qualcuno che è riuscito a concretizzare lo spirito della sua gente, che pochi conoscono o riconoscono come capace di grande spiritualità e che ancora oggi è martoriato e sopraffatto. La poesia è l’unico rifugio, le parole sono l’unica fonte di resistenza, per il mondo arabo è impegno civile e politico.
Darwish ha conosciuto l’esilio e si è sempre portato addosso la sua condizione di profugo, fin da quando dovette lasciare con la sua famiglia al-Birwa, nell’alta Galilea, dove nacque nel 1941, per rifugiarsi in Libano, durante la costituzione dello stato di Israele nel 1948.
La raccolta “Vorrei che questa poesia non finisse mai” è l’ultima opera di Darwish ed è stata pubblicata postuma nel 2009, e nel 2024 è uscita in traduzione italiana grazie a Sana Darghmouni che ne ha tradotto i testi.
Questa opera non è il testamento del Poeta, ma un Poema lungo, in cui si alternano riflessioni poetiche sul tempo, sulla vita, sulla sua Terra, divisa in tre sezioni: Il giocatore di dadi; Vorrei che questa poesia non finisse mai; Queste foglie appassite non sono altro che parole.
Con la poesia si ricostruisce quello che è stato distrutto in un qui e ora, perché il domani è la lotteria dei perplessi. I suoi versi “Siamo figli dell’aria calda e dell’aria fredda,/ dell’acqua, del suolo, del fuoco, della luce/ e della terra degli istinti umani. (Qui,ora, qui e ora)” rendono il Poeta universale.
In questa Terra colpita dal dolore, privata della propria libertà le parole di Darwish danno vita a un paesaggio che non esiste più, “Erba, aria secca, rovi e fichi d’India/ sui binari. Laggiù la forma delle cose/ rosicchia la sua ombra nella futilità dell’informe/ […] La stazione è un tatuaggio dissolto nel corpo del luogo… (Alla stazione di un treno scomparso dalla mappa).
Il caso domina la nostra vita, è un concetto ripetuto armoniosamente ne Il giocatore di dadi: “[…] mi è stato dato un nome a caso/ e per caso ho fatto parte di una famiglia/ne ho ereditato tratti e caratteristiche/ ma anche malattie […] La poesia è un lancio di dadi/ su una chiazza di tenebre/ che sfavilla o non sfavilla/ e cadono come piume/ sulla sabbia le parole. […]”.
I temi si intrecciano nei versi di Darwish: l’amore, la Poesia, i profumi e i colori della sua Terra; ma la Parola ha un ruolo fondamentale per il Poeta, anzi c’è una trasfigurazione del Poeta: “Parole, parole…cadono le foglie/ le foglie di betulla appassite e solitarie/ […] Un poeta cammina per la via/ nel cuore un pertugio di cielo/ negli occhi un prato che fu,/ Cammina sulle sue rovine/ incede leggero, come le foglie dei cespugli,/ come loro diventa giallo e rosso,/ vaneggia come chi è in preda all’ispirazione […]/ Se rinunciano al poeta/ in una poesia autunnale, dalle parole leggere,/ queste foglie appassite non sono altro che parole”.
Dal libro:
Com’è veloce la notte
Com’è veloce la notte
dissero all’unisono i due amanti:
com’è veloce.
Una melodia che accompagna
ogni palpito,
un fiume in piena, un domani
che dimentica a casa i suoi appuntamenti e una mano
che avvicinandosi e ritirandosi dimentica a chi appartiene.
Com’è lenta la notte,
disse lei mentre aspettava:
com’è lenta /
Fantasmi distesi sul letto,
un assordante silenzio e un sangue
che ribolle e si raffredda, nessuna febbre né dolore
ma è arrivata l’ora, o quel che il nulla cela.
Com’è lenta la notte,
disse lui: l’ora è agonizzante,
com’è lenta la notte.
Alberi appesi alle lanterne.
Un sentiero desolato, una luna sospesa
come campana e l’anima aspetta una coppa d’acqua
per dissetarsi e infrangersi.
Quanto a me, dico:
la notte è sfuggente
a volte è una femmina che brama un maschio,
altre è una feroce morte indomabile
altre ancora è un docile sogno gentile.
Com’è breve la notte,
quando in lei ci rifugiamo insieme,
siamo soltanto quel che può portare un cavallo.
Com’è lunga la notte
quando mi chiedo: dove sono io?
Come fossi l’ombra caduta dai tuoi alberi,
come fossi la pietra scagliata dalla tua luna,
com’è lunga la notte!
Intervista a Sana Darghmouni:
Traduttrice di “Vorrei che questa poesia non finisse mai” di Mahmud Darwish
Quali difficoltà ha incontrato nella traduzione dei questo libro?
Mahmud Darwish è stato un poeta ossessionato dal ritmo al punto di dire in un verso “il ritmo mi ha scelto” per cui dedicava molta attenzione e cura alla scelta delle parole. Quindi la prima difficoltà nella traduzione della sua opera è stata senz’altro quella di tentare di mantenere la musicalità e di trasmettere il senso poetico del testo.
Altre difficoltà sono legate ad elementi della tradizione culturale che sono difficili da rendere in altre lingue con il rischio di minimizzarne il valore. Ultima difficoltà riguarda l’interpretazione di certi versi e dato che il poeta non è più tra di noi questo impedisce un confronto come spesso succede quando si traducono poeti vivi.
Alla fine dovrei ammettere che la lingua italiana, grazie alla sua ricchezza e musicalità, è una lingua straordinaria che sa davvero ospitare altre lingue, perciò questo rende il lavoro meno arduo.
Ha avuto occasione di conoscere Mahmud Darwish?
Purtroppo non l’ho mai conosciuto di persona, ma la sua è una presenza costante nella mia vita, sin dalla tenera età e dai banchi di scuola. Le sue poesie mi hanno sempre accompagnata e sento di conoscerlo anche se non l’ho mai incontrato.
Quanto è stato tradotto di Darwish in italiano?
Ultimamente assistiamo ad un grande interessamento alla poesia e alla figura di Darwish, uno dei più grandi poeti del ‘900. Sono state tradotte diverse sue opere in italiano, sia di poesia che di prosa, e il pubblico lo accoglie con grande ammirazione.
Darwish tratta temi universali e dialoga con la lingua stessa, per cui è una figura che merita davvero attenzione e studio e spero continui questo interessamento manifestato dall’editoria italiana. Solo per citare alcuni esempi, basti pensare a titoli come “Il letto della straniera” (Epoché, 2009), “Come fiori di mandorlo o più lontano” (Epoché, 2010), “Una trilogia palestinese” (Feltrinelli, 2014) “Non scusarti per quel che hai fatto” (Crocetti, 2024), “Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?” (Edizioni degli animali, 2024). Ma la lista è lunga.
Darwish ha subito delle condanne per la sua Poesia: è ancora censurato?
Tra il 1961 e il 1969 Mahmud Darwish è stato incarcerato, costantemente controllato, sottoposto ripetutamente agli arresti domiciliari e a gravi umiliazioni dalle autorità israeliane per il “crimine” di aver recitato, scritto poesie o per essersi spostato senza permesso all’interno del suo stesso paese.
La sua unica arma e forma di resistenza di fronte ai tentativi di cancellazione dell’identità palestinese è stata la parola e questo ha dato molto fastidio.
Come ha accolto il pubblico italiano la sua Poesia?
La poesia di Darwish si eleva e eleva perché supera il tempo e lo spazio, sovrasta ogni cosa e va oltre il personale per abbracciare l’universale. È una continua ricerca estetica e un incessante interrogarsi sul senso stesso della scrittura. Per questo motivo il pubblico italiano ama la poesia del poeta palestinese, la legge provando stupore e piacere e tenta di trovare gli scambi e i dialoghi che si alternano all’interno di questa poesia tra il poeta arabo e alcuni poeti mondiali.
Chi legge Darwish si accorgerà che la sua poesia sconfina ogni luogo fisico e potrà intravedere i dialoghi aperti con Neruda, Lorca, Ritsos e altri.
L’autore:
Mahmoud Darwish (13 marzo 1941 – 9 agosto 2008) è stato un poeta, scrittore e giornalista palestinese.
È autore di circa venti raccolte di poesie, pubblicate a partire dal 1964, e sette opere in prosa, di argomento narrativo o saggistico.
È considerato tra i maggiori poeti in lingua araba. È stato giornalista e direttore della rivista letteraria “al-Karmel” (Il Carmelo), e dal 1994 era membro del Parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese.
È considerato poeta nazionale della Palestina per cui scrisse nel 1988 la dichiarazione d’indipendenza, poi proclamata da Yasser Arafat.
I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo
La traduttrice:
Sana Darghmouni è docente di lingua araba all’università degli studi di Bologna e traduttrice di poesia araba. Ha insegnato anche a Ca’ Foscari a Venezia e all’università per Stranieri a Perugia.
Tra le sue ultime traduzioni “Dalla biografia dei giorni smarriti” di Samira Albouzedi (Di Felice Edizioni, 2022), “L’idea del fiume” di Hassan Najmi (Astarte edizioni, 2023), “Poesie della cecità” di Lamia Makaddam (Emuse, 2024).
(Mahmud Darwish “Vorrei che questa poesia non finisse mai” traduzione dall’arabo di Sana Darghmouni, pp. 96, 16 euro, emuse 2024)
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In darkness, we grow # 7
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Ti racconto ————————
Diciotto metri quadri
Un testo inedito
di Valentina Casadei
Ogni mattina la chiesa davanti a casa mi butta giù dal letto alle otto e trenta in punto. Da ormai due anni ho smesso di mettere la sveglia poiché ci pensano le campane. E la vita dei vicini, che siano quelli del pianerottolo di destra, con i bambini che corrono dappertutto, che costruiscono capanne con le sedie e le coperte e che parlano con l’amico immaginario al di là del muro, senza sapere che al di là del muro non c’è nessuno o meglio ci sono io che non sono effettivamente nessuno. Oppure i vicini del pianerottolo di sinistra, che fanno l’amore di continuo e non sembrano essere mai stanchi, e alternano gemiti, insulti e parole d’amore, in una ripetizione infinita e instancabile d’intensità e squilibro, che trovo affascinante ma che sento che mi affaticherebbe. E poi ci sono io, con il mio silenzio e i miei rumori più discreti, la masticazione, qualche colpo di tosse, un oggetto che faccio cadere mentre passo la polvere, i Rammstein a basso volume quando sono arrabbiata, Bob Marley a basso volume quando sono arrabbiata e cerco soluzioni, Elliot Smith a basso volume quando sono arrabbiata, cerco soluzioni e non ne trovo. Se non fosse per qualche incontro fortuito in ascensore, per i miei vicini non esisterei poiché non mi sentono mai. Non credo ci sia bisogno di dire che la solitudine mi pesa ancora di più circondata da tutte queste vite caotiche e chiassose. Ma per fortuna ci pensa dio a riempire questo vuoto: le campane al mattino sono un po’ come una madre che ti butta giù dal letto, che ti scuote dolcemente il corpo addormentato, che ti ha già preparato una tazza di thé per la colazione, e i panini per il pranzo, e la camicia stirata per la riunione, e le caramelline all’eucalipto per la gola, nel caso fosse ancora una volta il freddo secco dell’inverno a vincere sul sistema immunitario. Ma le campane non sono una madre, non sono mia madre. E, una volta davanti allo specchio, con lo spazzolino in bocca e i segni del cuscino sulla faccia esausta, fissandomi negli occhi, mi ricordo che non credo in dio e che ora vorrei solo essere nelle braccia di qualcuno che mi ama. Di mia madre, per esempio. Spendere quattrocento euro di aereo e perdere otto ore nei trasporti per un abbraccio di trenta secondi non ha nulla di logico, allora allontano il pensiero, sputo il dentifricio e sorrido al mio riflesso ancora addormentato. Raggiungo il salotto per dare qualche pallina di cibo liofilizzato – caratterizzato da un forte odore vegetale che faccio prima a chiamare puzza nauseabonda – al mio pesce rosso giapponese. Ha quattro mesi e sta crescendo a vista d’occhio. Se fosse un essere umano sarebbe probabilmente cicciuto e dipendente. Gli lancio le sue palline quotidiane e lo osservo nuotare verso la superficie come un missile – un drogato davanti alla sua dose d’eroina oppure io con il mio ex quando decideva di inviarmi un messaggio dopo giorni di silenzio – e divorare tutto con estrema rapidità. Rimettersi poi a non fare nulla, con l’occhio spalancato e la pinna minuscola, con quel poco slancio e quell’apatia letargica che mi sono così familiari. Forse, alla fine, nel mio piccolo monolocale di diciotto metri quadri, a Parigi, con quel poco slancio e quell’apatia letargica, non sono altro che un pesce rosso giapponese cicciuto e dipendente che vive per qualche pallina di cibo liofilizzato e agonizza nell’attesa. Il climax delle nostre giornate che dura qualche secondo e poi tutto perde senso.
L’autrice:
Valentina Casadei (1993) è originaria di Ravenna e vive a Parigi. È una sceneggiatrice, autrice e regista.
Il suo primo cortometraggio, “End of September” (15 min, Italia, 2020) è stato selezionato al 46° Oscar® Qualifying Odense International Film Festival, candidato per la Migliore Sceneggiatura.
Il suo ultimo cortometraggio, “Ronde Nocturne” (19 min, Francia, 2024) ha vinto il Premio Pelliconi come Miglior Cortometraggio a Visioni Italiane.
Insegna sceneggiatura alla Sorbona e all’Eicar e sta lavorando al suo primo lungometraggio, “L’Enfant Seul”. Il suo lavoro si concentra sui legami familiari e sulla marginalità. Ha pubblicato sei raccolte di poesie.
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Maditerranea – Punti Cospicui
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Margini. Di poesia e d’altro —————————
Non sapendo il bruciapelo
Valentina Pasquon, “Per non perdere il conto”
di Roberto Lamantea
La scrittura si frammenta, come si frammenta lo sguardo, si ricompone nella sintassi ma è solo un sintagma, un rametto di frase: basta perché l’immagine sia leggibile nel nostro distratto guardare il mondo: si forma un pensiero, un’emozione amara, un’empatia ferita. È un piccolo libro di luci aguzze “Per non perdere il conto” di Valentina Pasquon, l’autrice veneziana che nel 2021 ha pubblicato da Manni il breve romanzo “Era primavera d’amaranto” (dove, a dispetto del colore tramonto del bel titolo, “amaranto” è il primo sangue mestruale di una bambina che si scopre donna) che racconta le trasformazioni della terraferma veneziana tra Mestre e Mirano in parallelo all’industrializzazione di Porto Marghera, i veleni del Petrolchimico, la devastazione del paesaggio, dell’antropologia e della storia.
Anche se l’autrice ha pubblicato brani in versi e in prosa su varie riviste, tra cui il bimestrale di Manni “l’immaginazione”, Valentina Pasquon è al suo secondo titolo, sempre per l’editore di Lecce.
La prima cifra che viene in mente è la scuola del Gruppo 63, per il canto del linguaggio lirico anche nella parodia, l’uso raffinato della paratassi che non nega la cantabilità, mentre il ritmo è più volte affidato agli ottonari. Fino alle magnifiche “Litanie per voce sola e coro” giocate su 19 fiori – o, come dice la poesia seguente, “Voci di fiori” – e la loro natura, vocazione, destino, “aforistici accostamenti di fiori e caratteri sospesi fra il mistero degli erbari medievali e la logica associativa degli haiku” (dalla prefazione), affidati ai quinari. O un testo crudo come “Sahel”, paesaggio arabo di guerra e desolazione che simula, o s’aggrappa a una normalità perduta di povertà ma anche di pace.
Scrive Pietro Cataldi nella prefazione: “Fra l’esterno e l’interno, o l’interiorità, si dà qui scambio costante e veloce, non articolazione gerarchica: da un lato la natura, quella dura e gentile delle rocce e dei fiori, di animali totemici o annunziatori, e dall’altro l’io, con il suo segreto. L’io del corpo, innanzitutto richiamato come un basso continuo di esperienza tattile”.
Dal libro:
Domenica delle palme
perché parla la statua del mondo
luna nicchia
a tuffo tra nubi?
non sono io a osare lampi?
quanto pesano ali
su spalle fardelle?
scapole allerta
juda!
questa palma disse
e cinica in me incisi
antes cruz vetusta
e impura
*
litanie
per voce sola e coro
fiore di mora
torvo bocciolo
fior tamerice
chioma indolente
fiore di tiglio
pondera olezzo
fiore di spiga
stelo pungente
fior di convolvolo
piccolo invaso
fior d’oleandro
fedele veleno
fior di pitosforo
spurio ritorno
fiore d’antemide
mira al tramonto
fiore di rosa
sfiora le piaghe
fior caprifoglio
affronta gli inganni
fior melograno
adorna gli incavi
fiore di malva
annuncia un incanto
fior di magnolia
annovera i venti
fior di ligustro
recinto ribelle
fiore di salvia
intona mestizia
fiore di calla
linfa speranza
fiore d’ortensia
barriera adornata
fiore di giglio
giorno protervo
fior di papavero
dona sopore
*
q.b.
sfrigola cipolla tropea
appassendo si propone
spurgare il rosso sul riso
candido molto mondato
non sapendo il bruciapelo
sindrome peperoncina
caienna scannalingua
vendetta d’intoccabili
con sonagli anti-infiammo
incensa manzo e pignatte
d’astinenza in grani
cumino dolce per posa
di miserie digestivo
sui polli cosparsa salvia
selvaggia ottunde
convinta a sbiadire da sé
oh polvere zafferana
setola artiglia e rivolta
frittata d’eventualità
*
retorica
hai mai scagliato
manciate di sassi al fiume?
come stormo di piccoli uccelli
sciamano alti un solo istante
poi, pur tanti, insieme svaniscono!
così le dosi di ebbrezza
assegnate a mio conto
ogni volta che credo
ogni volta credo
e i sassi cadono
i piccoli uccelli passano
L’autrice:
Valentina Pasquon è nata nel 1953 a Venezia, dove vive. Ex docente, ha organizzato eventi, incontri letterari e laboratori di scrittura creativa. Ha pubblicato poesie e prose su varie riviste, tra le quali l’immaginazione di Manni. Con la raccolta di versi Per non perdere il conto ha vinto il premio Città di Leonforte 2024.
(Valentina Pasquon “Per non perdere il conto” pp. 80, 13 euro, prefazione di Pietro Cataldi, Manni 2024)
Immagini ———————————
Spazio di possibilità # 7
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Voce d’autore —————————
Con l’orizzonte portatile nella borsa
Monica Messa, “Una pistola al luna park”
di Antonello Bifulco
Lawrence Ferlinghetti nel suo “Fotografie del mondo perduto” si raccontava in tutta la sua ironia e leggerezza, con una buona dose di nostalgia, con lo sguardo di chi sa tenere a mente il passato ma allo stesso tempo si proietta in avanti senza opporsi. Monica Messa nel suo nuovo e brillante libro di poesie “Una pistola al Luna Park” ricorda i passi del maestro della Beat Generation, poesie che nascono da quel che è stato pensando al passo successivo. C’è oltre la porta l’ignoto verso il quale si deve guardare con fiducia, un futuro da accogliere sapendo che abbiamo vissuto dentro di noi storie bellissime.
“Una pistola al Luna Park” ti accoglie tra le maglie di luoghi che si mescolano ad immagini sognanti dove gatti marmorizzati fanno da sfondo a portatori di kebab a domicilio e le persone che vivono queste vie, tagliano la testa ai gelsomini poiché da qualche tempo non parlano più con loro. È un viaggio questa poesia attraverso capitoli brevi ma intensi, dieci capitoli con un Epilogo che è poi la summa di ciò che Monica ci ha raccontato lungo tutte le sue profonde e sentite pagine.
Capitoli che sono un luogo, un nome, un dolce ricordo che non c’è più, titoli che richiamano un paese, un amore, pane fumo, Bice e Geremia Merdaoro. Persone, anime che abitano viali aperti in fiduciosa attesa: “Ha le scarpe al contrario/ ma non le importa./ Per seguire le formiche non serve equilibrio” e poi “Io continuo ad incontrarti./ Chissà se sei da qualche parte”, un’attesa che sta in equilibrio con il tempo che corre, con i suoni della vita che si fanno assordanti anche dentro le certezze della gente.
Monica ci prende per mano portandoci nei corridoi della mente, lasciandoci cadere nei luoghi del passato, nelle paure, ci ricorda che la felicità si può inceppare come una pistola al Luna Park dieci colpi, cento lire, cento lire che erano il prezzo della libertà, erano i suoni e l’afa di una città sul mare, quei momenti che decidi di non raccontare a nessuno, quei momenti che come la sabbia della scorsa estate, nascondi nella borsa.
Monica riesce nell’intento di farsi domande che non ammettono replica, domande a cui le risposte non daranno mai una verità assoluta, ci racconta un vissuto che è certezza o che alla certezza si avvicina, “Ancora non sa che le vespe/ ricompensano i fichi con la vita”, questa sua poesia è un viaggio attraverso l’ironia, un’ironia gentile che ti permette di vedere il cielo in maniera diversa e capire che “oggi non è sincero“, ironia come spazio di separazione da ciò che può far male, o che male lo ha già fatto, ironia ad accarezzare per ricordarti comunque che dopotutto “il cielo non terrà il broncio a lungo” e che “il corpo è il teatro dove ridono i sensi”.
E allora ci muoviamo in queste pagine sicuri di trovare momenti di sbandamento, baratri che ci permettono di guardare oltre le cose che pensavamo dimenticate, di trasformare la rabbia bastarda in poesia, un passo dopo l’altro nel libero arbitrio di sapere che sbagliamo ogni giorno ma che, ogni giorno, avremo l’opportunità di aiutare quelle mani di bambina, così piccole, “che bastano appena a spingere barchette di giornale“, aiutarle a capire che questo mondo forse è troppo grande per lei, per il suo sorriso in debito di luce.
La poesia, questa nuova poesia di Monica Messa sfocia tra le pieghe del nostro vivere come fa un fiume in piena, è un soffermarsi dentro l’anima delle cose guardandole attraverso, è un attraversare veloce come fa la risacca, ti porta al largo oltre la linea dell’orizzonte chiedendoti poi di decidere se viverci dentro o saltarne fuori.
Dal libro:
Lungo il Mare degli Umori
i grattacieli sono cresciuti in abbondanza.
Fra le pieghe della tunica,
prati di asfodelo
celano gli aloni dei tuoi long drinks.
Samir, ex-infante demiurgo,
veste di bianco
e porta kebab a domicilio.
Non accetta mance, solo bignè.
Il suo dolore puzza,
lo senti da lontano,
puzza di levante e di randagio
di mancanza e di lattine vuote.
Avanza. Tu
accendi un’altra sigaretta.
*
La bambina di rame e di miele
appende foglie alle orecchie
e si sente una regina.
Ancora non sa che le vespe
ricompensano i fichi con la vita.
*
Sedici anni il prossimo dicembre.
Distesa al buio nel granaio,
fuochi d’artificio
sulle palpebre schiacciate,
le scarpe di vernice nuove,
i talloni scorticati,
ridevi alle sue battute sconce.
– È vietato baciare la Regina!
sussurravi.
La Luna del Cervo era alta,
alta la tua scollatura,
il mascara calato.
Rosa di Spagna ti chiamava
tua madre, ma avevi un’anima
di pan bagnato, Geremina
e l’oro dei campi più non ti si addice.
Come magma la dose nelle vene.
Ti arrendesti sognando un lieto fine.
*
Inchiodata a una bilancia
o a passo silenzioso e svelto
fra scaffali e lattine
(dove il cielo non tiene il broncio a lungo)
con l’orizzonte portatile nella borsa,
violacciocche nella scollatura,
e un destino di cartapecora in tasca,
mangiava pane e fumo.
*
Troppo grande questo mondo
per le tue mani, bambina,
bastano appena appena per spingere
barchette di giornale.
Un passo, dall’asfalto alla sabbia.
Sorridi in debito di luce,
capelli nuovi di chemio
e il libero arbitrio in una falange.
*
Bice scrive
e quando scrive è come un ricamo
fitto fitto di parole
scrive diari, poesie, preghiere,
piange per un pino caduto.
A fine agosto, Monopoli è una brace.
L’afa si addensa
filtra dai muri nei palazzi.
La sera, ghiaccio e anguria nelle ceste,
si va al mare. Ma Bice è a casa.
Chissà a cosa pensa,
se si massaggia le caviglie bianche
se gratta la nuca di Nerone
se legge a bassa voce oppure prega.
Un colpo al portone, secco, uno solo.
Un cacioricotta galeotto
e un breve messaggio.
Bice non lo dice,
ma la sua risacca si fa mare.
*
Io lo so com’è
quando lasci una lista a metà,
una matita spuntata
sul comodino,
un pacco di pasta
aperto e riposto
senza sapere
che stavi per mangiarla
per l’ultima volta.
E so com’è
ritrovare quei gesti interrotti,
i mozziconi nel posacenere,
un abito nuovo nell’armadio
perché non si sa mai,
una rosa schiacciata
fra le pagine di un libro,
è la pena di una carezza incompiuta.
*
(E continuo a incontrarti.
Alla guida di una piccola utilitaria blu
mentre attraverso la strada,
in coda al supermercato sotto casa,
a scuola con nipotini non tuoi.
Continuo a incontrarti.
I tuoi occhi in una mia fotografia,
abbronzato, con le camicie stirate e morbide,
le tue dita lunghe.
Credo faccia parte del pacchetto.
Io continuo a incontrarti.
Chissà se sei da qualche parte).
*
La gente dalle mie parti
sceglie da sempre
lo stesso modo di invecchiare,
sulle sedie a mezzo cerchio
fra il partito e il barbiere
o a fare palle di nuvole in cortile.
Non hanno più guerre da raccontare,
parlano della pioggia attesa,
del vino nuovo,
di una cova di bengalini in gabbia.
Intervista a Monica Messa:
C’è una pistola, un Luna Park, ci sono personaggi e luoghi che si aprono in queste tue pagine. Cominciamo dal titolo, perché “Una pistola al Luna Park” e come nasce questa raccolta?
“Una pistola al Luna Park” è un titolo nato da uno scarto emotivo, da un cortocircuito di immagini. È un omaggio implicito al Luna Park di Ferlinghetti, a sua volta evoluzione della terra desolata di T.S. Eliot, cui Ferlinghetti non ha mai nascosto il debito: ammise persino di averlo copiato, usandolo come ispirazione. Nel poemetto di Eliot convivono voci diverse, appartenenti a persone diverse, proprio come in questo libretto, dove prende forma un paese e i suoi abitanti. Ognuno di loro vive un disagio, è inceppato, in cerca di una zona franca. È una raccolta corale, nata nel corso degli ultimi anni.
Sono stati anni difficili: una pandemia, la crisi climatica, le guerre sempre più vicine, la violenza alla porta accanto. Ho dato dei volti a questo disagio, talvolta anche un nome e forse un modo per sublimarlo.
Luoghi, nomi, paesi che si raccontano attraverso il vivere della gente, delle cose, suoni che riportano ad un vissuto di chi scrive. Dieci capitoli ed un epilogo di poesie brevi capaci di donare intensità forti. Luoghi e nomi, quanto di queste due cose è un vissuto personale?
Molto. I luoghi e i nomi che emergono nella raccolta non sono mai puramente inventati, piuttosto sono filtrati da una memoria emotiva: a volte coincidono con luoghi realmente vissuti, altre volte sono deformazioni affettive, scorci mentali, paesaggi interiori. Uno dei personaggi l’ho sognato proprio come l’ho descritto: “Sbatte un occhio di pervinca e muore ancora un po’”.
Con i luoghi ho un rapporto particolare, penso che alcuni restino nostri per sempre, come se lasciassimo un’impronta in essi, al di là del tempo. I nomi, poi, sono piccoli ancoraggi: possono appartenere a persone reali, a frammenti di canzoni, storie ascoltate o immaginate, ma tutti, in qualche modo, mi toccano.
Non cerco mai il realismo, ma qualcosa che suoni vero, che porti vibrazione. Quindi sì, c’è molto vissuto personale, ma smontato, riassemblato, travestito. Come se i luoghi avessero parlato attraverso di me, più che io di loro.
Citi a inizio libro la Cecilia Resio nella sua “Sicché si viaggia immobili, come case cantoniere”; il tuo libro è un viaggio nel Mare degli Umori, tra gatti marmorizzati e gelsomini a cui è stata mozzata la testa, tra i ricordi delle Guide TV e la carne in scatola. Questo tuo libro che viaggio è stato, che viaggio è?
È un viaggio nel contemporaneo o giù di lì, un movimento interiore, laterale, a volte carsico. Non un attraversamento lineare, ma un andare per ritorni, inciampi, accumuli. Il Mare degli Umori è un luogo instabile: cambia colore, densità, profondità. A volte somiglia all’infanzia, altre volte a una cronaca urbana; a volte è un sogno disturbato, altre un archivio affettivo fatto di oggetti minimi, gatti marmorizzati, carne in scatola, Guide TV. Non ho scritto partendo da una meta, ma da una serie di risonanze e vibrazioni.
Il libro si è costruito come un arcipelago: ogni poesia è un’isola che affiora, ma sotto c’è una stessa faglia emotiva, che è il mio modo di stare al mondo, forse di provare a resistergli.
“È veramente questo il tempo sognato dai serpenti?” e “Io lo so com’è/ quando lasci una lista a metà…”, poesie disposte a parlare con te a cercare di darti delle risposte, o a farti domande a volte scomode a volte in attesa di nessuna replica. La poesia come ricerca di qualcosa, la poesia come luogo di approdi inaspettati, per te la poesia deve porre domande o dare risposte?
Credo che la poesia non possa dare risposte o soluzioni e forse nemmeno porre domande dirette. La poesia è più simile a un varco, a una fenditura da cui passa qualcosa, a volte chiarissimo, altre volte solo un’eco. Domande come “È veramente questo il tempo sognato dai serpenti?” non sono lì per ottenere replica, ma per lasciare vibrare una sensazione, per restare sospese.
Mi interessa la poesia che non conclude, ma che apre, che sposta appena qualcosa. Credo che le poesie più vere siano quelle che accettano di non sapere, ma riescono comunque a farsi casa per il dubbio. In fondo, io non cerco né verità né spiegazioni: cerco intensità, risonanza, e quello strano silenzio che arriva quando una parola tocca il punto giusto.
Ci sono ferite che fiorisco in fretta in questo tuo nuovo lavoro poetico, ma sono ferite che fanno ancora male o cosa sono?
Sono ferite che fanno male in modo diverso. Non sono più squarci, ma neppure cicatrici chiuse. Hanno trovato una forma per stare al mondo e questa forma, a volte, è un verso. Alcune sono ferite travestite da immagini: gelsomini mozzati, liste lasciate a metà, carne in scatola. Altre sono più esplicite, ma sempre mediate dallo sguardo della scrittura.
Credo che scrivere sia stato, per me, un modo per guardare queste ferite da un’altra angolazione. E quando le guardi da lì, capita che sboccino non perché non facciano più male, ma perché hanno trovato un ritmo, un respiro, una lingua. Quindi sì, fanno ancora male, ma in un modo che posso finalmente ascoltare e accettare.
Ironia sottile e una poesia che sa coglierti di sorpresa, ingredienti per un’ottima lettura, quanto è importante l’ironia nella vita e nella poesia?
Per me l’ironia è uno stile di vita. È ciò che ti salva quando la serietà rischia di diventare pomposa o quando il dolore minaccia di schiacciarti. Nell’ironia c’è una distanza gentile, un’intelligenza emotiva che permette di guardare le cose da un’angolazione imprevista, spesso rivelatrice.
Anche nella poesia, l’ironia è fondamentale. Non per sdrammatizzare, ma per disarmare: toglie solennità, apre fessure nel linguaggio, scardina il prevedibile. Ti coglie di sorpresa, sì, ma con garbo. Scrivere con ironia, per me, è un modo per tenere insieme il dolore e il sorriso, senza tradire né l’uno né l’altro.
L’autrice:
Monica Messa ha esordito nel 2018 con “Poesiole”, una raccolta di poesie su vari temi, scritte nell’arco di trent’anni. Ha poi pubblicato “Seppie Ripiene – Poesie per poche lire” (2018) e “Il Logorio della vita moderna” (2021).
Ha partecipato a diversi Festival. Alcune poesie sono state pubblicate in blog, riviste cartacee e online, in antologie nazionali e internazionali.
È stata nella redazione della rivista di poesia “La Vallisa” e “La Confraternita Letteraria”. Alcune poesie sono state tradotte in albanese e in spagnolo. Cura, inoltre, un blog e una Pagina Facebook.
(Monica Messa “Una Pistola al Luna Park” pp. 96, 14 euro, Edizioni RP Libri 2024)
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Spazio di possibilità # 2
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Tempo presente ————————
Di tempo non ne resta
Otto testi inediti
di Mariapia L. Crisafulli
(senza titolo)
Di tempo non ne resta
Resti tu,
che di tempo ne hai
trascorso
Resto io
che ad ascoltarti
lo conservo
come la foglia dentro il libro
che avvizzisce
ma non si deteriora
*
L’ubiquo
Il regno dei poeti
è sulla Terra,
ma non sullaterra
Per molti sta nel sottosuolo
per altri in cielo [o in mare
Per me neanche esisterebbe
non fosse che lo visiti ogni tanto
da qualche parte sulla Terra
Ma non sullaterra
né nel sottosuolo
né tantomeno in cielo
o forse lungo il mare!
*
Esistenze
Non credo in Dio
ma nel suo venire al mondo
Io credo in te
primizia dell’aurora
rugiada benedetta del mattino
Sei tu la fonte e il senso
di ogni mia preghiera
*
Radical beat
Beato Gaetano
che canta beatitudini
e Gaber sulla strada
sotto ipnosi castaneda (?)
Beato Dalì
mentre batte sulla botte
il suo levigato jazz
alogeno husserliano
Beato Ungaretti e i peli pubici
donati a Ginsberg
Beato Ferlinghetti
accanto a Nanda
che se la ride
cantando Faber
che se la sogna
alla Bob Dylan
[o forse Thomas?
Beato Marcuse
e la sua rivoluzione
tradita
Beato Camus
e la sua rivolta
mancata
Beati i toscani e le pasticche
prescritte da La Spina
Beato il Twinings [borghese
con zenzero e limone
quando sto in beat
tra Led e Floyd
e Boris non risponde
…ma in fondo neanche io
*
La scoperta del silenzio primordiale
Annegavo nel pianto
che aveva allattato
le fauci del mondo
La luce del buio
accecando
mi prendeva per mano
*
da Versi sparsi
1.
Io la notte navigo
sui tetti
La mia notte non è mai muta
non è mai solo mia
2.
Credere non è sperare
è reagire. Insorgere
Credere è ostentare
cicatrici
*
Di parole
ne ho poche da salvare
Per quanto urlante
questo tempo
è un tacimento
orizzontale
L’autrice:
Mariapia L. Crisafulli (Messina, 1996) ha conseguito la laurea in Storia, politica e relazioni internazionali all’Università di Catania. Attualmente vive a Bologna, dove sta perfezionando gli studi in Scienze storiche e orientalistiche. Si occupa di letteratura e critica, collaborando a diverse iniziative editoriali.
Ha all’attivo varie pubblicazioni, tra queste si ricordano: le raccolte poetiche “Come un’Odissea. Appunti di viaggio” (Macabor, 2019), “La vita là fuori” (Macabor, 2021); la curatela editoriale “Tu sarai la mia speranza” (Macabor, 2022) e la raccolta di saggi “Bravi maestri. Dissertazioni su Pasolini, Marcuse e Calandrone” (Macabor, 2024).
Suoi testi e contributi critici sono stati ospitati su riviste, antologie, monografie, quotidiani e blog.
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Spazio di possibilità # 6
Dieci opere
di Alessandro Vascotto
Intervista ad Alessandro Vascotto:
di Giovanni Fierro
Come sono nate queste immagini? E anche tecnicamente, che percorso di creazione hanno avuto?
Sono fotografie, tendenzialmente scattate a colori. Con Photoshop elimino il colore e definisco il contrasto, la luminosità e i toni apportando tutte le correzioni che ritengo opportune, in certi casi la post-produzione si limita a questo; altre volte realizzo dei fotomontaggi o fotografo qualche mio disegno (di solito un pesce) e lo inserisco nella scena.
Una volta ultimato il file digitale lo faccio stampare su carta e intervengo sulla stampa con pastelli, matite, chine, pittura ad olio, ricolorando l’immagine. Spesso ci scrivo sopra, a volte solo un titolo a volte altro, di preferenza una frase mia o tratta da un libro o da un vocabolario.
La prima impressione è di vivere un qualcosa che viene espresso con molta delicatezza, ma che non ricorda minimamente la serenità, anzi. Mi viene da dire che proprio da questo contrasto, da questo loro attrito, traggono nutrimento e significato. Mi sbaglio?
Non ti sbagli. Sono spazi che hanno una strana inquietudine, la percepisco e scatto la foto. Le immagini poi vanno a sommarsi ad altre mie inquietudini. La sensazione generale è che qualcosa non torni. Uno squilibrio, la sensazione di muoversi su un tappeto di biglie, un’incongruenza. E da questa incongruenza principia qualcosa un’immagine, un pensiero…
La delicatezza. Serve a mantenere intatta quella vibrazione, quello squilibrio, quella precarietà della mente. Equilibrismo.
Perché poi le strutture che porti in queste tue immagini, sembrano gli avanzi di una società, la nostra mi viene da dire… È uno sguardo proiettato al futuro, o è il presente che non vogliamo vedere?
Forse è il passato che non vogliamo vedere. È una nostra precisa attitudine mistificare, in modo consapevole ma soprattutto inconsapevole, ciò che siamo, i nostri obiettivi, le nostre pulsioni. Credo sia una conseguenza del processo evolutivo un po’ incasinato della nostra specie.
Il nostro corpo non tiene il passo della mente e la mente lo perde di vista. Viviamo in un ambiente saturo di messaggi incisivi, contraddittori. Inventiamo mondi rumorosi caotici. Sfuggiamo il presente. Gli spazi e i tempi che definiamo per noi stessi parlano, ci incalzano ci indirizzano e ci plasmano. Segni che rimandano ad altri segni che rimandano a… A volte trovo ci sia troppo rumore: è fantastico trovare dei luoghi dove i significati di cui farciamo le nostre esistenze presentano un alto grado di decomposizione, lì posso vedere lo spazio tornare al suo stato originario, il tempo rallenta e tace.
E guardare questo pesce, questi pesci, saltare e portare il proprio guizzo in questi paesaggi dà l’idea di un qualcosa che ci tiene al proprio stare al mondo, ma che non è ben accolto, ben accetto. Può essere così?
Mi vien da dire che la vita emerge dove trova un varco, la vita emerge per definizione e non chiede il permesso. Certo la vita qui è solo una metafora, il pensiero, l’idea, l’immagine, il sentimento emergono dove trovano uno spazio insaturo, una base instabile, decomposta. E quando me li trovo davanti questi pensieri, queste immagini questi sentimenti vedo (ma penso valga per tutti) un alieno, qualcosa di nuovo.
Conoscere è un’esperienza destabilizzante, riconoscere invece ci permette di fare ordine, di gestire, di cristallizzare ma è un po’ meno stimolante.
Anche la scrittura è presente. Che contributo dà, in che modo appartiene alle foto in cui c’è la sua presenza?
La scrittura è legata a due attività che ho praticato: il fumetto e la pubblicità. In entrambi la parola si combina, a volte in modo didascalico e in altre in maniera laterale, con l’immagine.
Infilarci delle parole mi viene naturale, a volte lo faccio per me, perché ne ho bisogno per un momento, e poi non ricordo bene cosa ho scritto, altre volte le parole mi servono per orientare il senso dell’immagine o per ampliarne il significato.
Le parole mi rimandano all’incongruenza di cui scrivevo all’inizio, con le parole c’è sempre qualcosa che non torna, così le scrivo male e il testo non si legge con chiarezza, ecco di nuovo la base decomposta.
All’orizzonte di alcune foto sono localizzati dei luoghi (quelli scritti a mano trasversalmente) che non sono per nulla rassicuranti, o quantomeno inusuali (Departement for illegal work, Forever Young District…). Che luoghi sono? È che soprattutto sembrano appartenere ad un mondo altro, che sta al di là del presente che è in primo piano, quasi irraggiungibile…
È una possibile skyline di tutte le orribili cazzate che ci vengono proposte ogni giorno, manifestazioni di potere enormi con obiettivi insignificanti, terre promesse che sono discariche, gioie che sono disperazioni e via dicendo. Nello specifico pensavo al Mediterraneo, all’immigrazione, ai simboli di benessere e giustizia che sventoliamo in faccia al mondo sui nostri media. Mi domando cosa vede dall’altra parte di questo mare chi si accinge ad attraversarlo per venire qui.
È un mare con un grande buco, circondato da terre recintate.
Le presenze umane sono poi ridotte al minimo. Da cosa nasce questa scelta, questa decisione?
Minima è l’attenzione che si dà a queste presenze umane.
Giorno dopo giorno la disgrazia si fa sistema e i numeri diventano consuetudine.
L’artista:
Alessandro Vascotto è nato a Trieste nel 1968 e si è laureato in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Terminati gli studi, nel 1993 ha intrapreso l’attività lavorativa nell’ambito della comunicazione visiva, prima come visualizer e illustratore, poi come art director e graphic designer, e infine come direttore creativo, maturando esperienze in diverse agenzie di pubblicità e studi di progettazione grafica nel Friuli Venezia Giulia e in Veneto.
Nel 2000 ha creato la mia prima attività indipendente lavorando per aziende private ed istituzioni ed orientando la mia attività verso il settore culturale. Nel 2011 è entrato nel comparto societario di Incipit Srl ricoprendo il ruolo di direttore creativo.
Attualmente si dedica alla libera professione, all’insegnamento e all’attività artistica.
I lavori di Alessandro Vascotto qui proposti:
serie Maditerranea
2024 – 70×100 cm – Tecnica mista: fotografia, acquarello, elaborazioni digitali, matite, pastelli a olio
It’s like fencing off the sea
Testo sull’immagine da sinistra a destra: “Peace keeeping country, Selection center for rich people, Zone of hegemonic economy, Immigrant reception center, Gun factor, Intermittent ejection point, Democracy memorial, Center of aggregation of hypocrisies, Archaeological asylum area, Port onlus.
Punti Cospiqui
Testo sull’immagine da sinistra a destra: “Compulsory Healthcare Hub, Diabetic land, Advanced tertiary ghetto, Cholesterol cemetery, Food town, Liberal city, Healt and beauty bureau, Department for illegal work, Forever young district, Deportation international airport, Clearinghouse for dysphoria, Reputation and communication metropolis, Banking pollution area, Political branding output post, Area of easy living”.
serie In darkness, we grow
2024 – 70×100 cm – Tecnica mista: fotografia, acquarello, elaborazioni digitali, matite, pennarelli, pastelli a olio, pittura acrilica.
serie Spazio di possibilità
2024 – 70×100 cm – Tecnica mista: fotografia, acquarello, elaborazioni digitali, matite, pastelli a olio, pittura acrilica.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.