Fare Voci aprile 2024

C’è molto a cui andare incontro, per trovare nutrimento per il respiro di ogni giorno, immersi come siamo in un qui ed ora sempre più complicato ed articolato.
E l’espressione artistica così è il necessario confronto, l’indispensabile sorgente a cui fare riferimento.
Ce lo ricorda Iole Toini, che ritorna con la sua nuova raccolta poetica “Niente di tiepido”. Con lei troviamo l’essenziale e il necessario, il desiderio di una intensità vitale non più rinviabile.

La poesia è poi la scoperta del compianto autore ucraino Maksym Kryvtsov, dell’argentino Jorge Aulicino e dello scozzese Christopher Whyte. Con loro viviamo una bella geografia di provenienze ed appartenenze.

L’avventura della parola è tutta nel prezioso volume di Marina Giovannelli, “AutoBioLogoGrafia”, e la poesia è protagonista anche negli inediti di Alessandro Monticelli, nella seconda pubblicazione di Gaia BoniLa figlia del selvatico” e nell’esordio di Cristina Dean, “Di questi tempi si parla con gli occhi”.
Ma anche nel libro che raccoglie poesie dedicate ai bambini, curato da Nicola Crocetti e Vivian Lamarque, a titolo “Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi”.

La narrazione è nel romanzo di Franco Casadidio, “Il volo del canarino”, e nel racconto inedito di Luca Buiat, “Il mio volo”.

Le immagini sono le dodici fotografie di Vincenzo Gargiulo, una anteprima del suo nuovo progetto “Oὐδείς”.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

Immagini————————–

ALL’OMBRA del Vesuvio

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

Voce d’autore        ———————–

E io a voler dire, a voler sapere dire

Iole Toini, “Niente di tiepido”

di Giovanni Fierro

È pura sensazione l’immergersi nella natura che Iole Toini esplora nella sua nuova raccolta “Niente di tiepido”. Il suo scrivere è una continua percezione, che accende i sensi, rinnova i pensieri, porta ossigeno al linguaggio della poesia che usa.
Niente di tiepido qui. Neve oltreneve a fiotti nel cervello. Intorno, rollano lance di larici. Nessun romanticismo. Un corpo eccelso sbrana morbidi incontri. La neve barrisce, famelica come un’amante”, è più di una intenzione, è pura intonazione dell’essere, dell’appartenere alla montagna quanto alla parola.
Tutto il libro è un’esperienza da fare, in presa diretta, e la Toini è brava a portare il lettore con sé, ad affidargli la responsabilità di riconoscere lo stupore, di preparare la sorpresa, di difendere la nuova conoscenza di sé.
Perché “senza l’ingombro di pensieri ogni cosa è rivelata”, e c’è bisogno di un’altra dimensione in cui respirare, più libera e meno vincolata dalle omologate certezze del quotidiano.
Così, a camminare avvicinandosi al cielo, si può riconoscere che “è vero quindi, si può toccare Dio e la sua altitudine”, ma solo perché “se un giorno sono stata un albero ha senso questo tremare”. E questo tremare è un gesto di appartenenza, un essere tutt’uno con natura e mondo animale. “Così entro nel bosco come fosse la mia casa/ e l’albero che sono stata saluta tutti gli alberi”.
“Niente di tiepido” scuote immaginazione e battito cardiaco, invita ad uscire dal centro e a trovare nel margine una nuova disponibilità di umanità più sincera.
Il luogo esatto dove “senza follia non ho riparo da niente”, il momento di quel vivere non più rimandabile, non più pagabile comodamente a rate.
Tutto il libro è una continua intonazione che permette di entrare nella melodia del mondo, quello più appartato, apparentemente più lontano, ma che comunque si cela sempre e solo dentro ognuno di noi. Anche se poi si manifesta con alberi, neve, salite, cielo, nuvole, animali: “Se tutto fossi di niente, mi leverei oltre il siero della luce a toccare il molto/ dei volti, l’ordigno che dà fuoco al canto”.
E ancora, e di più, “anche io cado di mio vento,/ in quel modo che sangue e ossa/ fondono verde con bocca e l’odore/ squillante dell’erba e l’altissimo prato e me”. Si è catturati in un momento sospeso, dove il camminare e lo scrivere di Iole Toini trovano la forma della poesia, e si consegnano a chi legge. “Il bianco batte in petto. È tutto”. E poi, un po’ più in là, “i fiori mi hanno detto/ di credere a loro che sanno”.
In questo raccontare il corpo è la mappa e la bussola, quando mette passo dopo passo in un silenzio che è necessario, vigoroso e fertile; quel “Nasco nella dismisura dove i tendini schioccano la freccia” che indica il qui e ora.
E crea un tempo che è sempre un attimo di scoperta, di rivelazione che si manifesta, e la sua ragione d’essere è improvvisamente chiara: “Credo la luce, credo sia la perfetta luce/ che canta le cose illuminate, le cose amate”.
Iole Toini con questo suo nuovo libro riporta il lettore all’essenza, alle radici del suo vivere, alla forza primordiale da cui ognuno di noi proviene, e che da troppo tempo stiamo smarrendo. Un luogo, o magari solo una frazione di tempo, in cui nuovamente inventarsi, per riaprire gli occhi come se fosse la prima volta, e trovare “felci dentro felci, e trame di verdi, e altri verdi/ ancora, su, all’inizio dell’acqua”.
Sì, la direzione è segnata: “L’ombra soffia il nome insieme all’aria/ e noi lo attraversiamo”.
“Niente di tiepido” è una vertigine che fa bene.

 

Dal libro:

Del più bianco – fittissimo bianco – altare immobile e veleggiante –
veggente del qui – ogni cosa traboccata – dal bianco sopraffatta – fatta
chiarissima – alata ululata – aria magmatica e –
acqua e acquacielo – e
luce che da sotto sale –
ben decisa a fare
della farfugliante radura – mormorii – cremosi bisbigli – dicono, dicono
-della gonfissima luce – svettante lembo di lingua – lingua le frasche
-lingua le tracce che indicano – dal basso stralucente – levata a pino
cembro, a frassino – a foglia traslucente –
ben decisa a fare
in becchetti di puff – in grillichesaltano – in gemme e cricri e nuovo tutto
-e tutto che può, che coprendo scopre – che silenziando canta
le cose come stanno.
Il tamtam passa dalla robinia al tordo al più piccolo – e trema
qui, a fare
la nevenascita
che spacca
e risana
ben decisa a fare – fino al granodibocca che fa la-lla-llal-la

*

C’è un orlo di luce sulle tende e una quiete che non riesco a tenere.
Sto ferma come la dolcezza sul volto di una donna nel vicolo sotto casa.
La tristezza è nelle braccia troppo larghe dell’amore. Ma dimmi:
saprò la stessa luce quando come te ci sarò e non ci sarò?

*

A Orchi

Stasera avrei voluto scrivere una poesia. Una poesia piccolina – per
te – con dentro mele o arance o una coperta di pile; qualcosa di caldo,
con l’odore della casa. Anche una gallina andava bene. Una gallina che
ti avrebbe becchettato vicino – piccoli grani – quelli che tu lasci cadere
quando ridi.
Ma questa poesia piccolina è rimasta da qualche parte – in un prato,
probabilmente – con la gallina e due bimbette che corrono in bici senza
mani.

*

Il bosco rideva se lo guardavo
nell’ora aperta dove il cuore frangeva
perduto, solo.
E nella sembianza di non essere –
cioè di essere pienamente e niente –
poteva – il cuore – forse poteva,
come la foglia accesa, come il taglio
della vallata o il masso – altro seguace della vetta –
come l’oro che ancora per un tratto
lasciava il volto arreso alle pietre.

E io a voler dire – a voler sapere dire –
la sagoma alla meraviglia assunta a fiore,
trascesa a radice – o tronco – o vetta,
discesa a confine certo del sì –
io – a voler percorrere a gola quel cespo
che aggancia il silenzio,
che me confonde – il sopra, il sotto,
che sua opera è il fare,
che in me immensamente e ancora –

 

 

Intervista a Iole Toini:

A leggere “Niente di tiepido”, e a guardare le immagini del tuo camminare in montagna, si ha la netta impressione che il tuo è un andare incontro ad un silenzio. Che silenzio è?
Il silenzio è la condizione necessaria per l’ascolto. L’ascolto è il senso più vicino all’amare. Le cose – e a volte anche le persone – più silenziose sono quelle che molto avrebbero da dirci – e lo fanno se le sappiamo ascoltare.
Stare zitti è anche un bisogno. Siamo attorniati da rumori di ogni tipo. La natura offre l’accesso a quel mondo che permette di andare il più vicino possibile a se stessi e all’anima di ogni cosa.

La scrittura di “Niente di tiepido” non solo racconta ma, ancor di più penso, è capace di riportare al lettore la percezione e l’esperienza di ciò che racconti. Un qualcosa che va al di là, ma anche al di sotto e al di sopra, di lato, al significato della parola in sé. Può essere così?
Parte sempre tutto da lì, dall’ascolto. E quello che si percepisce e a cui ci si accosta è quel mondo nascosto, che non si mostra con clamore, ma è vivo, presente e potente.
È il mondo fatto di piccole cose, tanto più piccole quanto più potenti, ci mettono in connessione con lo strato più profondo di noi stessi che apre a un sentire che va oltre e coglie quel soffio, quella vibrazione che rimanda a una visione altra, non lontana, ma anzi tanto vicina da appartenerci.

Il tuo avventurarti nella natura mi sembra sia un necessario andare incontro al tuo io più profondo. Ecco, andare incontro a sé, è andare incontro agli altri?
Certo. La natura, il camminare attraverso essa fa sì che si riesca a incontrare, nel modo più semplice e puro, l’altro. Non esistono sovrastrutture, non esistono periferie o centri. Esiste l’essere umano in relazione con tutto.
In qualche modo camminare nella natura ti libera dal peso di te stesso e ti rende più disponibile ad accogliere l’altro. Un piccolo esempio: il codice non scritto di tutti i camminatori è che ci si saluta sempre tutti e lo si fa con la gioia di riconoscersi uguali. È difficile rendere a parole questa sensazione, ma è una libertà di esistere che ti dona un benessere che riconosci uguale in chi incontri sul sentiero.
Nello scambio di quel saluto c’è come un nominarsi, riconoscersi e accogliersi.

“Niente di tiepido” penso sia capace di creare un adesso e qui presente che tutto contiene, tempi e momenti presenti, passati e futuri. È, anche questa, la natura del libro?
Il libro nasce soprattutto attraverso questa dimensione di natura. Ciò non esclude il percorso svolto che nel bene e nel male è servito a portarmi qui e ora. Il futuro è un divenire dell’adesso.
Il libro è nato senza uno scopo preciso se non quello di esporre questa percezione di ‘altro’ che vi è in ogni cosa.

Presenza importante in queste pagine è il camminare. Ho sempre pensato che il camminare assomigli allo scrivere. Si mette un passo dopo l’altro, si mette una lettera dopo l’altra; ci si ferma e si va a capo per permettere un respiro in più… Ti ci ritrovi in questo?
Anche il camminare, così come la poesia, necessità di un ritmo. Passo- respiro -passo.
È un’armonia che viene dallo stare bene e incedere sentendo il proprio battito che risuona preciso con tutto quello che sta attorno.
Credo che niente come il camminare in natura sia uno degli esercizi che più si avvicina allo yoga.

Di sicuro tutto il libro è un invito a scoprire/riscoprire l’incanto e la dolcezza. Non solo come attimo di svelamento della bellezza, ma anche come epifania nello scoprire la propria umanità. È ciò che ci manca? Perché poi questo, penso, è strettamente collegato ad un altro invito, quello al rinunciare alle sicurezze conformate, omologate…
Non mi piace pensare che la mia poesia voglia fare la profeta. Nessuno ha nulla da insegnare a nessuno. Ognuno ha bisogno di percorrere la strada secondo i propri tempi e intenti.

Questo tuo scrivere mette in risalto anche i colori (il bianco della neve, il verde delle felci…), permettendo loro di arrivare alla propria purezza, alla propria essenza. È solo una mia impressione?
La natura è caratterizzata primariamente proprio da questi colori: il verde in estate e il bianco in inverno, con tutte le declinazioni possibili.
Diciamo che questi colori fanno da tramite primario alla voce della natura.

La neve, sì la neve… che non solo copre e colora, ma che addirittura è “Neve oltreneve a fiotti nel cervello”… Che significato ha la neve per te?
La neve è il simbolo per eccellenza di rinascita, di accudimento, e – sembra assurdo – ma anche di calore. La neve ha un potere grande, trasforma tutto in nuova vita. In uno dei momenti più severi dell’anno, quello del freddo intenso, quello del buio, quello del riposo – che molto si avvicina alla morte – c’è la percezione che anche nella durezza, proprio dalla durezza, nasca poi la luce.
Camminare in un paesaggio di neve rimanda un’esplosione di bellezza senza pari, soprattutto quando ogni cosa ne è ricoperta. E sembra di sentire venirti incontro la gioia da ogni albero, da ogni cespuglio. E se addirittura in quel momento si mostra il sole allora ogni poro va in fibrillazione.

E l’attraversare la luce, nel suo manifestarsi in così tanti modi e forme, il sentirla sulla pelle tanto quanto nello sguardo, mi sembra sia una sorta di passaggio obbligatorio, quasi di purificazione… Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. Ogni ogni ogni volta che si cammina nel verde, il verde ti rimanda questa bellezza gratuita, una sensazione di amore profondo. E torni a casa rigenerato.

Alla fine del libro, dopo un inizio in cui la distanza dall’essere umano sembra una necessità, si vive invece una fiducia nella presenza altrui decisamente più motivata, più desiderata…
La poesia di chiusura vorrebbe dire proprio questo: la natura è generosa di bene e non chiede in cambio niente, elargisce senza risparmio e tu prendi e godi e sei felice senza dare nulla.
Nei rapporti con l’essere umano invece è tutto più difficile, più complicato. Ma credo che proprio questo sia fondamentale imparare dalla natura: rapportarsi con l’altro allo stesso modo in cui la natura si rapporta con noi, saper dare senza aspettarsi niente in cambio.
Ma questo è un sentiero molto in salita, ambizioso, che comporta fatica, dedizione e un amore appunto incondizionato. Con gli animali, con il bosco, tutto è più facile. Ma la vera salita da percorrere è amare l’essere umano. Per ora è una strada che ho solo cominciato ad adocchiare.

 

L’autrice:
Iole Toini (1965) vive sul lago di Iseo e lavora presso la segreteria dell’istituto superiore Serafino Riva di Sarnico.
Ad oggi ha pubblicato due raccolte, “Spaccasangue” (Le Voci della Luna 2009) e “Dei colori dei luoghi” (Terra d’Ulivi Edizioni 2014).
Altri testi sono usciti in vari lavori collettivi: “Confronto a dieci. Poeti e pittori in visioni contemporanee” (Associazione Culturale Città d’arte 2010), “Mauro Moscatelli. Eravamo dèi” (2011), “La Versione di Giuseppe. Poeti per Don Tonino Bello” (Accademia Terra d’Otranto 2011), “Cuore di preda. Poesie contro la violenza alle donne” (Edizioni CFR 2012), “Qui. Appunti dal presente n. 8, ‘Di guerra’” (rivista a cura di Massimo Parizzi 2003).
Francesca Maffioli ha curato una traduzione francese di “Sulle montagne, un cuore sperticato” per i Cahiers de l’Approche (Angoulême 2020).

(Iole Toini “Niente di tiepido” pp. 43, 10 euro, collana Perìgeion, Edizioni Pietre Vive 2023)

 

 

 

 

Immagini        ————————–

OMBREGGIATURE n

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Tempo presente        ———————–

Mi siedo e mi distraggo da me

Sette poesie inedite

di Alessandro Monticelli

Restare

Restare nelle crepe delle cose
dove entra la luce
nelle cicatrici
dove trovano riparo le verità.

Restare nel sedimentare e nel redimere
nell’impossibilità del perdono
nella forza residua e testarda
di un antico suono.

Restare in quel vissuto
intenso, denso, assoluto
che è l’inizio di ogni cosa
in chi ti somiglia non negli occhi
ma nel respiro.

Restare come destino
per chi custodisce come reliquie
avanzi di cibo e di vino.

Restare per avvertire il petricore
una domenica mattina
sotto un cielo di teatro e di stupore
affacciato su questo nulla
e costretto all’essenziale.

*

Io ti parlerei

Io ti parlerei di un letto sfatto con l’impronta
Del corpo e del profumo della persona amata
Immerso nelle sfumature della luce
Con le ombre lasciate dalle pieghe del tessuto.

Del frinire delle cicale in una pineta marittima
La ripetizione di un istante
Un momento nel tempo circolare.

Ti parlerei
Di una finestra piccola
Di una architettura abbandonata all’incuria del tempo
Di una carcassa di roccia
Di unghie dipinte di rosso scarlatto.

Ma non ho voce.

Poiché in un silenzio ancora più infinito
Altrove in una casa di campagna
Nello spogliatoio di una fabbrica
O in una stanza di mare
Sguardi di uomini e donne
Macerano la pietra e strinano il tempo.

Nella luce visibile del sole e nel suo odore così segreto.
Forse è questo il destino arrivare al traguardo e averne paura.

*

Lenta bellezza

C’è una lenta bellezza
nella solitudine dei primi piani
in un lontano Arcobaleno
che non ha mai Inizio da qui.

Si indugia a poche fermate di metró
tra indifferenza e amore
nell’attesa di un gesto
che rimetta tutto a posto.

La macchina barocca oramai è denudata
semplice quasi purificata
nello smarrimento di chi percorre
grandi strade e chi solo sentieri.

Di sera buio e bellezza
restano nei nomi
di chi si incurva per il dolore
e in chi crescendo
ha imparato a deludere.

Per cena solo Ossi di seppia.

*

Le risa spensierate degli incolti
la bellezza delle cose incompiute
un libro aperto abbandonato a faccia in giù.
Al limitare del genere umano si naviga a vista
fino alla prossima tempesta
e si vive nei ritagli di tempo
spesso in corpi inospitali
colpiti solo da una linea di luce in una stanza scura.
Fuori di essa basse passioni, miserabili appetiti
per tutti quegli schiavi che si credono liberi
e non sanno che più che condividere
sarebbe meglio moltiplicare
per chi ai muri preferisce le strade.
Ma resta l’ansia di essere uomini.
Se vai via ti prego abbi cura di me.

*

Letter from home

In questo mutuo disordine gli ultimi istanti di gloria
Permeano i tetti delle chiese, delle moschee, delle sinagoghe.
Prigioni di vetro dalle serrature di sughero
Che custodiscono anime di porcellana di una commedia autunnale.
Altrove in un tempo inedito, nascosto, di luce brulicante tra le foglie
Si agitano insospettati oppositori dello scintillio estivo
Sui sudici sanpietrini romani.
Ma resta in un respiro di pece
L’isolato rumore di passi in una fredda domenica mattina verso casa.
L’odore di legno antico che emana da una mela tagliata a metà.
Che dirti?
Come animale prima che la terra tremi… lo sento.
Ora che vivo in quella casa a pochi passi da Alexanderplatz
E mi tengo ben stretto tutto quello che non conosco.

*

La libellula
(ad Amelia Rosselli)

La tristezza all’orlo delle ginocchia non mi permette di andare avanti.
Così il vento della sera mi spinge verso la radura delle tue inclinazioni
e della giustizia più o meno divina di cui saremo vittime e carnefici.
Infinite schegge di corpi.
Milioni di bottoni penzolanti dalle asole di menti irrequiete.
Il giorno dopo poggio di nuovo il pennello sulla tela bianca
come coltello poggiato sulla carne nuda che provoca ferita
e che profuma d’estate l’eco lontana di una canzone
che mi accingo a cantarti ora che non ci sei più.
Ora che punto la penna al cielo di nuvole
e disegno i contorni di navi e alberi alati
e poco più in basso il profilo del tuo viso.

*

Ti stringo a me con braccia di nebbia
perso in un ricordo
che non esiste ancora.
Nella solitudine ci si incanta e ci si perde
come nomade
In un mondo che si dissolve
nelle immagini delle vite altrui.
Nei panorami trasformati dagli sguardi
tra imprevedibili prodigi
e verità bastarde e infedeli
che non riusciamo ad abitare.
Più che dei fuochi che non si accesero
ci saremmo dovuti preoccupare
di quelli che non siamo riusciti a tenere vivi.
E all’ombra di un risentimento
ogni tanto per essere meno infelice
mi siedo e mi distraggo da me.

 

L’autore:
Alessandro Monticelli (1972), nato a Sulmona (AQ), ha pubblicato varie raccolte poetiche, tra le quali: “Medicine Scadute” (Mauro Baroni Editore 2004), “Made in Italy” (Edizioni Progetto Cultura 2004), “Radici in aria” (Lupi editore 2015), “Le conseguenze” (Bertoni editore 2022) e “Lezioni private” (bilingue, Cosmopoli editore Bucarest 2023).
Suoi testi sono pubblicati su diverse antologie e riviste letterarie nazionali e internazionali. Ha partecipato a numerosi reading e festival di poesia.
Dal 1999 inizia la sua attività artistica, esponendo nel duo Monticelli&Pagone in Italia e all’estero in gallerie e musei.

 

 

 

 

Immagini        ————————–

ALMENO UNA

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Tempo presente        ———————

Quando il ribes del sole cadde dietro l’orizzonte

Quattro testi inediti in italiano

di Maksym Kryvtsov

E quando
Il ribes del sole
cadde dietro l’orizzonte
presi
Tutte le mie cose
Tutta la mia vita
Partii in autostop
lungo l’autostrada:
guerra.

Quando mi chiesero
Che ore sono,
risposi: guerra.

Forse,
converrebbe scrivere versi più chiari e lineari
dedicarli alle persone chiare e lineari
ma tutto attorno è rotto
come un vecchio orologio.

Quando mi chiesero
Che stagione è
Risposi:
l’oscurità
nera
come
un grano tostato.

Sento il fragore
Penso: munizioni
Invece è semplicemente arrivato uno,
bussa al cancello metallico
aprimi
mi rispondono
non temere.

Quando mi chiesero
Quanti ne ho
Risposi:
per niente
quando mi chiesero
di cosa sei
risposi:
di sabbia

E mentre ti nascondi nella cantina
Il cielo è di una bellezza mai vista
E mentre respiri l’umidità
Nel cortile fioriscono gli albicocchi
Peccato
Che per questo tempo non ci sarà il recupero,
come nel calcio.

Partii in autostop
con tutte le mie cose
tutta la mia vita
tutti i miei sogni e l’amore
dimenticando qualcosa:
me stesso.

E quando mi chiederanno:
di dove sei?
Dirò:
dalla nebbia.
E quando mi chiederanno:
come ti chiami,
resterò in silenzio:
non mi ricordo.

Alla fine
qualcuno continua a bussare
al cancello
vado
ad aprire.

*

Voglio raccontarvi la storia
di un gigantesco gatto.
È rosso
come i prati falciati di settembre,
ha solo una cravatta bianca,
tristi e verdi
come olio verde,
sono i suoi occhi.
Spesso aggrotta le sopracciglia,
come se studiasse una ricerca scientifica
perché di sole, qui, ne capita poco
quando l’avete visto l’ultima volta, il sole
ai suoi tempi,
all’inizio d’autunno.
Era l’incubo di tutti i topi dei paraggi.
Eh,
questo è il rifugio del grande gatto rosso,
cerca di passarci
il più veloce possibile
bisbigliavano i topi fra loro.
Una volta lui ha cercato di
catturare un topolino
con un salto pigro
ma impressionante
sopra la fiamma aperta azzurra
di un fornello.
Ora sono bruciacchiati
i suoi baffi
arruffati
buffi e attorcigliati
come quelli di un famoso pittore.
Questi baffi non più lunghi
sono il ricordo di quel leggendario salto.
Si sistema sull’angolino della mensola per dormire
vicino all’ingresso del rifugio,
nascosto da due strati di coperte,
e cerca di sbirciare qualcosa
attraverso le minuscole fessure
forse attende qualcuno
nemico o amico
volpe o uomo.
Il gatto conosce
ogni sentiero,
ogni trincea tana rifugio.
Ha un suo segreto
quando dalla strada arriva
un rumore terribilmente assordante minaccioso scomposto
e la terra sussulta
si svegliano gli antichi giganti
e se ne vanno a fare le loro cose
lui si infila subito
attraverso il buco nel rivestimento
e si nasconde nei cunicoli catacombali
del piccolo rifugio
e non si fa vedere
ci mancherebbe
finchè i giganti non se ne vanno.
Quando lui si addormenta,
pian pianino allunga le zampette anteriori,
sogna l’estate
sogna una casa di mattoni, intera,
sogna le galline
che corrono per l’aia
sogna i bambini
che gli offrono panzerotti con carne.
Dalle mie mani scivola, inavvertitamente,
il casco
rotola nel fango.
Il gatto si sveglia,
strizza gli occhi,
si guarda attento, attorno.
Ci sono i nostri:
si riaddormenta.

La vedi la pioggia?

Forse
pioggia
non è

È un mantra
delle piazze
Sono le lingue
della morte

È che
il Signore prepara Il pellegrinaggio per la terra
È che
dagli alberi vengono mondati i peccati.

La vedi, la pioggia?
Non è più la pioggia
non lo è

*

È nato a Kakhovka,
si divertiva con gli amici sul lungomare
lasciando le orme sulla sabbia bagnata
strizzava gli occhi al sole
girava in moto
e d’inverno
a tutta velocità scendeva
dalla collina sullo snowboard
spericolato e sereno
come un surfista.
La guerra l’ha preso alla sprovvista,
come quando ti beccano a mangiare
di notte una fetta di torta,
preparata per domani,
o quando rubi al negozio,
ma non abbiamo rubato nulla.
Si è tuffato in quell’inverno,
come i tuffatori saltano dal trampolino,
come il pesce
che emerge
poi torna nel fiume
a testa in giù
con tutto il corpo,
i sogni,
la musica.
Con i piatti che cucinava,
le risate,
la brezza marina sul volto,
e quel che è stato,
e quel che non è riuscito ad essere.
Entrava nei boschetti
senza sapere
cosa aspettare:
un animale selvaggio o un perfido nemico umano.
Indossava gli occhiali stilosi,
una felpa alla moda sotto l’antiproiettile
e si tuffava nell’abisso.
Una volta ci stavamo nascondendo
come dei topolini
nelle trincee
sparse per il boschetto denudato autunnale.
Mi chinavo
come per evitare di urtare un lampadario
appeso ad un soffitto basso
per non rischiare di spaccare la lampadina.
Lui, nella buca accanto alla mia,
passava un nuovo livello di un coinvolgente gioco nel suo telefono.
Così
come passava fra i livelli della vita
con diversi ostacoli, diversi capi,
arrivando al massimo livello
senza perdere.
Quando guarderete nel cielo
e vedrete una scia dell’aereo in volo,
pensateci:
forse è lui,
che fa un giro sullo snowboard o in moto
ascoltando gli Slipknot
con uno vecchio chiodo di pelle
sfreccia lontano
sorridetegli in risposta.

Dedicato all’amico e commilitone “Batmen” (Illia Domatov)

(I testi qui proposti sono stati selezionati e tradotti in italiano da Marina Sorina)

 

Guardare la guerra con Maksym Kryvtsov

di Marina Sorina

Se muore un giovane uomo nel fiore dei suoi anni, è una tragedia. Se muore in guerra, ucciso dagli invasori, è una tragedia ancora più profonda. Anche se dopo dieci anni, tempo in cui l’Ucraina sta cercando di respingere i russi dal proprio territorio, notizie del genere addolorano, ma non sorprendono più.
E non è una sorpresa se in guerra viene uccisa una persona creativa: fra i difensori ucraini caduti ci sono numerosi poeti, scrittori, giornalisti, ballerini, cantanti.
Un nome spicca in questa lunga e funesta lista: quello di Maksym Kryvtsov, un ragazzo poco più che trentenne che aveva legato la sua vita alla poesia già da adolescente. Aveva studiato design tessile e dieci anni fa si era arruolato per combattere in Donbas, alternando i periodi sul fronte al lavoro nei campeggi estivi, e alla fotografia d’arte.
Nella foto qui sopra il suo viso è quello di un ragazzo dagli occhi chiari, dallo sguardo intenso e dai capelli lunghi, che starebbe bene a Woodstock, non in trincea.
Ma la libertà ora in Ucraina è qualcosa che si conquista con le armi: Maksym ne era conscio e combatteva anche raccontando quello che vedeva attorno a sé nelle sue poesie.
Rumori, odori, visioni che il suo occhio poetico evidenziava e trasformava in versi che portavano un messaggio a chi è lontano dal fronte: si può e si deve restare umani anche in circostanze estreme.
Ci raccontava dei suoi compagni d’armi e delle notti passate a gironzolare per Kyiv durante i giorni di licenza, di ragazze e di ragazzi che cercano se stessi in un mondo invaso dalla violenza.
Non scadeva mai nella retorica: ci faceva guardare la guerra attraverso i suoi occhi, mentre attraversava un campo di girasoli bruciati o vegliava la notte nel rifugio sotto bombardamento. Ci raccontava del suo gatto rosso, coraggioso e un po’ avventato. Parlava con semplicità anche di morte, reale ed ipotetica, quasi per scongiurarla.
La morte che invece è arrivata, per lui e per il gatto, la sera del 7 gennaio 2024, con un missile russo che ha colpito la loro postazione.
Il giorno prima aveva ricevuto le copie del suo primo libro di poesie, appena pubblicato.
E quelle pagine saranno la sua eredità poetica; che resterà a testimonianza della sua poesia, testimonianza di una vita vissuta all’insegna della libertà e dell’amore.

 

L’autore:
Maksym Kryvtsov, nato nel 1990 a Rivne, è stato poeta, fotografo, volontario e militare ucraino.
Sergente minore delle forze armate ucraine, ha partecipato alla guerra russo-ucraina dal 2014, scrivendo poesie e partecipando alla vita culturale.
Era in prima linea quando pubblicò il suo libro “Poesie dalla feritoia”. Le sue poesie poi erano state incluse nelle antologie dal titolo “Libro d’amore 2.0. Amore e guerra” e “Tra le sirene. Nuove poesie di guerra”, pubblicate nel 2023.
È stato ucciso sul fronte di guerra il 7 gennaio 2024.

La traduttrice:
Marina Sòrina, nata a Kharkiv nel 1973 in Ucraina, in Italia dal 1995, è laureata in Lingue straniere presso l’Università di Verona. Nel 2009 ha conseguito un dottorato di ricerca in letterature comparate presso lo stesso Ateneo.
Dal 2014 fa parte del direttivo di “Malve di Ucraina” APS, l’associazione che riunisce la comunità ucraina veronese presso il Centro per le donne migranti “Casa di Ramia”.
In ambito letterario ha pubblicato i libri di narrativa “Voglio un marito italiano” (Punto d’incontro 2006) e “Storie dal pianeta Veronetta” (Tra le righe 2018).
Ha tradotto il libro di narrativa “Diario di un fallito” di Ėduard Limonov (Odradek 2004), le poesie di “Lettere non spedite” di Oksana Stomina e i racconti del volume “Le mie donne” di Yuliia Iliukha. Vive a Verona.

 

 

 

 

Immagini        ————————–

PARCHEGGIO alle PORTE o PAeSSAGGI n

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ———————–

Sono un bambino d’aria marmellata

A cura di Nicola Crocetti e Vivian Lamarque, “Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi”

di Roberto Lamantea

C’era una volta, alla scuola elementare, il libro di lettura, e il libro di lettura era proprio come i libri di fiabe, con il classico avvio d’ogni storia per bambini. E un’altra cosa c’era una volta, che oggi non c’è più: il maestro chiedeva agli scolari d’imparare le poesie a memoria e per recitare quei versi ad alta voce i bambini squittivano “Me la provi? Me la provi?” con chiunque in casa gli capitasse a tiro.
Era “quel grande coro che la scuola ha colpevolmente imbavagliato (perché? Ci dicano almeno un perché; ci sarà tra voi un maestro o una maestra che lo libererà?)” implora Vivian Lamarque nella premessa a “Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi”, l’antologia che Vivian ha curato con Nicola Crocetti dedicata ai versi che, da bambini, alle elementari dovevamo imparare a memoria.
Cantilene, filastrocche, scioglilingua, ninnenanne, nonsense, fiabe d’autori che molti di noi probabilmente non hanno più riletto da allora: Ada Negri, Angiolo Silvio Novaro, Renzo Pezzani… E “Sopra una conchiglia fossile nel mio studio” di Giacomo Zanella. E Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Aleardo Aleardi… (che nell’antologia non ci sono). Chi li ricorda più questi autori d’un minore Ottocento che con le loro rimette ci hanno fatto compagnia da bambini?
Nostalgia? Ma sì, d’un mondo che non c’è più, gessi bianchi e colorati e lavagne d’ardesia, grembiuli con i fiocchi azzurri, verdi, gialli, rosa, rossi, e due libri, invece della montagna di carta che i bambini sono costretti a portare oggi: il sussidiario e il libro di lettura (a volte l’atlante per geografia e il vocabolario). E i vecchi banchi di legno con il calamaio (il bidello portava l’inchiostro) per le nostre cannucce con i pennini, i quaderni dalla copertina nera e il taglio rosso… E le poesie. “La vispa Teresa/ avea tra l’erbetta/ a volo sorpresa/ gentil farfalletta”: chi ricorda questi versi oggi ha almeno tra i 60 e i 70 anni. Sono di Luigi Sailer (1825-1885) e sono una fiaba ecologica e animalista in anticipo.
Questa antologia è uno strumento e un contenitore, che si vorrebbe fosse usato nel modo più libero e creativo possibile per associazioni, per aggregazioni, per somiglianze e differenze. Ognuno, lettore fanciullo alle prime esperienze o adulto o magari educatore, potrà trovare i suoi percorsi, i suoi fili rossi tra testi che programmaticamente vanno, come si diceva, dai componimenti pensati per l’infanzia alla poesia dei classici italiani della modernità”, scrive Nicola Crocetti nella postfazione. Perché “c’è un’infanzia della poesia, della grande poesia, che i bambini talvolta sanno sorprendere e cogliere, come annotava Giorgio Caproni nel suo registro, meglio dei lettori esperti”.
C’è anche Caproni (che fu maestro elementare) nell’antologia; c’è il Leopardi di quell’inno alla vita che è “Il sabato del villaggio”; ci sono le vecchie poesie “per l’infanzia”, i classici e i contemporanei: Pascoli, Carducci – è in “Davanti San Guido” il verso che dà il titolo al libro – Pavese (“Passerò per piazza di Spagna”, una delle sue liriche più belle), ci sono i maestri (Toti Scialoja, Mario Lodi, Pinìn Carpi, ma non c’è Rodari), le autrici più grandi dell’Italia di oggi (Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri), la poesia italiana del Novecento (Giudici, Raboni, Bertolucci, Caproni, ma non c’è Zanzotto, citato da Lamarque nella premessa), i versi per bambini di Pierluigi Cappello; testi meravigliosi, delicati come fiori o farfalle, di Chiara Carminati, Nicoletta Costa, Pietro Formentini, Anna Lavatelli, Bruno Tognolini, Silvia Vecchini: settanta autori, uno solo straniero (il greco Pandelìs Bukalas, tradotto dal grecista Crocetti).

È la gioia della lettura a rendere delizioso questo libro che, a differenza d’altre antologie simili, apre agli autori di oggi, avanguardie comprese (Sanguineti, Porta), oltre ai versi che “mandavamo” a memoria in anni lontani ma la cui rilettura ha tutto il profumo – l’innocenza? – di quell’antica scuola elementare, magari con lo stesso maestro che ci “portava” dalla prima alla quinta.
Nei ringraziamenti gli autori citano anche il “caro Piero Manni” ricordando “le sue squisite cene rallegrate da scatenate gare poetico-mnemoniche”: l’editore di Lecce ha curato e pubblicato nel 2016 “Che dice la pioggerellina di marzo. Le poesie dei libri di scuola degli anni Cinquanta”, introduzione di Piero Dorfles, seguito nel 2017 da “Cloffete cloppete clocchete. Le poesie nei libri di scuola degli anni Sessanta”, introduzioni di Massimo Bray e Gino & Michele, titolo dalla “Fontana malata” di Palazzeschi.
L’invito è leggere e rileggere questo libro al di là della nostalgia e con la gioia di scoprire un “piccolo mondo antico” per chi oggi è abituato, più che a sfogliare un libro di carta, ad avere lo sguardo incollato allo smartphone. Alla scoperta di gioielli della scrittura, piccole meraviglie che ci saranno sempre, come ci saranno sempre i presepi e gli alberi di Natale o le uova di cioccolata a Pasqua.

 

Dal libro:

Ninnananna per i meli in fila

Fai la nanna primo melo
e dillo al secondo
che lo sussurri al terzo
il quarto e il settimo stanno
per fiorire di sogni bianchi
ma il quinto melo e l’ottavo
hanno perso il conto
della neve e sognano
merli sui rami vuoti
con nel becco inutili canzoni
solo uno il più solitario
sogna di volare
via, via dalla fila
via dal percorso dei fiori
via lungo l’autostrada
fino alla luna insaponata
dove bianco su bianca
dormire fino a fiorire
e sfiorire sfiorire
e fiorire.

Chandra Livia Candiani
(1952)

*

Marmellata di parole

Filastrocca filastroccata
marmellocca marmellata

lamarmela filafiocca
coccastrilla melacocca

fillalata melalilla
astramela marmelmilla

stroccafolle latamarmell
filastrolla marmellocchell.

Pietro Formentini
(1937-2020)

*

Io guardo spesso il cielo

Io guardo spesso il cielo. Lo guardo di mattino nelle ore di luce
e tutto il cielo s’attacca agli occhi e viene a bere, e io a lui, mi attacco,
come un vegetale che si mangia la luce.

Mariangela Gualtieri
(1951)

*

Il mistero

Papà, mi spieghi questo mistero?

Il contadino ara la terra,
semina e miete,
cura le piante
poi lascia lì tutto
e fa l’emigrante.

Il muratore, pietra su pietra,
ha costruito intere città,
ma la sua casa ancora non ha.

L’operaio dell’officina
tante bellissime macchine fa
veloci come il vento,
però lui viaggia in cinquecento,
quando ce l’ha.

Questo mistero me lo spieghi, papà?

Mario Lodi
(1922-2014)

*

Rima del bambino trasparente

Sono un bambino-cielo, trasparente
Papà mi guarda ma non vede niente
Mamma mi guarda poco, poi sospira
La maestra mi guarda, poi si gira

Non spacco tavoli, non vinco premi
Non do spettacoli, non do problemi
Sono un bambino d’aria marmellata
Fatto di molta gente mescolata

Ma da qui, dalla mia bolla di cielo
Se voi non mi vedete, io vi vedo
Vi vedo pallidi, patetici, distratti
Vivete senza cielo, siete matti

Bruno Tognolini
(1951)

(“Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi” a cura di Nicola Crocetti e Vivian Lamarque, pp. 184, 16 euro, Crocetti 2023)

 

 

 

 

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ALMENO UNA di più

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

Tempo presente        ————————

No dejás nada atrás  Non lasciare nulla dietro di te

Sei testi inediti in italiano

di Jorge Aulicino

3

Ahora estás
en la Península, no hay nada atrás
porque la Península es desierto que se adentra en el mar.
Un coito sosegado de agua azul y de tierra amarilla
en cuyos bordes no hay árboles, no hay altura,
no hay perfil, sino el color de lava o de azufre, que pone
ese signo despojado
como un instrumento quirúrgico primitivo o
un arpón o un glande
en el mar.
No dejás nada atrás.
Mirás una foca cuyos ojos no miran, ven solo
el mar.
Las focas de lejos son como alga en la orilla.
La piedra se anima.
Las rocas agujereadas se mueven.
Un canino liquen muerde el mar con dientes desvencijados.
Disolución en la espuma, y luego gotas que parecen congelarse en el aire.
Nada queda atrás porque nada se repite. El signo es puro
y único, el aire es completamente transparente, como si
no estuviera,
excepto en las narinas
que se mueven con movimiento de algas
o de focas,
semasiográficas.

3

Adesso sei
nella Penisola, non c’è nulla dietro
perché la Penisola è un deserto che s’inoltra nel mare.
Un coito calmo d’acqua azzurra e terra gialla
dove ai margini non ci sono alberi, non c’è vetta,
non c’è profilo, ma il colore della lava o dello zolfo, che colloca
quel segno spoglio
come uno strumento chirurgico primitivo o
un arpone o un glande
nel mare.
Non lasciare nulla dietro di te.
Guarda una foca dagli occhi che non guardano, soltanto vedono
il mare.
Le foche da lontano sono come alghe sulla riva.
La pietra s’anima.
Le rocce bucherellate si muovono.
un canino lichene morde il mare con denti rotti.
Dissoluzione nella schiuma, e poi gocce che sembrano congelarsi nell’aria.
Nulla rimane indietro perché nulla si ripete. Il segno è puro
e unico, l’aria è completamente trasparente, come se
non ci fosse,
a parte nelle narici
che si muovono con un movimento d’alghe
o di foche
semiasiografiche.

*

Auberbachs Keller
Leipzig, Alemania

2
Entre la lápida de Bach en la iglesia de Santo Tomás
y el Auberbachs Keller, la distancia es corta, y en la taberna
cualquier tarde Mefisto vuelve a montar un barril
mientras afuera llueve o truena o cae una nevada
en silencio, como cae la nieve.
Mefisto: un espíritu alegre;
el mal olvidado tal vez en su mente gracias al don del barril,
en una ciudad que buscaba a Dios en una música que se busca
a sí misma: un
órgano cuyo sonido hueco emana dones oscuros y claros,
a los que el don mayor hace temblar y volver sobre ellos mismos,
buscándose otra vez, como cuerpos repetidos y distintos
a los que el atardecer envuelve y borra;
cuerpos en la tormenta, cuerpos embozados en calles estrelladas,
cuerpos yéndose una vez y otra
y otra. Cuerpos en el ocaso y el alba repetidos y diversos,
a impulsos
de una pedalera, unos tubos, una partitura de otro mundo,
escrita por el hombre pródigo,
de gabán astroso y muchos hijos.

Auberbachs Keller
Leipzig, Germania

2
Tra la lapide di Bach nella chiesa di San Tommaso
e la di Auberbachs Keller, la distanza è breve, e nella taverna
in qualsiasi pomeriggio Mefisto torna a montare un barile,
mentre fuori piove o tuona o scende una nevicata
in silenzio, come cade la neve.
Mefisto: uno spirito allegro;
il male dimenticato forse nella sua mente grazie al dono del barile,
in una città che cercava Dio nella musica che cerca
se stessa: un
organo il cui suono vuoto effonde doni oscuri e chiari
a cui il dono maggiore fa tremare e tornare su se stessi,
cercandosi di nuovo, come corpi ripetuti e diversi
che l’imbrunire avvolge e cancella;
corpi nella tormenta, corpi nascosti nelle strade stellate,
corpi che se ne vanno una volta e un’altra
e un’altra ancora. Corpi nell’occaso e nell’alba ripetuti e diversi
negli impulsi
di una pedaliera, dei tubi, uno spartito d’altro mondo
scritto dall’uomo prodigo,
dal pastrano malmesso e tanti figli.

*

Exaltación de la Cruz
Argentina

3
Los dioses viven de los vivos, pero Cristo vive de su muerte.
Fue la de Dios. Y su resurrección un regreso
que restauró la sacralidad (incluso del pájaro
que voló unos metros sobre la línea de asfalto
para girar a la izquierda y hundirse en el vapor que sube
del pasto).
No hay túmulos por aquí ni cementerios de campo. La
raya blanca del horizonte promete una fría mañana.
Las ruedas sobre el pavimento llevan una marcha algodonosa.
El tablero de mando es como una noche de luces encendidas.

Exaltación de la Cruz
Argentina

3

Gli dei vivono dei vivi, ma Cristo vive della sua morte.
È stata quella di Dio. E la sua resurrezione un ritorno
che ha restaurato la sacralità (persino dell’uccello
che è volato alcuni metri sulla linea d’asfalto
per girare a sinistra y affondare nel vapore che sale
dal pascolo.)
Non ci sono tumoli qui né cimiteri di campagna. La
striscia bianca dell’orizzonte promette un freddo mattino.
Le ruote sul manto stradale portano una marcia cotonosa.
Il pannelo di comando è come una notte di luci accese.

(Exaltación de la Cruz è un paese della provincia Argentina)

Da “Il libro dei luoghi” (Ed. Barnacle, Argentina, 2022)

*

El capital

La muerte intempestiva de Tu Fu era debida
—en ejercicio de su dialéctica—
a la presión del capitalismo que desplaza
dos atmósferas por encima del volumen de su cuerpo.

Lo dijo menospreciando mi tendencia al hematoma,
la raíz de los sonidos como de muebles corridos
durante la madrugada en el piso de arriba
en la orilla del sueño —pero que, sabía, eran señales
de otros cuartos en ciudades hundidas—

… el volumen total de su cuerpo que abarca Ficino,
los arcos de medio punto, el semicírculo,
la proliferación de marinas, de ideogramas…

“Lo que quiera usted”, dijo.
“Pero le insisto: no debe dedicarse a la poesía
si no está dispuesto a recibir en su centro mental
el peso de la inflación de mercado
y del repliegue táctico que imbrica
guerras, la soledad de un hombre, las conjuras”.

Il capitale

La morte intempestiva di Tu Fu era dovuta
– nell’esercizio della sua dialettica –
alla pressione del capitalismo che muove
due atmosfere sul volume del suo corpo.

Lo ha detto sottovalutando la mia tendenza all’ematoma,
la radice dei suoni come mobili spostati
durante l’albeggiare nel piano di sopra
nel limite del sonno – ma che sapeva, che erano segnali
di altre stanze nelle città affondate –

…il volume intero del suo corpo che cinge Ficino,
gli archi di punto medio, il semicerchio,
la prolificazione delle marine, degli ideogrammi…

“Quello che vuole”, ha detto
“Ma insisto: non deve dedicarsi alla poesia
se non è disposto a ricevere nel suo centro mentale
il peso dell’inflazione del mercato
e del ripiegamento tattico che embrica
guerre, la solitudine di un uomo, le congiure”.

*

Neroli

El adusto nimbo del aceite
flota indistintamente sobre
las aguas cloacales, el agua de lluvia,
el agua de los abrevaderos, el agua de los pozos.
El aceite ágil prende lámparas de luz fresca,
se enciende el resplandor de la música más allá
de los puertos.
El calor convierte en profundo perfume la humedad
de las quintas y los jardines. Los pensamientos se deslizan
sobre las cosas y las reconocen sin cambiarlas.
Esta paz no cambia las selvas corruptas,
las aldeas con pilas de inmundicia,
sofocadas en el humo ácido de la voracidad.
Pero ese mundo está hundido en el neroli, pervivencia
de un mundo que no será: perfume
de lo que sucedió en las grutas del mar
y en los palacios del desierto.

– Quién hubiese dicho que el aliento invasor en las tiendas,
los ojos en la oscuridad, el olor animal
de los cuerpos, era lo que iba a quedar de la palabra
amor y de otras
que los hombres pronunciarían
antes de que su propio tóxico los perdiera -.

Neroli, planeta que rodea el planeta.

Neroli

L’austero nimbo d’olio
galleggia indistintamente su
le acque cloacali, l’acqua della pioggia
l’acqua degli abbeveratoi, l’acqua dei pozzi.
L’olio sciolto illumina lampade di luce fresca,
s’accende il fulgore della musica oltre
i porti.
Il calore trasforma in intenso profumo l’umidità
delle case di campagna e dei giardini. I pensieri scivolano
sulle cose e le riconoscono senza cambiarle.
Questa pace non muta le selve corrotte,
i villaggi con pile d’immondizia,
soffocati nel fumo acido della voracità.
ma quel mondo è affondato nel neroli, sopravvivenza
di un mondo che non sarà: il profumo
di quello che è successo nelle grotte del mare
e nei palazzi del deserto.

– Chi avrebbe detto che l’alito invasore nei negozi,
gli occhi nel buio, l’odore animale
dei corpi, era ciò che restava della parola
amore e di altre
che gli uomini pronuncerebbero
prima che il suo stesso veleno li perdesse -.

Neroli, pianeta che circonda il pianeta.

(“Neroli” è un album di Brian Eno, del 1993)

*

Li Po

Li Po no quiso hacer poesía de la corte
cuya proliferación de dorados y rojos lo habrá embriagado.
El innombrable despliegue de artesonados y trajes,
la imposibilidad de memorizar los detalles
de solo un atavío, conducían a la locura.

Fue a la montaña y se encontró con un paisaje
de barcas sobre cristal,
copas que destellaban como los rubíes,
el vuelo de las garzas y el de los sombreros,
la carne que no podía ser dicha,
el espectro de Tu Fu entre los altos pinos que cantaban
una canción irreal.

Bosques y laderas le recordaban
el musgo sobre las piedras
de los jardines imperiales, esa naturaleza en miniatura.

Li Po vio
que no podía escaparse de inverosímiles escenarios,
ni de las artes marciales y el arte caligráfico.

Fingió una perenne borrachera y mezcló elixires,
jamás supo si estaba dentro o fuera de sí,
en qué consistía la lírica.

Li Po

Li Po non volle fare la poesia della corte
dove la diffusione di dorati e rossi l’ubriacava.
L’innominabile dispiego di lacunari e abiti,
l’impossibilità di memorizzare i dettagli
di un solo vestito, portavano alla follia.

Se ne andò in montagna e vi trovò un paesaggio
di barche su un cristallo,
chiome che luccicavano come rubini,
il volo degli aironi e dei cappelli,
la carne che non poteva essere detta,
il fantasma di Tu Fu tra gli alti pini che cantavano
un’irreale canzone.

Boschi e pendii gli ricordavano
il muschio sulle pietre
dei giardini imperiali, quella natura in miniatura.

Li Po vide
che non poteva scappare dagli scenari inverosimili,
né dalle arti marziali e dall’arte della calligrafia.

Finse una perenne ubriacatura e mescolò elisir
mai seppe se era in sé o fuori di sé,
dove constava la lirica.

Dalla silloge “Il Capitale – La lirica” in via di pubblicazione (Ed. Barnacle, Argentina, 2024)

 

(Tutte le poesie di Jorge Aulicino sono state selezionate e tradotte in italiano da Antonio Nazzaro).

 

L’autore:
Jorge Aulicino, poeta e giornalista argentino, è nato nel 1949, nella città di Buenos Aires. All’inizio degli anni ’70 entra a far parte del laboratorio letterario Mario Jorge De Lellis, uno dei luoghi in cui si realizza il ripensamento generale del movimento “coloquialista” degli anni ’60.
È stato membro del consiglio di amministrazione del “Diario di Poesia” tra il 1987 e il 1992, pubblicazione influente nell’ambito poetico della Buenos Aires degli anni 80. Ha lavorato in agenzie di stampa e riviste e, per 28 anni, nel quotidiano Clarín.
Dal 2005 al 2012 è stato redattore della rivista culturale Ñ. Collabora alla rivista digitale Op. Cit. e nel Giornale di Poesia dell’Università del Messico. È stato membro della Giuria del Premio Nazionale di Letteratura nel 2004; e, nel 2015, ha ricevuto il Premio Nazionale di Poesia.
È traduttore di poesia italiana e inglese. Ha pubblicato, tra gli altri, i libri di poesie “La caída de los cuerpos” (1983), “Paisaje con autor” (1988), “Hombres en un restaurante” (1994), “Almas en movimiento” (1995), “La línea del coyote” (1999), “Las Vegas” (2000), “La luz checoslovaca” (2003), “La nada” (2003), “Hostias” (2004), “Máquina de faro” (2006), “Cierta dureza en la sintaxis” (2008), “Libro del engaño y del desengaño” (2011), “El camino imperial. Escolios” (2012), “El Cairo” (2015), “Corredores en el parque y Mar de Chukotka” (2018). Ha anche pubblicato l’antologia di tutte le sue poesie, che comprende sedici libri, con il titolo “Estación Finlandia” (2012).
Ha tradotto, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Franco Fortini, Antonella Anedda e Biancamaria Frabotta.
Nel 2011 è apparsa la sua traduzione dell’Inferno di Dante Aligheri e nel 2015 la traduzione dei tre Canti che compongono La Divina Commedia.
Il suo blog: https://campodemaniobras.blogspot.com/
Otra Iglesia Es Imposible è un punto di riferimento quando si parla di poesia nella rete, sia in lingua spagnola che in lingua straniera, e lo gestisce dal 2006.

 

 

 

 

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COMPOSIZIONE n

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro————————

Le orme dei baci di nevicate passate

Gaia Boni, “La figlia del selvatico”

di Roberto Lamantea

Musicista, vocalist, disegnatrice, scultrice, Gaia Boni nel 2018, a 22 anni, ha pubblicato da CartaCanta di Forlì, nella collana diretta da Davide Rondoni, il suo primo libro, “Fiori nudi”, rivelando una voce incantata, tra natura e scrittura, linfa e sguardo.
L’autrice trentina – che oggi vive in Norvegia, tra i paesaggi, i silenzi e i colori che ama, cieli, nuvole e foreste che sembrano rivelare voci antiche – dà alle stampe un volumetto ammaliante, un canto alla terra e della terra, che respira di resine e boschi, in un’unità antica tra una lei che nei versi scrive in prima persona e un lui, poesie che sembrano germogliare dagli stessi alberi, dalle linfe, dalla nebbia e dai petali dei fiori, dalla buccia delle betulle e dal canto degli urogalli: “parlando la lingua di un intero bosco puntato alla gola”. Il libro, bellissimo come il respiro della vita, “La figlia del selvatico”, è pubblicato da Minerva di Bologna nella collana Cleide – Cleide è la figlia di Saffo – diretta da Giancarlo Pontiggia e Cinzia Demi e dedicata ai poeti under 40.
Ho sempre scritto di foreste e selvatico”, racconta Gaia Boni nell’intervista che prelude ai testi, “la mia essenza cammina scalza nel bosco e si rifugia tra gli alberi”; “selvatico” aggettivo e sostantivo insieme: “Essere figlia del selvatico è essere figlia di un’entità che tutto permane, che tutto avvolge”; è sentirsi a proprio agio solo in “una tana di terra, vissuta a pelle nuda, a contatto vero”, perché, racconta Gaia, “appartengo allo scrosciare del piangere selvatico”.
Coerenti con il suo sguardo sul mondo gli amori letterari: Rilke, Dino Campana, Whitman, Antonia Pozzi, Emily Dickinson, oggi in Italia – confida – Roberta Dapunt e Antonella Anedda.
Sul piano stilistico questo si traduce in metri lunghi – versi liberi ed endecasillabi “caudati” – e nella tecnica dell’arborizzazione: le braccia divengono rami, le mani fiori e linfa: “Il nostro mondo ha mani d’erba, amore mio […] ti mostro il dorso delle mie mani fiorite/ a lentiggini alpine”; “cosce di betulla a legno tenero/ dove amo circondare con le dita/ le orme dei baci di nevicate passate”; “i miei palmi scoperti in germoglio”; “infrangere la superficie liquida del legno/ capelli, cuore”; “dita di foglia”; “guance di legno”; “In luglio mi sono chiamata abete/ – e per giorni la tua pelle si era fatta corteccia – / ora non smettere di far rifugio in baci piume e lontananza”.
È l’azzurro il colore-respiro di questi versi, l’azzurro che attraversa la poesia del romanticismo tedesco, il colore di Novalis e Hölderlin, delle visioni allucinate di Georg Trakl: in questo libro è invece il colore del respiro, delle “foglie-parole”, così che Gaia può cantare “non sei più solo nella rarità azzurra” o “accoccolandomi col cuore azzurro/ nel noi e nel cielo”.
E l’amore non è l’inafferrabilità di una compiutezza che può trovarsi solo nell’unione con l’altro: è fragile canto ed è tessuto della stessa sostanza del bosco.
Un altro esempio di come i gioielli della poesia contemporanea bisogna cercarli nella piccola editoria. Poesia genere ai margini ma di cui non si può fare a meno e che vive in una nicchia fortissima. La nota di Pontiggia in calce al libro è esemplare e fuga la contraddizione: “[La poesia] è marginalizzata perché non risponde alle esigenze della realtà mediatica; ed è diffusa perché tocca con urgenza il senso stesso del nostro vivere”.

 

Dal libro:

Stasera le nuvole si accendono
in lampi acuti di mancanza
avrei una richiesta da baciare lontano
soddisfare quella bocca
condensata di vapore e intere giornate
– mandami i tuoi segni nidificati nel bosco
dammi il ritmo dei tuoi passi d’aria e sale –
è un dolore così fumoso e carico da precipitare
riempie persino l’orizzonte oltre la neve sui picchi
e i cento pioppi che circondano casa
radicano, ramificano correndo più del cielo
per avviluppare le tue dita ancora abbronzate
schiudendo le zolle lacrimate e luminose
dalle mie nubi elettriche
– mandami a piantare le tue gambe buone
ad attendere la prima foglia del mattino
per berla tutta in un sol bacio.

*

Appartengo allo scrosciare del piangere selvatico
al crollo pallido di betulla che sbatte la testa secca al suolo
a nulla valgono le allerte celesti della cincia
corpo insaziabile di rotondi baci del sorbo
facendo incetta d’amore e amigdalina
– ti chiedo scusa per la violenza bianca
che m’innalza debole allo schianto
io che vivo di cielo ovvero di te
non rinnego neppure l’umana solitudine delle notti.

*

Mi parli tacendo o mandandomi il vento.
Da quando i rami si sono mossi nel tuo nome la prima volta
puoi tracciare intorno ai miei fianchi esposti un anello in più
– da allora abbiamo affinato la lingua dei selvatici
fissando le parole tra muscoli in fremito
e sguardi che chiedono il tempo di passi o fughe.
Dietro le fronde dei miei occhi chiusi, cercami
tu che sai trovarmi nel mistero dei larici.

*

Il nostro mondo è così giovane
da non conoscere la parola dell’alba
ci muoviamo, labbra increspature di fiume
incerti quarzi bianchi
mastichiamo la sabbia – coperta di sonno –
contandone i granelli così le ore nostre
– mi cerchi la curva sciolta dei lobi che guardano i tuoi timidi
ragazzo tu, richiamo di foglie e luce ferita
abbiamo in bocca la pronuncia chiara del domani
ma ancora non ne conosci il canto.

*

Dall’ombelico il lascito di un ghiacciaio
conta in gocce la purezza
tra il muschio verdissimo e la roccia mai calda di sole.
Nel centro esatto tra i due blu
– onde risollevano i riflessi del cielo basso d’agosto –
ricordo acqua a perdifiato dentro la terra e senza dolore
ascolto ogni pietra chiedermi delle volpi di neve e delle orme piccole
mi apro vasta e liquida tra i licheni e sotto la lingua
il sapore azzurro del torrente diventa il mio.

*

Il picchio

Guance di legno accese dall’inverno
ramificano sguardo e crepacuore
per me che sono nata troppo e troppo amo
– ascolta la fatica di lacrime esauste
ancor grate di potersi rapprendere sul tuo viso straniero
resina ti cola dal becco perfetto.
In luglio mi sono chiamata abete
– e per giorni la tua pelle si era fatta corteccia –
ora non smettere di far rifugio in baci piume e lontananza.

 


L’autrice:
Gaia Boni è trentina di Fiera di Primiero, nata nel 1996, ha studiato a Crema, in Lombardia. È laureata in Arti visive all’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo e all’Università Statale di Milano in Editoria, culture della comunicazione e della moda.
Da due anni lavora a un progetto poetico-musicale in cui unisce sue poesie e di altri poeti al canto di canzoni celtiche e scandinave.
Collabora con le riviste online Clandestino e Poetarum Silva. Suoi componimenti sono stati tradotti in spagnolo e catalano.
Nel 2018 è uscita la sua prima raccolta poetica “Fiori nudi” nella collana I Passatori di Davide Rondoni edita da Capire Edizioni.

(Gaia Boni “La figlia del selvatico” pp. 80, 10 euro, Minerva 2024, collana Cleide)

 

 

 

 

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L’OMBRA DEL VESUVIO

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Ti racconto       ———————-

Il mio volo

Un racconto inedito

di Luca Buiat

A volte cammino a caso, quattro passi buttati lì, con la voglia di estraniarmi, stando lontano dal progresso che corre sempre più veloce verso una direzione ignota. Me ne sto il più lontano possibile dal consumo del suolo che si mangia il Friuli.
Sfuggendo via dalle strade asfaltate, voglio connettermi con gli elementi naturali, che trovo scansando il paese.
Mi bastano una fila di alberi magri e spogli che stanno sopra una pista campestre desolata e solitaria per stare dentro la Magia.
Guardo semplicemente davanti a me, lungo una strada di sassi che qualcuno ha gettato in fretta e furia.
Lì vengo attirato da una forma sfumata oppure da un colore che mi accoglie, che sta in quel luogo, dove mi trovo in quell’attimo.
Mi porge le sue mani come se volesse accarezzarmi e allora proprio da lì inizio il mio cammino.
Quando si apre all’orizzonte, appare improvvisamente tra il cielo e la terra, apro gli occhi e mi fermo, con la voglia di andare, senza avere ansie di lunghi percorsi sulle montagne, senza nemmeno provare l’attesa di una lunga escursione.
Sto nel mio paesaggio, comodo nel posto dove sono nato, sicuro di trovare ancora una cosa, come se fosse una reincarnazione di un qualcosa che avevo perso, di una cosa che esiste, perduta nel tempo che abbiamo da tempo dimenticato. Smarrito come un piccolo gatto scaraventato da un finestrino di un auto, su una strada nera, dove nessuno potrà fargli una sola tenerezza.
Sono alla ricerca costante di una parola che devo ancora comprendere, un suono che devo ancora sentire.
Un’immagine viva che mi apra una porta, sempre dall’altra parte del giorno.
Vado via adagio e leggero, senza nemmeno prepararmi, aggiusto solamente la mia vista, stanca dopo una giornata passata a lavoro.
Dove rimango rinchiuso in una grande voliera di acciaio e cemento.
Una delle tante che passo per procurarmi il pane, l’acqua e il sole.

Appena esco voglio liberare il mio volo da qualche parte, per oggi può bastarmi questo ritaglio di campi ed un cielo metallico di febbraio. Graffiato e afferrato con le unghie, scappando con furia dal cancello del parcheggio dello stabilimento.
Me ne vado via, sperando in una giornata più lunga di quella di ieri, che come per un miracolo ci sia qualche minuto in più di quella luce invernale che cola presto a picco dentro l’abisso dell’Oceano della notte.
Da un po’ di tempo ho deciso di vivere godendo il momento per ogni momento ed allora mi stringo i lacci delle mie scarpe e parto, mi metto apposto i pantaloni e la felpa che ho addosso, mi copro del tutto la gola tirando fino al massimo la zip della giacca.
Avvicino gli occhi al mio sguardo, ho un sorriso che si apre piano come il primo battito d’ali di un airone bianco.
Spaventato, perché ha appena visto una sagoma umana plasmarsi vicino a sé.
Io sono felice di volare via, l’airone ha paura e fugge alzandosi in aria sopra il campo dove stava cercando qualcosa da mangiare, infilando il becco nel terriccio duro.
Vedo qualcosa che mi intriga dietro al campo sportivo, oltre quella tribuna davanti alla collina, lungo le viti che dormono nel pantano, lungo un sottile sentiero che arriva fino alla piccola centrale elettrica.
Lì vicino scorre il fiume, con la sua animata corrente lungo le rive.
Poco lontano da Giassico, vicino a Mulino Nuovo, sulla rosta distrutta, ci stanno le onde delicate del fiume.
Mi accorgo che sta tramontando, avverto la luce che cambia sul finire del giorno, il suo tepore sta svanendo piano piano. Nell’aria si sente la presenza misteriosa di qualcosa che dovremmo esaltare.
La calda Primavera piano piano sta arrivando, la vedo con i suoi primi passi sfiorare lo Judrio, l’acqua tingersi improvvisamente di rosa.
Tra i rami più alti ascolto i primi versi degli uccelli, lo squillo del merlo accende le rive.
Nel cielo accade qualcosa, si alza un venticello morbido. Mi fermo, e mi godo il momento il più possibile.
Me lo conservo stretto come un abbraccio, lo custodisco per portarmelo sul cuscino del mio letto come se fosse un gatto bisognoso d’affetto.

 

L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel 1971.
Il piacere nei libri lo scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse.
Dopo questo libro inizia a scrivere piccoli racconti e poesie.
Appassionato di paesaggi naturali che preferisce attraversarli a piedi o in bici, Buiat pensa che sia già tutto scritto. Occorre a “noi” osservatori percepirne la lingua che sentiamo in mezzo ai nostri passi.
Da qualche anno ha iniziato a frequentare i corsi di scrittura creativa che si tengono all’UNITRE di Cormons.

 

 

 

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COMPOSIZIONE nn

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

Voce d’autore        ————————

Na dèanaibh na h-ainglean

Christopher Whyte, “Non dimenticare gli angeli”

di Sandro Pecchiari

Non dimenticare gli angeli
Na dèanaibh na h-ainglean
a dhìochuimhneachadh,

Il 2 febbraio 2024 l’Associazione Gruppo Ermada Flavio Vidonis e Poiein APS, all’interno del Festival degli Angeli Duino & Book, con il supporto della casa editrice Vita Activa Nuova, hanno presentato presso la sede CEI a Trieste la 4a edizione del Premio Internazionale Rainer Maria Rilke a ricordo della figura del poeta.
Il Premio del 2023 è stato vinto dalla raccolta “Non dimenticare gli angeli” di Christopher Whyte – Crìsdean MacIlleBhàin, edito da Vita Activa Nuova, Poiein, raccolta con testo bilingue italiano e gaelico scozzese.

Quanti angeli bisogna affrontare e con cui bisogna scendere a patti per portarsi fuori dalle prigioni linguistiche quando si scopre che il paese in cui si vive usa una lingua che è stata occultata da almeno due secoli tanto da renderlo incomprensibile?
Whyte, all’età di 9 o 10 anni, in una sosta in un punto panoramico fuori Glasgow, dove erano scritti i nomi delle colline e dei picchi tutt’intorno, si rende conto che non solo non riusciva a capirli, ma non sapeva nemmeno come pronunciarli. La presa di coscienza di abitare in una terra in cui si parlava una lingua che nessuno gli aveva insegnato, è stato un vero shock.
La decisione di riscoprire e riappropriarsi del Gàidhlig, il Gaelico Scozzese, storicamente estirpato da secoli, fatto che aveva reso non fruibile tutta una serie di informazioni culturali preziosissime, va letta all’interno del processo lento, a volte estremamente doloroso, attraverso il quale la Scozia odierna si sta distaccando dall’unione con l’Inghilterra propriamente detta. È evidente che, scrivendo in gaelico una poesia del tutto moderna, internazionale, venata di amore e di sensibilità gay, Whyte contribuisce alla sua diffusione ed alla sua sopravvivenza, ma allo stesso tempo questa lingua gli ha permesso di uscire da una situazione di stallo, verso una chiarezza magari non scevra di dolori, ma alla lunga portatrice di gioia. Una specie di do ut des.

Il rapporto di Whyte con il gaelico è strettamente collegato alle sue esperienze e scelte di vita: apprenderlo era la possibilità di rimarginare antiche ferite.
La sua famiglia aveva una storia di abusi sessuali al suo interno, tanto più pesante perché totalmente rinnegata. La lingua della famiglia era una lingua nella quale non si poteva raccontare la verità. Quindi il gaelico nella sua scelta di bilinguismo affettivo ed effettivo, può definirsi una lingua non-madre. Questa lingua così affascinante e complessa era ed è un modo per assicurarsi non solo innocenza e freschezza di espressione, ma anche una difesa impenetrabile.
Che questo potere potesse significare non farsi capire, inoltrarsi in discorsi assolutamente impenetrabili per chi parlava inglese, era paradossale ma entusiasmante. Per citare le parole di Whyte: Trattare questo, e altri temi in un idioma che nessun altro membro della famiglia padroneggiava, era un modo per assicurarsi non solo innocenza e freschezza di espressione, ma anche una difesa impenetrabile. Con una certa frequenza, se mi si chiedeva come mai avessi scelto di scrivere in gaelico, quando avrei potuto benissimo scrivere in inglese, mi dilettavo rispondendo:Perché così i miei genitori non potranno mai leggere le mie poesie”.

Nel solco della poesia rilkiana e della (im)possibile richiesta di aiuto agli angeli, citerei subito questi versi:

Na dèanaibh na h-ainglean
a dhìochuimhneachadh,
oir chàiricheadh ’nan làmhan
sriantan nan gaoth,
thugadh dhaibh an fharsaingeachd
a bhith ga roinneadh is ga riaghladh,
is bidh na siantannan gam fuasgladh
mar shaighdean geur-fhaobharach a dh’eigh
à boghachan an aigeantais ’s an fheirg.
Is làn am builg dhe chloich-mheallain is clàmhainn,
bidh iad a’ stiùireadh nan sgoth ’s gan càrnadh suas
’nam baidealan cugallach ri oir nan speur,
is nuair a thig deirge san àird an iar
’s ath-ìomhaigh dhith sna stuaghan, mar gun deach
seich’ an aigeinn a reubadh, ’s fhuil a leigeil
suas san doimhne, ’s ann a tha sinn fhaicinn
gruaidhean aingeil a tha air fàs ruadh
le sìor-shèideadh droch-aimsir is stoirm.
(…)

Non dimenticate gli angeli/ perché le redini dei venti,/ il governo e le divisioni dell’aria/ sono messe nelle loro mani./ Le tempeste scoccano come acuminate/ frecce di ghiaccio dai loro archi/ pieni di rabbia e esultazione;/ hanno le faretre colme di grandine e di nevischio./ Manovrano le nuvole, accatastandole/ in bastioni traballanti sull’orizzonte,/ e quando il rosso cielo ponentino/ si riflette sulle onde, come se la pelle/ del fondo marino fosse lacera,/ ed il sangue sorgendo si diffondesse/ nelle acque, vediamo soltanto/ avvamparsi le guance di un angelo/ che in continuazione soffia temporali e maltempo./ “Mostrami un angelo”, disse qualcuno,/ “e lo dipingerò “. Ma abbiamo così tante rappresentazioni di loro, scendendo, inginocchiandosi,/ formando con le labbra parole/ che impregnano e fecondano./ Non sopporteremmo di vederli con chiarezza:/ quando il cielo si illumina all’alba,/ intravediamo soltanto lo spalancare esuberante/ delle loro braccia, mentre le gioie/ immense appese al loro petto/ lampeggiano per un istante./ I loro reggimenti si scorgono su antichi muri/ dai colori sbiaditi (il loro sesso ambiguo/ si rivela serenamente nell’espressione dei loro volti)/ con lance rigide e ali torreggianti/ sopra le loro teste, come uno stormo/ di uccelli giganti che frenano la loro forza,/ immobili, precari e minacciosi./ Altrove è come se la ghigliottina/ del Paradiso li avesse decapitati,/ si vedono solo delle testicine/ raggruppate come un fiore racchiuso/ nel biancore dei petali come piume./ Nell’effimero cinema dei nostri sogni,/ appaiono proprio nel momento in cui/ il film ha cominciato a bruciare,/ brandelli di celluloide si curvano indietro/ come delle foglie nere, argentee/ attorno all’efflorescenza del loro non esserci./ Le nostre narici percepiscono il loro passaggio/ da un profumo di bruciato che aleggia/ nella stanza, e quando ci svegliamo la mattina/ con la pelle tesa e dolente,/ questo avviene solo perché i nostri corpi/ lordi sopportano male il loro tocco/ quando nel sonno amoreggiano con noi.

Il libro è stampato in italiano e in gaelico scozzese dove Whyte usa quasi esclusivamente pentametri giambici non rimati che possono a volte cedere il passo ad una forma più libera, senza mai arrivare al ‘free verse’. Tutte le poesie nelle sezioni 2 e 5 usano questo metro, che compare anche in “A una tomba che non c’è” e “Giungerai sull’orlo della fossa”.
Nei pentametri giambici in gaelico l’accento cade sempre sulla prima sillaba della parola. Spesso la prima sillaba atona cade, oppure è presente una sillaba in più, anche atona, alla fine. Di conseguenza, anche se i pentametri giambici sono importanti per la poesia inglese, risultano leggermente diversi in gaelico. Caratteristica inoltre della poesia in Gàidhlig è la mancata scissione tra poesia e canto almeno fino agli ultimi decenni dell’Ottocento. I testi erano concepiti per essere esclusivamente cantati, mai recitati.

Madrelingua

All’inizio il gaelico/ era quasi un sogno per me,/ un petto materno ancora caldo/ di un calore che avevo scordato,/ che non avevo mai provato,/ una illusione dentro alla quale/ potevo comunque rifugiarmi/ in cerca della sicurezza, del conforto,/
un luogo in cui nessuno poteva trovarmi./ Ma capii che la lingua madre/ non è altro che un miraggio,/ che non furono mai la sicurezza,/ o il conforto, ma la difficoltà/ e la stranezza ad attirarmi,/ che nessuna lingua è capace di restituire/ un’infanzia che non ha mai avuto luogo,/ che se io amo questa lingua/ è proprio perché non è materna.

Màthair- chainnt

Is ann a bh’agam an toiseach/ bruadar den Ghàidhlig,/ seòrsa uchd mo mhàthar/ a bh’ innte, fhathast blàth/ le blàthas leanabachd a chaidh/ a dhìochuimhneachadh, nach robh/ riamh agam, a bha ’na mealladh,/ ach a dh’fhaodainn teicheadh a-steach dhì/ ri teàrainteachd a lorg, is socair,/ àite far nach fhaigheadh duine mi./ Ach thuig mi gur e aisling/ a th’ anns a’ mhàthair-chainnt,/ nach teàrainteachd, no socair/ ach doirbhe is coimheachas/ a bha gam shìor-tharraing,/ nach tèid leanabachd gun tairbhe/ ath-chumadh ann an cainnt sam bith,/ gur annsa leam a’ chànain seo/ bho nach eil i màthaireil.

La lingua “non-madre” appresa, oltre a riscattare la sua vita privata, amplia la visione del mondo.
Vista in quest’ottica, la traduzione in altre lingue rappresenta un procedimento grazie al quale una poesia si ricrea continuamente, anche più volte nella stessa lingua, generando nuovi testi, nuove possibilità, anzi, scoprendole all’interno dell’originale.
Il libro coinvolge il lettore con un continuo chiedersi, porsi domande e ipotesi di percorsi da fare o tralasciati o scelte dolorose e difficili, trasportandolo dalla questione della lingua a mondi più mitologici e alle saghe della tradizione, annullando spazio e tempo e contemporaneamente rinnovandolo e ristrutturandolo. La scrittura spazia dalle tradizioni gaeliche alla poesia medievale e rinascimentale, al settecento scozzese, dal buddismo all’apporto di autori importanti come Proust, Pasolini, Rilke, Cernuda e Cvetaeva, con la sua bisessualità sfrontata, alleata di una tenerezza che sembrava quasi un senso di tutela verso gli uomini gay.
Nella sua raccolta Whyte fa rivivere, all’interno di una sensibilità per così dire contemporanea, degli aspetti specifici della tradizione gaelica, come esemplificato nel saggio pubblicato da Poesia, del 2015.
“Hard Men” parte da un passo dell’antico epos irlandese, il Táin Bó Cuailnge, per polemizzare contro un’icona di mascolinità (e di machismo) operaia prevalente nella città in cui sono cresciuto. Il Coraggio, invece, per quanto sia un elogio di una parte del corpo maschile scritto da un altro maschio, si rifà ad un topos della poesia medievale e rinascimentale, in cui si parlava dell’avvenenza di un condottiero o un guerriero raffrontandolo ad un albero. “Al Ruscello di Kilmartin” cerca una risposta alla questione di cosa significa avere un ‘sé’, quello che ci rende unici e diversi da tutti gli altri, e di come lo si possa descrivere. Oltre ad essere un testo di spirito tendenzialmente buddista, riprende una lunga serie di poesie risalenti al Settecento scozzese ed oltre, che cantano le lodi di un corso d’acqua ben conosciuto a chi questi versi all’epoca li sentiva cantare ad alta voce.
La raccolta si apre con l’atmosfera fiabesca e di stupore sulle mele dello Yunnan che è una nitidissima dichiarazione di poetica: un poeta, dice Whyte, è paragonabile ad un’impalcatura durante il processo di costruzione che diventa inutile e va asportato una volta finita la casa, un mezzo per lasciare una traccia difficilmente spiegabile, ma che continua a suscitare stupore e meraviglia:

Lo scarabeo cinese

In una certa regione della Cina,/ nel Sud-Ovest, non lontano dalle montagne di Yunnan,/ si trova una specie di mele/ dal sapore così squisito/ che nei tempi antichi gli imperatori/ spendevano il loro oro per comprarle ed offrirle/ alle feste ed ai banchetti nel gran palazzo./ Però il loro sapore non era proprio quello delle mele./ Ho letto che la causa era uno scarabeo/ che si trova soltanto sugli alberi di quella regione/ e che lascia le sue uova nel cuore delle mele/ per tutto il tempo della maturazione./ Quando poi la creatura/ spiega le sue ali e vola via,/ non rimane nessuna traccia della sua presenza/ fuorché un rossore come d’ambra/ nel cuore delle mele, e un aroma/ meraviglioso che né gli eruditi/ né i giardinieri di tutta la corte sapevano spiegarsi./ Ecco quel che io faccio con questa lingua.

E si chiude con la fretta, l’eccitazione e lo stupore di un nuovo viaggio che ricomincia, con la possibilità di rinnovarsi perpetuamente:

Sarà forse la morte come quando un taxi

Sarà forse la morte come quando un taxi/ aspetta davanti alla casa, in fondo alle scale,/ arrivato solo pochi minuti prima,/ e c’è la certezza che avrà pazienza./ Di colpo non ti ricordi più qual era/ il concerto o il teatro dove dovevi andare,/ né con chi dovevi incontrarti/ per sedere insieme in mezzo al pubblico,/ anche se sei sicuro di aver messo/ il biglietto attentamente in tasca./ Ma improvvisamente un’altra cravatta/ ti sembra che andrebbe meglio con la camicia/ che avevi scelto, e afferri un altro paio/ di scarpe. La fretta e l’eccitazione/ aumentano mentre il brusio sommesso del motore/ si fa più forte man mano che scendi.

(…) Ach saoilidh tu gu h-obann gum biodh tàidh/
eile na bu fhreagarrach don lèine/
a roghnaich thu, ’s glacaidh tu paidhir bhrògan/
diofaraichte, d’ aighear is do chabhag/
a’ meudachadh, crònan ciùin a’ mhotair/
a’ fàs nas fharamaiche ’s tus’ a’ teàrnadh.

 

L’autore:
Christopher Whyte, Glasgow, 1952, ha pubblicato finora otto raccolte di versi. Ha tradotto in gaelico le poesie di Kavafis, Mörike, Ujevic, Rózewicz, Ungaretti, József, Radnóti, Rilke e Cvetaeva, sempre dalla lingua originale.
Euphemia MacFarrigle and the Laughing Virgin” e “The Gay Decameron” contano tra i suoi romanzi in inglese, dei quali l’ultimo, tradotto in italiano da Lucia Corradini Caspani, col titolo “La macchina delle nuvole” (Corbaccio, 2001).

 

 

 

 

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PAeSSAGGI

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Tempo presente       —————————

La passione della parola

Marina Giovannelli, “AutoBioLogoGrafia”

di Giovanni Fierro

È un percorso che si ferma in più punti, un camminare lento e attento nei luoghi della parola, quelli certi e quelli possibili. In un andare che si guarda attorno, esplora e riflette. È l’occasione per mettere vicinanza tra sé e il momento in cui la parola si manifesta e si mostra.
Marina Giovannelli firma con “AutoBioLogoGrafia” una mappa dettagliata di dove il concetto, ma anche la familiarità e l’attrito, del mondo parola trova le sue coordinate geografiche ed emotive. Indaga e riconosce nel proprio vissuto le provenienze necessarie, e per nulla accomodanti: “Io mi aggiro attorno ai ricordi con circospezione, per timore che si rivelino più esplosivi di mine sotterranee”.
Ma è proprio lì, nella propria biografia che la Giovannelli trova forza ed ispirazione per fare di questo suo nuovo libro un testo vario e ricco, curioso e dettagliato. Un atto d’amore verso la parola in sé, spazio di incontro con l’io più profondo e punto di contatto con la società, ogni società.
Così il delicato rapporto con la madre è occasione di riflessione sulla portanza della parola, “Erano i momenti migliori di mia madre e miei, quando il piacere della parola aveva la meglio sulle preoccupazioni quotidiane e i litigi con mio padre, cui restò sempre lo stigma dell’orco della favola”.
E poi tutti i libri letti, gli autori che sono diventati dei punti di riferimento, come Elias Canetti o George Steiner, “Questi giganti della parola […] mi hanno permesso però almeno di “aprirmi” alla curiosità per le parlate di territori diversi, al piacere dell’espressione puntuale, concreta, colta con immediatezza, tipica dei dialetti. Ho potuto meglio apprezzare scritture che si colorano di scuro, di chiaro e di macchiato, di sangue e di fango, ma anche si muovono con il vento e profumano di essenze genuine”.
Per addentrarsi nella poesia, altro luogo esplorato da “AutoBioLogoGrafia”, la Giovannelli racconta di come “Pedro Salinas mi ha sempre accompagnato, presente nei momenti più difficili. Non è stato il solo, ovviamente, però in qualche modo ha orientato fin da principio la mia affezione per la parte oscura della parola piuttosto che per quella che si impone alla vista”.
E quindi dalla parola alla considerazione della lingua il passo è inevitabile, partendo dal presupposto che “Da parte di alcuni studiosi si è ipotizzato anche che in origine esistesse un unico inizio comune a tutte le genti e a tutti i paesi, un’unica lingua universale andata perduta (vedi il mito della distruzione della torre di Babele), intesa non solo come metafora”.
Proprio in queste considerazioni prende ancor più vita la spinta primordiale che fa del contatto con la parola un atto di appartenenza, gesto universale a cui la Giovannelli si affida con devozione: “Che la parola sia corretta o sgrammaticata, sublime o storpiata e meticciata con innesti d’altri gerghi o dialetti o parlate antiche o nuove, sempre mi incuriosisce, mi provoca a perlustrarla, sezionarla e ricomporla”.
Perché, come ha scritto Eva Hoffman, “ho imparato ad amare le parole perché ‘corrispondono al mondo’”.
In “AutoBioLogoGrafia” c’è però tanto altro ancora, raccontato con una scrittura che coinvolge e racconta minuziosamente, illuminata da una capacità espressiva di cui la Giovannelli ha sempre mostrato di possederne il talento.
La passione della parola”, questo il sottotitolo del libro, è anche nelle lingue che si inventano per gioco, tipico di quando si è nel fiorire dell’età giovane; o quando si è in età adulta, ma allora le motivazioni sono legate a problematiche, a difficoltà di riconoscimento nella società, come il ‘linguaggio segreto delle donne’ cinesi, “rimasto per secoli incomprensibile per i maschi, tramandato da donna a donna, nel Nushu (questo il suo nome – ndr) veniva riversato tutto il dolore di una vita decisa da altri, dalla nascita alla morte”.
Usare la parola è anche il lavoro della traduzione, a cui la Giovannelli dedica una parte importante del libro. Citando Marisa Sestino viene data importanza fondamentale al concetto di ‘fedeltà’. Perché nella traduzione in ambito letterario è facile sbagliare, confondendo “la semplicità con la semplificazione”: “La ‘fedeltà’ dunque è doppiamente ‘cara’, perché perseguita con passione e perché ardua da raggiungere”.
“AutoBioLogoGrafia” si muove in tutte queste direzioni, collega e cuce assieme le varie esperienze che sono il suo esplorare, in un continuo nutrire la qualità di cui tutto il libro è costruito.
Fra i temi toccati, è doveroso citare “La lingua delle lacrime”, pagine che svelano la loro forza espressiva, il loro scrivere il proprio agire emotivo, il proprio vivere nel momento. Segno che riconduce la persona alla propria identità.
Un atto d’amore, un punto di riferimento, un laboratorio sempre aperto. Anche questo è “AutoBioLogoGrafia, occasione per confrontarsi con quell’universo umano che è l’uso della parola. Ma anche con il desiderio e il bisogno di farlo, per entrare più in profondità in ciò che pronunciamo e ciò che scriviamo, per avere più confidenza con ogni parola che leggiamo ed ascoltiamo.

 

 

Dal libro:

Da allora cominciai a far caso alle parole delle persone che incontravo, per accorgermi un po’ alla volta che ognuno dispone di un suo vocabolario, con termini usati di preferenza e altri evitati. Qualcuno, i più, negli anni settanta diceva ‘cazzo’ ogni tre parole, qualche altro non lo diceva mai, qualcuno diceva ‘casino’ e qualche altro al posto di casino diceva ‘caos’, qualcuno era ricercato e usava termini come ‘diafano’, ‘promiscuo’, ‘etereo’, che nessun altro utilizzava. Imparavo ad ascoltare e pescavo parole come qualcuno acchiappa farfalle col retino.
Ogni incontro mi ha lasciato un’eredità di parole, una locuzione da collezionare e fare mia.

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La precisione ovviamente non basta a creare un linguaggio, ci vuole quel qualcosa in più che incontri, esperienze, soprattutto letture costruiscono lentamente nel tempo, ma la consapevolezza di questo processo è arrivata tardi, come un premio di fedeltà alla parola, soprattutto attraverso le ricostruzioni autobiografiche di alcuni grandi della letteratura che hanno raccontato i propri percorsi linguistici,
straordinari per ricchezza e versatilità, frutto dell’appartenenza ad ambienti privilegiati per agiatezza e per cultura. Libri che mi hanno appassionato e riletti più volte come “La lingua salvata” di Elias Canetti.

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“Essere stranieri” vuol dire che qualcuno ti fa sentire tale, significa percepire attorno a sé un’aria di diffidenza, quando non di ostilità, di indifferenza, a volte di curiosità, di rado di aperta accoglienza nel segno dell’arricchimento. Melita Richter non si rassegnava allo stato delle cose e creava occasioni di incontro e conoscenza, rivolte in tutte le direzioni linguistiche registrabili nella sua città, quella Trieste ottusa dove aveva scelto di vivere e da dove dichiarava: ‘In questa città io continuerò a rivendicare tutte le mie identità, tutte quante sono diventate parte di me, quelle ereditate e quelle acquisite: Donna,
Zagabrese, Croata, Jugoslava, Mitteleuropea, Europea, Mediterranea, Continentale, forse Ebrea errante, sicuramente Nomade… e, perché no? Triestina e anche S’ciava! Spero soltanto che la capacità di acquisirne delle altre, non si esaurisca qui’.

 

 

Intervista a Marina Giovannelli:

Da cosa nasce, e come si è sviluppato, questo tuo nuovo libro “AutoBioLogoGrafia”?
È piuttosto frequente che uno scrittore/scrittrice, raggiunta un’età matura, senta la necessità di “mettere ordine” nella propria vita componendola in un’autobiografia, spesso più consolatoria che veritiera.
Meno frequente che questa verta più che sul vissuto del soggetto sul linguaggio che ha sviluppato nel tempo. Eppure è sul linguaggio, più o meno personale, più o meno brillante, più o meno sintonizzato sulla contemporaneità (ogni contemporaneità) che si gioca la fortuna di chi scrive.
Per me, da sempre interessata alle vicende interiori più che alle trame narrative, l’autosservazione della lingua parlata e scritta, peraltro non coincidenti, si è mostrata nel tempo un vero e proprio nodo insieme epistemologico ed esistenziale. Devo molto questa consapevolezza alla lettura di “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg che ha aperto la porta alla spontaneità della parlata libera da censure, variamente declinata dai genitori secondo provenienza e genere, secondo affetti e difetti, nell’equilibrio instabile delle situazioni ma nella certezza dell’accoglienza affettiva.
Quest’ultimo aspetto dell’affettività intrinseca al linguaggio mi ha folgorato come una rivelazione, dato che chiariva le ragioni di una sofferenza relativa alle modalità del rapporto educativo con mia madre, improntato alla sorveglianza del retto impiego della parola, secondo i canoni previsti da scuola e dizionari, drastico nel taglio di voci dialettali o gergali, puntiglioso nelle scelte lessicali, in altri termini: anaffettivo, asettico, polare.

Nel libro racconti anche di come la parola nasca prima della parola stessa. La sua è una origine che proviene da un suono o da un silenzio?
A rigore, il silenzio assoluto non esiste. Per quanto si resti muti e senza compagnia, attorno ci sarà sempre un fruscio di foglia o un “tonfo leggero” pascoliano di neve che cade sulla neve, dentro di noi batterà sempre il cuore.
Certo non è “linguaggio” articolato, ma ritmo del respiro, flusso del sangue, vibrazioni acustiche sono comunicazione: fisica, corporea, intimamente recepita. Nella fase prenatale già il feto accoglie i suoni dell’esterno e (ri)conosce la voce di coloro che gli si rivolgono, come nel periodo perinatale l’infante è in grado di riprodurre suoni di ogni tipo, che foneticamente potrebbero corrispondere a qualsiasi lingua, e questo fino all’ingresso nella lingua di appartenenza, quella che il caso gli ha assegnato e che, una volta acquisita, lo priverà della facoltà precedente di accedere a quella sorta di lingua universale che lo accomuna a tutti gli/le infanti del mondo e che per questo qualcuno ha definito “edenica”.
Gli adulti potranno accedervi solo in situazioni particolari, quando travolte le barriere della logica, approderanno all’espressione poetica, di tipo surrealista, o comunque propria delle avanguardie, che privilegia la fonetica rispetto alla semantica. Almeno nelle affermazioni di alcuni noti linguisti, ma anche nell’intuizione di qualche grande scrittore/scrittrice (Elsa Morante, per esempio).

Nella poesia, lì, cosa succede alla parola?
Amelia Rosselli, lungo la sua disperata ricerca di ragioni di vita, nei versi compresi in “Documento (1966-73)” annota “Lo scritto che in me è folle risponde/ a tutto questo dolore con parole sempre/ spero sempre vere”.
Quello che dovrebbe succedere in poesia è proprio questo: approdare (o almeno tentare di) alla verità delle cose. Il/la poeta ha questo privilegio, almeno nel mondo contemporaneo, di non dover niente a nessuno, se non al proprio daimon, dato che, come si sa, fare poesia non apre le porte alla celebrità, né alla ricchezza, né al prestigio sociale. Le spalanca invece alla libertà di espandere l’energia potenzialmente infinita insita nell’attività psichica articolata in un proprio linguaggio, che non sarà mai chiuso nella lingua ufficiale, ma idioletto prezioso e personalissimo, praticamente intraducibile.
Ne deriva che la lingua usata non sarà mai “italiana”, “spagnola” o d’altra nazionalità, ma sempre lingua della poesia di quel particolare poeta. Questo convincimento lo devo alle riflessioni di Marina Cvetaeva che in una lettera a Rilke nega ci possa essere poesia “in lingua materna”, essendo la poesia sempre “altro”.
In questo senso la poesia diventa figura stessa della libertà, come m’è sembrato di leggere anche nelle parole di Anna Maria Ortese: “La poesia si fa perché le api fanno il miele”, da intendersi non come ottusa naïvité o spontaneità ma come illimitata potenzialità.
Non a caso generazioni di poeti hanno agito la poesia in un’infinità di modi, sperimentando o affidandosi alla tradizione, proponendo la propria voce o riprendendo quella altrui, “significando” o anche rifiutandosi di significare.

Al momento, nella nostra società, fra slogan e luoghi comuni, usi impropri e superficialità, la parola non mi sembra stia tanto bene. Di cosa avrebbe bisogno?
Oggi tutto sembra congiurare contro la parola, intendo quella che persegue la verità, dato che “non c’è tempo”, “non ci sono le condizioni”, “non c’è interlocutore”, che a ben leggere significa “non c’è sponsor”. Ed è tutto vero: “non c’è la volontà” perché “non c’è utile”. La nostra società, questa finzione di democrazia in cui ogni giorno si celebrano riti di disuguaglianza e di mercimonio, dove le parole si deformano, si piegano al mercato, dove non ci si attiene ai fatti ma li si usa per dirottare opinioni a favore di qualcuno, dove chi osa la verità è spesso abbandonato, se non perseguito, questa società meriterebbe l’interdizione all’uso del linguaggio.
La domanda di rito, “che fare?”, merita una risposta onesta, calibrata secondo realtà, non secondo gli auspici. Qualcosa si può fare purché si sia liberi da brama di potere o di denaro, capaci perciò di snudare le parole da veline o servili cautele, di farle risonare nella loro originaria, persino etimologica forma, capace di collegarla ai fatti e ai misfatti quotidiani, di denunciare le trame dell’ipocrisia, i soprusi, le violenze.
A volte sarà necessario il compromesso, inteso come atto consapevole e politico di mediazione, ma non si dovrà mai, a mio parere, mascherare l’accordo raggiunto con parole di melliflua autocelebrazione. “Pulire” le parole, fino a renderle aderenti alla vita, dovrebbe essere un impegno di tutt*.

Perché poi anche la dimensione dei social non la sta aiutando….
Non mi sento di demonizzare i social. Prima c’era la televisione, prima ancora la radio, e a loro si attribuiva la colpa del degrado, della società e della parola, anche se, per la verità, c’era e c’è sempre la possibilità di usare il telecomando o di cambiare emittente.
Per i social poi puoi limitare la cerchia degli “amici” secondo le tue esigenze, perfino eliminare dal tuo campo persone che si siano dimostrate sgradevoli. Per molti l’opzione “social” si è anche rivelata capace di consentire una via di relazione a chi non ha mobilità o occasioni di contatto fisico, e non è da sottovalutare la circolazione di notizie che viene attivata senza spese apparenti (non ignoro i percorsi trasversali e occulti della rete).
È vero che la possibilità di esprimere le proprie opinioni anche in forma anonima, di giudicare, di accusare o al contrario sostenere può essere scambiata per la fiera della libertà di sproloquio da parte di qualcuno, ma troverei peggiore la condizione di chi non potesse mai esternare il proprio parere.

La parola è un luogo delicato, mi sembra; perché è proprio attraverso di lei cha abbiamo/viviamo il nostro rapporto con la società. Cosa ne pensi di questo?
Finché la parola è tramite di convivenza (e ci auguriamo tutt* che così continui ad essere), possiamo ancora sperare in una società migliorabile. Si tratta comunque di esercitare una conquista quotidiana di acquisizione di consapevolezze culturali e di abitudini comportamentali.
La sensibilizzazione all’uso della parola al fine dell’evitamento d‘ogni discriminazione ha dato esiti contrastanti e generato incomprensioni e persino reazioni negative, come nel caso della “cancel culture”, che viene interpretata e agita con modalità contrastanti di iconoclastia da un lato e di pericolo per la libertà d’opinione dall’altro.
Molto dibattuto oggi è anche il nodo del “linguaggio di genere”, con punte di risentimento sia da parte di chi non trova sufficientemente rappresentato il femminile nella declinazione dei termini e si impegna per una articolazione che renda sempre esplicita la differenza, nel timore che il faticato suo riconoscimento vada perso in un paventato nuovo “neutro”, sia da chi al contrario si àncora a un rigore passatista di stampo patriarcale, sia da chi denuncia l’assenza della componente lgbtqia+ nella comunicazione e sostiene l’uso dello schwa per un linguaggio inclusivo.
Personalmente sono per un’attenzione senza eccessi, non per ignorare le problematiche suddette, ma per consentire di approdare senza forzature alle nuove vie della comunicazione a chi non si è ancora sintonizzato con i cambiamenti della società.

Un altro punto fondamentale del libro è il tema della traduzione. Quanto questo è importante, e quanto richiede una sua specifica attività ed attenzione?
La circolazione globale dell’informazione impone un alto grado di attenzione all’attività di traduzione. Trasportare la parola da una lingua a un’altra in modo compiuto mi pare un’utopia più che un’attività professionale determinata da maggiore o minore competenza.
Il problema è intrinseco allo statuto stesso della parola, in apparenza immediatamente fruibile, ma dotata di un sottotesto dipendente da un insieme di fattori: cultura, contesto, storia, immaginario di chi quella parola pronuncia e di chi la recepisce. S’intende che la comunicazione semplice, per il funzionamento di esigenze quotidiane, può scorrere senza intoppi. Le difficoltà si incontrano quando si tratti di argomentare a livello complesso in precisi settori (storia, filosofia, letteratura…).
Qui si aprono, secondo i massimi studiosi di traduzione, due strade: una è quella che privilegia la “fedeltà”, ovvero la resa il più possibile esatta della volontà di chi è autore/trice del testo, la sua esplicita intenzione, anche a prezzo di sacrificare eventuali implicazioni secondarie o sottese, anche trascurando lo stile, così caro ad esempio in letteratura. L’altra via al contrario tende alla salvaguardia dell’originalità del testo, della sua particolare aura che andrebbe persa in una pedissequa resa alla lettera. Qualcuno (Steiner) parla di un ideale di equilibrio fra i due testi, l’originale e la versione in altra lingua.
Chi traduce dovrebbe pervenire a una sorta di “partita doppia”, senza eccedenze personalistiche, senza sottrazioni e ammanchi da trascuratezza. Persino l’autotraduzione risulta difficoltosa, perché la personalità di chi è bilingue (o plurilingue) è diversa nello stesso soggetto.

La lingua è anche una vicinanza o una lontananza. Cosa significa ‘Lingue amiche, lingue nemiche’?
La categoria dell’amicizia non è intrinseca alle lingue, ma al sentimento di chi le parla certamente sì. A meno di nascere in aree di frontiera, si viene al mondo e si cresce in un ambiente pressoché monolinguistico e si usa senza particolari intralci e quasi senza consapevolezza la lingua comunitaria in cui si è immersi.
Le difficoltà iniziano quando ci si sposta dalla zona di confort ad altra dove la lingua non è più la stessa. Il cambiamento può rivelarsi arricchente e gratificante, quando deriva da una scelta o da un evento comunque stimolante, dato che la nuova lingua apre porte su mondi altri, ma può al contrario generare traumi non da poco. Chi deve per una imposizione o costrizione abbandonare la sua nazione (per emigrazione, guerra, esilio…), vivrà con difficoltà il cambiamento.
Documentano il proprio disagio a questo proposito alcuni scrittori come Eva Hoffman e Agota Kristof, ma mentre la prima supererà l’impasse in favore di un’accettazione del Nuovo Mondo dov’è approdata, nella seconda la lingua francese (appresa in Svizzera dove viene accolta dopo la fuga dall’Ungheria) resterà sempre “nemica”.
È anche interessante osservare come l’attaccamento al proprio idioma riesca a superare persino situazioni estreme, come nel caso dell’uso della lingua tedesca da parte di chi ha subito persecuzione nel periodo nazista, quando non si verifica rifiuto, come ci si aspetterebbe, ma ulteriore affermazione di appartenenza, nonostante tutto, alla “lingua” (Paul Celan, “Rose Ausländer”).

Molto intenso è il capitolo dedicato alla lingua delle lacrime. Cos’hanno di così prezioso?
Se i Padri della Chiesa ti dicono che le lacrime sono “un dono”, conviene dargli retta, e non solo perché “inducono la contrizione” ma perché è chimicamente provato che producono endorfine, ben lontane dunque dal costituire un semplice presidio fisico a salvaguardia della cornea.
Non ci si pensa ma le lacrime costituiscono un vero e proprio deposito antropologico per chi vuole esplorarne i percorsi culturali. Hanno voce e presenza nel mito, nella letteratura, nella fiaba a persino nella politica (chi non ricorda Fornero?), con variazioni di segno positivo o negativo, a seconda dello spirito del tempo.
Il pianto maschile, ad esempio, ha assunto valenza positiva quando riguardava gli eroi omerici (Achille piange Patroclo, Ulisse piange nel vedere il suo cane Argo), negativa nella contemporaneità quando viene letto come debolezza (Corazzini: “io non sono un poeta./ Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”). Le lacrime hanno dimensioni lontane dal reale: si condensano in una sola lacrima che diventa essa stessa emblematicamente un’intera storia (la furtiva lagrima di Donizetti), oppure si riversano all’infinito in fiumi e laghi abitati da ninfe in fuga dall’ira o dall’amore molesto degli dèi. Ma è nella letteratura che il pianto deflagra in un’esplosione di significati di cui qui non si può dar conto.
Si rileggano almeno questi versi di Boris Pasternak in cui lacrime, inchiostro e parole si incontrano in un’inedita immagine dell’atto stesso della scrittura: “Febbraio. Prender l’inchiostro e piangere!/ Scrivere di Febbraio a singhiozzi,/ finché il tempo piovoso scrosciante/ brucia come una fosca primavera”.

 

L’autrice:
Marina Giovannelli è nata e vive a Udine. Dal 1990 ha pubblicato saggi, racconti e romanzi, fra i quali “Il sentimento della vita” (2012), “Variazioni sulle sorelle” (2017), “Sulle tracce di Gasperina. Una biografia congetturale” (2020) e “Nell’ora della stella e altri scritti sui bambini e la morte” (2022).
Ha curato diversi libri collettanei. Fra questi “Niente come prima. Il passaggio del ’68 tra storia e memoria” (2007) e le quattro pubblicazioni del Gruppo di scrittura “Anna Achmatova”, ultima delle quali è “Alfabeto di passioni” (2021).
Numerosi sono i suoi testi poetici. Fra questi: “Ishtar nella Città del Buio” (2009, XVII Premio Donna e Poesia-il Paese delle Donne), “Il libro della memoria e dell’oblio” (2013), “Una sorta di felicità” (2019, Premio Pascoli-PPOO Città di Barga) e “Distopica” (2022).
Fa parte della SIL (Società Italiana delle Letterate) e collabora con le edizioni Vita Activa Nuova di Trieste. Ha fondato il Gruppo di scrittura “Anna Achmatova” nel 2007 e nel 2010 l’Associazione ADASTRACULTURA “Tito Maniacco”.

(Marina Giovannelli “AutoBioLogoGrafia”, pp. 156, 14 euro, qudulibri 2023)

 

 

 

 

Immagini       ————————–

NONciCASCO

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Voce d’autore          ————————-

Viviamo in un tempo sospeso

Cristina Dean, “Di questi tempi si parla con gli occhi”

di Antonello Bifulco

“Una goccia scende lungo il vetro appannato…
La Guardo mentre scrive parole invisibili,
disegna contorni immaginari, riempie spazi vuoti”

Siamo stati l’attesa nel tutto immobile, siamo stati il rumore dei passi dentro una stanza, dentro i pensieri che quella stanza non tratteneva più. Eravamo il ricordo di ciò che si poteva fare e non si faceva più, eravamo piccoli e spaventati alle volte anche di niente. Si stava sulle finestre aperte in attesa del vento, di un sussulto, di un movimento, di una foglia che avesse ancora voglia di cadere o di accadere. La vita girava ancora la vita era ancora.
C’erano spazi da riempire che non sapevamo di avere, spazi immaginari lasciati alla solitudine prima di capire che la solitudine doveva ancora arrivare. Non avevamo compreso quanto la solitudine potesse essere grande dentro gli spazi piccoli, noi che degli spazi pensavamo d’essere i veri padroni poi, lo spazio, ce lo siamo giocati nell’invisibilità di un virus.
Nel suo esordio editoriale a titolo “Di questi tempi si parla con gli occhi”, la poetessa aquileiese Cristina Dean ci conduce nei meandri di ciò che è stato e speriamo non sia più, ci introduce nei suoi e nei nostri giorni cristallizzati nell’attesa di potersi ancora abbracciare o semplicemente muoversi, ci racconta della quiete insolita che spaventava, di un periodo recente della nostra storia che ci ha reso fragili e umani.
Nei suoi versi la poetessa ci obbliga ad entrare in quelle che erano le nostre paure, le nostre speranze, elabora tutti quei momenti tra le quattro mura di casa che diventano un luogo dove esistere esiliati, gli oggetti che da sempre ci circondano nella vita quotidiana ora si animano, prendono forma, prendiamo coscienza della loro esistenza, si muovono, finalmente li riconosciamo, con loro ora parliamo.
Ci si ritrova sulle finestre, nei balconi, sui tetti, nei giardini per chi aveva la fortuna di averne uno, ci si reimpossessava del mondo fuori, dove comunque una vita continua, nel silenzio delle macchine costrette alla sosta, degli aerei che non tracciano più scie nei cieli, alla ricerca di rumori animati dal vento
La capacità dell’autrice di portarci in quello che era vivere dentro un tempo sospeso è notevole e lo fa con semplicità raffinata: “Un tempo inquieto/ vive l’anima oggi,/ prosciugata,/ goccia dopo goccia,/ terra inaridita/ che si sbriciola tra le dita/ e si disperde nell’aria/ alla prima folata di vento”.
Nella sua poesia ogni attimo profuma di eterno e guardare una notte senza stelle può esser tutto: “Una notte senza stelle./ Un fondale di oceano./ Un fuoco che si spegne./ Una lampada rotta./ Una benda sugli occhi./ È davvero buio”.
Siamo stati luce fioca, resilienti, naufraghi, abbiamo seguito sentirei che erano sempre in salita, ci siamo accorti che nel buio della notte quando soffia il vento la fiammella di una candela impara a danzare, si contorce, si innalza, ruota, alle volte sembra cadere su se stessa, spegnersi, ma non si arrende e si rialza, si aggrappa all’ultimo lembo di notte, si aggrappa alla vita.
La silloge “Di questi tempi si parla con gli occhi” è un richiamo a guardarsi dentro ogni giorno, a guardare la vita dalla parte di una fiammella sopra la candela, possiamo anche cadere ma ci si può rialzare più forti di sempre e con la giusta luce negli occhi per vedere oltre se stessi.

 

Dal libro:

Il cuore ferito piange

Un mare in tempesta
ho dentro il cuore,
lo sento ribollire
nei flutti che s’infrangono
contro le pareti,
nelle onde che s’increspano
scure e potenti.
Non vi è modo
di calmare
queste acque agitate
che inondano
la mia anima.

*

Piove!

Una goccia scende
lungo il vetro appannato.
Solitaria nel suo procedere
avanza, nulla può fermarla.
La guardo mentre
scrive parole invisibili,
disegna contorni immaginari,
riempie spazi vuoti.
Ecco una seconda goccia
che dalla sommità
intraprende il suo percorso.
E poi arriva una terza, una quarta,
una quinta goccia. Piove!
L’acqua travolge le strade
prima chiare e definite,
tutto si confonde, si mescola,
si complica.
Nulla è come prima.

*

Una notte senza stelle

Viviamo in un tempo sospeso
alla costante ricerca di una notizia
che possa sostenerci
nel nostro avanzare a tentoni
nel buio di una notte senza stelle.
Fluttuando nello spazio, soli,
ci rispecchiamo nelle nostre paure,
accarezziamo le nostre debolezze,
abbracciamo forte i nostri sogni.
È la riscoperta
del valore della vita:
ogni attimo profuma di eterno.

*

Ti voglio bene

Vedo le lacrime
riempire i tuoi occhi,
vuoti e stanchi.
Sento le urla
nei tuoi silenzi.
Percepisco il peso
che dimora
nel tuo cuore.
Nulla può essere celato
agli occhi di chi ti ama davvero.
Mi siedo accanto a te
e ascolto il silenzio
delle tue parole.

*

Di questi tempi si parla con gli occhi

Di questi tempi
si parla con gli occhi.
Niente di più semplice, dirai.
E invece ciò che stavamo perdendo,
tra i ritmi forsennati delle nostre vite,
riacquista il suo vero valore.
Nascosti
tra mascherine, occhiali, tute e visiere,
gli occhi
ridono e piangono,
urlano e tacciono,
aspettano e corrono,
cantano e ammutoliscono,
scherzano e rimproverano,
odiano e amano.
Ma prima di tutto
quegli occhi
ascoltano.

 

Intervista a Cristina Dean:

Cristallizzati nei giorni”, comincia così questa tua silloge di poesie scritta in un periodo della nostra vita che ha segnato più o meno i giorni di tutti. Ci racconti cosa è “Di questi tempi si parla con gli occhi”?
“Di questi tempi si parla con gli occhi” raccoglie i pensieri, gli stati d’animo e le emozioni sperimentati durante il periodo di emergenza pandemica da Covid-19.
Si tratta di una serie di componimenti scritti nel biennio 2020-2021, un momento che ha segnato indubbiamente le nostre vite. Fin dal principio ho pensato che quella situazione che ci stava investendo fosse alquanto particolare, perciò ho iniziato subito a scrivere ciò che vedevo attorno a me.
Inizialmente ho affidato le mie parole ad un diario, ma subito mi sono resa conto che quello strumento comunicativo non era probabilmente il più idoneo per riuscire a sviscerare e a trasmettere le emozioni più profonde.
Ho deciso, quindi, di rivolgermi alla poesia, quasi fosse un’ancora di salvezza per trovare la pace in mezzo ad un mare in tempesta.
Il titolo “Di questi tempi si parla con gli occhi”, che riprende le parole di quella che è a mio avviso la poesia che racchiude il messaggio dell’intera raccolta, è un riferimento all’utilizzo delle mascherine e alla conseguente necessità di sviluppare nuovi approcci comunicativi.
In un momento nel quale pur dovendo rimanere distanti era necessario comunque mantenere i contatti con il mondo esterno, l’ascolto diventava un elemento fondamentale, probabilmente il più importante.
Allo stesso tempo era imprescindibile ascoltare sé stessi ed io ho provato a mettere nero su bianco i pensieri che affollavano la mia mente ed il mio cuore. Ho fatto tesoro anche dei racconti e delle confidenze di persone a me care perché alla fine, in quel periodo, era chiaro che ci trovavamo tutti insieme in balia delle onde e che le nostre storie inevitabilmente si intrecciavano.

Si rimaneva sospesi tra il fare e il non poter fare, tra le parole che non sapevano più cosa raccontare e quelle che raccontavano anche troppo, vi era una quiete insolita che spaventava; in quei momenti quanto ti ha aiutato pensare a questo progetto editoriale?
In quel periodo per me la scrittura era semplicemente una necessità. Avvertivo il bisogno di descrivere ciò che vedevo, che sentivo e che provavo.
Scrivere significava fermare la ruotine e ritagliare del tempo prezioso da dedicare all’analisi e alla riflessione. Riportare su un foglio di carta pensieri ed emozioni alleggeriva in qualche modo il peso della quotidianità.
Soltanto in un secondo momento, quando mi sono accorta che il numero di poesie era abbastanza consistente, ho iniziato ad immaginare una loro possibile pubblicazione.

Ci sono tempi in cui le parole del linguaggio quotidiano non sembrano essere adeguate per descrivere ciò che accade intorno e dentro di noi. Ci sono tempi in cui l’unica voce capace di parlare, di farsi capire in modo universale pare essere quella della poesia. Che ne pensi di questo?
La poesia custodisce un linguaggio universale capace di superare le distanze, sia fisiche che temporali, di immaginare nuovi mondi, di esplorare in profondità la natura dell’essere umano. Ha il dono di unire le persone, creando preziose occasioni di riflessione e condivisione.
Per questo motivo anche nei momenti più bui, forse specialmente in quelli, finisce per essere una luce che illumina vita delle persone.
È stato così fin dall’antichità e credo continuerà ad esserlo anche in futuro.

Dalle tue liriche si evince che in un’epoca improntata sulla velocità e sul costante rumore di fondo, il tempo dilatato, rallentato, racchiuso all’interno delle mura domestiche e svuotato da ogni incombenza invita all’introspezione, alla riflessione, all’espressione e rappresenta l’unica conseguenza positiva di ciò che abbiamo vissuto. È così?
Viviamo in un’epoca particolare, nella quale la nostra vita sembra essere ormai diventata una gara di velocità. Le giornate si susseguono, piene di impegni, risucchiandoci in un vortice che ci porta a fondo.
Il tempo dedicato alla riflessione è ridotto ai minimi termini come se fermarsi fosse considerata una colpa, in quei momenti infatti per la società non siamo “produttivi”. In realtà quegli attimi d’introspezione sono fondamentali per il nostro benessere psico-fisico.
Durante la pandemia ho ricominciato a dare importanza al tempo e ad alcune attività in particolare, come leggere, scrivere e disegnare. Ho imparato che rallentare o addirittura fermarsi non è sbagliato, che questi istanti “rubati” possono diventa-re occasioni preziose per osservare sé stessi e il mondo esterno da nuove angolazioni, per porsi domande, per imparare cose nuove, per crescere.
In sostanza ho compreso che il tempo che abbiamo a disposizione durante la giornata è sempre lo stesso, ma che la capacità di utilizzarlo con maggiore consapevolezza fa la differenza nel migliorare la qualità della nostra vita.

Nella tua silloge hai dedicato una poesia alla tua comunità e ad uno dei suoi elementi architettonici tra i più rappresentativi, il campanile. Quale il tuo rapporto con Aquileia?
Aquileia è la città in cui sono cresciuta e a cui sono molto legata. Qui sono custoditi i ricordi d’infanzia, i luoghi del cuore, le amicizie, le estati a casa dei nonni e le lunghe corse in bicicletta.
Da molti anni faccio parte della Pro Loco Aquileia e cerco di dare un contri-buto alle attività dell’associazione. Questo mi ha permesso, nel corso del tempo, di entrare in contatto con molte persone e di partecipare direttamente agli eventi e alle manifestazioni che si svolgono sul territorio.
Mi ritengo fortunata a vivere in un luogo così ricco di storia, arte, cultura e a stretto contatto con la natura. Passeggiare tra le vie della città, osservare le aree archeologiche, ascoltare le storie del passato, così come fermarsi ad ammirare un tramonto sulle sponde della Natissa oppure sedersi semplicemente in mezzo al prato respirando i profumi della campagna, sono una fonte d’ispirazione preziosa per la mia scrittura.

Il tuo rapporto con la poesia prima e dopo la pubblicazione di questo libro e quali gli autori che ti hanno ispirato, quali quelli che senti più vicino a te?
Il mio rapporto con la poesia è sempre stato intenso perché si tratta di un genere letterario che tocca la mia sensibilità e al quale mi sento affine.
Con la pubblicazione del libro si è aggiunta la possibilità di mettermi in gioco in prima persona e di sentirmi ancora più vicina a questo “mondo”. È stata una bellissima esperienza che mi ha consentito, durante l’anno appena trascorso, di conoscere molte persone e di scoprire luoghi meravigliosi.
Ho sempre ammirato i grandi autori del passato, quelli che iniziamo a conoscere sui banchi di scuola e che poi rileggiamo con piacere quando siamo un po’ più grandi. Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Giuseppe Ungaretti, Emily Dickinson, Alda Merini, Pier Paolo Pasolini, insieme a tanti altri, mi hanno ispirato, ciascuno a modo suo, perché ogni artista porta con sé colori e sfumature che possono aprire lo sguardo verso scenari sempre nuovi.

Ultima domanda, in questa società che non trova pace con se stessa, siamo ancora capaci di emozionarci leggendo e praticando poesia?
Nonostante le difficoltà che la nostra società sta attraversando in quest’epoca, credo che la poesia sia ancora in grado di far riflettere ed emozionare. Ci affidiamo alla poesia quando vogliamo dire qualcosa di importante, quando cerchiamo risposte alle infinite domande che riguardano l’essere umano e il mondo in cui viviamo, quando abbiamo bisogno di una carezza nei momenti di difficoltà o, al contrario, di uno sprone per affrontare nuove sfide.
La forza della poesia risiede nella parola, nella sua capacità di suscitare emozioni pure e genuine perché parla il linguaggio del cuore.
Questa lingua è universale, non conosce barriere, supera indenne lo scorrere del tempo. L’unica cosa che dobbiamo fare è provare a fermarci e ad ascoltarla.

 


L’autrice:
Cristina Dean è nata a Monfalcone nel 1992, nel 2016 si laurea in Fisioterapia all’Università degli Studi di Udine. Insieme alla passione per il suo lavoro, coltiva da sempre grande interesse nei confronti dell’arte, della cultura e della storia.
A novembre 2022 è uscita la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Di questi tempi si parla con gli occhi”, pubblicata dal Gruppo Albatros Il Filo.
Nel 2023 per la sua silloge ha ottenuto questi riconoscimenti: Premio speciale “Gabriele Galloni”, dedicato ai giovani autori per l’opera, al Premio Letterario Internazionale “Antica Pyrgos” (Lanuvio – Roma); menzione d’onore per la poesia edita al Concorso Letterario Nazionale di Narrativa e Poesia Argentario (Porto Ercole); attestato di merito al Premio Internazionale di Poesia “La bellezza rimane” (Santa Margherita Ligure).

(Cristina Dean “Di questi tempi si parla con gli occhi” pp. 66, 12 euro, Il Filo Editore 2022)

 

 

 

 

Immagini           ————————–

IGNORANZA

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

 

 

 

Ti racconto       ————————-

Il precipitare degli eventi

Franco Casadidio, “Il volo del canarino”

di Anna Piccioni

Franco Casadidio trasmette al lettore la sua passione per la storia tedesca del novecento. “Il volo del canarino” è un romanzo storico, in cui la Storia però non fa da sfondo alle vicende dei protagonisti, ma è posta in primo piano. L’autore esamina ed espone, momento per momento, gli eventi che dalla fine della Grande Guerra hanno portato la Germania a produrre quel “mostro” che è stato il Nazismo, con tutte le sue atroci conseguenze.
Il romanzo ripercorre i fatti dal 1918 fino alla fine della seconda Guerra Mondiale, per arrivare agli anni ottanta concentrandosi nella seconda parte sulla vita dei due protagonisti principali, Jürgen von Schotze e Sara Funke.
I fatti, concatenati da cause ed effetti quasi inevitabili, coinvolgono e sconvolgono la vita di uomini e donne, comuni cittadini, che all’inizio non sempre hanno saputo valutare le conseguenze e non hanno nemmeno saputo immaginare quello che sarebbe accaduto.
Oltre che romanzo, direi che siamo di fronte a un buon trattato di storia; essendo immerso nella realtà del vissuto dei protagonisti diventa meno anonimo e più realistico: ci fa condividere le vicende.
Questo romanzo dovrebbe soprattutto insegnarci che dovremmo sempre essere allertati su quanto sta succedendo intorno a noi, e mai sottovalutare quello che altri decidono nei luoghi deputati a farlo: l’indifferenza è il peggior atteggiamento da assumere!
La lettura così dettagliata degli eventi, che tutti più o meno conosciamo, mi ha portato a chiedermi come è potuto accadere, e poi a riflettere su quanto siamo sicuri che non possa accadere di nuovo.
Casadidio ci racconta delle masse assordate da slogan propagandistici messi in giro da personaggi insignificanti (come il piccolo caporale Adolf Hitler, con una grande considerazione di sé), dei fatti contingenti come la grave inflazione, la disoccupazione, l’impoverimento di tutta la Germania, che la politica della Repubblica di Weimar non riuscì a risolvere, che fecero precipitare la neonata democrazia in un totalitarismo delirante. Tuttavia c’era un’istituzione, l’Abwehr, che si opponeva al regima nazista.
I fatti della Storia sono vissuti e recepiti in un piccolo villaggio della Baviera, Berchtesgaden, poco lontano da Monaco. Qui la gente si conosce, vive in armonia, e qui abitano da generazioni due famiglie: i van Schotze dell’aristocrazia bavarese (Helmut è ufficiale della Reichwehr, tornato sconfitto dalla guerra) e i Funke di fede socialista, da due generazioni borgomastri della cittadina. Klaus aveva sposato Rivka, di famiglia ebraica.
I von Schotze hanno un figlio, Jürgen, nato nel 1915, a guerra iniziata; i Funke hanno una figlia, Sara nata nel 1918. Jürgen e Sara fin da piccoli sono grandi amici e compagni di giochi, poi l’amicizia si trasforma in un affetto più profondo.

Il precipitare degli eventi costringerà i due a separarsi: Jürgen entrerà nella SS, convinto che l’idea nazista può sollevare le sorti della Germania. Le atrocità di cui sarà testimone cominciano a farlo dubitare delle sue convinzioni, si rende conto che per obbedire agli ordini di un folle dittatore e dei suoi diretti ufficiali stanno sterminando donne, uomini bambini, per “pulire” e salvaguardare la razza ariana.
Prende coscienza che sterminio non è combattere. Avrà il comando di un lager in Bielorusssia, a Malyj Trostenec, e in un certo modo cercherà di riscattarsi. Nello stesso campo sarà internata Sara, in quanto figlia di madre ebrea. Finalmente s’incontrano, ma sembra che la distanza tra di loro ormai sia incolmabile….
La fine della guerra metterà i Tedeschi nella necessità di fare i conti con la Storia. Il dopoguerra porta strascichi ancora più violenti e dolorosi. La necessità di ricostruire città rase al suolo è meno difficile che ricostruire e ricucire le lacerazioni interiori, i rapporti umani e soprattutto ritrovare le persone care.

 

 

Intervista a Franco Casadidio:

Da dove viene la sua passione per la storia della Germania?
Direi che, come capita spesso, anche questa per la Germania è una passione innata, che mi accompagna fin da piccolo. Sono sempre stato incuriosito dalla storia di questo Paese, dalla sua cultura, dalle sue tradizioni e anche dalla sua lingua, tanto che alle scuole medie, unico fra molti, decisi di scegliere volontariamente di essere inserito nella sezione dove si studiava il tedesco che, normalmente, costituiva uno spauracchio per gli altri.
Nel tempo questa passione si è evoluta, e mi ha portato ad approfondire in modo particolare l’aspetto storico, soprattutto quello legato al cosiddetto “secolo breve” per cercare di comprendere le cause profonde che portarono all’ascesa del Nazionalsocialismo e alle tragiche conseguenze che ne seguirono.

Questo romanzo è la sua terza pubblicazione: quando Casadidio è nato scrittore?
Anche quella per la scrittura è una passione che mi porto dietro da tempo; mi è sempre piaciuto molto scrivere tanto che, come amo spesso ripetere, il compito in classe di italiano non generava in me alcuna ansia, al contrario, ad esempio, di quello di matematica!
Con il passare degli anni ho mantenuto sempre viva questa passione fin quando, non molti anni fa, nel 2015, ho deciso di provare a pubblicare una raccolta di cinque racconti brevi ambientati, anche questi, in Germania.
Quando arriverà la primavera” è stato il mio primo libro, seguito da “L’impronta del diavolo” e poi da “Il volo del canarino”, tutti legati da un unico filo conduttore: la passione per la Storia, quella con la “S” maiuscola, quella in grado di cambiare, nel bene e male, anche la nostra vita.

C’è un particolare legame con la Baviera?
Mi sono innamorato della Baviera, e in particolare di Monaco, durante la gita dell’ultimo anno di scuola superiore. In quell’ormai lontano maggio del 1988, ebbi la fortuna di scoprire una città bellissima, lontana anni luce dagli stereotipi che raccontano le città tedesche come fredde, grigie, senza un’anima.
Monaco è una città con un grande patrimonio culturale che unisce i tratti tipici della grande metropoli con la tranquillità di una piccola città di provincia. In pochi minuti si può passare dal frastuono di un’affollata Marienplatz – la piazza principale, famosa nel mondo per il Municipio in stile gotico e il suo bellissimo carillon – al silenzio dei viali dell’Englisher Garten – uno dei parchi pubblici più grandi d’Europa – rotto solo dal cinguettio degli uccelli e dal rincorrersi vorticoso degli scoiattoli che si nascondono tra le fronde degli alberi.
Una città capace di conquistare il cuore di ogni visitatore, esattamente com’è successo a me tanti anni fa, un amore così profondo che ho voluto ambientare proprio lì i miei primi tre romanzi.

Divulgare la Storia, fuori da schemi nozionistici, dovrebbe aiutare a prevenire che le tragedie si ripetano, ma sembra che non basti: cosa, come fare?
Io credo che l’unica soluzione possibile sia quella di non smettere mai di studiare, leggere, parlare, raccontare quello che è successo. La conoscenza è l’unica arma che abbiamo per contrastare quei sentimenti di odio che covano sotto la cenere e che, periodicamente, tornano in superficie.
Possiamo farlo attraverso lo studio e la lettura di saggi storici, la visione di documentari proposti da programmi e canali tv tematici – penso a Rai Storia, ma non solo – oppure utilizzando la rete che, con le dovute accortezze e cautele, può rivelarsi una fonte inesauribile di informazioni.
Possiamo farlo anche tramite la lettura di un romanzo come “Il volo del canarino” che, attraverso la vicenda umana e sentimentale dei due giovani protagonisti può aiutarci a comprendere meglio quanto accaduto.

Nel romanzo si nomina il castello di Wewelsburg, luogo simbolo dell’occultismo nazista; potrebbe approfondire questo aspetto del Nazismo?
Uno degli aspetti più misteriosi e inquietanti del Nazionalsocialismo è stato proprio il suo lato esoterico. Molti dei più alti esponenti del partito erano degli appassionati di occultismo e non esitarono a trasportare questa loro passione all’interno del movimento e dello Stato. Le SS in modo particolare, vennero strutturate dal loro capo, Heinrich Himmler, come una vera e propria setta, dove non c’era una distinzione netta tra l’aspetto militare e quello esoterico.
Il castello di Wewelsburg venne acquistato da Himmler in persona, che provvide a farlo restaurare per farne la sede principale delle SS, nonché un centro di addestramento degli ufficiali di grado più elevato. Mescolando sapientemente antichi culti germanici, richiamo alle tradizioni ancestrali del popolo tedesco, studio delle rune e del simbolismo pagano e teorie razziali, Himmler fece di Wewelsburg un esclusivo centro del potere delle SS che andava crescendo sempre più all’interno della Germania degli anni Trenta. Himmler credeva fermamente nella metempsicosi tanto da ritenersi la reincarnazione di Enrico I di Sassonia detto “l’uccellatore”, mitico sovrano tedesco vissuto nel decimo secolo.
Ispirandosi alla leggenda di Re Artù, il Reichsführer delle SS fece allestire una sala con al centro un enorme tavolo rotondo e lungo le pareti gli stemmi araldici (appositamente creati dal nulla dall’Ahnenerbe, associazione creata proprio da Himmler e originariamente votata alle ricerche riguardanti la storia antropologica e culturale della razza ariana) di dodici gerarchi delle SS a ricordare i dodici cavalieri della tavola rotonda, mentre sul pavimento faceva bella mostra di se il mosaico raffigurante il “sole nero”, un singolare simbolo esoterico dal significato ancora oggi poco chiaro.
Nel romanzo, Jurgen, ufficiale delle SS, si trova a prestare giuramento proprio nel castello di Wewelsburg, davanti a un sempre più esaltato Himmler ma anche sotto l’occhio attento di suo padre, ufficiale di lunga data della Reichswehr, da sempre scettico nei confronti del regime non meno di quanto non lo sia nei riguardi della scelta del figlio.

 

L’autore:
Franco Casadidio, nato a Terni nel 1969, è al suo terzo libro, dopo “Quando arriverà la primavera” (GoWare Edizioni, 2015) raccolta di cinque racconti ambientati in Baviera e “L’impronta del diavolo” (Self publishing, 2021), storia di due giovani affiliati alla cellula di Monaco di Baviera della R.A.F. (Rote Armee Fraktion), negli anni bui del terrorismo internazionale.
Appassionato di storia tedesca contemporanea, nel 2015, con il racconto breve “I ricordi del cuore”, si è classificato al primo posto del concorso letterario internazionale “Roma chiama Berlino”.

www.francocasadidio.eu

(Franco Casadidio “Il volo del canarino” pp. 296, 16 euro, edizioni Drakon racconta 2018)

 

 

 

 

Immagini         ————————–

PAeSSAGGIO

“Oὐδείς”, dodici fotografie

di Vincenzo Gargiulo

 

Intervista a Vincenzo Gargiulo:

di Luigi Auriemma

Caro Vince, sei un artista che di base predilige il medium fotografico per poi modificarlo successivamente, perciò appellarti come solo fotografo sarebbe riduttivo.
Mi piacerebbe dialogare con te su questo tuo nuovo progetto che a breve darai alle stampe, e di cui le immagini proposte su questo numero di “Fare Voci” sono un’anteprima. Vorrei farti alcune domande tali da illustrare quest’ultimo lavoro. La prima domanda è questa: “οὐδείς”, perché questo titolo?
Oὐδείς”, col significato di “nessuno”, è il nome che l’eroe omerico usa per ingannare Polifemo, giocando sul senso che il nome stesso assume come risposta alla domanda del ciclope (chi sei tu?).
Nessuno (οὐδείς) è l’autentica realtà di ciò che siamo. Ogni individuo – si dice un po’ retoricamente – è unico. Unico e solo, in balia della propria solitudine. Usiamo ogni mezzo per ingannare il nostro ego, nascondendo in esso la finitudine dell’”esserci” di anonimi replicanti asserviti alla specie e al sistema sociale.
L’arte è uno dei modi per affermare “io sono” e con ciò dissimulare d’esser “oὐδείς“.
Detto questo, il titolo utilizzato nella pubblicazione è una negazione di se stesso, come a dire “nessun titolo”. Si tratta in qualche modo di una provocazione. Ma è anche un monito a me stesso.

Inizi il primo dei vari testi che accompagnano le immagini con una affermazione e con una domanda, ovvero “Sono un artista. Sono un artista?”, perché dopo una navigata carriera, senti il bisogno di porti questa domanda?
Penso che “essere” sia l’approdo di un percorso di ricerca. Una ricerca di senso, spesso vana, inconsistente. Talvolta si rivela una fatica di Sisifo (tra l’altro, Sisifo, il personaggio della mitologia greca, in una versione è considerato il padre di Odisseo).
Quella sorta di locuzione interrogativa – sono “un’artista?” – esprime il mio disagio per l’autoreferenzialità che nella sua forma assertiva ha acquistato un’accezione di valore, come se fare l’artista fosse in se un titolo di merito.

In un altro punto, definisci l’opera come “una sorta di scoria”; ci articoli, a me e ai lettori, questo tuo concetto?
Ci provo. Parto dall’idea della conoscenza del “” (il processo di individuazione) come scopo dell’esistenza individuale. Si tratta di un percorso di ricerca. Ricerca di senso, come dicevo. La creatività che si esprime nel fare artistico – e che nella mia idea non deve essere appannaggio di una casta (quella degli artisti) – è un aspetto fondamentale in quel processo e le opere non ne rappresentano lo scopo. Sono, in un certo qual modo, espressioni empiriche di un processo eidetico.
“Scoria” è un termine forte che uso qualche volta per definire l’opera d’arte come merce, come prodotto in un processo economico, piuttosto che come espressione d’un processo psichico.

Una volta mi hai detto che le foto “perfette ti annoiano, ti disgustano” e che il tuo modo di fare fotografia, diventa uno scontro, quasi una lotta per demolire le regole classiche, quelle regole fondamentali per ottenere una “bella” foto. Ce ne parli in modo più approfondito?
Agli inizi degli anni ’90 ho attraversato una sorta di crisi di rigetto verso la fotografia “pura”. Iniziai a sperimentare, ma il mio, con la tecnica, le forme e i modi dell’arte era ancora un buon rapporto.
Con l’avvento del digitale, i fotografi hanno scoperto la possibilità di ottenere con poco sforzo, immagini sofisticate ed esteticamente leziose.
Trovo insopportabili il concetto di look, l’omologazione estetizzante e la perfezione tecnica ottenuta via software. Anche se anch’io apprezzo molto i vantaggi offerti dal digitale. La possibilità di creare mescolanze a livello di singoli pixel dà l’idea di poter manipolare la “materia immagine” a partire dalle sue “particelle elementari”.

Nel corso della tua pluridecennale ricerca artistica come è cambiato, dagli inizi ad oggi, il tuo modo di fare fotografia, o meglio, di creare immagini?
Il lavoro con la fotografia digitale non è in discontinuità con la mia passata esperienza, né con il passato storicizzato della produzione estetica occidentale, quella storia dell’arte che ho studiato con grande applicazione sin dai tempi del liceo.
Tutto questo converge da una parte nella pratica, nel fare che, come si diceva, si basa sul lavoro fotografico; dall’altra si è sedimentata in un immaginario la cui dimensione travalica i limiti dell’esperienza individuale.
Penso che il lavoro creativo – eminentemente quello che si esprime in immagini – attinga a quel giacimento profondo, ancestrale ed archetipico, che solo in minima parte è accessibile mediante processi razionali. Dove il “logos” trova il suo limite, l’immaginazione fa emergere qualcosa di altrimenti insondabile, nascosto e negato del nostro io razionale. Esattamente come avviene nell’attività onirica.

Da quello che hai detto mi sembra che tu ti sia fatto una tua idea di “arte”. È così?
Come hai ben compreso, per me una cosa sono le opere – il prodotto che può e spesso vuole porsi come merce offerta al mercato – altra cosa è il processo creativo, che può anche prescindere dalla produzione e dalla commercializzazione dell’opera. Nella mia prassi esso non è un mero processo di produzione, quanto un processo psichico.
Ecco dunque la mia idea di arte: un processo di conoscenza di sé dove le opere sono intimamente legate all’esistenza individuale e, se possono avere valore per gli altri, è perché il creativo, avendo un particolare talento (si dice “un dono”), riesce a fare dei propri sogni, del proprio immaginario, della propria visione, qualcosa di condivisibile.

In questo lavoro hai affrontato molti temi, uno di questi è il Vesuvio, la sua immagine compare in varie foto come se fossero fotogrammi di un film o quasi di un diario visivo; come mai un’immagine/cliché ha attirato il tuo interesse?
Si, il Vesuvio è stato ed è una presenza costante del mio vissuto quotidiano. Lo vedevo come una sorta di manifestazione della potenza naturale, dissacrata, ignorata e offesa dall’uomo. Fu quello un lavoro a programma – i cui inizi risalgono a circa venti anni fa -, in cui il processo creativo non aveva ancora assunto le caratteristiche metacognitive di cui parlavo poc’anzi.
I lavori di quella serie probabilmente saranno in mostra in una data dell’anno in corso.
In chiusura vorrei aggiungere che accanto al lavoro che hai visto in forma di libro, sto realizzando un video che esprime in modo spero più coerente e compiuto quello che si può vedere nelle opere grafiche.
Lavoro audiovisivo che probabilmente riuscirò ad ultimare entro la prossima primavera, per una “eventuale” mostra degli ultimi lavori, in occasione della quale lo presenterei unitamente al libro.

 

L’artista:
Vincenzo Gargiulo ha studiato scenografia all’AABB di Napoli, città dove è nato.
Frequentando precocemente quel mondo, ha prestato la propria opera, collaborando come fotografo per gallerie d’arte, artisti e altri fotografi, tra gli altri con Mimmo Jodice, conosciuto negli anni dell’Accademia. Tuttavia, i suoi interessi, pur traendo linfa vitale da quella realtà, lo hanno sempre portato a ricercare una visione personale, una strada propria nell’universo del fare creativo e in particolare in quello mediato dallo strumento e dal linguaggio fotografico.
Si interessa dei linguaggi della visività e in particolare di quello audiovisivo. Tiene blog didattici sulla teoria e la pratica del linguaggio cinematografico.
Da oltre trenta anni insegna discipline grafiche e fotografia in istituti d’arte e tecnici per la grafica e la comunicazione.

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso.