Fare Voci dicembre 2024

Chiudiamo l’anno con una serie di nuove e sempre interessanti proposte, vive ed intense nel loro costruire la propria voce e il proprio dire, in un narrare che è sempre l’occasione di una mappatura emotiva e sociale del nostro tempo presente.

Ad iniziare da Rosella Postorino con il suo libro “Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente”, capace di attraversare ricordi, volti, malinconie, indignazioni civili e geografie, vero proprio diario ma anche scrigno….

E poi per la poesia una serie di testi inediti: Roberto Dedenaro ci regala alcune poesie come anticipazione al suo nuovo libro in uscita ad inizio 2025, lo sloveno Tomislav Vrečar ci propone tre suoi nuovi testi scritti direttamente in italiano, il poeta argentino Jorge Aulicino è presente con un suo inedito in italiano, una poesia per quando va bene.

Vaghe stelle dell’Orsa” è una delle più belle rassegne in Italia dedicate alla poesia. Ce ne parla Laura Corraducci, che l’ha ideata e che la sta portando avanti, con sempre più maggior successo.

Le novità librarie sono quelle di Luca Buiat con il suo “Una raccolta di silenzi e temporali”, e di Alessandra Corbetta con “L’età verde”. Due nuovi appuntamenti con la poesia che sono allo stesso tempo sorpresa ed incanto.

Lucia Gaja Scuteri ci porta nella magia, e nella storia, del romanzo “Paura, io?” di Maruša Krese, da lei tradotto. Libro prezioso assolutamente da scoprire.

L’arte è presente con le undici opere di Lello Torchia. È lo stesso artista a raccontarci il suo lavoro e la sua creazione.

Buona lettura e buon fine 2024!

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Voce d’autore        ————————-

Pagina dopo pagina, al pari di un mosaico mai finito

Rosella Postorino, “Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente”

di Roberto Lamantea

C’è una pagina stupenda nell’ultimo libro di Rosella Postorino, “Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente” (Solferino). Racconta delle volte in cui lei, che non crede, è entrata in una chiesa. Una volta, seduta su una panca in una chiesa che credeva vuota, piangeva con tale sconforto che una sconosciuta l’ha abbracciata. Un’altra volta si è inginocchiata davanti a una ragazza che pregava, nascondendo il viso tra le mani per isolarsi: si è sentita toccare, la ragazza che era vicino a lei aveva strappato una pagina del suo breviario per donargliela. “Forse non ho il diritto di entrare in chiesa, dato che non credo”, scrive, “ma posso cantare, come una qualunque delle creature nate sulla Terra, spaventate dal dolore e ancorate all’esistenza, e per un istante sentire la fiducia allagarmi il petto, illudermi ancora”.
In un’altra pagina racconta la gioia di vedere bambini e ragazzi uscire da scuola, sotto il cielo di cristallo, finalmente insieme dopo il lockdown. Il libro attraversa ricordi, volti, malinconie, indignazioni civili, geografie (le tre terre di Rosella Postorino: la natìa Calabria, la Liguria, Roma), è il diario di una scrittrice ma è anche uno scrigno.
Diviso in due parti separate da un intermezzo e chiuse da un epilogo, “Nei nervi e nel cuore” è diario, journal intime, libro di ricordi, è il romanzo di uno sguardo – molte le osservazioni sui troppi luoghi comuni che innervano la nostra società – è un libro prisma: l’intonazione è spesso confidente, come se l’autrice parlasse con il lettore anche se, avverte Postorino, il lavoro sulla pagina è quello di una scrittrice, nulla è improvvisato, e si vede dalla precisione del dettaglio, dal rigore compositivo della pagina.
È che lo sguardo di Rosella cattura, ci abbraccia. Il lettore è un amico a cui l’autrice racconta. Racconta della propria infanzia in Liguria, degli “strappi” da un luogo all’altro: lei, nata in Calabria, trasferita da bambina in Liguria – tra Imperia Porto Maurizio e San Lorenzo al Mare – poi la scelta, anche per motivi di lavoro, di abitare a Roma.
Così c’è anche la nostalgia, in questo libro, sente “la forza delle radici formicolarmi tra le gambe”: “il torrente Argentina nel tratto di Badalucco, un borgo del primo entroterra: acqua gelida che ha scavato l’ardesia, sassi ricoperti di muschio, cascate e silenzio; case appese e fasce di ulivi, i saliscendi che intagliano la Riviera Ponentina”; chi conosce la Liguria in queste righe vede il tuffarsi della montagna nel mare, con le case arrampicate sui declivî, le strade e la ferrovia scavate nella roccia. O i ricordi legati alle canzoni: il 1987, l’anno dell’arrivo in Liguria da Reggio Calabria, l’anno di Bella d’estate di Mango: “È solo un addio…”, ed ecco i nodi alla gola.

C’è il lockdown, naturalmente, nel libro, inverno 2020. Il bisogno dell’altro, del corpo dell’altro, gli altri sono fantasmi sugli schermi dei computer; chi moriva da solo in ospedale o in casa di riposo, il senso di prigionia nella propria casa. La solitudine della scrittura: necessaria, ma la solitudine rischia di allontanare chi scrive dalle ragioni stesse per cui scrive.
Splendido il passo in cui Rosella Postorino cita Anne Frank, il suo personaggio letterario preferito quando la scrittrice aveva nove anni: “Nelle parole indirizzate a Kitty emerge, in controluce, la capacità della letteratura di sopravvivere”. Fino alla fine della pandemia, la bellezza dei bambini e dei ragazzi all’uscita da scuola: “Io sono rimasta lì, ad ascoltare la dolcezza della vita che torna e fa il rumore di una strada all’uscita da scuola: quasi non ci credevo, che sarebbe successo ancora”.
Scrittura e fragilità: “Scrivo perché voglio sentirmi amata”: non andrebbe rivelato, perché “è ammettere una debolezza”. “Ho scritto come si chiede perdono”, confida ancora. Fragilità? Il contrario: “Ciò che lascia perplesse le persone è la fragilità che non si può mascherare connessa a un’indubbia tenacia: insomma, la contraddizione. […] In un mondo che includerebbe soltanto i produttivi e gli efficienti, i romanzi sanno che la possibilità di inciampare, di deragliare, è una sovversione. […] Scrivo per cercare riscatto e non mi sento riscattata mai. Scrivo per rivendicare il nostro diritto di trionfare e di perdere, di essere limpidi e imperscrutabili, qualcosa che difficilmente si può afferrare del tutto, perché siamo ambigui, perché umani”. E questa ambiguità, la debolezza, le contraddizioni, sono l’antitesi della società del profitto, della felicità di plastica, dell’inutile bisogno indotto: “Che l’essere felici sia per la società – o meglio: per il mercato – un dovere morale, pena la stigmatizzazione, mi sconcerta. Quella stigmatizzazione nega l’assurdità dell’esistenza, ecco perché è falsa, ricattatoria, manipolatrice”: è la lezione, sempre più attuale, che va da Marcuse a Pasolini (e già in Marx).
Libro mosaico? Nell’epilogo Rosella riflette: “Pagina dopo pagina, al pari di un mosaico mai finito, impossibile da finire, questo libro mi rivela in un modo più diretto di quanto non faccia un romanzo. […] Questo libro racconta i nostri anni con l’immediatezza, la parzialità di un diario, qualcosa che non è mai definitivo, perché mai definitiva può essere la narrazione di un tempo in cui si è immersi: si è parte della storia; personaggi, prima che autori”.
“Nei nervi e nel cuore” è un libro che danza.

 

Intervista a Rosella Postorino:

Il libro è un diario in pubblico di sguardi, pensieri, sensazioni e luoghi, su tutti la Calabria, dove sei nata, e la Liguria, dove sei cresciuta. Scrivi: “Invecchiando […] ho sentito sempre di più la forza delle radici formicolarmi nelle gambe”: che cosa sono per te i ricordi? Ti capita di avere nostalgie?
Certo, come capita a chiunque, ma questo non è un libro di nostalgie, perché il tema del nostos si affaccia con meno prepotenza di altri temi e perché in fondo dico che casa è, per me, qualunque luogo in cui poter scrivere e sentirmi vicina a ciò che per me stessa avevo immaginato. È più un libro sullo sradicamento, sulla separazione, sulla disunione come condizione inevitabile dell’essere al mondo.

Nei nervi e nel cuore raccoglie pagine scritte per “7” del Corriere della Sera; anche il tuo profilo Facebook propone pensieri, riflessioni, racconti, è il diario di un’anima: che cosa pensi dei social?
Il libro, che secondo un preciso disegno narrativo monta assieme alcuni dei pezzi scritti per la rubrica, spesso approfonditi o accorciati o fusi, è un’opera letteraria, e come tale ha una forma estetica e una lingua che sono al cuore della sua esistenza.
I pezzi che posto su Facebook spesso sono proprio quelli già usciti sui giornali. Sempre meno scrivo pezzi ad hoc, perché sempre meno sopporto il mezzo e sempre meno ho fiducia nella lettura sui social. In ogni caso, anche quando ancora mi azzardo ad affrontare argomenti controversi o delicati, non considero mai la mia pagina Facebook come il diario di un’anima. Sono talmente riservata sulla mia vita che non tengo neppure un diario privato: qualcuno potrebbe trovarlo e leggerlo.
Tutto ciò che pubblico è pensato per esserlo: io sono una scrittrice, quindi ciò che è pubblico è un frammento della mia scrittura che si sfida in forme e linguaggi diversi.

Scrivo perché voglio sentirmi amata”; “ho scritto come si chiede perdono”; “i romanzi sanno che la possibilità di inciampare, di deragliare, è una sovversione”: è una delle pagine più belle del libro, apre la seconda parte, “Lo spreco generale del mondo”: in questa società lo scrittore è un sovversivo?
Non so se lo sia intenzionalmente, sarebbe banale banalizzare. Di certo è qualcuno che passa almeno metà della sua vita a inventare storie, bugie, e a crederci con tutto sé stesso: questa cosa, la fanno i matti o i bambini. È qualcuno che continua a porsi domande senza risposta – come i bambini: a un certo punto gli adulti rinunciano, si rassegnano. Lo scrittore no, le trasforma in creazione.
Io rivendico – non solo per lo scrittore, ma per chiunque – il diritto alla fragilità, il diritto di sottrarsi alla dittatura della felicità o quantomeno al senso di colpa di non essere felici come la società ci vorrebbe.

Esiste una scrittura al femminile?
L’espressione “al femminile” mi imbarazza proprio linguisticamente. Esiste una scrittura “al maschile”? Perché nessuno pone mai la domanda? È questo il punto. Si potrebbero fare studi sullo stile o sui temi, ad esempio, per individuare caratteristiche comuni a certe scritture praticate da donne – ma interverrebbero comunque il tempo e lo spazio, cioè la Storia e la geografia, e poi la classe sociale di partenza e l’etnia ecc. Gli elementi che possono teoricamente influenzare la nostra scrittura sono molteplici.
Il fatto che non ci si chieda se esista una scrittura “al maschile” rivela il problema culturale della domanda che mi hai posto, e cioè che la scrittura femminile è considerata una sottocategoria della scrittura tout court: per l’immaginario collettivo, quella maschile.

 

L’autrice:
Rosella Postorino è nata a Reggio Calabria nel 1978, è cresciuta in provincia di Imperia, a San Lorenzo al Mare, vive e lavora a Roma.
Con il suo romanzo “Le assaggiatrici” (Feltrinelli 2018), tradotto in oltre trenta lingue, ha vinto il Premio Campiello e altri nove premi, tra i quali, per l’edizione francese, il Prix Jean Monnet. Dal romanzo sarà tratto un film diretto da Silvio Soldini.
Ha pubblicato anche “La stanza di sopra” (Neri Pozza 2007), “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi 2009), “Il corpo docile” (Einaudi 2013), “Il mare in salita” (Laterza 2011), “Tutti giù per aria” (Salani 2019), “Io, mio padre e le formiche” (Salani 2022), “Piangiolina” (Feltrinelli 2024).
Il suo ultimo romanzo “Mi limitavo ad amare te” (Feltrinelli 2023), è stato finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Asti d’Appello, il Premio della giuria popolare I Fiori Blu, il Premio speciale della giuria per la Donna Scrittrice, il Premio Letterario Internazionale Casinò di Sanremo e il Premio Buk. Editor per la casa editrice Einaudi, ha tradotto testi di Marguerite Duras.

(Rosella Postorino “Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente” pp. 224, 17,50 euro, Solferino 2024)

 

 

 

 

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

Tempo presente          —————————

Ti fa restare fermo senza sognare

Tre testi inediti

di Roberto Dedenaro

Drva sogni suoni

Tra le quasi macerie di una casa forse ex
Anna parla del padre che raccoglie
legna nella brina vagando fra campi

A voltarsi un tempo terreno

Mani nella brina e pochi voli
nei silenzi d’erba che sono ancora mani

Il legno raccolto buttato veniva dalla gmajna
dono duro duraturo d’oro da accarezzare
con le mani inspessite dai geli.
Io ricordo quel calore
come un regalo di Natale l’intimità
appena violata e già memoria su
per i fianchi grassi del Volnik
a bagnarsi il cotone blu del vestito
Lì l’hanno trovato dopo un giorno
come un bambino nel feto, raccolto
e spento dentro un mite avvallamento

È una cartolina dell’ottocento, Natale in cui
avremmo sperato di poterci incontrare

È il giorno in cui Anna parla del padre
non so se esista o sia mai esistito
forse sono io che vago alla ricerca di legna
corrosa dalla piova e dal vento
è il convincimento che la maceria
sia più resistente e duratura di ogni altra muratura
sia, nel suo appartato esile esserci
una metafisica esistenza un’essenza
che balla proiettando chiari e scuri
sui terreni resi duri dalle temperature

Drva: legna da ardere, rami, in sloveno
gmajna: landa carsica
Volnik: in sloveno, collina non lontana da Trieste, monte Lanaro in italiano

*

La maestra che cercava eroi

La maestra batteva le mani
E trascinava la gamba alla finestra o
La gamba trascinata trascinava la maestra
“Attenti bambini, riposo bambini
La guerra è infinita dura dal primo giorno della vita.”
Ma la guerra vera è una primavera in cui sbocciano gli eroi”
Attenti, riposo, è stato forse il papà vostro un soldato?”
E si poté vedere una mano sollevata
Era mio il corpo a cui era attaccata?
Ecce homo!

Cosa si prova a
Mettere i piedi sulla terra
Non era facile non alzarsi ai quarti
Ai turni di guardia e guardare il mare
Adesso il vuoto è buio senz’onde
Il mare diventato soprattutto silenzio
E non c’è da dire se non non dire
Dei mesi di guerra dell’emersione che fece
Salva la vita e la rese smarrita.
Smarrito anche il nome, cresimato laggiù
così lontano da tornare a fatica

Vedo le domeniche speciali dal riso indiano
E i pomeriggi dalle gallette inumidite
cibo della tempesta dalla cucina impedita
che si frantuma tra le dita ti fa restare fermo senza sognare
cosa resta del mare se nessuno sa raccontare
ma bisognava possedere le parole
perse nonostante la maestra ma
di avere un soldato padre io non avevo intenzione
volevo un padre che non fosse malato, che raccontasse
ma il male lo rendeva muto e pensava solo
al dovere di dovere e al massimo la scuola elementare
e andare per anni lungo il mare, e obbedire fino
alla cattura e dell’India lontana prigioniero
per mesi per anni a lungo rimaner lontano,
cara maestra che zoppava eroi cercando,
solo amici e pace e salute che non aveva
altro forse non voleva, al mare più non s’andava
ma veniva il mare a riempire le nostre stanze
guardandoci quasi affogare.

*

Basta poco

L’infinito in ogni discorso apparso
Riarso, fatto di poco e poco ancora
Un frammento che si frammenta, in interminabili frammenti
A te sembravano sempre meno, un nulla minimo
Ma inafferrabile, innumerabile, sterminato.
Io non capace di mettermi davanti…

È l’amore, quando se ne parla
stando in cappotto in cucina, il corpo ondeggia
come fosse un filo d’erba che il vento vuole prendere

Tra fogli figli e foglie, dentro alle tasche,
tra le dita, difendo il poco, le cose rimaste
l’amore, appunto, dell’incerto, tutto ciò che sa di nebbia nell’andare
le mete impoverite, la paura di tutto ciò che è grande
come l’autunno e le sue foglie
che sembra impedire a tutti di essere figli

(I testi qui proposti sono una anticipazione del nuovo libro di Roberto Dedenaro, che sarà pubblicato ad inizio 2025 da Vita Activa Nuova)

 

L’autore:
Roberto Dedenaro, triestino, insegnante, ha pubblicato, in poesia, quattro raccolte. Ha collaborato a trasmissioni radiofoniche e televisive per la sede regionale della Rai e per Radio Capodistria.
Suoi articoli sono apparsi in riviste e giornali, fra cui Il Piccolo, L’Unità, Juliet, Il Michelangelo. Ha collaborato con le artiste visive Jasna Merkù, Meri Gorni ed Elisa Vladilo, e con i musicisti Pavle Merkù e Fabio Nieder. Ha organizzato il convegno e pubblicato gli atti su Per Roberto Bazlen (Udine 1995), e curato le antologie Poeti triestini contemporanei (Trieste 2001) e Di sole di sale e altre parole. La nuova generazione in poesia a Trieste (Trieste 2004).
È redattore de L’Almanacco del Ramo d’oro. Organizza presentazioni ed eventi fra cui, da quattordici anni, Il sentiero dei poeti/PEŠPOT PESNIKOV in collaborazione con Marko Kravos e Vilma Puric, passeggiata poetica a Monrupino/Repentabor.

 

 

 

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————-

Credo nei bordi lungo i loro margini

Luca Buiat, “Una raccolta di silenzi e temporali”

di Giovanni Fierro

Il primo libro di Luca Buiat, “Una raccolta di silenzi e temporali”, è una geografia che libera i sensi ed indica le rotte, è una raccolta di scritti che apre la via e intuisce la direzione.
Perché è la testimonianza del suo esplorare la natura che circonda la sua Cormòns, e quindi è una mappa di terre che sono il Collio, la Brda slovena, le Valli del Natisone, il bosco dietro casa, le strade bianche e i sentieri che diventano una mappa per orientarsi nell’emozione, nel sentimento dell’andare, nelle parole del tornare.
Luca Buiat indica con precisione la necessità di una vicinanza con la natura, quando “le foglie sono piccole parole scritte/ appese ai rami gonfi delle querce” e puoi tranquillamente affermare che “mi manca, quella diserzione/ quel rifugio dell’anima/ quella libertà di andare sui monti,/ assieme alle spirali del vento”.
La sua è la testimonianza di come i luoghi fuori dall’area urbana continuano ad essere l’occasione dello stupore, la possibilità di una scoperta continua.
Lo sguardo, in questo suo libro, è fondamentale, è già esperienza prima dell’esperienza, è la disponibilità all’accadere e del sentire, è l’occasione per vedere in modo più nitido dentro di sé.
Credo nei temporali/ in quelle masse di vapore compatto/ hanno distese di ombre ventrali i temporali/ che calano a poco a poco sui prati” ci racconta, ed è questo il luogo dove poter stare meglio, per annotare la percezione dell’anima quando si misura con la sorpresa.
Il suo lavoro di scrittura è anche un rimodulare continuo la dimensione dell’appartenenza, perché dà la possibilità al paesaggio che si attraversa di diventare paesaggio interiore, anima in filigrana del proprio esistere, con la certezza che si può navigare ovunque, quando il mare è una terra da esplorare.
Luca Buiat mette il silenzio e la lentezza al servizio del proprio essere umano, per prendere appunti, per non farci dimenticare neanche la più piccola sensazione. Ci invita a conservare i nostri passi nella forma dei ricordi, li fa diventare la memoria a cui fare riferimento, il raccolto a cui tenere come bene prezioso, l’andare a capo che porta a nuovi desideri.
“Una raccolta di silenzi e temporali” è tutto un creare vicinanza. L’unica verità necessaria per costruire un istante condiviso, un confronto assoluto, un dialogo irrinunciabile. Basta avere la cura di accorgersene, “dove i pomeriggi iniziano a trovare/ il tempo che ci manca”.

 

 

Dal libro:

Imparare dalle api

Dovremmo tornare alla terra
potremmo imparare dalle api
per essere, non apparire.

Salvaguardare le diversità, le comunità,
le minime necessità
acqua, polline, miele.

Imparare dalle api
la dinamica del volo
danza e geometria.

Emanare e scambiarci sostanze odorose
per comunicare senza clamori
il cibo, la sua distanza.

Inviare segnali di vita sulla terra
per tornare umani
amare veramente.

*

Credo nei temporali

Credo nei temporali
in quelle masse di vapore compatto
hanno distese di ombre ventrali i temporali
che calano a poco a poco sui prati

sono scosse le zampette dei grilli campestri
sui fili d’erba, grandi balene immense le nuvole
d’estate nei cieli delle Valli prisma di lotta,
tra il blu marino e il deserto verde
credo nel primo lampo che spacca le colline,
quella luce bianca che schizza sui paesi

credo nelle prime gocce che cadono
portando frescura sui miei palmi sudati
sono mani/guanti che tengono vivo
il manubrio sui tornanti
è un’allegria profonda la pioggia,
che bagna l’anima nel respiro del paesaggio

credo nel vento
che fugge e torna nella tempesta
nelle arie fredde che piombano dentro l’arsura
quelle che soffiano sulle foglie

credo nei bordi lungo i loro margini
nella resistenza che sta in quelle venature
svirgolano, girano e rigirano
le foglie sono piccole parole scritte,
appese ai rami gonfi delle querce.

*

Fai di te una gemma

L’inverno è fatto per aspettare
non devi fare altro che congelare l’attesa
e lanciare via l’ansia, dal finestrino dell’auto

ora stai fermo sopra la città
guardi il fumo cenerino del pomeriggio
che sale verso il cielo, tracce fiacche di vapore denso

fai di te una gemma e proteggiti
in quello spiraglio di raggi in luce aurea
che nasce piano dalla Primavera

la senti arrivare dal boschetto di acacie
su quella testa scossa della collina, la Primavera
un fragore di versi volatili di rimbalzo tra i rami

ad ogni giro di primule, non devi fare altro
che guardarti dentro, accamparci lo stato d’animo,
sopra le foglie di una delicata felce
che si mostra al vento.

 

Intervista a Luca Buiat:

“Una raccolta di silenzi e temporali” è decisamente lo scegliere di stare dalla parte della natura. Per te cosa vuol dire questo? Cosa significa?
Stare a contatto con gli elementi naturali, imparare ad ascoltarli, significa rinnovare ogni volta un senso di beatitudine che mi attraversa l’anima. Non sono dei momenti dove scappo dalla realtà di tutti i giorni, anzi ogni volta è un ritrovarsi, un riprendermi la vita una volta ogni tanto. Abbracciarla come se fosse tuo figlio, tua figlia, tua madre, la tua compagna oppure semplicemente me stesso, perché a volte “mi manco”.
Poi anche perché stare dalla parte della Natura è stare lontani per un po’ dal vizio dell’iperindustriosità, che ci avvolge e che in parte ci ha resi un po’ schiavi di questo nostro stile di vita non più sostenibile.

E in questa scelta, qual è il tuo rapporto con la parola, con le parole, a cui affidi questo legame, questa vicinanza?
Camminare o correre mi aiutano a meditare, a percepire, a stare con me, dove entro in una sorte di spazio temporale dove ci sono solamente io, la strada oppure un sentiero in un paesaggio che mi accompagna. Sono proprio in questi momenti dove raccolgo le parole, parole e percezioni, che mi aiutano a scrivere piccoli appunti da tenere a mente.
Oppure “registro” la mia voce sopra un nastro immaginario, dove la lascio scorrere… poi le trascrivo sulle pagine di un libro che sto leggendo. I miei racconti iniziano a nascere nei posti dove vado, poi questi posti me li ritrovo sul comodino dentro i libri che leggo. Poi piano piano iniziano a crescere sul mio PC, dove sviluppo un racconto oppure una poesia.
A volte mi addormento con il respiro del fiume accanto alla piccola luce del comodino, forse è proprio questa la mia vicinanza.

Mi sembra che tutto il libro si nutra di un bisogno di libertà, mi sbaglio? E se è così, quale libertà è?
È un tipo di libertà dove ascolto il suono del vento selvatico che mi accarezza la pelle, oppure quando sento la corrente dello Judrio scorrere di fronte a me, la voce delle Valli che attraverso, oppure correre e liberare il proprio corpo nel paesaggio dove respiro.
Oppure scrivere una serie di appunti, riuscire ad interpretare la bellezza naturale attraverso le parole che mi suggerisce un sentiero dove corro o cammino.
Scrivere per me è fondamentale, è come se tornassi ancora nei posti dove da cui sono appena arrivato. Scrivere è un bel gioco, mi diverto e sono felice, forse è anche questa la mia libertà.

In che modo “Le foglie sono piccole parole scritte”?
Quando cammino lento mi piace fermarmi a guardare dentro i piccoli dettagli. In questo caso guardo le foglie, la loro forma autunnale, accartocciata. Penso alla loro nascita sui rami degli alberi, al loro splendore primaverile, a quando “suonavano” verdissime, quando stavano tra gli alberi durante le mie “corse” estive. Poi penso al loro ultimo volo, quando cadono a terra, la polvere che lasciano sulle strade, I loro colori, sempre diversi, che torneranno…

Il tuo esplorare la natura è un andare in bici, è il camminare. Che tipo di attenzione è?
In quei momenti mi concentro esclusivamente su ciò che guardo o sento. Dedico tutto me stesso al suono di un’escursione, al suono di una corsa. Sentire l’aria che corre con me attraverso le fessure del casco che uso per andare in bici è una sensazione bellissima, dove mi dico: ecco Luca sei tornato ancora sulla strada, sulla strada giusta, non puoi sbagliare, lasciati andare ancora dalla strada.

Quanto e come, il paesaggio esterno, esteriore, diventa poi un tuo intimo paesaggio interno?
Quando i sentieri o le strade che percorro tornano sugli appunti che scrivo, si materializzano sullo schermo del PC. Oppure quando mi sto per addormentare, guardo ancora quella curva bellissima che saliva sopra quella montagna. C’è questa forma di ricordi che tornano ogni volta che ripercorro mentalmente le strade che faccio.

Cosa significa ricominciare a mappare questa geografia di piccoli luoghi e posti?
Mappare tutti i luoghi che ho guardato negli ultimi anni è stato un “lavoro” molto divertente e stimolante, mi sono reso conto del fatto che siamo davvero consapevoli di tutta la bellezza naturale che ci circonda?
Tanti di questi luoghi sono davvero a pochi passi dalle nostre case, però andando in giro qui e là ho visto che c’è una certa riscoperta del nostro territorio.
Abitiamo in uno spicchio di terra davvero piccolo, eppure sono convinto che c’è ancora tanto che devo continuare a guardare, esplorare per continuare a scrivere, raccontare ancora la terra dove vivo e cammino, dove non c’è più il confine. Attraversarlo senza nemmeno accorgersene al giorno d’oggi sembra così scontato, soprattutto in un momento storico così tragico come quello che stiamo vivendo attualmente.

In tutto questo tuo andare e scrivere, fatto di pazienza e sguardi, attese e stupore, che tempo costruisci?
È un tempo totalmente diverso da quello che vivo quotidianamente, è un po’ come se il tempo reale scomparisse sotto i miei piedi, sotto le ruote della mia bici. Poi la scrittura mi aiuta a fermare il tempo che passo sulle strade, sui sentieri, accanto ai fiumi della nostra regione, nella vicina Slovenia.
È come se uscissi per entrare da un’altra parte, un’altra dimensione, un’altra terra da esplorare sempre con occhi diversi, pronti a cogliere ogni sfumatura della luce che cambia di giorno in giorno, che passa inesorabile sopra le nostre teste.

 

L’autore:
Luca Buiat è nato a Cormons (Go) nel 1971. Il piacere di “stare” nei libri lo scopre da ragazzo grazie alla lettura de “La natura ci parla” di Herman Hesse.
È appassionato di escursionismo e dei paesaggi naturali del Nord-Est del Friuli, che percorre in bici oppure a piedi.
Da qualche anno ha iniziato a frequentare i corsi di scrittura creativa che si tengono all’UNITRE di Cormons.

(Luca Buiat “Una raccolta di silenzi e temporali” pp. 71, 12 euro, qudulibri 2024)

 

 

 

 

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Tempo presente         —————————-

Riverbero

Tre testi inediti

di Tomislav Vrečar

La speranza è infranta, le parole come un’eco,
finte ombre in movimento, pareti intrise di suono.
Il cuore batte, lo spirito vacilla, la luce si rifrange nello specchio,
mentre il nostro pane è pieno di urla nel deserto.
In mezzo all’apparente abbondanza ci troviamo di fronte all’inazione,
doversi dilagare in un bisogno di sottile mancanza.
Ho visto una donna picchiare il proprio cane,
la cui unica colpa era di essere selvaggio;
è come un’onda calda, che viene portata via dai bordi taglienti dell’indicibile,
le parole scompaiono, gli uccelli gridano,
la tensione fra radicamento e impurità brucia, brucia, brucia!
Guerra o pace, la vita avviene sempre in ritardo.
Nelle vie senza uscita, sono una moltitudine che abbatte i muri,
la divisione è solo il danno che faresti,
mentre spicco il volo in caduta libera,
mangiare il guanciale della luce a mani nude – brucia!
L’imbrunire scalmanato tossisce l’anima nei trammonti a venire,
il mondo corre verso la rovina da sempre,
ogni passo è un annientamento perpetuo.
Se vivo non scrivo e viceversa,
cambiavo i volti come i calzini vecchi,
ero una moltitudine persa, un pazzo che voleva sbranarsi,
al pronto soccorso mi svegliai sopra la barba di Whitman,
era una fuga invano, un disintegrarsi con il veleno del piacere.
E così ho riso, e così ho pianto,
ma chi sentiva questo urto sfrenato?
Le braccia della droga mi strappavano da questo mondo uniforme,
non potevo morire senza lasciare una traccia nel vuoto delle parole,
e la mia lapide era un sorriso senza un volto,
mi svelavano mondi reali costruiti con il potere dei sogni.
Una notte mi visitò Pavese, mi lasciò solo in un motel,
con la semiotica dell’invisibile,
e le muse gridarono: “Per piacere, non te ne andare…”
ed io scappai, era una fuga senza traguardo,
il giorno dopo salii su una ringhiera piena di convinzione,
i corvi devono volare e oltrepassare la strada.
La danza è vera, tra le fauci delle bugie,
non c’è niente dentro l’astrazione,
tutto frana! Mettere in dubbio l’equilibrio – rapace – troppo tardi ormai,
il ricordo delle pietre smuove montagne,
un atto di violenza, assolutamente nient’altro.
Ed è così meravigliosamente inverno.

 

 

 

 

Immagini       ————————-

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Latinoamericana        ———————-

Un poema para cuando cuadre    Una poesia per quando va bene

Un testo inedito

di Jorge Aulicino

Revolución, divino tesoro
Rescatando al soldado Ryan

Los ángeles guardianes serán aviones lanzamisiles
llegados en el momento oportuno; lluvia
habrá sobre los atuendos, sobre los campos
en los que todavía arderán ruinas,
medias casas, y los cuervos se alimentarán
pensativamente de carne del Rin o de Missouri.
¿No crees que al rayar el alba de algún día
en el que amanecerás maldiciendo el sonido
de los taladros y los gritos en los andamios
y el aire acondicionado fallará tosiendo,
sobrevendrá un cielo de ligustros
bajo nuestros ojos, un mar tibio y plácido
transparentará manglares
pero el cielo se hará de pizarra oscura,
ahumado por los demonios,
en tanto Tom Hanks herido de muerte
seguirá disparando su inútil
pistola contra el tanque que se le viene encima,
siendo esa la única forma decente de morir?

 

Rivoluzione, tesoro divino
Salvare il soldato Ryan

Gli angeli custodi saranno gli aerei missilistici
arrivati al momento giusto; la pioggia
sarà sulle divise, sui campi
dove le rovine bruceranno ancora,
le case a metà e i corvi si nutriranno
premurosamente di carne del Reno o del Missouri.
Non ci credi che all’alba di un giorno
in cui ti sveglierai maledicendo il suono
delle esercitazioni e delle urla sulle impalcature
e l’aria condizionata fallirà tossendo,
verrà un cielo di ligustri
sotto i nostri occhi, un mare caldo e placido
dove le mangrovie saranno trasparenti
e il cielo sarà di scura ardesia,
affumicato dai demoni,
mentre Tom Hanks è stato ferito a morte
e continuerà a sparare con la sua inutile
pistola contro il carro armato che gli viene addosso,
è questo l’unico modo decente per morire?

(Traduzione in italiano a cura di Antonio Nazzaro e Giovanni Fierro)

 

L’autore:
Jorge Aulicino, poeta e giornalista argentino, è nato nel 1949, nella città di Buenos Aires. All’inizio degli anni ’70 entra a far parte del laboratorio letterario Mario Jorge De Lellis, uno dei luoghi in cui si realizza il ripensamento generale del movimento “coloquialista” degli anni ’60.
È stato membro del consiglio di amministrazione del “Diario di Poesia” tra il 1987 e il 1992, pubblicazione influente nell’ambito poetico della Buenos Aires degli anni 80. Ha lavorato in agenzie di stampa e riviste e, per 28 anni, nel quotidiano Clarín.
Dal 2005 al 2012 è stato redattore della rivista culturale Ñ. Collabora alla rivista digitale Op. Cit. e nel Giornale di Poesia dell’Università del Messico. È stato membro della Giuria del Premio Nazionale di Letteratura nel 2004; e, nel 2015, ha ricevuto il Premio Nazionale di Poesia.
Tra i suoi libri più recenti “Libro del engaño y del desengaño” (2011), “El camino imperial. Escolios” (2012), “El Cairo” (2015) e “Corredores en el parque y Mar de Chukotka” (2018). Ha anche pubblicato l’antologia di tutte le sue poesie, che comprende sedici libri, con il titolo “Estación Finlandia” (2012).
Ha tradotto, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Franco Fortini, Antonella Anedda e Biancamaria Frabotta.
Otra Iglesia Es Imposible è un punto di riferimento quando si parla di poesia nella rete, sia in lingua spagnola che in lingua straniera, e lo gestisce dal 2006.

Il suo blog: https://campodemaniobras.blogspot.com/

 

 

 

 

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Senza titolo

Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Tempo presente        ———————-

Vaghe stelle dell’Orsa

La rassegna di poesia

Vaghe stelle dell’Orsa” è una rassegna di poesia che si svolge a Pesaro dal 2012 ideata e curata dalla poetessa Laura Corraducci, con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della città e dal 2022 anche con l’aiuto dell’associazione culturale Amici della Prosa.
Ha richiamato in questi undici edizioni oltre una novantina di poeti italiani e stranieri, fra le voci più belle del panorama poetico italiano e internazionale, ottenendo sempre un’ottima risposta di pubblico.
Da quattro anni le serate della rassegna vengono trasmesse in diretta sulla pagina Facebook “Vaghe stelle dell’Orsa” e sulla pagina Facebook “Amici della Prosa”.

 

Intervista a Laura Corraducci:

Ideatrice e curatrice di “Vaghe stelle dell’Orsa”

di Giovanni Fierro

Da cosa nasce l’idea di “Vaghe stelle dell’Orsa”? E come si è sviluppata nel tempo?
Intanto vorrei ringraziare te Giovanni e tutta la redazione di “Fare Voci” di questo invito e di questa possibilità di parlare della rassegna.
“Vaghe stelle dell’Orsa” nasce nel 2012 da un mio desiderio molto forte di portare poesia a Pesaro, la mia città. Il titolo è il primo verso de “Le Ricordanze” di Leopardi che, come si sa, era di Recanati, non distante da qui; scelsi questo titolo come omaggio a lui ma anche per suggerire l’idea di leggere e ascoltare poesia nelle notti d’estate, sotto un cielo stellato.
Inizialmente la rassegna era a metà giugno, negli ultimi anni è stata poi spostata a luglio, ma la costellazione che domina il cielo dei mesi estivi è, appunto, quella dell’Orsa Maggiore.
Gli incontri sono tre con cadenza settimanale, (in genere il mercoledì) sempre all’aperto, in spazi molto belli del centro storico.
La prima edizione fu nel giardino di una biblioteca, Biblioteca San Giovanni, la più grande della città, gli anni successivi fino alla scorsa estate, invece, nel suggestivo Cortile interno dei Musei Civici. Il Cortile ha alla parete una splendida libreria, un ricordo di una parte della scenografia di un’opera rossiniana. Pesaro ospita da tanti anni, un festival molto importante, dedicato alla musica di Rossini che, proprio qui, ebbe i suoi natali.
L’ultima edizione come dicevo, ha cambiato location, (soprattutto per problemi di capienza e sicurezza), ci siamo spostati in un altro bel cortile di un elegante palazzo del centro. La rassegna ha una formula precisa che non è cambiata negli anni, tre poeti a serata e intermezzi musicali in un’atmosfera intima e, credo, preziosa.

All’inizio della rassegna, c’erano degli obiettivi già definiti? Ed eventualmente, come si sono rapportati alle risposte ottenute?
L’unico obiettivo era, e continua ad essere, quello di offrire buona poesia; ci sono persone che non si avvicinano alla poesia semplicemente perché non la conoscono, le librerie hanno spazi sempre più piccoli, i media non se ne occupano, i poeti non sono invitati in tv, in dibattitti culturali, la poesia si riduce in frasette o slogan da social.
Fra le varie lezioni di questi anni, devo dire che c’è soprattutto questa, la gente non è allergica alla poesia come spesso si crede, in realtà ne ha più sete di quanto non si pensi, il pubblico è sempre stato numeroso, eppure non ci sono effetti particolari, c’è un leggio, un microfono e un dialogo fra me e gli autori che presento ma, ogni volta, questo ascolto partecipato del pubblico mi meraviglia e ovviamente mi fa felice.
Probabilmente in questi anni il pubblico si è anche lasciato educare alla poesia, è cresciuto da questo punto di vista, si è abituato a questo appuntamento e in questo è entrato in un contatto più diretto con la poesia.

In che modo l’Amministrazione Comunale ha sostenuto e sostiene “Vaghe stelle dell’Orsa”? E in che maniera la rassegna si sta rapportando con la città, facendola crescere in che cosa?
L’Amministrazione dà un contributo economico perché la rassegna possa realizzarsi, da un paio di anni, “Vaghe stelle dell’Orsa” avviene in collaborazione con il Gad, un’altra realtà culturale della città, che si occupa di prosa.
Anche negli anni del Covid non ho voluto smettere, il 2020 è stata un’edizione in realtà molto bella: ci siamo spostati all’interno dei Musei Civici e ogni sera abbiamo scelta una sala diversa, i poeti erano collegati online e con me c’erano i musicisti, ovviamente senza pubblico dal vivo ma è stato comunque particolarmente emozionante anche per via del periodo in cui si viveva.
Ogni mercoledì cambiavamo sala ed eravamo circondati da opere artistiche pazzesche: il pubblico ci seguiva online, da quell’anno sono partite le dirette Facebook (si è rivelato inoltre un modo per far rimanere uno storico) che poi negli ultimi anni sono continuate.
Per le ultime due edizioni ci siamo avvalsi di Rossini tv, una televisione locale che riprende e poi trasmette le serate anche nelle giornate successive agli incontri (Almeno un paio di passaggi a settimana, questo consente di raggiungere un pubblico più ampio e di fare conoscere l’iniziativa).
In undici anni a tre serate a edizione e tre poeti a serata, parliamo di oltre 90 poeti intervenuti, italiani e stranieri, (ho voluto fortemente anche la poesia straniera) è un numero non di poco conto, anzi direi piuttosto importante.
Ci sono stati poeti di ottimo livello di nazionalità inglese, francese, macedone, tedesca, fiamminga, israeliana, americana, spagnola, indiana, portoghese, turca, slovena. Mi piace fare scoprire la poesia in lingua originale, la lettura avviene in versione bilingue, generalmente io leggo la traduzione in lingua italiana, di alcuni ho anche curato le traduzioni.
L’incontro con gli stranieri mi ha dato molto, ho sempre conosciuto persone aperte, umili, in Italia a volte non è lo stesso, purtroppo.
Ho dato spazio anche alla poesia dialettale in varie edizioni, penso abbia una sua forza e un suo vigore assolutamente non inferiori alla poesia in italiano.

Quali sono le difficoltà più evidenti da affrontare, e quali i problemi più ricorrenti da risolvere?
Le difficoltà sono in genere legate all’aspetto organizzativo, come tutti gli eventi naturalmente, la parte logistica ha un suo peso, non nascondo che vorrei avere più finanziamenti, l’aspetto economico aiuta a risolvere parecchi problemi pratici e contribuirebbe a darle un aspetto più internazionale, a volte mi stupisco di come comunque sia andata avanti cosi bene in questi anni, senza aver avuto cifre importanti.

Quali sono, secondo te, i momenti che hanno dato l’identità alla rassegna? E cosa in questi anni ti ha sorpreso?
Sono i poeti stessi a dare identità alla rassegna e, forse, anche il modo di entrare in dialogo con loro e la loro opera: io li scelgo, li studio e li presento uno ad uno, cerco di tenere una tensione fra il presentare l’autore nel modo più profondo possibile e, allo stesso tempo, di accompagnare il pubblico nello scoprirlo. Non dobbiamo dimenticare che durante una rassegna, il pubblico sta seduto per alcune ore (in genere cerco di stare sulle due ore) ad ascoltare parole e versi, i tempi di attenzione e l’interesse vanno rispettati.
Alle volte ho partecipato ad incontri dove i poeti leggevano per oltre mezz’ora senza interruzione, penso, possa essere rischioso anche perché un incontro di poesia come “Vaghe stelle dell’Orsa” non è una conferenza di esperti, io provo a stare in equilibrio fra queste due cose, nel rispetto della Poesia e del Pubblico. (Le maiuscole hanno un senso).
Quello che invece mi sorprende è la bellezza, in un verso e nell’altro, la bellezza della poesia che resiste da oltre undici anni, la bellezza dei volti della gente, la bellezza della musica, mi è capitato diverse volte di sentirmi dire: “Grazie di questa bellissima serata, lui/lei mi è piaciuta/o moltissimo, non lo conoscevo. Voglio leggerlo/a”.
Ecco il senso di tutto, la fatica si scioglie in questa frase. Certo non mi illudo che tutti i poeti che scelgo piacciano o siano piaciuti ed è anche giusto così ma è comunque un grande risultato.
C’è un episodio che cito spesso e che risale alla prima edizione, riguarda Pierluigi Cappello, io lo volevo a tutti i costi, ma lui, per motivi di salute non poteva scendere a Pesaro, mi inventai il collegamento Skype, gli incontri online all’epoca erano meno comuni di oggi, lui accettò, non era avvezzo alla tecnologia, facemmo le prove i giorni prima, si dimostrò sempre paziente, gentile.
L’incontro fu meraviglioso, tutti i presenti ne rimasero rapiti, lesse anche testi in friulano, nessuno perdeva una parola. Impressionante il carisma che aveva non solo come poeta ma anche come uomo e come comunicatore, a distanza di anni chi c’era se lo ricorda e me lo ricorda ancora. Lui ha segnato “Vaghe stelle dell’Orsa” anche se forse non se n’è nemmeno reso conto, gli sarò sempre profondamente grata di questo.

“Vaghe Stelle dell’Orsa” è di sicuro un osservatorio speciale da cui vivere la poesia. È cambiata in questo periodo? E che cosa significa lavorare nella percezione che le persone hanno della poesia?
Quando ho iniziato Vaghe stelle, l’idea era quella di chiamare poeti “di fama” ma anche poeti che non lo fossero poi tanto e che rispetto agli altri avessero meno “palchi”; ci sono poeti e poetesse bravissime che non hanno possibilità di visibilità e che invece magari meriterebbero. Volevo dare un’occasione e anche oggi è così.
Ogni anno cerco di offrire un panorama poetico variegato ma di qualità, ci sono poeti che sono stati ospiti più volte, magari in omaggio a qualcuno, da almeno tre edizioni, infatti, chiamo un poeta non a leggere se stesso ma ad omaggiarne un altro scelto da me e che, magari, ha in lui o in lei una certa risonanza.
Abbiamo omaggiato la Dickinson, la Pozzi, la Plath, la Cavalli, Whitman, Scarabicchi – che io considero fra i più grandi del nostro tempo – e, come già detto, Cappello.
Sono stati sempre momenti molto belli, è un modo per decentrare se stessi e offrire la propria voce e la propria sensibilità poetica al servizio di un poeta che ha fatto la storia della poesia in Italia o nel mondo.
A proposito dello stato della poesia oggi, direi che sia buono, più che buono, ci sono tanti giovani che scrivono e sono assolutamente degni di nota, e ovviamente altre voci che sono maturate e stanno facendo un intenso percorso poetico; certamente bisognerebbe lavorare di più per arrivare alle giovani generazioni, gli insegnanti di lettere dovrebbero essere formati e più innamorati della poesia per poterla offrire poi ai propri studenti in modo più vero, spesso i ragazzi nemmeno sanno che esistono poeti viventi.
Infine le istituzioni e le case editrici dovrebbero investire con coraggio sulla poesia senza la pressione dei grandi numeri; so che è molto arduo questo e che da anni lo si ripete un po’ da tutte le parti ma proprio Cappello, giustamente, diceva: “La poesia deve essere gratuità, di gesto e di invenzione, non deve essere mai finalizzata e forse per questo oggi è da pazzi scriverla”.

Personalmente, “Vaghe Stelle dell’Orsa” cosa ti ha dato, cosa ti sta dando? A livello umano e in quanto autrice di poesia….
“Vaghe stelle dell’Orsa” mi ha dato la possibilità di leggere e di ascoltare moltissima poesia contemporanea, italiana e straniera, di conoscere poeti e quindi persone, in qualche caso anche se non nascono amicizie (in alcuni sì, penso a Massimiliano Bardotti che ho conosciuto proprio a Vaghe stelle quando venne ospite la prima edizione e che spesso ho chiamato a collaborare o a Luca Pizzolitto, Annalisa Ciampalini), sono comunque momenti umani molto arricchenti.
È una fatica, tanta, ma anche un forte nutrimento interiore e di grande ispirazione anche alla mia scrittura.

Quale il rimando a livello nazionale che questa tua creazione sta avendo?
Questo non lo saprei definire con esattezza, so che se avessi più soldi fra le altre cose, investirei di più in pubblicità e comunicazione, oggettivamente sono due aspetti che aiutano a fare crescere gli eventi anche naturalmente quelli culturali e sicuramente da questo punto di vista Vaghe stelle ne gioverebbe.

 

 

La curatrice:
Laura Corraducci è nata a Pesaro nel 1974 dove risiede, è insegnante di inglese.
Nel 2007 pubblica il suo primo libro di poesie “Lux Renova”.
Suoi inediti sono apparsi su “Punto Almanacco della poesia italiana 2014”, edizione Puntoacapo, “Gradiva” con nota critica di Giancarlo Pontiggia, “Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea 2”, Raffaelli editore.
Dal 2012 organizza, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della sua città, la rassegna poetica “Vaghe stelle dell’Orsa”, dedicata alla poesia contemporanea italiana e straniera.
Nel 2015 pubblica la raccolta poetica “Il Canto di Cecilia e altre poesie”.
Ha scritto e portato in scena i recital poetici “Dell’amore, della parola e di altri tormenti”, “Il rovescio della luce”, ispirato alle vicende storiche della Seconda Guerra Mondiale nella provincia di Pesaro, “Sopra di me soltanto il cielo. La poesia e la vita di Anna Achmatova”, “Marlene D. storia di un angelo azzurro” ispirato alla vita di Marlene Dietrich.
Sue poesie sono state tradotte in lingua spagnola, inglese, olandese, rumena, francese e portoghese.
Ha tradotto il libro “Dire sì in russo” della poetessa inglese Caroline Clark, poesie della poetessa turca Muesser Yehniay e del poeta americano Bill Wolak.
È stata ospite per la Giornata Mondiale della Poesia all’IIC di Cracovia nel 2018 e a diversi festival internazionali di poesia.
Il passo dell’obbedienza” (Moretti e Vitali, 2020) è il suo terzo libro di poesie, vincitore del terzo premio del concorso “Premio Umbertide XXV aprile”.

 

 

 

 

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Voce d’autore        ———————-

Per un attimo l’aria si è voltata

Alessandra Corbetta, “L’età verde”

di Roberto Lamantea

C’era una volta una bambina che era tante bambine, abitava in un bosco sempreverde che non era solo un bosco. “Il Padre ha praticato il silenzio/ e messo un vuoto nella bambina./ Adesso lei sa distinguere ogni suono/ e muoversi senza fare rumore.// In un angolo del bosco la costringe/ a non muoversi più, a non piangere mai”. “In un angolo di bosco la Madre coltiva/ fiori rossi e canta la bellezza della vita”.
La bambina ha gli occhi verdi e d’oro, sa stare per sei giorni su una gamba sola. Osserva il fiume, che scorre da una parte all’altra del bosco. I capelli della bambina trattengono i riflessi del tempo, tra i denti ha l’alfabeto, ma “solo l’Ombra sapeva farlo suono/ e trasformare il suo silenzio in canto”.
Con una freccia la bambina spacca il cuore del Maestro, si mette un fiore tra i capelli, corre in mezzo al bosco e danza tutta la notte intorno al corpo; poi saluta nell’ombra le bambine e in sella alla bestia esce dal bosco: “Vuole vedere se davvero vivere/ sia abitare qualcosa di più grande”.
Inizia come una fiaba alla Lewis Carroll il nuovo libro di versi di Alessandra Corbetta, “L’età verde”, fresco di stampa per Samuele Editore nella collana Gialla di Pordenonelegge. Una fiaba delicata e misteriosa come tutte le fiabe, dove la bambina come Alice scopre il mondo e le sue meraviglie, la magia del tempo e dello spazio, e poi vola alla scoperta del mondo. L’età verde: la più classica delle metafore sulla giovinezza del tempo. O, come dicono i titoli delle sezioni, le tante tonalità del colore: da “Sempreverde” (la fiaba) al “Verde cacciatore” (il padre), “Verde primavera” (la madre) “Verde palude” (la nonna), poi via via menta (il fratello), Arlecchino (la sorella), giungla (l’amato).
L’età verde” è la terza silloge dell’autrice dopo “Corpo della gioventù” (2019) e “Estate corsara” (2022), entrambi pubblicati da “puntoacapo” di Cristina Daglio.
È il tema del tempo ad attraversare i testi di Corbetta, in versi che hanno a volte la malinconia del ricordo, una foto che ritaglia un angolo di spiaggia, i fiori su un balcone, un “tu” che può essere l’amato o l’invocazione all’altro (in questa raccolta c’è anche il “tu” montaliano, sospeso tra astrazione e invocazione: “Sappi. Non torneremo a oggi,/ se null’altro che questo per noi serbi”). In “Corpo della gioventù” c’è una dedica a se stessa: “a me, che non sono/ mai iniziata”; in “Estate corsara” rivive “quell’invisibile perduto/ che continua, fa capolino”; sentenzia “Ricordi? Eravamo” e conclude, quasi preludio al nuovo libro, con “Il verdeazzurro dell’infanzia”. Montalianamente non si riavvolge il nastro del tempo ma una vecchia foto, una rêverie, una madeleine ce ne restituiscono un frammento che leggiamo però con la luce di oggi, trasfigurato.
È brava Corbetta a darci questa intermittenza: anche se la bambina, come Pollicino, “ha in tasca sassolini per segnare la strada”: “Vorresti ancora un ritorno d’estate/ come un bambino del frutto la polpa,/ la polpa soltanto…/ Ma quella buccia ispida e spessa/ è lei che prolunga l’inverno/ e lascia marcire il meglio/della tua stagione più bella”.

 

Dal libro:

La Madre retrocede nello splendore.
Stare nel bosco è rinunciare, amare tanto.
La bambina ha imparato da lei cos’è l’amore:
guardare insieme la vipera cantare.

In un angolo di bosco la Madre coltiva
fiori rossi e canta la bellezza della vita.
Stupita la guarda la bambina, osserva
che sopportare cambia la luce delle cose.

In un barattolo di vetro prepara occhi nuovi
per il grande compromesso.
E dorme e si sveglia intanto la bambina.
L’ha sentita agitarsi nel lettino…

*

La bambina ha occhi verdi e d’oro,
sa stare per sei giorni ferma su una gamba sola.
Il settimo prova a prendere le farfalle
e se non ci riesce ribalta il calendario.

*

Sembra che tra le ciglia la bambina
conservi la neve della notte.
Quando apre gli occhi esce gelo o meraviglia,
dipende dalla stagione del suo corpo.

*

I capelli della bambina trattengono
i riflessi del tempo già perduto.
Rame o corallo è difficile da dire,
ma niente che somigli a qualcos’altro.

*

Un’Ombra arriva in sogno alla bambina,
incide una fessura nel suo sonno.
Le dice che niente resiste al nero
e che nessuna notte può avere fine.

Tra i denti la bambina ha l’alfabeto,
lo tiene stretto come una cosa cara.
Solo l’Ombra sapeva farlo suono
e trasformare il suo silenzio in canto.

La bambina ha inseguito l’Ombra
e con lei ha conosciuto il buio e il nulla.
Per questo ora cerca luci chiare
e spazi ornati di frutta e fiori.

*

Mesi dopo sei tornata nella stanza del bucato.
Hai mosso le lenzuola, sistemato le mollette,
scosso i fili senza farti vedere
e senza fare rumore.
Ti ho chiamata e sono certa,
per un attimo l’aria si è voltata.

*

È dorata l’estate quando viene
e di sorpresa coglie i nostri sguardi
già persi dentro l’esplodere dei tigli.
Guardami e dimmi se non è questo
il nostro tempo più verde
e quanto passato ancora serve
per credere a un futuro di noi.

*

Sappi. Non torneremo a oggi,
se null’altro che questo per noi serbi:
né casa né figli né ripostigli da imbiancare
né mattine dove dire prepari tu il caffè?
Oggi è un tempo di transizione, poi
una voce verrà a chiamarti, a ricordarti
le antiche promesse sfiorite.
Prendimi per mano, lascia sprofondare
il canto aspro della sirena.

 

Intervista ad Alessandra Corbetta:

In “Corpo della gioventù” scrivi: “A me, che non sono mai iniziata”; in “Estate corsara”: “Ricordi? Eravamo” e “verdeazzurro dell’infanzia”. Ora “L’età verde”. Anche Leopardi diceva che il tempo della poesia è l’infanzia: e per te?
C’è la postura di chi sta rivolto all’indietro, nella mia poetica, come se ciò che è già stato fosse, in quanto tale, sempre meglio di ciò che viene. L’accaduto può essere mitizzato, diventare un racconto altro, dal momento che ne si conoscono le coordinate e la distanza temporale con il qui e ora permette di osservarlo con sguardo nostalgico. Questo tempo è quello che precede l’ingresso nell’età adulta, fatto di infanzia ma anche di giovinezza e soggiacente all’idea che serva uno capace di credere ancora nell’altro e nella vita, uno sguardo che per me continua a stare nel prima.

Il tuo nuovo libro inizia come una fiaba: c’è una bambina che è tante bambine, un bosco misterioso un po’ alla Lewis Carroll, ma anche qui in filigrana il tema è il tempo. Che cosa sono per te le fiabe?
Le fiabe sono una delle prime forme di scrittura con cui sono entrata in contatto e che ho conosciuto dapprima attraverso la voce di mia mamma, che me le leggeva ad alta voce, e poi tramite la mia lettura silenziosa.
Sebbene da bambina non ne fossi consapevole, oggi credo che ciò che di questo genere letterario mi ha così affascinata sia lo stretto legame con la morte e con la necessità di affrontare la perdita, l’ostacolo e di rimanere dentro l’indeterminato e cioè in uno spaziotempo dove tutto può ancora essere scritto, e dove è possibile sempre immaginare un finale differente da quello che sembra palesarsi.

Tra guerre, notizie di cronaca agghiaccianti, una sempre più diffusa solitudine non più solo nelle metropoli ma anche nei paesi, verrebbe da pensare che in questa società non ci sia posto per la poesia, o per i sogni e le fiabe. Eppure la poesia, per quanto marginale per il mercato, almeno a vedere il numero delle pubblicazioni principalmente della piccola editoria, e di uno “zoccolo duro” di lettori appassionati, è viva: che cosa vuol dire scrivere poesia oggi?
Per me significa dare spazio a una necessità espressiva non esternabile in altra forma e alimentare tale bisogno attraverso studio costante, letture, dialoghi e confronti, con un atteggiamento umile e rispettoso nei confronti di una tradizione importantissima, quale quella che caratterizza questo genere letterario, soprattutto nel nostro paese, e con un orecchio sempre teso alla voce dei grandi autori che abbiamo la fortuna di avere ancora tra noi.

Che consigli daresti a un lettore per avvicinarsi alla poesia?
Di essere curioso e attento, di affidarsi ai blog, alle riviste e al proprio senso di preferenza per iniziare ad accostarsi a questo genere letterario e poi, mano a mano, estendere ed espandere le letture, seguendo festival, presentazioni, incontri. Un’utopia? Forse. Ma il viaggio, per potere iniziare, deve avere sempre la sua partenza.

 

L’autrice:
Alessandra Corbetta (Erba 1988) è dottore di ricerca in Sociologia della comunicazione e dei media, lavora come docente a contratto all’Università LIUC-Carlo Cattaneo di Castellanza (Varese) e collabora con l’azienda informatica TTY-CREO.
Ha conseguito un master in Digital Communication e uno in Storytelling. Ha fondato e dirige il blog Alma Poesia (www.almapoesia.it), con il quale ha curato la pubblicazione del volume “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete” (puntoacapo editrice 2021).
Collabora con il blog spagnolo di letteratura e poesia Vuela Palabra, scrive per il giornale online Gli Stati Generali e per UniversoPoesia – Striscia Rossa; per Rete55 conduce la rubrica “Poetando sul sofà”, dedicata ai grandi autori della poesia italiana.
Per puntoacapo di Cristina Daglio codirige la collana per opere prime “Controcorrente” e per Industria&Letteratura la collana saggistica “La memoria di Adriano”.
In versi ha pubblicato “Corpo della gioventù” (puntoacapo 2019) ed “Estate corsara” (puntoacapo 2022); la sua ultima produzione saggistica è “Corpi in rete. Rappresentazioni del sé tra visualità e racconto” (Libreria Universitaria 2021). Il suo poemetto “Sempreverde”, prefazione di Umberto Fiori, è contenuto nel XVI Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos y Marcos 2023). Il suo sito è www.alessandracorbetta.net

(Alessandra Corbetta “L’età verde” pp. 112, 13 euro, Samuele Editore, La Gialla di Pordenonelegge 2024)

 

 

 

 

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Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

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Per Ezio Bosso

Tre testi inediti

di Tomislav Vrečar

I miei arti volano, e i tuoi petali ridono,
come ridono le note quando incontrano l’aria, come ridono i giorni mentre scivolano via,
e il dolore è un motore ruffiano,
che grida: Avanti! Sempre avanti!
Torino, 13 settembre 1971, culla di suoni e ferro,
città di manodopera, di un giovane ribelle che trova nelle mani la sua patria,
nella tastiera il mondo intero,
e nel buio, la luce che non sa di essere luce,
che si spegne come un giorno alla fine della sua corsa.
Il genio non è una terra ferma,
è una corrente che trascina via tutto,
anche il dolore,
anche le mani che tremano sotto il peso della vita.
E tu, Ezio, con la tua musica che si infrange contro il tempo,
con la tua SLA, tre lettere come un vento freddo,
che non ferma le tue ali.
Non uomo, ma angelo, con ali asessuali che sfiorano il corpo di un mondo
che diventa cielo,
un cielo onnipotente, innaffiato da tempeste che nessuno può colmare.
Vivere è un mestiere feroce,
lo hai detto, lo hai gridato nei teatri, nelle strade,
nelle sale dove la tua musica risuonava come un battito d’ali.
Essere vulnerabili per capire la paura,
e poi spiccare nel coraggio,
come una farfalla insofferente, con le tue ali tenere che mescolano il colore con la luce,
con l’arte che vola nel tempo,
come una cresta che taglia l’aria, più futile d’un bacio.
Le tue mani, Ezio, guidavano il mondo come chi sa che il corpo passerà,
ma la poesia resta, la poesia è un macigno che muove le montagne,
e le foglie sono gli occhi del vento.
Non raccontarmi storie, hai detto,
canta con disinvoltura, mappa l’invisibile come Nijinsky,
e poi spalanca le porte alla pazzia,
un cavallo di Troia che porta l’arte nei cuori di chi ti ascolta.
La pazzia, il genio, il coraggio: tutto si fonde nelle tue mani,
mentre accusi il mondo di moralismo e risate,
“Che cosa ti aspetti da un professore, se non di essere didatta?”
Ma Dio bono, tu sei un poeta! Vorrei gridare.
Il mondo si muove, e tu, Ezio, saluti una ragazza che neanche conosci,
mentre io mi tengo stretta la mia paura,
costruendo le fondamenta di un giorno che deve ancora venire.
E lassù, nel cielo alto,
accarezzi le tue ali blu,
ali che non si fermano,
che scivolano tra le stelle come mani sulla tastiera,
che volano sopra i manicomi senza pareti,
manicomi più pieni che mai,
pieni di follia, di musica, di tutto ciò che sfugge alla vita e si attacca al vento.
Una bara in palissandro, nel ventre l’avorio che tace,
ma il silenzio non può seppellire la tua voce,
a palate il silenzio, ma la musica continua a gridare,
gridare nelle sale dei teatri vuoti,
nelle case di chi ancora ti ascolta,
di chi ha sentito la tua arte, che vola nel tempo, più forte di tutto,
più forte della malattia, più forte del corpo.
E tu, non uomo ma angelo,
continui a volare nel cielo,
mentre noi, qui, accarezziamo le tue ali blu.

 

 

 

 

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Senza titolo (Il viaggio)

Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Tempo presente        ———————-

Ma lo sappiamo ancora cosa stiamo facendo?

Maruša Krese, “Paura, io?”

di Anna Piccioni

Cos’è la paura? Si ha paura di quello che non si conosce, ma quando si convive con la morte con un fucile in mano perché si sta combattendo contro un nemico che non ha alcuna esitazione ad ammazzarti, e uccidere diventa normale, non c’è posto e non c’è tempo per la paura.
Paura io?” è un romanzo storico biografico, un romanzo della memoria basato sui racconti famigliari che l’autrice Maruša Krese ha raccolto per ricordare la guerra partigiana combattuta nella seconda guerra mondiale in Jugoslavia; ma non solo, i fatti raccontati percorrono tre periodi: 1941, la guerra partigiana; 1952 il dopoguerra; fino al disfacimento della Jugoslavia; e alla fine finalmente il viaggio. Due generazioni si intrecciano, a cui si aggiunge anche un’altra, quella dei nonni nei ricordi e nelle testimonianze dei figli e dei nipoti.
Siamo in Jugoslavia nel 1941, in piena occupazione nazifascista e i giovani, ragazzi e ragazze, vengono proiettati in una realtà che infrange tutti loro sogni. Dai banchi di scuola si trovano nei boschi con una pistola in mano, a vivere una dimensione dove la vita e la morte non hanno senso: sono partigiani.
La storia è narrata in prima persona da una Lei e da un Lui che non hanno un nome proprio; si conoscono da piccoli, hanno vissuto nello stesso paese all’interno del territorio sloveno e li lega un affetto che va oltre all’amicizia. Si trovano fianco a fianco nei boschi dove più che un camminare, è uno strisciare, a condividere i disagi, il sonno, la fame; e spesso si chiedono “ma lo sappiamo ancora cosa stiamo facendo?”, sono presi da uno scoramento per non riuscire a vedere un futuro e pensando al Natale possono solo domandarsi: “Saremo ancora vivi allora?“.
L’unico sgomento per Lei è la sua paura, quando prima di uno scontro vede la morte negli occhi di qualcuno dei suoi compagni. Finisce la guerra e c’è da ricostruire Lui e Lei sono persone importanti all’interno del Partito Comunista. Finalmente possono costruirsi la loro famiglia, ma gli impegni nel Partito sono prioritari. La Storia diventa imprevedibile ed è difficile viverci dentro: dopo il distacco dall’Unione Sovietica il clima diventa incomprensibile per molti, Lei e Lui lo superano lasciandosi dietro molti compagni, che non riuscivano a capire di come Stalin fosse stato prima un fedele alleato e poi un nemico.
Dopo il 1952 subentra nel romanzo un altro io narrante, è la loro figlia, combattiva e determinata come lo sono stati i suoi genitori; è una ragazza che vive il Sessantotto, che viaggia, che s’impegna negli aiuti umanitari durante la guerra in Bosnia…
Abbiamo fatto tappa nel surrealismo. Quello vero. Non quello dei quadri. Quello di venti gradi sottozero, senza cibo, senza acqua, senza riscaldamento. Senza sole. In un surrealismo pieno di granate e di risate […] Siamo state nel surrealismo nato dalla crudeltà e dallo scherno dell’uomo, da un gioco di violenza, da un odio che non conoscevo. Che non posso accettare come mio.

 

Intervista a Lucia Gaja Scuteri:

Traduttrice del romanzo “Paura, io?”

Quando ha scoperto Maruša Krese e perché ha deciso di tradurre “Paura, io?”?
Nel 2014, per caso, durante il seminario internazionale di traduzione a cura della Javna Agencija za knjigo Republike Slovenije (JAK). Tra i testi su cui lavorammo c’erano anche due racconti di Maruša Krese.
Per me fu amore a prima lettura, mi innamorai subito del suo modo di scrivere, di quella scrittura asciutta, essenziale, diaristica, a tratti lirica, del tono sarcastico-ironico, lucido. Poi, sempre nel 2014, notai il romanzo, colpita dal titolo (e dalla copertina) e soprattutto curiosa di leggere un’altra sua opera.
Poco dopo incappai nel video promozionale del libro, girato dal figlio minore Jakob Weidner Krese, e sentirla leggere estratti del romanzo mentre la telecamera indugiava su tutta una serie di memorabilia familiari jugoslavi, ascoltarne la cadenza lubianese, mentre si raccontava dal divano di casa, apprendere che questo romanzo, dalla lunghissima gestazione, nelle sue intenzioni doveva assomigliare a una specie di “Via col vento” partigiano, ultimò insomma la mia folgorazione.
E decisi che il romanzo doveva approdare in Italia, ma non sapevo ancora che avrei avuto l’onore di tradurlo proprio io.

Quali difficoltà ha trovato nella traduzione?
Con testi come quelli di Maruša, così pensati, limati, puntuali – indiscutibilmente belli – ci vuole davvero poco a temere di non reggere il confronto con l’originale. Comunque, il mio primo grande ostacolo è stato dover accettare che non potevamo saturare il testo di note esplicative, né corredarlo di circostanziata postfazione su tutti i riferimenti storici.
Perché non è un saggio storico, ma appunto un romanzo e come tale andava consegnato anche al pubblico italiano. Risolto, grazie al prezioso aiuto dello storico Eric Gobetti, l’aspetto lessicale che più mi preoccupava (la terminologia specifica del movimento partigiano sloveno e jugoslavo), direi che la sfida più grande è stata la struttura stessa del romanzo.
Perché nella prosa di Maruša anche la forma e il ritmo narrativo sono parte del contenuto.

Quali emozioni ha provato venendo a conoscenza della storia della sua terra?
Rispetto invece alle emozioni che la lettura, e soprattutto la traduzione, mi hanno suscitato, difficile descriverle sinteticamente. Volendo provarci, direi che confrontarmi con questo specifico modo di narrare gli ultimi settant’anni della Storia della Slovenia, è stato come una specie di amarcord proustiano, come se a raccontarmi la storia recente del paese che non c’è più e in cui sono nata, ma non cresciuta, fossero le voci di mio nonno, di mia nonna, di mia madre.
Senza però il pathos auto-celebrativo del discorso sloveno (jugoslavo) sulla Resistenza, schierato sulla posizione di jugoslavi brava gente, per parafrasare una celebre espressione stereotipica nostrana. Ma invece con un racconto onesto, non stucchevole o dicotomico, che non scivola in facili colpevolizzazioni e che trasuda anzi empatia verso l’altro, sottolinea i grigi, le sfumature.
Un racconto che non censura né le brutture della guerra né alcune vicende tabù della Storia recente jugoslava, né le contraddizioni e le ipocrisie del sistema socialista e della fase di transizione, e soprattutto un racconto che invita a restare vigili rispetto al pericolo globale dei crescenti nazionalismi e del revisionismo storico.

Il romanzo è uscito nel 2012, come ha reagito il pubblico?
Direi bene. Oltre a essere andato in ristampa già due volte, dato non di poco conto se si considerano le dimensioni del mercato sloveno del libro, “Paura, io?” ha incontrato anche il plauso e l’interesse del pubblico critico e accademico. Nel 2013 è stato finalista al più importante premio letterario sloveno, quello per il miglior romanzo dell’anno, il kresnik, e ha vinto il premio della critica kritiško sito 2013.
È stato inoltre tradotto in serbo da Dragana Bojanić Tijardović (2016), in tedesco da Liza Linde (2023) e in italiano (2023). L’editore tedesco, S. Fischer Verlag, ha tra l’altro lanciato una importante campagna promozionale su tutto il territorio nazionale inclusa, ovviamente, la Buchmesse dell’anno scorso che vedeva la Slovenia in primo piano in quanto Paese Ospite d’Onore.
E a proposito di Buchmesse, la direzione artistica del progetto Slovenia Paese Ospite ha scelto di omaggiare la memoria di Maruša con diversi incontri incentrati sul suo opus e dedicandole, inoltre, uno degli spazi-installazioni del Padiglione del Guest of Honour.
Oltre alle ristampe, le recensioni, gli omaggi e le traduzioni, oggi c’è un premio letterario intitolato a lei e nel 2022 è arrivato anche il riadattamento teatrale del romanzo, a cura del Teatro Prešeren di Kranj (regia di Anđelka Nikolić). Ammetto, tuttavia che trovo un po’ paradossale che in Slovenia Maruša sia conosciuta più come autrice di prosa che come poetessa, sua “vocazione” primaria.

Maruša Krese è la figlia dei due giovani partigiani, quel Lui e Lei che narrano in prima persona la loro storia nella Storia più grande della nascita della Federazione Jugoslava. Quindi si può dire che si tratta di un romanzo storico autobiografico?
Diciamo piuttosto che è un romanzo storico con elementi autobiografici. Tutto l’opus letterario di Maruša è, in effetti, alquanto auto-narrativo. È come se per lei scrivere fosse un esercizio di catarsi, la sua personale piccola essenziale tecnica di sopravvivenza per esorcizzare sé stessa e i suoi fantasmi e il mondo che la circondava (e a tratti schiacciava).
Nel romanzo si possono rintracciare alcuni temi a lei cari e piuttosto trasversali alla sua produzione, ad esempio i rapporti umani fondamentali, in particolare l’asse madre-figlia; la riflessione sull’universo femminile in un mondo ancora molto patriarcale; la disillusione nei confronti degli uomini; il peso della Storia e il dovere della memoria.
Io credo sia partita dal desiderio di raccontare un “Via col vento” partigiano nel quadro della sua immanente personale ambizione (ed esigenza) di fare i conti con il passato, di affrancarsi sia dai traumi ereditati sia da quelli con-causati, di esorcizzare ed elaborare l’eredità e le responsabilità consegnate alla sua generazione da quella precedente. Ricorrendo, però, a un’operazione diversa, non scrutando solo nel profondo di sé stessa e del suo circondario più immediato come fa nelle sue poesie e racconti, ma calandosi nei panni della generazione combattente.
Per cercare di raccontarla da dentro, per tentare di comprenderla. E così facendo, durante questo percorso di catartica escavazione, di inesorabile messa a nudo riesce, secondo me, a trascendere la particolarità familiare di partenza e a sconfinare nell’universale.

Maruša Krese ha dovuto o voluto abbandonare la Slovenia per esiliarsi in Germania?
Dopo aver alternato per anni periodi di studio e/o lavoro all’estero e in Slovenia, si era infatti definitivamente trasferita in Germania nel 1980, anno per lei, tra l’altro, particolarmente carico di perdite emotive, probabilmente un’evasione, una forma di auto-esilio.
Per ragioni, credo, di natura anche ideologica. Per lei che era una hippie, una rockettara pacifista, una persona lucida e allergica ai conformismi, una donna dal carattere sì difficile ma romantica e idealista, in cerca di spiritualità e di libertà in senso lato – come mi sembra di capire leggendola – ma soprattutto per lei che era nata nel Dopoguerra ed era cresciuta a pane e partigianeria, subire la plumbea morsa della Jugoslavia degli anni Settanta, intuire il sotterraneo riaffiorare dei nazionalismi, deve essere stata un’amara, forse un’insopportabile delusione.
Poi credo ci sia anche una componente più intima, privata. Credo che anche il naufragio definitivo del primo matrimonio abbia avuto il suo peso.

Ci sono in italiano altri scritti di Maruša Krese?
Sì, “Tutti i miei Natali”, una raccolta di trenta racconti tradotti sempre da me e usciti sempre per Salento Books – Besa Muci (2019). Racconti molto privati, molto potenti, davvero suggestivi, accompagnati dalle fotografie della sorella, la fotografa Meta Krese (immagini che in questo libro hanno un effetto di disarmante dissonanza apparente) e ricordando che nasce come radio-dramma, che esce prima in tedesco e poi in sloveno e che può già essere considerato a tutti gli effetti – un classico.
Vi sono particolarmente legata anche perché è la mia prima traduzione editoriale dallo sloveno. Va inoltre ricordato che è grazie alla raccolta se oggi possiamo leggere il romanzo in lingua italiana. La raccolta aiuta molto a “ricomporre il puzzle” e a comprendere meglio alcuni momenti descritti anche nel romanzo.

 

L’autrice:
Maruša Krese è nata a Lubiana nel 1947 ed è scomparsa nel 2013. Poetessa, scrittrice, giornalista e psicoterapeuta, ha studiato Letterature comparate, Storia dell’arte e Psicoterapia in Slovenia, negli USA, in Inghilterra e in Olanda. Tra il 1975 e il 1990 ha lavorato come psicoterapeuta, (radio)giornalista freelance e corrispondente a Ljubljana, Londra e Tubinga, trasferendosi definitivamente a Berlino nel 1990.
Da quando era giovane ha sempre viaggiato molto. La guerra in Bosnia, poi, non è stato l’unico conflitto che ha ‘attraversato’. Le sue riflessioni sulla guerra in generale e sui conflitti sfiorati dal vivo o mediati dal racconto (o memoria) altrui sono raccolti in un suo scritto, purtroppo sempre attuale, che è difficile da classificare in termini di genere letterario ed è ancora inedito in italiano, “Vse moje vojne” (“Tutte le mie guerre” Mladinska knjiga, 2009).
L’impegno di Maruša, convinta pacifista e antinazionalista, non si è limitato alle operazioni umanitarie cui ha partecipato a Sarajevo e altrove in Bosnia ed ex Jugoslavia e che le sono valse, nel 1996, la decorazione dell’Ordine al merito di Germania per la mediazione umanitaria e culturale.

 


La traduttrice:
Lucia Gaja Scuteri, nata a Lubiana (1985) e cresciuta a Napoli, dopo la laurea in Lingue e Letterature comparate dell’Europa Orientale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” (sloveno, ceco), consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’Europa e del Mediterraneo presso l’Università del Litorale di Koper/Capodistria.
Promotrice di lingua, cultura e letteratura slovena fin dai primi anni universitari, nel 2014 si avvicina al mondo della traduzione editoriale. Dal 2017 collabora con l’associazione culturale A Voce Alta e lo Spazio Laterzagorà di Napoli.
Ha partecipato in qualità di traduttrice emergente alla seconda edizione del progetto europeo CELA – Connecting Emerging Literary Artists. Traduce principalmente narrativa per adulti (Krese, Sturman, Kolar, Mugerli), ragazzi (Vidmar, Svetina) e saggistica.
Il suo ultimo lavoro (marzo 2024) è la traduzione di “Guarda dalla finestra” di Evald Flisar.

(Maruša Krese “Paura, io?” traduzione di Lucia Gaja Scuteri, pp. 216, 16 euro, Besa muci 2023)

 

 

 

 

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Sonno

Undici opere

di Lello Torchia

 

 

 

 

Tempo presente       —————————-

Luca lo sa

Tre testi inediti

di Tomislav Vrečar

Che afa! Ho sempre più sete.
Mi piacciono le vittorie difficili.
Questa sera ho un regalo per te.
Cos’è? Non lo dico.
Una composizione nel quadro
mi fa agitare le sopracciglia.
Perché lo fai? Ma chi te lo fa fare?
Una folgorazione in teoremi,
lasciato stordito per un attimo.
Si, molto bello è solo un contrattempo.
È arte d’amare il riassunto non ha voglia di scherzare.
Amo. Io amo. Un’armonia interiore
che regola i movimenti, in certi momenti
sono quasi grida affinché io possa respirare.
Nessuna sorpresa quando lo sguardo si identifica
con la vita – una meraviglia identificarsi con il desiderio.

Luca lo sa: Perché ogni
erotismo – se erotismo di qualità – come ogni
forma artistica non frequenta la folla.
Come i cipressi evitano il parapiglia,
cosi come gli uccelli che volano per evitare il rumore
sopra le rozze luci da fiera – ci vuole sprezzatura
perché il soffio della foglia caduta acceleri il passo.

 

L’autore:
Tomislav Vrečar è poeta, scrittore di prosa, traduttore e performer multimediale sloveno. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Punk še ni hin” (1997), “Vaš sin vsako jutro preganja mačke po soseski” (1998), “Ko se mi vse ponuja, se meni skuja” (2003), “Naj me koklja brcne potem bom pa še jaz njo” (2004), “Kurc pesmi” (2009), “Ime mi je Veronika” (2011) e “Črna ovca/Crna ovca – dvojezična/Zagreb”, (2014); e i romanzi “2nd hand emotions” (2015) e “Strupena nevesta” (2018).

 

 

 

 

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Senza titolo

Undici opere

di Lello Torchia

 

 

Intervista a Lello Torchia:

di Luigi Auriemma

Caro Lello, nella tua ricerca artistica utilizzi varie tecniche e forme espressive (disegno, pittura, collage, scultura, installazione, ecc…), che padroneggi tutte con maestria, ma quale è quella che più preferisci e in base a cosa ne scegli una?
Il disegno è senz’altro il mio linguaggio d’elezione. È come il linguaggio che si ripete nella testa spontaneamente, che si parla inconsapevolmente durante i sogni: per me il disegno è come la lingua madre.
È la forma che mi aiuta a comprendere le cose, una sorta di passe-partout per entrare nelle intenzioni. Poi c’è l’aspetto ideologico: storicamente, si è sempre considerato il disegno come l’atto preparatorio di un’opera successiva, qualcosa da rettificare, un’opera non risolta. Per me questo ragionamento non ha valore; ma il giudizio sospeso, quella considerazione in bilico tra essere e non essere, mi attrae – forse per la mia propensione verso tutto ciò che è instabile.
Per quanto riguarda la scelta della tecnica, molto dipende dallo spazio che accoglierà l’opera che devo realizzare; tuttavia, se una mostra intera o un intervento specifico può essere risolto esclusivamente col segno, evito di complicare il lavoro.
Comunque, la giornata in studio inizia generalmente col gesto semplice di fare la punta a una matita…

I tuoi disegni sono caratterizzati da un tratto veloce, scattante, dinamico, frenetico, con una certa nota di violenza, accompagnato poi da un segno leggero, libero e molto delicato (nei contorni per esempio). È come se inizialmente ci fosse una tensione introiettata, una molla che scatta e che proietta sulla superficie (tela, carta, argilla o altro) questa forza, che si risolve in pochi minuti e che una volta espressa, diventa segno libero, leggero e lirico. Da dove si origina questa dicotomia espressiva?
È frutto di una azione meccanica. Nei lavori su carta, ad esempio, ho riscoperto l’uso della gomma pane, quella che da ragazzo ti insegnano a non usare perché “è sbagliato cancellare”. La utilizzo come fosse una matita: per fare dei segni, per consumare la carta, per bucarla o anche per sgravare un tratto molto inciso e liberarlo nello spazio.
Ho la necessità di rivelare il processo del lavoro e di vedere più forme all’interno della stessa forma. Accade lo stesso quando utilizzo l’argilla: modello con insistenza per poi cancellare col palmo della mano le forme definite. Le due azioni sono l’una conseguenza dell’altra.

Nelle tue opere tratti temi dell’esistere e dell’esistenza, il percorso della vita, dalla nascita alla morte, e tutto ciò ad essa connessa, trattati con una spiritualità che sfiora il sacro ma che non si conferma solo in esso. Le tue origini napoletane affondano le radici nella cultura secolare partenopea, dove sono confluite varie culture di popoli provenienti principalmente da tutto il bacino del mediterraneo. Queste, che attraversano leggende popolari miste a mito e storia, tra sacro e profano, tra religione cattolica e paganesimo, in che modo hanno determinato il tuo percorso artistico?
L’esistenza stessa è uno dei veicoli privilegiati per esplorare il sacro, e chi fa il nostro lavoro, ha la possibilità di evocare una sacralità fluida attraverso forme e segni. Liberato dalla gabbia di una specifica religione, il sacro diventa universale: non è più un’entità separata, ma una lente d’ingrandimento capace di farci osservare ogni cosa in maniera nuova, svelandone l’intensità nascosta.
Il sacro non lo identifico con un luogo specifico, piuttosto con un’area di tensione, un campo aperto che conferisce efficacia a ciò che altrimenti potrebbe sembrare trascurabile e marginale. Napoli stessa è una tensione: è margine, confine, profilo, è al tempo stesso inizio e fine, dove l’intangibile non ha bisogno di templi o cattedrali.

I tuoi volti, con particolari anatomici appena accennati o completamente trasfigurati, esprimono un dolore atavico che si è accumulato nei secoli. Espressioni senza identità fisica ma che si riconosce in un’identità di dolore esistenziale, come se questa identità drammatica collimasse con l’unica possibile identità della condizione umana a cui, questi volti, sembrano cercare un riscatto, in cerca di una liberazione esistenziale: mi illumini su questo concetto?
È sulla faccia e negli occhi che restano impressi i momenti vissuti da ogni essere umano. Personalmente, è proprio lì che vedo queste tracce, ed è lì che esploro, navigandoci attorno finché trovo un punto di ingresso. Quei segni non sono necessariamente drammatici, ma hai ragione quando parli di “accumulato nei secoli”. A me interessano le forme che esprimono questo accumulo, piuttosto che quelle pure, levigate. Amici che si occupano di teatro o di scrittura mi hanno fatto notare come spesso ci si aspetti di scorgere una luce nel buio di una storia, mentre nel mio lavoro questa speranza sembra mancare. Rispondo dicendo che, nel mio lavoro, ciò che manca è innanzitutto il racconto; c’è un sedimento, un’incrostazione. Non c’è ragione di avere un lieto fine o un epilogo negativo, l’opera è aperta.

Perché le tue sculture rappresentano sempre frammenti del corpo?
Quando visito un museo, le opere che mi restano negli occhi sono le statue giunte fino a noi mancanti di alcune parti, generalmente le mani, la testa o i piedi. Sono le parti più fragili. Queste privazioni rendono terrene quelle montagne di marmo, che invece percepisco come distanti quando sono integre.
Trovo più respingente un corpo intero, con la sua fisicità ingombrante, rispetto a una mano; ma capisco che, per la maggior parte delle persone, può essere il contrario. Tutto ciò che manca o che resta come residuo apre al dubbio, alla riflessione: non mi lascia indifferente.
La mancanza, l’imperfezione, indica un limite, e la natura stessa dell’uomo è modellata nella sua limitatezza, nella sua incontrovertibile finitezza.

Un altro tema presente nelle tue opere è quello della protezione; dove non c’è riscatto tu tenti una sorta di protezione. Mi riferisco ad opere del progetto “Corner”, dove poni un angolo disegnato davanti ai volti rappresentati; come se fosse una specie di maschera, nel caso di una crisi d’identità del genere umano, o una barriera di protezione per pericoli esterni?
Il ciclo di lavori a cui fai riferimento risale al 2019 e si collega anche alle opere realizzate per la personale “Refugio” del 2021, tenutasi a Napoli nel Claustro dell’Università Suor Orsola Benincasa.
La mostra comprendeva sia opere su carta che lavori tridimensionali e nasceva da quel sentimento contraddittorio che scaturisce dalla visione di un angolo o di uno spazio claustrale, se associato ad un essere umano. Cercare riparo in un luogo appartato è una forma di protezione: siamo sempre alla ricerca di conforto, ma trovarsi “all’angolo” è una condizione opprimente, da cui uscire può essere estremamente difficile.
L’ex pugile e poi editore Tullio Pironti ripeteva spesso “E’ il momento più complicato del match”. I lavori di “Corner” nascono in parte delle chiacchierate a tavola con lui. Del resto è comune sentire che la box è una metafora della vita. Poi, in quei mesi, è intervenuto il covid, e alla spinta originaria si sono aggiunte nuove risorse, suggestioni dirompenti e inesplorate, che hanno mutato più volte le mie intenzioni iniziali.

Nel tuo periodo di formazione quali sono stati i tuoi riferimenti artistici, filosofici e spirituali?
Ho iniziato a prendere coscienza del mio lavoro verso la fine degli studi all’Accademia di Belle Arti. In quel periodo frequentavo le gallerie napoletane, inizialmente per pura curiosità, e visitavo spesso gli studi di alcuni artisti che anche tu hai frequentato, come Marisa Albanese, Augusto Perez, Riccardo Dalisi e, successivamente, Nino Longobardi. Ricordo chiaramente una mostra di Beuys alla galleria Lucio Amelio: non rammento l’anno, ma c’erano forse tre o quattrocento persone all’inaugurazione e nel caos totale, senza aria, sentii la voce di quei lavori.
Mormoravano qualcosa che non comprendevo chiaramente, ma per me fu un momento molto importante, quasi una rivelazione. Un’esperienza simile è stata quando ho avuto, anni dopo, l’occasione di vedere contemporaneamente più opere di Gastone Novelli: lo spazio sospeso dei suoi lavori continua a essere per me un principio costante.
Nel ’93 cominciai a frequentare il poeta Michele Sovente. Era un visionario, ma coi piedi ben piantati nella terra. Voltava e rivoltava l’essere umano come un calzino, facendoti immaginare assieme l’alto e il basso delle cose. Era generoso, fino all’ultimo non ha lesinato consigli.
Contemporaneamente ho cominciato a collaborare con Nino Longobardi: aveva bisogno di aiuto per un trasloco di studio da Napoli a Pozzuoli, ma alla fine mi sono ritrovato a condividere con lui azioni e riflessioni per quasi dieci anni. Ancora oggi c’è un grande legame.
Gli incontri con Sovente e Longobardi senz’altro hanno creato una discontinuità e smosso in maniera radicale il mio orientamento.

 

L’artista:
Lello Torchia è nato e vive a Napoli dove, ancora giovanissimo, nel 1999 partecipa alla mostra curata da Angelo Trimarco “Il bosco sacro dell’arte”, al Museo Real Bosco di Capodimonte.
Anche grazie al proficuo rapporto instaurato con le gallerie Scala Arte di Verona e Franco Riccardo Artivisive di Napoli, comincia ad esporre regolarmente il suo lavoro in diverse istituzioni e gallerie europee, tra le quali la Collection Goor-Beerens di Bruges (2003 e 2005), la Galeria Art 33 di Barcelona (De Nápoles, 2004), la Outline Modern and Contemporary Art di Dijon (Dessins, 2005), la Galerie Mercurius di Haarlem (New metamorphosis, 2006).
Durante il soggiorno a Milano (2006-2010) collabora con The White Gallery, prima con una doppia personale (Finelli-Torchia, 2009), poi in due mostre collettive (Wake up!, 2009 e Biro Show, 2010) e nel 2012 con la personale “Vanitas”. Dopo una breve parentesi nei pressi di Como, nel 2012, stabilisce definitivamente lo studio a Napoli.
In occasione del 40° anniversario di attività della casa editrice napoletana Tullio Pironti è invitato, presso Palazzo Bagnara, con Christian Leperino, Nino Longobardi e Vincenzo Rusciano, alla mostra “Quattro artisti e un editore”. Seguono altre numerose mostre.
Dopo la personale tenuta da Minigallery Contemporary Art nel 2014, ritorna ad Assisi l’anno successivo per la mostra “Rebirth“, a cura di Anna Adell.
Nel corso del 2016 è presente con una scultura nel Parco di Villa Gregoriana, a Tivoli e tiene due mostre personali a cura di Jean Marie Duhamel: “Proximity“, tra i resti del Vallo di Adriano (Humshaugh) e “Anatomies“, da Front Space Gallery (Makati City).
Espone poi al Centro Internazionale di Arti visive Fondazione Umberto Mastroianni, ad Arpino e Bilico e nel Complesso Museale del Purgatorio ad Arco, a Napoli.
Nel 2020 è al Museo Archeologico Nazionale di Napoli tra i protagonisti di “Specula”, documentario che racconta l’omonima mostra, tenutasi nel 2018, presso il sito rupestre medievale di Santa Maria in grotta, a Sessa Aurunca.
Nel 2021 partecipa alla mostra “I piranha non sentono i sapori. Volume II”, a cura di Matteo Vanzan, e tiene la personale “Refugio”.
Nel 2024 ha tenuto due mostre presso Minigallery Contemporary Art ad Assisi e Studio Poerio a Roma, nate da un progetto condiviso con l’artista di origini umbre Pietro Lista.

www.lellotorchia.com

 

I lavori di Lello Torchia proposti in questo numero di Fare Voci:

(In ordine di visualizzazione)

Senza titolo
2024. collage e acquerello su tela per rilegatura. 51 x 61 cm.

Senza titolo
2022. olio, argilla e collage su tela di lino. 30 x 40 cm.

Senza titolo
2019. grafite e timbro su carta. 33 x 43 cm.

Senza titolo
2022. olio, argilla e collage su tela di lino. 30 x 40 cm.

Senza titolo
2017. argilla cruda e disegni su carta. dimensioni variabili.

Senza titolo
2019. grafite e olio su carta. 29,5 x 40,5 cm.

Senza titolo
2015. argilla cruda e disegni su carta. dimensioni variabili.

Senza titolo
2022. olio, argilla e collage su tela di lino. 71 x 101 cm.

Senza titolo (Il viaggio)
2015. grafite e collage su carta. 39 x 51 cm.

Sonno
2008. tecnica mista su tela. 300 x 210 cm.

Senza titolo
2019. grafite e olio su carta. 29,5 x 40,5 cm.

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Luigi Auriemma, Massimiliano Bottazzo, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Livio Caruso, Ilaria Battista, Laura Mautone.