Fare Voci luglio-agosto 2024

 

È il numero di Fare Voci dell’estate. Una proposta ricca e varia, che si incuriosisce delle forme contemporanee d’espressione, dove la scrittura è sempre punto di riferimento, occasione di confronto ed incontro.

E con lo scrittore argentino Ariel Luppino e il suo nuovo romanzo “Paraguaiano!” la scrittura diventa un’accensione continua, un fuoco fuori controllo che sorprende e spiazza.

Jude Luciano Mezzetta con le sue poesie ci accompagna nel suo omaggio alla città di San Francisco, e “Nome di donna” sono invece i testi inediti di Matteo Piergigli.

I Margini. Di poesia ed altro portano l’attenzione su due nomi fondamentali della poesia italiana contemporanea: Mariangela Gualtieri con i suoi “Bello mondo” e “Ruvido umano”, e Umberto Piersanti con “L’urlo della mente e altre poesie inedite”.

E facciamo anche una significativa incursione nella Storia: Chiara Mercuri ci parla del suo “La nascita del femminismo medioevale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese”.

Altre due voci importanti del panorama poetico italiano hanno recentemente pubblicato il loro nuovo libro: Doris Bellomusto con “A corpo libero. Esercizi di poesia” e Claudia Zironi con “La camera era rossa”. Questa è l’occasione per conoscere il loro nuovo scrivere, anche dalle loro parole.

La poesia si fa mondo con Marco Plebani, il suo “Decimo dan” è libro che contiene il suo tempo, fra accadimenti e sguardi. E poi il gradito ritorno di Nicoletta Storari, e il suo nuovo racconto inedito, “Vuoto”.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail: farevoci@gmail.com)

 

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Suggestive, misteriose immagini senza tempo e luogo

di Grazia Russo

 

 

 

 

Ti racconto        ——————–

Incendiare la scrittura

Ariel Luppino, “Paraguaiano!”

di Giovanni Fierro

La narrazione come atto perpetuo di invenzione, la scrittura che diventa accadimento nel momento in cui nasce e trova la pagina, la storia da raccontare che assume il potenziale di ogni possibilità espressiva. Di senso, di causa effetto, di forma.
È questa la vitale combustione che alimenta lo scrivere di Ariel Luppino, e che nel suo breve romanzo “Paraguaiano!” è una continua accensione.
Siamo nell’Argentina che sta uscendo dalla sua lunga guerra civile, nata all’indomani del varo della sua costituzione del 1853; uno stato che piano piano si sta costruendo, cercando una unità per le diverse anime che lo contraddistinguono. Bande di irregolari e di sanguinosi avventurieri fanno il bello e il cattivo tempo; e proprio dalle violenze di un gruppo di paraguaiani prende il via la storia che Ariel Luppino ci racconta.
E lo racconta in un modo che stupisce il lettore, nelle sue continue accensioni che portano la sua scrittura ad essere un fuoco in continuo crepitare, dove la temperatura è sempre alta, pericolosa e mai accomodante. E in questo una nota di merito, fondamentale, va a Francesco Verde che ha tradotto in italiano il libro.
La forza di “Paraguaiano!” è proprio in questa sua scrittura irrimediabilmente viva, senza compromessi, capace di portare il lettore dentro continui vortici emotivi e sensoriali. In una semplicità corrosiva e tagliente, che usa e crea immagini che poi rimangono, in un perpetuo movimento nella più profonda percezione di chi legge.
El Mandioca aveva un suo piccolo teatro della follia. Nella testa, naturalmente, come accadeva in milioni di altre menti umane: una miriade di omini immaginari capaci di produrre un’increspatura nella realtà”; e allora tutto è possibile. Perché così può solo succedere che finzione e realtà si scambiano continuamente di posto, si confondono tra di loro, vanno d’accordo nel creare una verità che assorbe il lettore, che dona alla storia narrata una forza indescrivibile: tutto è finzione, tutto è realtà?
In quella guerra, dopotutto, la finzione era un altro aspetto della verità”, propaganda e disinformazione sono sempre state strumenti di guerra, ben oliati anche già dal ventesimo secolo…
El Mandioca, Pichos, Rinaldo, el Chacal, el Zurdo, Rikar Rüger, Professor Li, Hernández… questi i nomi dei protagonisti che portano continuo veleno e battere cardiaco alla storia di “Paraguaiano!”.
Ariel Luppino sa destreggiarsi tra questi personaggi che vivono in un presente dove la violenza è un tratto comune in cui incontrarsi, un vocabolo da condividere, e dove anche il sesso non è mai una pratica accomodante o portatrice di piacere e serenità, “Insomma, l’amore li legava e il sesso li divideva”.
“Paraguaiano!” è un entrare nella Storia per distorcerla, per trovarne altre opportunità di narrazione e di destino. Anche perché alcuni protagonisti del libro “giocano a rincorrersi con la luce, sono a un altro livello della Storia”. Ma è un gioco che sempre fa le sue vittime, che vive di un progetto sempre pronto a sovvertire ogni momentanea e fragile forma di democrazia.
Paraguaiani ed argentini, cinesi. Il loro convivere sembra proprio impossibile. Inevitabilmente non possono che scontrarsi, senza mai darsi mai né comprensione né perdono.
Ariel Luppino scrive del passato per guardare meglio il nostro presente. Esplora e sabota la società, trova vicinanze con l‘ordine mondiale contemporaneo; con coraggio non si accontenta di rimanere in superficie.
Bisogna sfruttarla la pampa, non popolarla. Qui sta la chiave per produrre ricchezza in questo Paese”, pensiero che vale in ogni latitudine, che pone l’accento sulla determinazione di ogni capitalismo di ogni tempo. Dal quale di sicuro non abbiamo ancora imparato a metterci al riparo.
Ariel Luppino porta la scrittura al suo massimo compimento, laboratorio permanente ed aperto, lascia che non tutto si possa controllare (e questo diventa una forza espressiva e di comunicazione importante). Con il suo continuo incendiare la scrittura sovverte ogni facile pensiero e giudizio, scortica ogni scorciatoia di comprensione, affida alla verità dello scrivere la verità del dire (quanti scrittori oggi come oggi ne sono capaci?).
La lettura di “Paraguaianao!” è un’esperienza da fare. Anche solo per scoprire una frase come “Non bisognava spiegare niente. La felicità era una forma di ignoranza”. Applausi.

 

Dal libro:

“La parola “ovulo” continuava a lampeggiare nella mente della lavandaia, come nel buio della pampa le ossa degli animali morti. Ciò che non conosceva poteva sempre immaginarlo: riusciva da immaginare qualsiasi cosa. E non sarebbe giusto dire che immaginasse male, perché questo avrebbe implicato una certa conoscenza della cosa immaginata, mentre lei immaginava solo ciò che ignorava del tutto”.

*

El Mandioca era assorto nei suoi pensieri, quando una lucciola entrò dalla finestra. Un alone di luce verdognola si delineò nel chiarore lunare e zigzagò sopra la sua testa. Aguzzò le orecchie e captò un suono quasi impercettibile, un ronzio, un battito di ali minuscole e una serie di parole: “Presto una morte vendicherà tutte le altre”. Il messaggio risuonò in un punto indefinito della sua corteggia cerebrale. Era come se la lucciola gliel’avesse infilato in una piega del cervello. La scena aveva un che di onirico.

*

Gli argentini stavano preparando enormi pupazzi con la faccia di Rikar Rüger. Ne avrebbero fatto il simbolo del Gran Carnaval, dal momento che il Gran Carnaval non era altro che la continuazione della guerra con latri mezzi. Quelle figure di stoppa, quei fantocci, avrebbero galvanizzato l’esercito e ridato fiducia al popolo. Avrebbero scacciato fame e tristezza e portato, anche se solo per qualche ora, allegria e benessere. In quella guerra, dopotutto, la finzione era un altro aspetto della verità.

 

Intervista ad Ariel Luppino:

A leggere il suo libro si ha la netta sensazione che il suo scrivere è un continuo incendiare la scrittura. È così? Perché sembra quasi che il suo scrivere sia un qualcosa di autonomo, che prende la propria strada, si accende continuamente, le immagini si generano in modo spontaneo…
Prima di tutto, grazie per aver menzionato il fuoco. Seconda cosa, mi interessa questa sua descrizione del mio scrivere; perché, in effetti, credo che la scrittura non è subordinata a nulla di esterno a se stessa, ma piuttosto si configura come una realtà parallela.
Non penso che ognuno di noi, come lettore, da quella realtà parallela può uscirne, se non per tornare alla realtà in cui già era. E al proprio ritorno forse non è cambiato nulla, o forse lo è.

“Paraguiano!” parte da un riferimento storico. Poi prende strade e vie diverse. Il suo è un entrare nella Storia per distorcerla? Per piegarla alla forza della narrazione?
Penso di essere entrato nella Storia per distorcerla. Perché la Storia è un’invenzione, una delle tante.

A pagina 50 lei scrive: “La felicità era una forma di ignoranza”. Penso sia una affermazione potente… La può commentare?
Credo di aver scritto l’intero testo per poter scrivere quella frase, e forse è l’unica cosa che vale la pena spiegare: è il perché io ci tenga così tanto a scrivere una frase.
E grazie per aver ricordato il numero della pagina, così il lettore può direttamente andarla a cercare.
(Non ho ancora una copia della traduzione di Francesco Verde – il traduttore in italiano del libro ndr – ma quando la riceverò, prometto di andarla ad aprire proprio a quella pagina, per leggerla e vedere come suona in italiano).

La presenza dei cinesi a un certo punto porta il suo raccontare in una dimensione a dir poco distopica. La loro presenza è la nostra contemporaneità che entra nel presente del libro?
Ho provato ad immaginare il passato partendo dal presente, e poi il futuro partendo dal passato, e quello che è apparso è stato qualcosa di molto diverso.
Penso che sia una questione topologica che non ho del tutto chiarito, ma almeno mi ha aiutato a configurare quella scena a cui fai riferimento, che a te sembra distopica. Il problema dei cinesi è che ce ne sono molti.

Nel leggere il suo libro mi è venuto in mente, come riferimento, William Burroughs. Se ne avverte una certa vicinanza, nella libertà di scrittura, nel generare situazioni e personaggi. Cosa ne pensa di questo?
Ballard ha detto di Burroughs: “Non puoi domare un genio!” Ma questo mi ricorda una frase di Osvaldo Lamborghini, che è una riscrittura di una frase di Hernández, dal poema “Martín Fierro”: “Ci sono sempre degli scontri quando un genio si diverte”.
La frase di Hernández dice “povero” invece di “genio”, ma entrambe le frasi sono originali.
E questi sono tre degli scrittori che mi interessano di più: Burroughs, Osvaldo Lamborghini e José Hernández.

La dimensione sessuale è molto presente. Ed è una sessualità esplicita, a volte grottesca ed altre puramente animale. Che funzione ha nel vivere dei protagonisti del suo libro?
Non lo so. Ma suppongo che sia il motore invisibile della narrazione.

Il bello di “Paraguaiano!” è che in tutto il libro finzione e realtà si scambiano di posto, si confondono, vanno d’accordo, si mescolano… Tutto è finzione, tutto è realtà?
È meglio che rimaniamo con questa sua domanda come risposta, “Tutto è finzione, tutto è realtà?”.
Perché non riesco a pensare a niente di meglio da dire sul libro. Speriamo che sia così.

 

L’autore:
Ariel Luppino è nato a Monte Grande nel 1985, in Argentina.
È stato definito da Gabriela Cabezón Cámara come una “nuova punta della letteratura argentina” e da Mario Bellatin come “un genio segreto della tradizione letteraria latinoamericana”.
In Italia sono stati pubblicati i suoi romanzi “Le brigate” (2017), “Le macchine orientali” (2019) e il recente “Paraguayano!”, tutti tradotti in italiano da Francesco Verde.

(Ariel Luppino “Paraguaiano!” pp. 120, 13 euro, edizioni Arcoiris 2024)

 

 

 

 

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Tempo presente         ————————

Nome di donna

Otto testi inediti

di Matteo Piergigli

29_05_2024

mi parli
in forma di sospiri
un destino di cieli
stretti a precipizio
fra dentro e fuori

*

02_06_2024

se sei
vivo sull’altra
riva il passare
del tempo nel tuo
sottrarti

*

03_06_2024

amore tempo morte
una parte di te
le notti ritrovate
se potessimo essere
ancora estranei

*

04_06_2024

è rimasta laggiù
dentro il silenzio
troppo malinconica
per essere
Anna

*

04_06_2024

da un altrove
senza parole
mi parli cullata
da vento leggero
accende l’orizzonte

*

06_06_2024

trema sul volto
ricordo di carne
madre irrisolta
gettata sulla riva

*

09_06_2024

andare senza
parole buttate
sul dopo dei giorni
il tuo nome dentro
si conserva bene
per anni

*

10_06_2024

quando i morti
sognano, qualcosa
preme addosso
e schiaccia l’ordine
apparente delle cose

 

L’autore:
Matteo Piergigli è nato a Chiaravalle (An) nel 1973. Ha pubblicato “Ritagli” nel 2015 con la Casa Editrice Kimerik. Il libro è una raccolta di poesie, aforismi, attimi di quotidianità presenti e passati, aneddoti.
Nel 2016 pubblica “Ritagli 2” con la casa editrice Arduino Sacco.
Tra il 2014 e il 2017 numerose opere sono state pubblicate in varie raccolte e antologie.
Nel 2019 ha pubblicato la raccolta “La densità del vuoto”, edita da Samuele editore.

 

 

 

 

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Tempo presente       ———————–

En paz oro, en guerra fierro   Gold in peace, iron in war   Oro nella pace, ferro nella guerra

(Motto della città di San Francisco)

Tre testi inediti

di Jude Luciano Mezzetta

What the street names of San Francisco are telling us

Well.
There is Faith
that dead ends
just north of Joy

but
there is no Hope
there is no Charity

and the Views
are everywhere.

Quello che ci dicono le strade di San Francisco

Beh.
C’è Fede
senza uscita
a nord della Gioia

ma
non c’è più Speranza
né Carità

e le si vedono
dovunque.

*

30 stockton bus, San Francisco

at the end of the line
they get out and steam
comes up from the asphalt

very early morning red eyes
hands bouncing in pockets

there must be a break
fast somewhere after all

on these very cross streets.

 

Il bus 30 Stockton, San Francisco

alla fine della linea
loro scendono e il vapore
sale dall’asfalto

gli occhi rossi del mattino presto
mani tamburellano nelle tasche

ci deve essere una sosta
svelta da qualche parte dopotutto

su questi incroci incazzati

*

Vermillion: Poem for the 1963 60th Class Reunion of Riordan High School in San Francisco

We were the vermillion boys
of the City’s golden age.

We were monks in denim riding the J,
K, L, M, and N cream and green streetcars
down Hispanic streets and algebraic avenues.

We were the orange vermillion boys
who knew never to stop painting the bridges.
We knew we were gold in peace, iron in war.
We knew the fog has forty-nine secret names.

We knew the highest mountain around was called Diablo.
We knew the sorrowful mothers in the valley of visitation.

We now know that sunsets are the color
of the flesh of the peach that surrounds the pit.

We now know we can feel the throat of the night.
We now know that there never is enough water.

Vermillion: poesia per la riunione della 60a classe della Riordan High School di San Francisco nel 1963

Eravamo i ragazzi vermiglio
nell’età d’oro della città.

Eravamo monaci in denim sui tram J,
K, L, M e N color crema e verde
lungo le strade ispaniche e i viali d’algebra.

Eravamo i ragazzi arancione e vermiglio
sapevamo che non avremmo mai smesso di dipingere i ponti.
Sapevamo di essere oro in tempo di pace, ferro in guerra.
Sapevamo che la nebbia ha quarantanove nomi segreti.

Sapevamo che la montagna più alta tutt’intorno si chiamava Diablo.
Conoscevamo le madri addolorate nella valle delle visite.

Ora sappiamo che i tramonti sono il colore
della polpa che avvolge il nocciolo della pesca.

Ora sappiamo che possiamo sentire la gola della notte.
Ora sappiamo che non c’è mai acqua abbastanza.

*

Feast of the Innocents
(Lerici, December 2013)

“And in Rama I hear the voice of Rachel.
She is weeping for her children. For they are no more”.

Now into the fortieth hour of fast
and twentieth day of intestinal pain
my wife says she is ready for the emergency clinic.

And for seven hours I wait in and out of the emergency room,
and I walk the garden of the hospital,
where the slope of the hill is steep several laurels
have been pruned, the cuts straight and clean
and white, white dust over the cut branches
still ungathered, and leaves still crisp,

and I walk the edge of the emergency room,
beyond the low rock border a sprawling palm
is dropping dark copper dates on the thin lawn,
on its own matted trunk and on the asphalt,
and a few roll towards me as I climb the road,
and I let them bounce and roll down the shoulder
and into the mossy drain.

After seven hours it is night when they call me.
They take me to the long corridor lined with gurneys,
and she is supine directly in front of me in the middle
of ten gurneys and she rises to meet me.

To the left and to the right of her
the bodies on the gurneys lie still,
their eyes are red, the mouths agape;
they will ride to the death floor.

Then I go to where they put her, in the overflow
ward, her bedside metal cabinet door will not open
for it is frozen shut with rust, and when I use the
electric command to call a nurse, it does not
work and the light that should shine does not.

Augustus said it was better to be Herod’s pig than his son.

And we the sons of the pathological state
to what Salem do we run
in the dead of winter?

Festa degli Innocenti
(Lerici, dicembre 2013)

“E in Rama sento la voce di Rachel.
Sta piangendo per i suoi figli. Perché non ci sono più

Siamo ormai alla quarantesima ora di digiuno
e al ventesimo giorno di dolori intestinali
mia moglie dice che è pronta per il pronto soccorso.

E per sette ore aspetto dentro e fuori dalla sala,
e cammino nel giardino dell’ospedale,
dove il pendio della collina è ripido parecchi allori
sono stati potati, con tagli dritti e netti
e la bianca, bianca polvere sui rami tagliati
ancora non raccolti, e le foglie ancora vive,

e cammino ai margini del pronto soccorso,
oltre il basso bordo roccioso una palma tentacolare
lascia cadere datteri di scuro rame sul prato sottile,
sul proprio arruffato tronco e sull’asfalto,
e alcuni mi rotolano incontro mentre salgo la strada,
e li lascio rimbalzare e rotolare lungo la spalla
nel muschio dello scolo.

Dopo sette ore è notte quando mi chiamano.
Mi portano nel lungo corridoio di barelle allineate,
e lei è stesa proprio di fronte a me al centro
di dieci barelle e si alza per venirmi incontro.

Alla sua sinistra e alla sua destra
i corpi sulle barelle giacciono immobili,
i loro occhi sono rossi, le bocche spalancate;
cavalcheranno fino alla morte.

Poi vado dove l’hanno messa, nel reparto
affollato, la porta dell’armadietto accanto al letto non si apre
è chiuso e congelato dalla ruggine, e quando schiaccio
il comando elettrico per chiamare un’infermiera, non
funziona e la luce che dovrebbe lampeggiare neanche si accende.

Augusto disse che era meglio essere il maiale di Erode che essere suo figlio.

E noi figli dello stato patologico
verso quale Salem stiamo correndo
Nel cuore dell’inverno?

(La traduzione in italiano è a cura di Sandro Pecchiari e Giovanni Fierro)

 

 

Il tempo senza tempo

Alcune note sulle poesie inedite di Jude Luciano Mezzetta

di Sandro Pecchiari

Le poesie di Jude Luciano Mezzetta in questo numero di Fare Voci fanno parte di una raccolta di poesie inedite basate su quanto ci rivelano i nomi delle strade di San Francisco, le sue coordinate geografiche e storiche. Sono quindi tutte poesie fortemente radicate nel territorio.
Però dai riferimenti precisissimi sulla città, dalle linee degli autobus municipalizzati che attraversano il centro finanziario, il quartiere cinese, quello italiano per terminare allo storico Presidio, al colore particolare del ponte che va ridipinto continuamente, dalla precisione delle dimensioni della città-contea riassunta nel numero quarantanove alla nebbia e vapore della città, emergono ricordi, citazioni di persone generiche, compagni di viaggio sconosciuti, ma anche di amici, suggerimenti di continuità e ripetitività nel lavoro che sottendono alla continuità nella cura, nell’attenzione del percepito e nella sopravvivenza attentissima in un quadro umano estremamente ricco e vivido.
Inoltre vi sono presenti numerosissime assonanze e giochi linguistici che rendono le sue poesie in qualche modo imprendibili e indefinibili: quanto più preciso il lessico tanto più evocativo. Aggettivi, sostantivi e verbi che richiamano altri vocaboli e che suggeriscono una lettura sussurrata e parallela, in un particolare “tempo senza tempo” immanente, in cui tutto coesiste nella mente del poeta.
Nella poesia su San Francisco, ad esempio, Faith and Joy si trovano nell’area di Bernal Heights. Le strade portavano il nome delle tre virtù teologali a Los Angeles nel suo periodo iniziale. Per contro a San Francisco la maggior parte di queste donne erano prostitute. E questi nomi si riferiscono a queste donne più che alle virtù, creando uno iato ironico e sorridente tra le due città.

Vermillion” è un peana all’epoca d’oro della città (dal 1915 al 1985 circa), dedicata alla riunione degli studenti della classe del 1963 alla Riordan School of San Francisco.
Ma il colore riporta immediatamente al colore rossiccio del cinabro, una specie di arancio rossastro che corrisponde al colore del Golden Gate, ma anche ai colori dei tramonti sull’oceano, al colore rosso beneaugurante della tradizione cinese e dei suoi numerosi ristoranti, e il colore dei vestiti delle cortigiane ubriache che danzano al tramonto nella poesia “Exile’s letter” di Li Po tradotta da Ezra Pound. Ma ancora scendendo nel profondo, il colore della polpa delle pesche attorno al nocciolo, dove ci si rende conto che si può percepire la gola della notte nell’arsura. E la poesia diventa quindi un inno all’osservazione globale, al continuo prendersi cura dei luoghi delle persone, dei ricordi, degli oggetti, di sé stessi.
Ancora più evocativa e contemporaneamente elusiva è “30 Stocktown”, dedicata ad un amico e collega dello scrittore. Qui i vocaboli spesso si spezzano creando una specie di spidergram di più letture possibili. Un esempio per tutti la scelta di break/fast, che richiama immediatamente alla prima colazione, ma spezzata e posizionata su due versi sottende e agogna un rallentamento nel ritmo della fretta mattutina e contemporaneamente uno scatto in accelerazione verso la routine quotidiana.
Il “somewhere after all” è la risposta elusiva e abituale ad un possibile luogo dove una variazione del ritmo affannato del quotidiano diventa possibile. Inoltre “break” suona come “brake”, frenare. Si addensa quindi una compressione di più significati; al lettore la gioia di districarsi tra le diverse associazioni.

 

L’autore:
Jude Luciano Mezzetta vive a Lerici dal 1984, anno in cui vi si è trasferito da San Francisco. Le sue poesie e romanzi sono stati pubblicati dal 1971 in libri, antologie e riviste come Invisible City, Amherst Review, Poets West, OR, Tam Tam (Italia).
È nato nel 1945 in provincia di Parma ed è emigrato con i suoi genitori a San Francisco, California nel 1949. Ha una laurea A.B. in Inglese presso l’Università di California, Berkeley e sempre in Inglese un M.A. con lode presso l’Università di Idaho, Moscow.
Ha insegnato in diversi college ed università quali l’Università di San Francisco, il Fleming College di Firenze e l’Università di Maryland (Professore di Letteratura Inglese per le truppe americane in Europa). La sua più recente pubblicazione “Longitudes”, “Longitudini” in italiano, è una piccola collezione delle sue poesie (1969-2009) in edizione bilingue. La casa Editrice è ETS di Pisa .
Nel 2005 un libro con le sue interviste a Jack Hirschman, Ed Sanders, Steve Lacy, e Lawrence Ferlinghetti intitolato “L’impermeabile di Kerouac” (“Kerouac’s Raincoat“) è stato pubblicato dalla Società Editrice di Firenze.
Le opere di Mezzetta sono apparse in riviste letterarie ed antologie insieme a poeti americani quali Paul Vangelisti, Jack Hirschman, Gary Snyder, Sam Hamill, Amiri Baraka, Charles Bukowski, Richard Wilbur e James Merrill.
Quattro delle sue poesie sono incluse in “Poesia Sin Fronteras IX, antologia hispano norteamericana, edicion bilingue”, pubblicato ad aprile 2024. Gli editori sono i poeti spagnoli Jaime B. Rosa e Russell DiNapoli. La casa editrice è Huerga y Fierro di Madrid.
Il volume contiene 537 pagine. Il testo è in inglese e in spagnolo. È incluso fra i poeti nordamericani come Wendell Berry, e poeti laureati degli Stati Uniti come Pinsky, Dove, e Harjo. Scrive quasi sempre in inglese.

 

 

 

 

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Visioni “Black and white”

di Grazia Russo

 

 

 

 

Margini. Di poesia e d’altro          ——————–

In quale antro di me domandavo

Mariangela Gualtieri, “Bello mondo” e “Ruvido umano”

di Roberto Lamantea

È un amore ferito ma ostinato e luminoso per il mondo quello di Mariangela Gualtieri. Mariangela titola “Bello mondo” l’antologia delle sue poesie e “Ruvido umano” il nuovo libro, entrambi pubblicati quest’anno da Einaudi. Uno spostamento di sguardo. È una poesia famosa da “Paesaggio con fratello rotto” – uno dei lavori più belli del teatro contemporaneo – a invitare a non credere “a chi dipinge l’umano/ come una bestia zoppa e questo mondo/ come una palla alla fine./ Non credere a chi tinge tutto di buio pesto/ di sangue. Lo fa perché è facile farlo”. Siamo solo confusi ma “sentiamo ancora./ Siamo ancora capaci di amare qualcosa./ Ancora proviamo pietà”. Una poesia di “Fuoco centrale e altre poesie per il teatro” (2003) ripresa nell’antologia si conclude così: “Io ho avuto soccorso a volte da/ una piccola foglia, da un frutto così/ ben fatto che dava sollievo a mio/ disordine di fondo”.
In “Ossicine” confida: “Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i vestiti, parole strade e fiumi parole barche affilate”. Forse sono i bambini a sostenere il mondo, dice Mariangela (ricordate “Il mondo salvato dai ragazzini” di Elsa Morante?), gli animali, i cuccioli, i fiori, l’acqua, la quiete di una casa, tutto ciò che è fragile.
Sembrava che ogni speranza fosse indecente, scrive in “Eppure” da “Ruvido umano”. “Eppure”: la chiave è la parola “eppure”: “Aprile apriva/ milioni di gemme le trasformava/ in foglie d’un verde piccolo./ Eppure. Ogni bambino/ ogni bambina rideva ancora”. Quella bellezza c’era: nelle piante, nelle nuvole, nel capriolo, nel tasso, il picchio, il cardellino: “Tutto. Era fatto di splendore. Solo/ per noi non splendeva. […] La bellezza ancora. C’era”. E l’amore diventa laude, “cantico delle creature”: “ringraziare desidero il divino/ labirinto delle cause e degli effetti”.
Ma amare la bellezza, gli animali, i fiori, le foglie, i bambini significa ancora essere feriti: “Mi appaiono i miliardi di animali/ che teniamo rinchiusi malamente/ e poi mangiamo. Vedo i musi. I becchi./ Le squame sanguinanti. Ho pena./ E l’umano guerreggiato. E quelli che hanno/ fame. Quando l’orrore è grande/ non si piange nemmeno”.
Ruvido mondo dove “qualcuno uccide/ con le mani bambinelli/ piccoli Gesù come si uccidono/ galline”. Come nell’infanzia vedevamo la vicina prendere i conigli per le zampe e sbatterli sulla pietra. Eppure “Sorgono ore d’oro/ mentre l’albero ragiona/ per regalare foglie/ alla primavera”. Eppure “tu canta la terra/ ciò che è vivo in lei e adesso/ così forte sta tremando”.
Poesie da dire nell’incanto fonico di vocali e sillabe – “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia” è il libro del 2022 che riprende nel titolo una formula di Amelia Rosselli sulla poesia come teatro della voce – con gli occhi chiusi e, sulle palpebre, disegnati altri occhi, come le attrici del teatro Valdoca, che Mariangela ha fondato con il marito Cesare Ronconi nel 1983: “Chiudevo gli occhi/ e dentro gli occhi chiusi/ altri occhi sgomenti/ restavano accesi”.
Gli occhi di Mariangela Gualtieri sono chiari e dolcissimi. E dolce è il suo viso: “Prendevo il mondo/ dentro me. Lo pettinavo./ Gli dicevo pianino/ stai buono. Sii paziente/ con noi. Miglioreremo/ siamo qui da poco./ Ancora non capiamo/ e ci agitiamo troppo./ Ancora guerreggiamo”.
Mondo sii, e buono” è la lettera di Zanzotto al mondo in “La beltà”. Proprio il poeta di Pieve di Soligo è in controluce in versi come “Quale cuore mancante/ così traboccante di mancanza// quale giocondissima mente/ è esplosa al suo centro” (“Interrogazione alla primavera con pericolosa rima finale” da “Bestia di gioia”; la pericolosa rima finale è amore/fiore, per Saba “la più antica e difficile del mondo”). Tanti gli amori di Mariangela: su tutti Amelia Rosselli, Mario Luzi, Dante.
“Ruvido umano” si conclude con le poesie civili e d’occasione scritte su invito: dalla pandemia a Ustica all’invasione russa dell’Ucraina: sempre con il suo sguardo azzurro, desolato e dolcissimo, mai arreso.

 

   

Dai libri:

Io sono dei vostri, alberi, sono dei vostri
animali eleganti, io sono dei vostri. Credetelo.
Ci separa un niente, colore, capello,
piccolo piccolo nome: l’impianto del
respiro è solo apparente diverso.

Ci guarderemo fraternamente.
Ci capiremo con l’albero e col seme,
capiremo l’insetto e la grandine.

Risplendiamo. Adesso.
Essere il mondo, voglio. Sentirmi
a casa nel cosmo. E le maree saranno
la strada del gonfio cuore. Sarà d’amore.
E luce voglio. Così m’impetalo, che mi spensiero,
che rido mentre corro come la rondine,
mi moltiplico a stelo, gocciolo, mi biforco,
mi alzo e tramonto, mi slargo, mi infaldo,
divento cima e svetto, mi innevo e frano.

Tutto questo io voglio, dolcemente, perché
fuori dell’umano il dolore è uno sparo
minimo e la più gran parte è ridere,
mi pare, e il grande canto.

Lo senti il firmamento? Com’è sereno!
Anche noi siamo dentro.
Abbiamo polverine nelle vene, antiche come il cielo,
sono disciolte nel sangue e hanno dentro
l’impronta di un andare semplice e grande,
come le grandi sfere. Abbiamo sfere nel sangue,
cartine geografiche con strade d’argento,
e vedute telescopiche fino ad
Aldebaran. Abbiamo Vega nel sangue
la stella prodigiosa, e istruzioni precise
per il viaggio per l’appontaggio
e coraggio abbastanza per ogni volo.

da “Fuoco centrale”, in “Bello mondo

*

[…]
Sii tu dentro un pensare che risana
in calmo soffio cerebrale,
in palpito, in assetto d’ascolto
permanente, in cantico o ninna nanna
del mondo scorticato, rotto, tutto pesto.

Prendilo tu fra le braccia questo mondo
con semplice toccare
piano e piano fare i tuoi passi.
Deponi ogni meta frettolosa.
Prendilo tu fra le braccia che non pesa
questo derelitto mondo rovinato.

Sia tua la follia di chi crede
che uno soltanto, che una
che il fare di una basti –
in semina d’un coraggio che accende
e pretende per tutti espressiva
vita – per tutti – per un tutto anche
di foglie e di prato, di onde
pettinate e abbaglianti nuvole
bianche. E bestie ben sistemate
nel loro selvatico sacro.

da “Parole a sé stessa”, in“Ruvido umano

*

Salute a te dolore!
Arrivi a grandi passi
dal centro commerciale della terra.

da “Ruvido umano

*

Portavo un silenzio alla foce
un altro ne tenevo dentro me.

Le camminanti dune, le selvatiche
magnifiche dune in perfetto disordine
sollevate dal respiro della terra
spettinate di crescite strane
le dune bestie accucciate distese
erano un tale arcaico panorama.
In quale antro di me domandavo
in quale solitudine neonata
si ergeva quella massa stregata
dialogante fra piante e un chiaro
di sabbie. Un verde pallido
di foglie spinose e collane di impronte
molto piccole. Questo è il luogo
delle più strane fortissime vite
principio e fine stanno abbracciati
in un’antica sete battagliata
in dormiveglia assetato, in affondi
in soffocati passi su troni di polvere.
Quanta dura forte vita nelle dune.
E come sono mute le dune e sole
e spaventose. Divorano ogni nome.

da “Ruvido umano

 

L’autrice:
Mariangela Gualtieri (Cesena 1951), poeta e drammaturga, comincia a scrivere in seno al Teatro Valdoca fondato insieme al regista Cesare Ronconi, suo marito.
Fin dall’inizio cura la consegna orale della poesia – con letture di versi in Italia e in vari Paesi del mondo – dedicando piena attenzione all’apparato di amplificazione della voce e al sodalizio fra verso poetico e musica dal vivo.
Dal “Requiem” scritto per le musiche della compositrice Silvia Colasanti, alla collaborazione con Lamberto Curtoni e Simone Rubino (“Il ritmo della terra”), ai più recenti concerti: “Porpora”, con il pianista Stefano Battaglia, “Acqua Rotta” con il violoncellista Mario Brunello, “Bello mondo” con Uri Caine e Paolo Fresu.
La sua attività pedagogica è ininterrotta, con laboratori di scrittura e di lettura di versi al microfono.
Tra i suoi testi più recenti: “Antenata” (1992 e 2020), “Bestia di gioia” (2010), “Caino” (2011), “Sermone ai cuccioli della mia specie” con cd audio (2012), “A Seneghe. Mariangela Gualtieri/Guido Guidi” (2012), “Le giovani parole” (2015), “Beast of Joy, selected poems” (Chelsea edition, New York 2018), “Quando non morivo” (2019), “Paesaggio con fratello rotto” (2021), “A braccia aperte” (2022), “L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia” (2022).

(Mariangela Gualtieri “Bello mondo”, con 8 disegni a colori dell’autrice, pp. 98, 10 euro, Einaudi 2024)
(Mariangela Gualtieri “Ruvido umano” pp. 124, 12 euro, Einaudi 2024)

 

 

 

 

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Suggestive, misteriose immagini senza tempo e luogo

di Grazia Russo

 

 

 

 

Libroelibro      ———————–

Portare il fuoco agli uomini

Chiara Mercuri, “La nascita del femminismo medioevale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese”

di Anna Piccioni

C’è bisogno di un saggio come questo, per sapere che le idee e le rivoluzioni a volte hanno inizio molto lontano nel tempo, ma che poi per volontà di poteri più forti vengono sepolte, oppure raccontate con mezze verità.
Venire a conoscenza che nel XII secolo una donna ha avuto il coraggio di liberare il corpo e l’animo femminile dalle catene in cui la Chiesa e il Patriarcato l’avevano rinchiusa, è veramente una scoperta eccezionale. Tutto ciò lo dobbiamo a Chiara Mercuri, storica, saggista e traduttrice, con questa sua pubblicazione, “La nascita del femminismo medioevale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese”.
In questo saggio ogni pagina è ricca di informazioni storiche, e proietta il lettore nelle atmosfere e nel fervore intellettuale della Francia e dell’Inghilterra del XII secolo.
Chiara Mercuri ci fa conoscere Maria di Francia, figlia del re Luigi VII, nata nel 1145. Sposerà il conte di Champagne e sarà una scrittrice di numerosi componimenti a tema amoroso.
I suoi contemporanei parlano di lei come di una donna consapevole, tenace e convinta del valore liberatorio delle sue opere. Fu anche molto coraggiosa nell’affrontare temi che all’epoca avrebbero potuto portarla a conseguenze persecutorie.
Grazie alla sua posizione, e all’appoggio degli uomini della sua famiglia, fu una donna libera di trattare argomenti che per il tempo erano poco ortodossi. Maria è scrittrice e poeta, con la sua opera “Lais”, scritta in volgare, esprime le sue teorie sull’Amore, per “portare il fuoco agli uomini”.
“Per Maria l’amore stesso è poesia e non può essere svilito con la gelosia, il risentimento, l’istinto feroce al possesso e alla vendetta” (pag 8). La sua mentalità, così libera, è dovuta all’educazione ricevuta, e alla sua cultura.
Chiara Mercuri ci racconta che, dopo l’arresto della madre per adulterio, Maria è impegnata in discussioni con donne e uomini sui temi del matrimonio, sulla gelosia, sui rapporti sessuali e matrimoniali, “e poté assistere che la fine di un matrimonio non fu la fine della regina, ma anzi Eleonora si risposò con il re d’Inghilterra“.

Ma anche questo matrimonio non avrà esito felice. Le sfortunate vicende della madre che, pur essendo regina prima di Francia e poi di Inghilterra, non riuscirà a cambiare il suo destino, influenzano le idee “rivoluzionarie” di Maria sulla condizione delle donne.
Maria di Francia è una donna che ha dato inizio all’”amor cortese”; non quello delle dame e dei cavalieri, ma quello inteso come amore che nasce dalla nobiltà d’animo, che non ha niente a che vedere con la nobiltà di censo. Lo stesso a cui si ispirano i poeti stilnovisti a cominciare da Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti e Dante Alighieri; “A cor gentil reipara sempre amore” scrive difatti Guinizzelli, nella famosa canzone con cui decreta il codice del dolce stil nuovo.
Vicino a Maria si pone Andrea Cappellano autore del trattato “De amore”, un manuale in latino, usato per diffondere una nuova grammatica delle relazioni erotico-sentimentali; lo stesso Cappellano fa riferimento a Maria come esperta sui temi d’amore.
Ma non basta un manuale sul tema dell’amore, per Maria è necessario anche un romanzo, genere narrativo che rapisce meglio il cuore e la fantasia di chi lo legge. Così commissiona a Chrétien de Troyes il raccontare l’amore di Lancillotto e Ginevra, entrando nella tradizione del ciclo bretone in lingua d’oil.
La donna è portatrice d’amore, l’adulterio non è peccato, la donna ama con tutto il suo spirito e il suo corpo un amore fatto di baci, di saliva, di sudore: questa è la rivoluzione di Maria di Francia.

Intervista a Chiara Mercuri:

Considerata la vastità di informazioni e la ricca bibliografia del suo  libro, le chiedo, quanto ci è voluto per arrivare alla pubblicazione di questo saggio?
I saggi nascono di norma da quesiti antichi… La mia ricerca sull’”amore cortese” – sulla sua reale portata intendo – parte da molto lontano, dall’incontro con Alberto Asor Rosa, mio maestro alla Sapienza.
Asor Rosa ha sempre sostenuto che il Dante della Commedia non fosse uno scrittore religioso, ma uno scrittore dell’”eros”, e che si dovesse indagare quella pista.
In quegli anni, era difficile anche per lui proporre nuove sistemazioni nel nostro pantheon letterario, ormai musealizzato; nonostante Asor Rosa fosse il fuoriclasse della critica letteraria che oggi conosciamo.
Certo, allora né lui né io sospettavamo che dietro l’”amore cortese” ci fosse l’azione di una donna e che quel tipo di eros fosse una rivendicazione femminile e femminista: la sacrosanta aspirazione delle donne ad essere amate secondo il proprio desiderio, dopo che per secoli avevano dovuto subire, anche nel letto, solo quello maschile.
Per arrivare a questo ci sono voluti, in effetti, lunghi anni di studio in Francia e una frequentazione sempre più costante con i testi medievali.

Nella premessa lei spiega ai lettori le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere questo saggio. Ci sono ancora personaggi da scoprire?
Ormai ho imparato la lezione: non esistono epoche in cui le donne non si sono espresse. Esistono solo epoche – come il Medioevo – in cui le donne sono state sistematicamente estromesse dai processi collettivi di elaborazione di concetti e di significati, e quindi il loro apporto è più difficile da rintracciare.
In ogni caso c’è stato e, pertanto, affrontando le fonti con lenti diverse si potranno individuare molte altre voci femminili di rilievo.
Ciò che è mancato ai primi codificatori dell’”amore cortese”, i Romantici, è stato proprio uno strumento ermeneutico adeguato. Oggi quegli strumenti li possediamo, e credo appaia a tutte e tutti evidente che la nostra Letteratura delle origini, tutta “cortese” per definizione, è – non a caso! – “sorprendentemente” dalla parte delle donne.

Quanto ha contribuito alla “rivoluzione” di Maria di Francia il territorio dove è vissuta?
Moltissimo, perché i primi anni del regno di Enrico II Plantageneto, quelli in cui Maria ha frequentato la ‘francesizzata’ corte inglese, hanno coinciso con gli anni in cui la cultura nobiliare francese ha tentato una vera e propria rivoluzione sociale: una prima larvale femminilizzazione della società, dopo i secoli bui, per le donne, dell’Altomedioevo.

Da dove nasce la Sua passione per il Medioevo, un’epoca che spesso i manuali scolastici “liquidano” come un’età percorsa da superstizioni e pregiudizi?
Dall’ammirazione per il movimento delle “Annales”. Quando ero al liceo, “Les Annales” erano per noi la “nuova Storia”.
Una storia a vocazione globale, non più lista dei papi e degli imperatori, guerre di conquista e ridefinizioni territoriali, ma Storia delle società, delle masse, dell’immaginario.
Una storia che si faceva col concerto di tutte le discipline: l’archeologia, l’iconografia, la paleopatologia, l’agiografia, la filologia, la musicologia, l’innografia, la liturgia, la linguistica storica, la demografia…
Quella Storia era per me soprattutto la Storia di tre grandi medievisti, Marc Bloch, Emmanuel Le Roy Ladurie e Jacques Le Goff.
L’ultima volta in cui ho incontrato Le Goff, nel 2012, nella sua casa al Canal Saint Martin, mi ha consegnato un libro con dedica: una manciata di parole che però, ancora oggi, mi fanno ritenere di non aver sbagliato a scegliere “i secoli bui”.

 

L’autrice:
Chiara Mercuri (Roma, 1969) è storica, saggista e traduttrice. Insegna Esegesi delle fonti medievali all’Istituto Teologico di Assisi, Pontificia Università Lateranense. Si è specializzata in Francia in Storia medievale. Ha lavorato con prestigiosi enti di ricerca italiani e francesi, tra cui l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, che le ha conferito, nel 2012, il premio per la monografia Saint Louis et la couronne d’épines.
È stata redattrice della rivista Sanctorum ed è referente scientifico della rivista francese di storia e letteratura Mabillon. Ha scritto per Medioevo, Moyen Age, Avvenire, Atlante Treccani e BBC History.
Tra le sue pubblicazioni: “La Vera Croce. Storia e leggenda dal Golgota a Roma” (Laterza 2014), “Francesco d’Assisi. La storia negata” (Laterza 2016) e “Dante. Una vita in esilio” (Laterza 2018).

(Chiara Mercuri, “La nascita del femminismo medioevale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese” pp. 204, 22 euro, Einaudi 2024)

 

 

 

 

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Suggestive, misteriose immagini senza tempo e luogo

di Grazia Russo

 

Voce d’autore        ———————-

Dal finestrino so immaginare abissi

Doris Bellomusto, “A corpo libero. Esercizi di poesia”

di Antonello Bifulco

C’è un luogo della vita, prima che si cominci a parlare, chiamato corpo. È un luogo che andremo a visitare come si fa con i sentieri quando non li conosciamo, è un luogo che non ama le parole ma le raccoglie quando cadono dagli alberi lungo le stagioni, e rimaniamo nell’attesa di qualcosa di compiuto, di sillabe che ci porteranno dove suona il vento di maestrale, dove impareremo a masticare lentamente tutti i colori dei nostri sogni. Poi saremo corpo e parole, silenzi e lettere, anzi saremo lettere “se mi cercate sono nascosta tra le lettere del mio nome”, saremo china sopra un foglio non più bianco.
A corpo libero” di Doris Bellomusto è un libro di addizioni e di sottrazioni, un libro di piena consapevolezza che ci racconta chi siamo e quanto fragili siamo, che mette in evidenza quali sono le priorità della vita, raccontandoci che si può rinunciare alla perfezione ma mai all’amore.
Silloge di poesie che dell’amore ne fa il tema principale, declinato in tutte le sue sfumature a partire dall’amore per un figlio che “è un’anticipata nostalgia del presente”, all’amore per quel sud che è allo stesso momento ogni stagione, ogni mese, è il tempo che passa, che è passato, e forse è quello migliore. Lei prende e va a capo, scende al sud, va a vivere quei margini del foglio che non ha mai dimenticato, il suo corpo al sud è un intrigo di lettere e parole, a sud c’è chi resta e semina sogni, c’è chi resta e fa la differenza.
Due capitoli per questo infinito libro di poesia: “IERI – Come le rondini al cielo” e “OGGI – Come lucertola a sole”. Il primo capitolo è una fonte di propositi che si sono realizzati, materializzati grazie al figlio, e si respira subito di meraviglia: “Sviscerare il cuore./ Seguire il vento./ Accarezzare il profilo/ delle cose./ Annusare nell’aria/ le stagioni./ Aprire il cuore come si apre/ all’alba una finestra./ Respirare il cielo”.
I primi versi sono subito un pugno gentile a ciò che vorremmo per noi, per i nostri figli per chi vive le nostre parole, respirare l’impossibile e accarezzare anche solo l’idea di una cosa, una qualunque cosa.
Nella seconda parte del libro c’è la consapevolezza delle cose fatte e di chi siamo ora, dove farsi “regalare l’intenzione di un amore inesistente” non lo si fa per pura noia ma per amarsi ancora, dove i respiri del tempo che si addensano sui vetri sono gli anelli di un albero che è cresciuto, dove le parole sono sentiero, precipizio e gorgo, dove è bello farsi regalare menzogne buone per poi dividerle con gli amici.
Sono poesie che chiedono di ascoltare, che amano l’incompiuto di una promessa tradita, poesie che raccolgono il marginale come raccolto utile, il raccolto di una vita che ha smesso di “rendere il vuoto” ma che continua a riempire di colori le tue pagine bianche, poesie randagie per una poetessa che tale è ed “invidia chi sa dove vuole andare” seguendo la sua strada fino in fondo. Randagia come chi ha ancora tante “bugie da spendere e promesse da tradire”; stare, poi, davanti ad uno specchio raccontandosi delle bugie girando attorno alle fragilità per appartenere a qualcosa, a qualcuno, all’amore “perché sa di pane e di latte la nostalgia di un amore, ciò che rammenda memorie e ricama ricordi”.
Una poetessa che sa cosa è giusto rubare, che ti porta a smarrire la strada con un salto, con uno sguardo, con un sorriso, che vestita di elegante apprensione non si accorge di viverci accanto, di narrarci come a dispetto del tempo si possa ancora consumare tutto l’avanzo dei desideri.
Poetessa che si strugge per i suoi versi maldestri e le rime abusate, per gli assi nella manica che ancora non ha imparato a giocare, poetessa che si fa preghiera, nostalgia e presenza “Sono un miscuglio di cellule e mistero/ la somma di mille vite non mie,/ la sottrazione di tutto il tempo futuro/ che la mia età non sa contenere”.
La poesia è in grado di tenerci in equilibrio anche quando un equilibrio non c’è, la poesia è sottrazione di tutto e di niente, la poesia è una favola che non conosce mai la sua fine e comunque ricordatevi che “delle favole è bello solo l’inizio: C’era una volta…”.

 

Dal libro:

Una domanda

La talea di una rosa,
rubata per amore,
nella terra umida
della mia aiuola
non è più ospite
timida e vulnerabile.
Con me, con me,
dimezzata,
ha messo radici
in questo frammento di terra,
che al tramonto regala nostalgie.
Foglia da foglia,
per talea moltiplico primavere.
Moltiplico piccole illusioni di felicità,
ne sarò mai sazia?

*

L’incanto di sempre

Inciampo sempre
in fragili incanti.
Invidio il fiore e
la farfalla,
la lucertola al sole.
Forse,
un giorno inciamperò
nello specchio giusto e
mi vedrò
per quel che sono:
fragile incanto anch’io
minuscolo frammento
di universo.

*

Alle sette del mattino

Quando esco alle sette del mattino
spesso incontro la luna e la rosa,
il canto della rondine
mi scivola in gola
capita che calpesti
il bacio della serpe.
Stamattina
ho camminato piano su tracce invisibili
e smosso l’aria di una terra di mezzo
dove io non ho dimora.
Sono salita su un treno
mi porterà in città
ma io dal finestrino so immaginare abissi.
Nel ventre della seppia è l’inchiostro
che traccia i miei liquidi confini
vivo in assenza di gravità
qual piuma al vento
muta creatura
di mare, nuvole e lune.

*

A latere

Vivo al margine del foglio
a latere.
Al mio nome risponde nello specchio
un corpo di lettere e parole.
Do il buongiorno alle ortensie
e non so come annunciare
al giardino la mia partenza.
Vado a capo.
Scendo al sud.
A piè di pagina
sarò una breve nota
per un po’.
Al confine del mio tempo
dimenticherò le rose e il gelsomino
la passiflora e le ortensie
la salvia e il rosmarino
il glicine, i gerani
le ore e i minuti
le chiavi appese all’ingresso
la casa e tutto il futuro che contiene.
Vado a vivere nel tempo sommerso dell’amore.

*

Come lucertola al sole

Non sempre l’amore si fa
spesso l’amore ci fa
distratti e ciechi.
Talvolta, a mani nude
Sfiora senza fiorire
se mai ci si arrende
all’abbandono.
Matura il corpo
acerbo e senza voce,
a volte, non vuole
il morso audace della fiera
cerca il ricordo fioco del travaglio.
Non sempre l’amore si dà
spesso l’amore si prende
con cuore avido e muto
e mai si dice,
perché non si può dire,
si può tradire,
senza gioia ne pena
col sangue freddo
della lucertola al sole.

 

Intervista a Doris Bellomusto:

Muriel Barbery nel suo “L’eleganza del riccio” ci consigliava di non usare il nostro corpo per attirare attenzioni, poiché si potrebbero trovare persone disposte ad usarlo. Nel tuo “A corpo libero” giri intorno alla bellezza dell’essere, alle fragilità, tornando sempre all’amore. Partiamo quindi dal titolo, perché “A corpo libero”?
Il titolo “A corpo libero. Esercizi di poesia” dichiara la mia intenzione di vivere la poesia come un esercizio quotidiano e libero, volendo superare il dualismo mente/corpo, che ancora a tratti condiziona il nostro sentire, esprimo a partire dal titolo la convinzione che anche il poetare chiami in causa il corpo.
Non c’è poesia senza percezione, non può esiste-re alcun sentimento disgiunto dalle sensazioni, siamo il corpo che abitiamo e i miei versi nascono dal tentativo maldestro di tradurre in parole la vita che vivo attraverso il mio corpo.

Nelle tue poesie tutto è accarezzato, annusato. Ci fai respirare ad ogni parola come se fossimo lì con te. Ti affidi completamente alla natura e della natura ne sveli l’anima nascosta. Scrivere per te sembra quasi completarsi con essa, il resto poi, come dici tu, è sottrazione. Che mi dici?
Scrivere in versi mi insegna a respirare con più consapevolezza, il verso chiede tempo, attenzione e misura. Si allenta il controllo sulla realtà, si scopre il valore dell’attenzione, dell’ascolto e dello sguardo.
Una poesia è per me un esercizio di presenza. Mi affido alla natura perché è sincera e so che ascoltando il silenzio delle nuvole posso proteggermi dal rumore eccessivo a cui tutti siamo esposti. I suoni, i rumori, i silenzi che possiamo trovare in natura ci restituiscono l’anima e ci insegnano l’arte difficile della sottrazione.
Se vogliamo scoprire l’essenziale, bisogna rinunciare al superfluo. Scrivere in versi è un esercizio di ascolto, traduzione, tradimento, sottrazione.
Una poesia nasce dall’ascolto, dal tentativo maldestro di tradurre le proprie sensazioni e renderle comunicabili, ma tradurre e tradire, non a caso, sono verbi simili, il tradimento io credo sia inevitabile, ma si può forse mitigare sottraendo al nostro sentire e al nostro scrivere tutto il superfluo che ci sovrasta.

Si dice che la poesia è un luogo dove si è vissuto, si dice che la poesia è un tempo che, una volta scritta, non c’è più. Per te la poesia che luogo è? Che tempo è?
Se è un luogo la mia poesia somiglia alla mia terra, quella Calabria ancora selvaggia e autentica che mi ha visto crescere tra gli anni ottanta e novanta e forse è così, forse scrivo per ritrovare quello spazio/tempo, per ritornare alla vitalità e all’anima di mia nonna, che serpeggia tra i miei versi e sotto la mia pelle ruvida è ancora viva e mi indica la strada.

“Ieri” e “Oggi”, sono due momenti della tua raccolta, i due capitoli che for-mano queste tue bellissime pagine, “Ieri – Come le rondini al cielo”, “Oggi – Come lucertole al sole”. Ci racconti la scelta di questi titoli?
“Come le rondini al cielo” è il titolo della mia prima raccolta di poesie dedicata a mio figlio, proprio perché i figli ci appartengono come le rondini al cielo e non al nido.
Ho sentito il bisogno di recuperare dall’oblio molti di quei testi, nati dal vertiginoso e turbolento momento della maternità, e capire chi sono diventata in questi anni, aggiungendo al primo nucleo della silloge una serie di testi che mi svelano per come sono oggi e mi dimostrano che, forse, ho imparato a vivere come lucertola al sole.

Ad introdurre i tuoi scritti una citazione di Patrizia Cavalli, “A me è maggio che mi rovina e anche settembre, queste due sentinelle dell’estate, promessa e nostalgia”. Ho potuto trovare molto della poetessa citata nelle tue poesie di questo libro, come ho ritrovato i colori, i silenzi e tutti i suoni della Iulita Iliopulu. Quali gli autori a cui sei più legata?
Non ho nomi da spendere, mi piace la poesia che non dimentica la concretezza dell’essere, mi piace la poesia semplice, ma non banale; apprezzo chi usa il verso con misura, gioca con i suoni e non disdegna il buon uso delle figure retoriche.
Mi piace chi conosce la tradizione e sa e può scegliere di stare nel solco oppure creare nuovi sentieri. Mi piacciono Omero e Virgilio, Saffo e Catullo; Leopardi e Gozzano; Montale, Saba, Ungaretti. Wislawa Szymborska.
Patrizia Cavalli ha un posto d’onore, mi incanta la semplice aderenza alla vita ordinaria, il suo saper accogliere storture e impurità. Sono nomi importanti, ma nel mezzo ce ne possono stare infiniti, che magari non conosciamo, perché non hanno pubblicato oppure perché hanno pubblicato con case editoriali fuori dal grande gioco dell’industria culturale.
I poeti e le poetesse è giusto non contarle, molti sono invisibili, come fossero stelle. A me piacciono anche i versi imperfetti che qualcuno ancora scrive sui banchi di scuola o sui muri delle stazioni. La poesia è ovunque, si nasconde e vuole essere cercata.

Se mi cercate, sono nascosta fra le lettere del mio nome”. C’è nelle tue poesie questo piacere di nascondersi per ritrovarti poi dopo dentro un sentiero, in un precipizio, in un gorgo di forti silenzi, dentro le attese che sono il luogo dove si incontrano gli amanti. La poesia per te è un luogo dove nascondersi o un luogo dove “il tuo cuore sa cosa è giusto rubare“?
Credo sia entrambe le cose, la poesia è nascosta e va scovata, spesso cercarla può significare doverla rubare. La poesia è sempre un Carpe diem.
Mentre parliamo il tempo è già in fuga, come se provasse invidia di noi: cogli l’attimo, sperando il meno possibile nel domani” (Orazio, Carme 1,11)
Orazio questo prezioso segreto ce lo ha trasmesso secoli fa e a dispetto del tempo oggi non perde significato, anzi nel nostro mondo frenetico guadagna a maggior ragione valore.

 

L’autrice:
Doris Bellomusto si è laureata in lettere classiche presso l’Università della Calabria, insegna materie letterarie presso il “Liceo G. Pascoli” di Barga (LU), dove vive dal 2011.
Ha pubblicato le raccolte “Come le rondini al cielo” (edizioni Tracce 2020”, “Fra l’Olimpo e il Sud” (Poetica edizioni 2021) e “Nuda” (Ladolfi editore 2022, secondo posto al Premio Nabokov per la sezione di poesia edita 2023/2024).
Suoi testi poetici inediti sono presenti in blog e riviste online, alcuni testi già editi sono stati ripubblicati all’interno dell’antologia “Riflessi, rassegna critica della poesia contemporanea” (Edizioni Progetto Cultura 2023, con nota di lettura a cura di David La Mantia).
È autrice del testo “Ti abbraccio, Teheran”, illustrato da Tiziana Tosi e pubblicato con Le Pecore Nere, nel 2023. L’ albo è stato presentato all’interno del Festival Laudomia di Cosenza, alla Fiera dell’editoria delle donne 2024, presso Casa internazionale delle donne di Roma, e al Salone del Libro di Torino.
È direttrice della collana di poesia “Foglie”, per Le Pecore Nere editore.
www.lepecorenereeditorial.it

(Doris Bellomusto, “A corpo libero. Esercizi di poesia” pp. 118, 12 euro, Le Pecore Nere Editore 2024)

 

 

 

 

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Visioni “Black and white”

di Grazia Russo

 

 

Voce d’autore        ————————-

Dagherrotipo dell’angelo insano

Claudia Zironi, “La camera era rossa”

di Giovanni Fierro

La mia camera era rossa. Non del rosso di un/ placido papavero nel sole, non un rosso sangue/ rappreso, neppure un corallo, bensì di un rosso/ acceso, iroso, senza nome, un rosso sesso, un rosso/ arterioso”. Il tempo è un luogo in cui si può entrare, ma anche un posto da cui non uscire più. Claudia Zironi in questa sua nuova raccolta “La camera era rossa” lo esplora, varca soglie che le permettono di raccontare e dire, “affronta la società contemporanea e il suo rapporto con gli oggetti e il consumismo, la materialità, l’alienazione e la ricerca di significato in un mondo dominato dalla frantumazione. Ma non si limita a questo, esplora anche il ricordo, la leggerezza e la felicità della gioventù trascorsa in luoghi comuni ma carichi di significato personale”, come ha ben scritto Riccardo Frolloni, in apertura di libro.
I suoi testi sono dunque un trovare memoria, per dire che “un tempo era facile rompere le vetrine: i/ sampietrini si trovavano a terra, le esposizioni/ erano riconoscibili, i sensi di colpa erano/ evidenze”; e così tratteggia una appartenenza sociale, per i nati tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’70 del Novecento, in un continuo confronto fra ciò che è stato e ciò che è ora, “la guerra fredda, le guerre in TV, una guerra al confine di casa per/ dieci anni e ora una più lontana che ci hanno detto che è la/ nostra”.
Non si spaventa nell’indicare accadimenti e situazioni, ricordi che ancora adesso possono fare male, ma che sono la nostra identità, costruiscono il nostro ritratto.
“La camera era rossa” è questo invito a non accontentarsi di facili nostalgie, quelle che sono capaci di ammaliare la propria ragione critica, per poter sopravvivere con ricordi da cartolina, con un effetto souvenir della nostra giovinezza. Anzi, Claudia Zironi in queste pagine usa uno sguardo per nulla arreso, capace di interrogare le pieghe di un tempo che a volte è stato inclemente con chiunque, ricordando però che “fummo distesi ed eretti, fra le cosce occhi di/ gabbiani, l’alba, fummo varchi e passaggi”, e che questo è stato però solamente il prepararsi ad un presente impietoso e cannibale dove “intanto, che la gente si abitui – pian piano – a/ morire, non alla bella morte scritta alla nascita nel/ sangue: che si abitui alla morte antieroica e inutile,/ al sacrificio, alla propria sostituibilità, alla legge/ del più forte”.
Perché alla fine i conti si fanno sono con la realtà degli eventi, ai quali non ci si abitua mai: “infine a terra – alla Diaz di Genova – restarono del sangue/ le pozze e di intere generazioni la sconfitta”.
E agli slanci di una gioventù che era la certezza di uno sbocciare (“Me lo hanno insegnato da piccola, a scuola, che bisogna/ desiderare prima di essere buoni, poi intelligenti, poi – il/ superfluo – belli, solo poi, ricchi, da grandi”) ora si contrappone uno smarrimento, che è lo smarrimento stesso del tempo odierno: “Non so dove sono, ma qui c’è qualcosa, qualcosa che ci/ consuma. Non possiamo fuggire, non sappiamo. Non sappiamo/ neppure come ci siamo arrivati, qui”.
La poesia Claudia Zironi è l’impegno e il rispetto che si deve a sé, al proprio vivere, al proprio appartenere a questo mondo, caotico e in crisi, fragile e violento. E questo è lo scrivere che anima la sua “La camera era rossa”: “Ho cercato il bene e la luce dove non c’erano, ho/ cercato la prova che ovunque ci fossero luce e/ bene”.

 

Dal libro:

Era il tempo del padre e della madre, della casa,
della neve sui tetti, delle rondini che tornavano a
primavera, del balcone con le formiche, della
nonna che mi insegnava a lavorare a maglia, e il
primo schermo in bianco e nero – senza
telecomando – dispensava film già vecchi dopo
Carosello. Era il tempo della verità – nemmeno tu
avresti avuto dubbi sul luminoso futuro che si
prospettava – Il corpo che cresceva era un
percepito appena, lontano come la vecchiaia. Era il
tempo del padre e di un piccolo mondo perfetto,
nel cortile anni Sessanta.

*

Quando le luci si spengono cominciano i sogni, si
addolciscono i ricordi, prorompe il valore dei
rossi. I tre papaveri al bordo della strada non ti
hanno visto mai eppure… eppure loro splendono,
e tu come buio sei vivo. Quando si spengono le
luci cerchi le labbra e il corpo caldo dell’amante,
specchio del senso, àncora al mondo, radice
vegetale del letto, dagherrotipo dell’angelo insano.
Beata la cecità dei vivi! diceva quel morto di mare
– solo nel ricordo la verità del mondo, solo quando
la tua luce sarà spenta mi incontrerai di nuovo.
Bella del nero, sarò il tuo fiore grato, il ramo
proteso, l’acqua benedetta dal perdono.

*

Fingiti viva finché ti è concesso. Fingi di bere,
mangiare, dormire – guardare la luce, percepire i
colori – fingi di imparare, fingi coraggio, cammina
nel mondo, raccogli la pioggia – respira – respira
– respira – respira – respira…

*

Ci sono giorni in cui esistono solo vuoto e
impotenza, la speranza carogna si sbatte il
cervello, la faccia è uno straccio, il cuore fa rumori
disturbanti, le cose importanti attendono
inutilmente la compagnia delle azioni, la memoria
è appesa selettivamente a quello che le pare e il
sonno pure, i colori si portano appresso un fardello
grigiastromarroncino, un capello bianco si stacca
dal capo e cade apposta, beffandoti, sulla tastiera
che hai davanti, chi attende una tua voce continua
ad attendere, la voce che attendevi si è spenta in
un buco nero e profondo, fa un caldo stranostrano:
forse i portoni dell’inferno si sono aperti.

 

Intervista a Claudia Zironi:

In questo tuo nuovo lavoro emerge chiaramente il desiderio di raccontare, di rendere partecipe il lettore di una storia, nella quale poter essere accolto. Da cosa nasce tutto questo?
Innanzi tutto, ti ringrazio Giovanni per il tuo interesse per il libro e per queste domande che mi danno la possibilità di esporre un’ulteriore riflessione oltre gli scritti che lo compongono.
Ho sempre creduto che il lettore sia un elemento da tenere in considerazione e rispettare nel momento in cui si compone un’opera, e in questo caso lo è ancora di più in quanto l’intenzione dell’intera composizione è di tracciare uno spaccato generazionale in cui le persone nate tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’70 del Novecento si possono riconoscere, mentre agli altri può dare un’idea del vissuto esperienziale e psicologico di chi viene da quel periodo.

E questi tuoi testi vivono di un passo narrativo, che si discosta dal ritmo poetico. A cosa è dovuta questa scelta?
Negli ultimi anni, dopo l’uscita nel 2020 di “Not bad” (Arcipelago Itaca), ho preferito sperimentare nell’ambito della prosa propriamente detta e nell’ambito della prosa poetica. Quest’ultima, in particolare, l’ho trovata affine al mio attuale sentire e pormi nei confronti della scrittura in quanto dal lettore viene percepita meno “scostante” per l’assenza della separazione in versi, pur mantenendo della poesia le caratteristiche di ritmo, di sinteticità, la possibilità di chiuse forti, e al contempo consente una facile alternanza, dove si voglia, di picchi poetici e di cadute prosastiche e colloquiali.
Dico questo cosciente che dare una definizione di prosa poetica così come darla di poesia non è facile. E anche il mio libro precedente a questo ultimo, “Tratteggi friulani” (qudulibri, 2023), è scritto in prosa poetica.

In questo tuo scrivere la scrittura rivela toni pittorici, lievi pennellate, parole che diventano atmosfera, e che a volte si scontrano con tematiche dure ed aspre. Mi sembra sia una bella tensione, che dà ulteriore vitalità al libro… Cosa ne pensi di questo?
La tensione, una certa resistenza del testo, ma soprattutto avere qualcosa da dire, aldilà degli esercizi di scrittura che purtroppo spesso troviamo nei libri di poesia, credo che siano elementi imprescindibili per donare al lettore – e anche a chi scrive – un’esperienza che dona germi di riflessione e che resta impressa nella memoria.

“La camera era rossa” si rivolge al tempo che è stato. È la volontà di un confronto con il passato, o l’esplorare una propria nostalgia? O tutti e due?
Come dicevo sopra, “La camera era rossa” vuole fornire uno spaccato generazionale, attraverso esperienze e ricordi personali e comuni, per arrivare a capire il profilo psicologico e la percezione della realtà dei cosiddetti “boomer”, l’afflizione e lo spaesamento che provano in un mondo che pare andare al contrario rispetto a quelli che erano i nostri sogni.
Non ho dato titolo alle sezioni del libro, che nell’indice chiamo “Porte” in assonanza con il titolo del libro che si riferisce a una camera, separandole semplicemente con una pagina bianca per dare continuità alla lettura ma in realtà questa è una scelta di cui mi sono quasi subito pentita.
Sfrutto l’occasione di questa intervista per parlare in modo più dettagliato della struttura inserendo qui gli ipotetici titoli delle parti che lo compongono. Troviamo per primo un pezzo che si può definire “Prologo” e che viene ironicamente e amaramente concluso nell’ultimo pezzo che si può definire “Epilogo”.
Poi troviamo la prima Porta che si potrebbe intitolare “Una lunga infanzia” dove riporto ricordi personali, che credo siano comuni a molti della mia generazione che ha vissuto un’inconsapevolezza infantile delle cose del mondo almeno fino agli anni ’80. In questa sezione si trova la prosa poetica che dà il titolo al libro, in cui parlo della mia realissima camera rossa dell’adolescenza.
La seconda Porta la titolerei “Guardando indietro una generazione” e il mio io narrante proietta il ricordo nell’attualità. Poi viene la Porta “Sogni” in cui comincia a trasparire l’ineluttabiltà radicata nell’inconscio collettivo delle conseguenze di un inane vissuto. La quarta Porta potrebbe avere come titolo “Con il fiato corto”, fiato corto che il covid ci ha insegnato essere letale, e contiene riflessioni sociali.
La quinta Porta “La donna morta” parla né più né meno che di femminicidio, una realtà con la quale la mia generazione deve fare i conti molto da vicino, perché le conquiste di tante lotte e quello che credevamo un consolidato modo “illuminato” di pensare si stanno invece rivelando falsi e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
La Porta successiva, “Econo-sistema”, contiene pezzi di critica sociale che tento di affrontare con una certa ironia. La settima ed ultima Porta potrebbe intitolarsi “Punti d’arrivo” e sicuramente non trasmette un segnale positivo: il tempo che è passato e che passa ci rende inabili a reagire di fronte alle storture e il sistema stesso ci ha abituato alla rassegnazione.
Aggiungo che non c’è nostalgia per il passato, nelle mie intenzioni comunicative: il passato è passato (ma da lì veniamo), l’oggi ne è conseguenza e il tempo è inclemente e non consente di proiettarci in un futuro diverso da noi plasmato.

In tutto questo tuo raccontare non c’è nulla di gridato, nulla va oltre i limiti della ragione, e della forma comunicativa. È un accettare le cose per quello che sono? Per quello che sono diventate?
Di gridato qualcosa c’è, qualcosa che però non si può gridare, dunque l’urlo si spegne nella gola: una disperata, cosciente rassegnazione.

Di conseguenza il futuro, i suoi giorni che arriveranno, è una possibilità di cambiamento, o sempre di più ha l’identità di una condanna sociale?
Il cambiamento è auspicabile, tutto in questo libro è un invito al cambiamento, ma purtroppo (o per fortuna) non saranno i “boomer” i protagonisti di tale cambiamento.

“La camera era rossa” cosa aggiunge ai tuoi libri precedenti?
Per quanto riguarda l’esperienza scrittoria, sicuramente consolida un altro passo della mia ricerca.

 

L’autrice:
Claudia Zironi, bolognese, opera dal 2012 nel mondo della diffusione culturale con l’associazione Versante Ripido (www.versanteripido.it) della quale è uno dei fondatori e Presidente.
Collabora anche con altre realtà rivolte alla promozione della cultura e dell’arte, tra le quali Le voci della luna. Ha fatto e fa parte di giurie di premi di poesia a rilevanza nazionale.
Organizza incontri e rassegne on-line e sul territorio. Si esibisce in spettacoli di teatro-poesia.
Ha pubblicato nove libri, tra i quali, nel 2014 “Eros e polis” (uscito nel 2016 anche in USA con Xenos Books / Chelsea Ed. in traduzione di Emanuel Di Pasquale, con illustrazioni di Alberto Cini), nel 2020 la silloge poetica “Not bad (2019-2020)” con foto di Emiliano Medardo Barbieri, prima classificata al Premio Città di Grottammare XII edizione, nel 2023 “Tratteggi friulani”, con foto di Benedetto Beny Kosic.
Nel 2019 è uscita l’antologia, a cura di Sonia Caporossi, “Claudia Zironi – Diradare l’ombra, antologia di critica e testi (2012-2019)”.

claudiazironi.wordpress.com

(Claudia Zironi “La camera era rossa” pp. 57, 15 euro, Industria & Letteratura 2024)

 

 

 

 

Immagini         ———————–

Suggestive, misteriose immagini senza tempo e luogo

di Grazia Russo

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro       ———————

Come può la parola

Umberto Piersanti, “L’urlo della mente e altre poesie inedite”

di Roberto Lamantea

In un passo dello “Zibaldone” Leopardi scrive che, della fanciullezza, ci sono “grati” (graditi) anche i ricordi dolorosi, perché sono legati al tempo della scoperta del mondo, delle illusioni, di quando “beltà splendea”. Scrive Leopardi: “Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età sono più vive che quelle di qualunque altra età. E sono piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze d’immagini o di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose […] e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l’accresca”. (“Zibaldone”, 1987-88).
La giovinezza è il “tempo differente” a cui Umberto Piersanti ha dedicato la silloge del 1974. “Le Cesane”, le bellissime colline pascolianamente ventose attorno a Urbino, il paesaggio delle Marche e i suoi boschi, i fiori, i greppi, le figure magiche delle leggende popolari, come lo sprovinglo, sono il teatro dell’infanzia, un teatro fisico di colori, notti, versi di animali e ricordi, ricordi che appaiono come l’improvviso muso di una volpe di là dai rami, il volo di una poiana a macchiare il cielo.
Ma anche il rumore dei bombardamenti durante la guerra, la paura, le camionette dei nazisti. Il “tempo differente” c’è sempre nella poesia di Piersanti, attraversa gli anni e i libri, è il tempo degli amori, la scoperta del sesso, il silenzio della natura, la coscienza della fragilità e della perdita e attraversa non solo la lirica ma anche i romanzi, come “Cupo tempo gentile” dal titolo ossimorico e ambientato nel ‘68 (l’autore ha insegnato Sociologia della letteratura all’Università oggi intitolata al suo storico rettore Carlo Bo).
Se tutta la poesia è musica, c’è una linea che ha il canto del cielo. È tessuta di variazioni della luce, di boschi e rogge, di versi degli animali e delle voci di chi ami, della fanciullezza ora al cuore dolcissima, di proustiane madeleine e felicità perfette. È una linea che unisce Tasso e Leopardi, Pascoli, e poi Gozzano. Quando Isabella Leardini ha chiesto a vari autori quale fosse la parola-tema che riassume la loro poetica Piersanti non ha avuto dubbi: memoria. “Memoria” è un piccolo bellissimo libro uscito nel 2023 da Vallecchi che condensa tutti i temi e gli sguardi del poeta marchigiano.
Ma nella scrittura di Piersanti c’è un libro diverso, una silloge uscita da Vallecchi nel 1977, “L’urlo della mente”, con testi scritti in gran parte nel 1975, che racconta un altro paesaggio disegnato da cliniche, ricoveri, angosce.

L’urlo della mente” viene ora ripubblicato dalla friulana Samuele Editore di Alessandro Canzian come primo titolo della Nuova Collana Scilla, chiusa a 124 titoli la serie storica (2009-2023), con otto testi inediti composti da Piersanti tra il 2022 e l’anno scorso e in gran parte dedicati al figlio Jacopo.
In appendice la conversazione “La domanda di senso oltre il tempo differente” su “L’urlo della mente” di Alberto Fraccacreta. Fraccacreta lavora anch’egli all’Università di Urbino e nel 2023 ha pubblicato il suo nuovo libro di poesie, “Del tutto diversi”, da InternoPoesia, tessuto di sguardi, attese, amori accennati o solo sperati.
Anche qui di frequente ritorna il “tempo differente”: è una ragazza, sono i “segni sperduti”, sono le ore azzurre dell’Appennino, presenze sacre, San Gimignano magnifico nel meriggio. Ma “il male sconvolse/ e tramutò in atroce il tempo differente”.
L’urlo della mente” nasce da un inquietante episodio autobiografico, l’incontro con una specie di santone, un’alta figura nera, che nell’immaginario del poeta si è trasformato in uno spettro, da come lo descrive nel dialogo con Fraccacreta, tra Goya e Füssli.
Piersanti è stato in clinica in tre diversi momenti e tre diverse strutture. I versi che sono nati da quell’esperienza non sono il diario di un’ossessione: il poeta di Urbino va molto più in là, arriva all’invettiva, all’ode civile (ma senza intonazioni, sottolinea l’autore, e nostalgie alla Pasolini o alla Olmi).
Appare l’”assurdo”, perché è assurda quell’ossessione, per Fraccacreta “una patina, quasi una corteccia di esistenzialismo exprès”; nell’intervista viene citato anche il Sisifo di Camus. Stile diverso dalle altre pagine piersantiane: “Sicuramente la mia modalità di scrittura rispondeva a una condizione esistenziale che m’impediva il canto e l’abbandono”.
A leggerlo oggi, “L’urlo della mente” appare come un grido, howl, esistenziale e politico, di un’attualità lancinante, versi che ricordano lo sguardo desolato di Primo Levi: “Ho conosciuto tempi e luoghi/ dove è impossibile/ essere uomini”. Ma anche l’invito, oggi più che mai attuale, dell’illuminismo: “Non di pietismi/ d’amori generici c’è necessità/ appelli vani da/ troppo perpetrati/ causa d’altri dolori/ spesso, ma d’unione/ fraterna e razionale/ contro il male”.

 

Dal libro:

Al mio tempo

Non conoscevo
l’odio prima del mio male
l’ira, questa rabbia furiosa
ed impotente e non sapevo
neppure che la violenza
vile e più atroce
è nelle ore quotidiane, nella gente
più feroce contro il ladro
o l’assassino, in quelli che
badano al tuo corpo
o alla tua anima,
qui si consuma l’offesa
giornaliera qui il delitto
non ha bisogno della scenografia.

Come può la parola
essere denuncia
quando quest’ultima
ricorre gratuita nelle mode
e nei giochi della letteratura
quando troppo spesso
essa non è che conformismo
e pigrizia di mente.

Del resto io
non so
dire e urlare
preciso contro il male
dei buoni coperto dai potenti
dai vescovi, dai giudici, dai politici
quanto poi l’idea è più sublime
tanto più disumana
spesso
l’azione che vi si riferisce
così, credo
si spieghi
la storia del Cristianesimo

io so che
in altri luoghi
nei manicomi stanno
anche i dissenzienti
e la protesta, giusta
a cui m’associo quasi è
come l’urlo che si leva
contro i massacratori nei paesi
neri del terrore.

Ma chi pone la paura nei fanciulli
chi nei giornali vende la crudeltà
della superstizione e della violenza
chi, con i film, provoca la morte,
poi gli uomini
pii, zelanti, tenebrosi
che svendono pazzia
offendono la mente
per la salvezza loro
e quella tua
mentre dall’America profonda
l’irrazionale s’abbatte sull’Occidente
non solo nelle sette o negli sbandati
ma anche in quelle
dai competenti definite
«istituzioni basilari».

E allora chi parla
contro la società e coloro
che non mettono i sani
nei manicomi ma ci cacciano
dentro malati
chi non lo era
chi distingue la libertà
vera, dalla violenza
e dall’offesa che i testimoni
d’una o dell’altra fede
immanente ma soprattutto trascendente
ci distribuiscono nelle piazze
e per le strade?

Tu sei il Tempo
che ti copri con le parole
con le parole giochi qui in Occidente
ed hai la maschera della Libertà
e della Critica.

(ottobre 1971)

*

Jacopo fratello
(dalle poesie inedite)

Jacopo, difficile
oggi raccontarti,
non camminiamo più
insieme tra borghi
e campi,
non scendiamo alle terme
in uguali, bianchi
accappatoi incappucciati,
non attendiamo noi due,
da soli,
in un tavolo solo,
scoccare la mezzanotte
nella bianca sala
apparecchiata,
estranei alle grida
alterate, ai coriandoli
ai capelli attorcigliati,
ma presenti,
dentro le feste presenti
e dentro gli altri giorni,
ora di molto
tu mi sovrasti,
certo ti amo,
un po’ anche
ti temo

ora sei grande,
il tuo corpo potente
e armonioso,
ma la voce,
la voce flebile,
tenera e incerta,
la corrente degli anni
oggi risale,
ai giorni della nascita
ti riporta

vorrei che tu fossi
mio fratello,
ho avuto tenere sorelle
sorelle-madri
di me più grandi,
ma un fratello no,
non l’ho avuto,
e tu avessi dieci
e io dodici anni
fare capanne
d’acacie al Perlo
lungo lo stradino,
salire tra i greppi
a quel vulcano spento
che s’apre pauroso
tra rose di macchia
e fitti rovi
e pane e mortadella
mangiare lì
accovacciati

vorrei che tu avessi
dieci e io
dodici anni

(aprile 2022)

 

L’autore:
Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941, e nell’Università della sua città ha insegnato Sociologia della letteratura.  Tutte le sue raccolte pubblicate fino alla fine degli anni Ottanta sono uscite in un unico volume dal titolo “Tra alberi e vicende” (2009).
Campi d’ostinato amore” (2020) ha vinto il Premio Saba 2021 e il Premio Speciale Camaiore 2021.
Nel marzo 2022 Crocetti ha stampato una nuova edizione de “I luoghi persi”, con una sezione di dodici inediti e la prefazione di Roberto Galaverni. E nel 2023 ha pubblicato la raccolta “Memoria”.
È stato tradotto in francese (“Les lieux perdus”) e in lingua rumena (“In alt timp, in alt loc”).
Umberto Piersanti è anche autore di quattro romanzi, tre film-poemi e quattro rappresentazioni visive su altrettanti poeti per la televisione.

(Umberto Piersanti “L’urlo della mente e altre poesie inedite” pp. 144, 15 euro, Samuele Editore, Nuova Collana Scilla 2024)

 

 

 

 

Immagini        ————————

Visioni “Black and white”

di Grazia Russo

 

 

 

 

Ti racconto       ——————————–

Vuoto

Una storia inedita

di Nicoletta Storari

Non sono goriziana, ma abito questi posti.
Me ne prendo il diritto e la consolazione. Quel diritto che non è sancito dalla carta di residenza; la mia, è più una parte anatomica, a chiedere spazio e accoglienza.
Allora, questi posti hanno il nome di un uomo e di una donna.
Rocco e Anna. Son pure diventati santi.
Di lui, di Rocco, so che veniva dalla Francia. Che gli piaceva camminare, pregare, e andare molto a zonzo. Oggi, e da qualche secolo, è parecchio richiesto. O meglio, invocato.
Gli hanno chiesto di proteggere:
Appestati
Contagiati
Ammalati
Viandanti e Pellegrini
Invalidi
Prigionieri
Chirurghi
Operatori sanitari
Farmacisti
Assicuratori
Necrofori
Volontari.
E poi cani
Ginocchia, e articolazioni.

Si faceva prima a dire di cosa, e chi, non avrebbe dovuto occuparsi.

Anna invece ha una storia diversa. Di lei dicono che sia rimasta incinta per miracolo, che abbia partorito una bimba sana nonostante la peste, e che sia riuscita a nutrirla del suo stesso latte, cosa non scontata per quei tempi.
E allora è diventata protettrice delle partorienti, delle madri. E delle vedove. Anche lei una discreta carriera.

A questo punto, don Ruggero, se fosse tra i presenti questa sera, avrebbe tutta la facoltà di alzarsi e venire a darmi una tirata di capelli. Ma non c’è, spero che non ci sia.
Così da qui in poi continuo io.

Rocco e Anna amavano le feste, e stare in sagra fino a notte fonda. Anche per giorni, disturbando il vicinato. Ognuno per suo conto.
Lui portava i sandali anche in inverno, aveva piedi pieni di calli, un sorriso bello, e spazi fra i denti bianchi. E poi sempre quella mania da Pellegrin. Mai fermo.

Anna era timida, sognava la famiglia. Aveva tette grandi e il rosario in tasca.

Si sono incontrati, qui vicino, dicono in via Lunga, a un pic-nic nel campo di Giulio, dove c’erano ombra, orto, e prato morbido.
Si sono baciati la prima volta dietro la chiesa dei Cappuccini, con i richiedenti asilo seduti in cerchio che li sbirciavano pieni di curiosità.
Si sono messi insieme. E hanno fatto tantissimo l’amore. E hanno deciso che sarebbero stati uno vicino all’altra per L’infinito.

Quando sono andata a trovarli, mi hanno subito avvisata “guarda che qui si fevele ancemò
Furlan”, con orgoglio, me l’hanno detto.

Hanno avuto tanti figli, ed Anna è, incredibilmente, ancora fertile.
Dei loro bambini ne ho conosciuti e ne conosco molti.
C’è Rita, una gamba sola e la cicca sempre in mano, che rimpiange i ricordi di quando poteva usare quella buona per fare solletico sulla pancia al marito.
Roberto: mi domandava perché non fossi sposata, e io a rispondergli “perché preferisco rimanere l’unica titolare del mutuo di casa”, e poi, quando avevo deciso di raccontargli la verità, che mi sembrava tutta una gran fregatura, non ho più fatto in tempo.
E poi il Giampi, l’amore mio, che se gli dici che sei un po’ triste si piega in avanti, diventa un tondo, con la bocca e gli occhi e le orecchie per giù, e tu vorresti prenderlo in braccio e cantargli una canzone.
Marco, che ha preferito l’asfalto, alla morbidezza di un materasso.
E poi tanti altri diamanti, fra le creature di Anna e Rocco. Chi aspetta un cuore nuovo, chi il suo l’ha buttato nell’indifferenziata assieme ai vestiti smessi di un’epoca di tanti treni passati e mai presi.

In tanto calore, lacrime, risate, puzza e bestemmie, qualche volta io passo, o meglio, ho il privilegio di fare una piccola sosta. Un caffè, una cortesia, una stupidata condivisa. E mi sento nel cortile di casa mia.

E bevo le loro storie come bevi una birra ghiacciata le sere dì luglio.
Mi vesto del tiepido di questa umanità difficile, e fiera. Che spesso non chiede Per pudore.
E ci starei ore, anche in silenzio, con tutto il mio senso inadeguato e maldestro.

Ma no se pol.
È tempo.

In via Terza Armata mi capita qualche volta di scorgere, chinate a raccogliere radicchio di campo, le schiene di San Rocco e Santanna, sempre vicine una all’altra. Avranno almeno 500 anni.
Sorrido. Un colpo di clacson, e torno alla casa per la quale pago il mutuo.

 

L’autrice:
Nicoletta Storari è nata a Cividale, vive a San Giovanni al Natisone (Ud).
Ha firmato la trasposizione teatrale di “Una moglie necessaria” di Elsa Chabrol, è co-autrice dello spettacolo “Rivivere”. Entrambi i lavori sono stati portati in scena dal gruppo teatrale cormonese intitolato ad Alessandro Pesaola.
Con i suoi testi è stata ospite del festival internazionale itinerante “Acque di acqua” e di altre rassegne poetiche regionali.

 

 

 

 

Immagini         ———————–

Suggestive, misteriose immagini senza tempo e luogo

di Grazia Russo

 

 

 

 

Voce d’autore           ———————–

Il coraggio d’uscire scorticato

Marco Plebani, “Decimo dan”

di Giovanni Fierro

Marco Plebani nella sua raccolta poetica “Decimo dan” crea un libro mondo, nel quale riversare e riconoscere il suo vissuto, costruendo così una lunga e varia traccia poetica che accoglie ed abbraccia.
L’esperienza di ogni giorno diventa un caleidoscopio, attraverso il quale portare all’attenzione del lettore ogni minima ebbrezza dello stare al mondo, nella parte più sensibile, dove “Mi piacerebbe ficcare gli occhi/ nel futuro,/ ma,/ son bulbi di cipolla ciechi/ che radificano in terreno riarso”.
Non solo un presente che tutto contiene, al quale ci si richiama per trovare e ritrovare una propria identità, ma anche un passato che è stato Storia del mondo, accadere che si è fatto memoria comune: “Non ho pianto quando Chernobyl/ sotto forma di nube al cancro/ rubò i miei giochi esposti/ in terrazzo./ Né quando mia madre/ la serenità perse e non fece finta di nulla./ Né quando mio padre si è sigillato,/ chiuso per sempre nel suo dolore/ e nel trafitto silenzio: ‘Addio fratelli dispersi’“.
È un cortocircuito continuo e necessario “Decimo dan”, dove la scrittura indica ogni frattura scomposta, impossibile da ricomporre, dove potersi accorgere dell’incertezza che tiene tutto unito, più della verità di ogni giorno, “Debole frequenza,/ calore dell’eco,/ filo di voce che scioglie l’inchiostro nelle carezze”.
Il tempo è quindi una mappa di esplorazione, dove Marco Plebani disegna traiettorie che provengono dal proprio battito cardiaco, perché “i mesi hanno pietrificato il/ mio cuore umano che scalfisci/ screziando felina”. C’è sempre un qualcosa, o un qualcuno capace di ferire, che non si può dimenticare. E allora forse l’unica soluzione è inventare una atmosfera, dentro la quale creare una possibilità di sollievo, “Notte d‟inverno./ Formica solitaria./ Pioggia leggera”.
Tutto il libro è un continuo misurare l’attrito umano con il vivere quotidiano, e anche con la geografia di cui si fa parte, “Qui tramonta e sorge Sole e Luna,/ Porto Recanati, principio e fine/ del Mondo Conosciuto”. Non è mai facile costruire un equilibrio di appartenenza, “senza sensi di colpa,/ senza dispiacermi di mia gioia,/ senza invidiare il bene altrui.// Millenovecentonovantasette”.
In tutta questa tensione il desiderio di una pace duratura, vicina e respirabile, è di certo un ultimo e finale azzardo: “Per quel che mi riguarda/ il paradiso è una biblioteca/ silente ov’io e te eravamo/ corpi terrestri nella sospensione”.
Ma intanto il qui ed ora ha un suono costante, che a volte è sottotraccia, a volte è più esposto. È una melodia che dice molto di ognuno di noi, sempre presente. E “Decimo dan” è l’intonazione giusta per svelarne il significato.

 

Dal libro:

Chilometro zero

A Villa Potenza v’è un cartello
con su la scritta “chilometro zero”.
Dove ero e dove sono stato?
Reintrappolandomi ho girato
in su questa tagliola di diciotto
migliaia di metri.
Questa terra mia a te codesta,
generosa sessantenne, trentenne
avara.
Viene favoleggiata la possibilità seconda, anco
il coraggio d’uscire scorticato
come un lupo con zampa incisa
da purulenta ruggine.
Annuserò un altro orizzonte
ch’avrà odore di improvvisa pioggia,
pioggia che ben nutre l’ima radice
in un nuovo terreno.

Quanta ruggine sopporta un cartello
con su la scritta “chilometro zero?”.

*

In città

All’ascolto di urbane disarmonie
conosco un prezzo: sensibilità deviate.
Uomini chini,
colpiti ad intermittenza
da miriadi di messaggi
pubblicitari accesi e spenti.

*

Dormiveglia

Niente succederà mai tra di noi.

Piccoli fiammiferi eppur accendo.
Calore e tenere, vane attese.

Durante dormiveglia accecanti,
appoggiate sulle palpebre mie,
le foto tue,
vivificano di luce ogn’angolo
di questo pianeta terribile.

*

Specchio bar

Lasciami dimenticare
dimenticare lasciami.
Specular riflesso
D’evaporazione alcolica.

*

Paul Cézanne

Banchiere mancato.
Natura per te è forma primordiale
e punti di vista simultanei,
i tuoi quadri,
canzoni senza pubblico.
Rifiutato,
ti hanno risposto col silenzio
e per questo il tuo sangue diventò zucchero e diabete.
Un giorno uscisti per dipingere ed un temporale ti colse ad
Aix.
Il tuo zucchero smise di circolare nelle vene.

 

Intervista a Marco Plebani:

“Decimo dan” mi sembra sia un voler raccogliere il mondo, abbracciarlo tutto, per meglio misurarlo e forse per averne una maggiore conoscenza. Può essere così?
Esattamente. Ogni componimento del libro è nato, banalmente detto, da quelli che gli ermetici avrebbero definito “momenti-essenza”. Episodi prima setacciati, poi raccolti da un vissuto non particolarmente avvincente e quotidiano.
Molti di essi, tuttavia, non hanno avuto una genesi sempre routinaria, anzi, più spesso hanno rappresentato una frattura, uno scompenso o una mancanza poiché anche la vita di tutti i giorni ospita luci ed abissi in egual misura, nascosti dietro un protocollo di facciata.
La lirica con cui ho voluto, in seguito, “riabbracciare e misurare” questi momenti ha rappresentato un tentativo di “cattività melodica”: innestare ritmi e suoni che mi hanno permesso di rivivere persino situazioni estremamente angoscianti con un distacco fermo e più adulto. In fondo è questo il potere magico che anch’io attribuisco alla poesia.
La conoscenza a posteriori che ne deriva, dunque, è stata il frutto della manipolazione lirica in sé.

E l’impressione è anche quella che sia una raccolta di momenti, di frazioni di vita vissuta. Non a caso si muove in un arco temporale di vent’anni. Quasi un mosaico di attimi che compongono la propria identità. C’è anche questo alla base delle motivazioni della sua scrittura?
Il fattore identitario è la motivazione preponderante nella scrittura del libro e ne rappresenta, purtroppo, anche il limite più evidente dal momento che questo percorso ventennale potrebbe non lasciare spazio ad un’identificazione da parte di un ipotetico lettore. Puro solipsismo in pratica.
La poesia, da oltre sessant’anni, non fa che compiere due operazioni opposte: da un lato oggettivare il linguaggio oppure renderlo estremamente evanescente e metaforico così da non far sentire più l’autore che c’è dietro.
Io, invece, sono più affezionato agli autori che hanno sempre messo in scena il proprio mondo e non se ne sono vergognati, anche se ciò implica far storcere il naso a qualcuno tra gli “addetti ai lavori”.
Chi se ne frega del resto, c’è sempre tempo per oggettivare i propri versi o renderli pura filigrana.
Le tessere del mosaico che compongono la mia piccola storia, d’altronde, viste attraverso un’ottica più elastica, si potrebbero, al contrario, prestare all’idea di un cammino da percorrere assieme al suddetto ipotetico lettore.
Qualora avvenisse questo contatto immaginato avrei raggiunto, in ogni caso, il mio obiettivo.

Un aspetto importante, che poi alla lunga diventa un punto di forza di “Decimo dan”, è quello di mettere in evidenza la propria fragilità umana. Perché?
L’eccessiva fragilità è dannosa, persino mortale, ma essa è importante tanto quanto la forza d’animo, la precede nobilmente.
Senza fragilità non si raggiungerebbe nessuna consapevolezza. In questa dialettica la fragilità è l’embrione della determinazione.

A leggere tutte queste pagine, così nitide nel loro raccontare, e così intense nel loro mostrarsi, si ha la percezione di come al passato si dia la possibilità di rifiorire. Lungi dalla malinconia del tempo messo alle proprie spalle, qual è il rapporto di “Decimo dan” con il tempo vissuto, con gli anni che sono diventati memoria e ricordo?
Sono un malinconico, infatti, ma senza ripianti.
Sarebbe stato un peccato che i momenti più significativi della mia normalissima esistenza non avessero trovato una forma, così ho iniziato a scrivere soprattutto per questo motivo, ossia trattenere con i versi quello che si sarebbe perduto per sempre.
Poi, per quello che riguarda il ricordo, penso a Leopardi. Chi meglio di lui ha dimostrato, attraverso poesie irraggiungibili, che il ricordo è sacro poiché inattaccabile sia dai mali del presente che da quelli futuri?

Tutto il libro ha un suono costante, che a volte è sottotraccia, a volte è più esposto. È una melodia a cui appartiene, che può essere più spigolosa o più morbida, ma che è sempre presente. Che suono ha “Decimo dan”?
Ti ringrazio per aver colto il perno su cui girano tutte le liriche presenti nel libro.
Il suono che voglio restituire a chi legge è quello di una “risonanza diaframmatica” che, con poco sforzo, riesce a farsi sentire bene da tutti, anche se ciò rappresenta un’utopia.

Spesso emerge la figura dell’essere poeta. Cosa significa per Marco Plebani essere poeta?
Significa giocare da adulti.

 

L’autore:
Marco Plebani è nato nel 1978 a Jesi, vive a Macerata.
Insegnante di lettere, nel 2011 ha pubblicato la raccolta di poesie “Un giorno qualsiasi”.

(Marco Plebani “Decimo dan” pp. 218, 15 euro, edizioni La Gru 2022)

 

 

 

 

Immagini        ———————–

Suggestive, misteriose immagini senza tempo e luogo

di Grazia Russo

 

 

Intervista a Grazia Russo:

Da cosa nasce la tua decisione di utilizzare il colore o il bianco e nero? Perché è inevitabile che ci sia una differenza di espressione, dando così differente significato ai tuoi lavori…
Il colore è affascinante, ricco di sfumature e dettagli vibranti, ci colpisce psicologicamente, ma soprattutto esteticamente. La sua scelta è fondamentale in quei casi dove la presenza del colore è vitale per dare forza all’immagine, e trasmettere a pieno il messaggio interiore dell’opera.
Il bianco e nero offre invece una prospettiva diversa. La sua scelta deriva dal fatto che quello che si vuole mettere in risalto sono le forme, le linee, le sfumature di luce e ombra. E così le emozioni e le sensazioni vengono enfatizzate. Eliminando le distrazioni cromatiche, l’osservatore è più concentrato su questi aspetti, sui contenuti.
Nell’affrontare un lavoro la mia decisione, se colore o bianco e nero, tiene conto di queste caratteristiche.

Il fiore dell’agave e la calla. Cosa hanno di così particolare, da aver catturato la tua attenzione, tanto da farli diventare protagonisti di questi tuoi lavori?
Il loro fascino è senza tempo e da sempre l’uomo ha attributo ai fiori un simbolismo, un significato (purezza, bellezza, prosperità, nobiltà ecc.).
Rappresentarli in bianco e nero, mi ha permesso di mettere in risalto maggiormente la loro forma ed eleganza formale, di creare un effetto emotivo più profondo.
La tecnica utilizzata in questi lavori è l’acquatinta (incisione indiretta) che dà la possibilità di creare zone di penombra, con sottili sfumature che danno un effetto tonale simile a quello dell’acquerello.

Anche il paesaggio è molto presente in questa selezione. Ma che paesaggio è? Quali sono le sue origini, di cosa si nutre il suo respiro?
I lavori nascono da emozioni e pensieri sorti dall’osservazione del mondo che ci circonda, dalla sua atmosfera magica e misteriosa.
È l’esaltazione a ciò che si ha difronte, la riflessione su ciò che si prova, a dare origine e a trasformare il tutto in immagini.
Il risultato: immagini di paesaggi senza tempo e luogo, dove la poesia, la magia e l’arcano della natura sono i protagonisti.
La natura ha un suo lato misterioso, e se davvero si vuole avere un approccio autentico occorre connettersi con essa, anche con lo spirito.

Le immagini che qui proponiamo sono tutte delle incisioni. Qual è la motivazione che ti ha fatto scegliere questa forma d’arte?
Nella mia costante ricerca ho sperimentato diverse forme espressive; negli ultimi anni mi sono avvicinata ed appassionata alle diverse tecniche di stampa calcografica: punta secca, acquaforte, acquatinta ed in particolar modo al monotipo.
Quest’ultima è una sorprendente tecnica pittorica che è riuscita a combinare in sé le qualità della pittura, della stampa e del disegno.
L’immagine viene stampata su carta con l’ausilio di un torchio calcografico, in cui la matrice può avere diverse dimensioni e materiali. Io personalmente utilizzo lastre in plexiglass, e colori per stampa calcografica lavabili con acqua.
Ho realizzato i paesaggi con questa tecnica, scoprendone le sue potenzialità espressive: la straordinaria libertà d’esecuzione e la vena creativa, la spontaneità e l’immaginazione.
Ti costringe anche ad eseguire il lavoro rapidamente, in modo che la vernice non si asciughi, la concentrazione è intensa e le emozioni si rincorrono.

A guardare ogni singola opera, mi sembra che il tratto che contraddistingue tutto il percorso espositivo sia un silenzio che invita all’osservazione, che è la carta d’identità di ogni immagine che hai creato. Ma è un silenzio che poi si dilata nel sentire di chi osserva. Lo rende partecipe. Mi sbaglio?
Non ti sbagli, ogni opera nasce dalle mie riflessioni ed emozioni, ma al tempo stesso vuole trasmettere all’osservatore la magia ed il mistero intrinseco di quell’immagine, e renderlo partecipe del messaggio.

 

L’artista:
Grazia Russo è nata a Gorizia nel 1949, città in cui vive ed opera. Laureata in fisica ed insegnante di matematica applicata negli gli Istituti Superiori di Gorizia.
Sempre attratta dal disegno e dalla pittura, ha sperimentato diverse forme espressive quali: pittura, scultura, libro d’artista, incisioni con diverse tecniche di stampa calcografica, realizzando anche opere polimateriche.
Ha partecipato a diverse esposizioni personali e collettive sia in Italia che all’Estero, le sue opere sono presenti in diverse pubblicazioni e cataloghi.
Attualmente è vicepresidente dell’associazione “Centro Culturale Tullio Crali APS”.

 

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso.