Fare Voci marzo 2022

In questo momento storico così delicato, fragile e disperato, continuiamo ad affidarci agli autori per misurare al meglio la realtà in cui ogni giorno ci muoviamo.
È spesso questo agire quotidiano non è consolatorio….

In questo marzo 2022 troviamo Alessandra Carnaroli, con i testi di “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”, vera e propria radiografia di questo nostro presente.
La voce d’autore è anche quella di Niccolò Nisivoccia e gli scritti del suo “Quasi una cosmologia”, di Ksenja Laginja con “Ventitré modi per sopravvivere”, assieme a Isabella Serra che ritorna con “Il sonno del mondo”.
E poi Federico Zucchi con le poesie di “Ode alla presenza” e Georgia Schiavon con la sua nuova raccolta “Fisica teorica”.

Giorgia Zanierato e Davide Rondoni, ci portano nel mondo della traduzione, il loro “La cosa delicata. L’arte della traduzione”.

Il Libroelibro ce lo racconta Laura Mautone, è “Lettere a Camondo” di Edmund de Waal. Ci sono anche i cinque inediti di Guido Cupani, “Quanti pomeriggi uguali fanno un’era geologica?”.

Le immagini sono quelle degli artisti della galleria Prologo, di cui ci parla Franco Spanò.

Buona lettura

Giovanni Fierro

(la nostra mail: farevoci@gmail.com)

 

 

 

Immagini        ——————————–

Suspended time

galleria Prologo

di Stefano Ornella

 

 

 

 

Voce d’autore        —————————-

L’amore ci farà a pezzi

Alessandra Carnaroli, “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”

di Giovanni Fierro

Arrivare al midollo e non fermarsi, tagliarlo. Senza paura. Senza temere il sangue versato, il dolore evocato e la società marcia in cui specchiarsi con maggiore precisione.
Alessandra Carnaroli, con il suo “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”, ci propone una radiografia del nostro tempo presente, impietosa e coraggiosa, mettendo in evidenza le storture e le volontà incrinate, se non già spezzate.
È una fregola/ questo desiderio/ inguinale di farmi togliere/ utero ovaie/ tagliare collo/ come maria antonietta”, ma è tutto il quotidiano così; non solo il vissuto di una persona, ma anche il nocciolo dei pensieri, la trama dell’appartenenza sociale, sempre più esile e sgualcita.
E in questo oggi così teso di delusioni ed omologazione il destino è sempre più a portata di mano, anzi, di corda: “penzolare dalla trave/ che mio padre/ ha aiutato a costruire”.
Alessandra Carnaroli ha scritto cento testi che suonano maledettamente bene, con una propria essenza ritmica e melodica che ricorda il pulsare del post punk; e l’essenzialità del testo è una epigrafe che non si dimentica.
E se il titolo evoca impeti di violenza, la sostanza di questi scritti mette in campo una disperazione che più umana non si può. Sogni infranti, aspettative che diventano mostri, possibilità che non ci sono più, desideri che diventano dannazioni. La nostra società è così esplorata e documentata, dove uomini e donne non si incontrano più, neanche nella stessa casa in cui vivono assieme. Luogo dove ti puoi vedere “lo spruzzo/ di sangue/ che copre il cappello dell’inter”, e rimanere in un silenzio che tutto ammutolisce.
Questa è poesia che si mostra nel suo essere cronaca – Alessandra Carnaroli sul proprio profilo facebook non esita ad esporsi con il proprio scrivere, e il disegnare, sui fatti che animano l’ognigiorno – nel suo essere punto di contatto con la realtà, quella più dolente e pericolosa, dando alla poesia stessa una forza di narrazione che ha pochi eguali nel panorama letterario e culturale.
Con dolore emerge l’impotenza di una società che fatica a trovare possibili soluzioni al suo disfacimento; queste sono presenze umane in affanno, sempre in ritardo sul realizzare i propri sogni, ingranaggi di un meccanismo sempre più stritolante e crudele.
E il gesto violento è la via di fuga, l’uscita di emergenza e quella dalla scena, la possibilità di fare un passo indietro. Anche solo per prendere meglio la mira. Ma forse, questi scritti sono anche delle lettere d’addio.
“50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti” cerca comunque di tirare il fiato, quando può, per trovare un momentaneo sollievo, prima della prossima immersione nella realtà, “visione di angeli/ paradisi artificiali/ isole/ di rockers scomparsi in circostanze misteriose/ elvis mi passa il sale/ per rinvenire”.
Eppure, in tutta questa carne di un corpo sociale tutta tagliata o tumefatta, tramite la scrittura attenta e necessaria della Carnaroli si respira una bellezza inaspettata, che si rivela come una epifania in questo senso di sconfitta che emerge dall’intensità delle pagine, una sconfitta che ognuno di noi può riconoscere e valutare, che si svela nel guardare negli occhi il mondo che abitiamo e che siamo.
Sì, il mondo dove “la mia guancia dicevo/ aderisce/ come sangue/ alla mutanda”, e si può usare “il rasoio/ da barba/ per rifinire/ il disegno […] la tua faccia/ pagine/ gli strati epiteliali/ che sfoglio”. L’attrito di una esistenza, di ogni esistenza, che fatica a rimanere a galla.
E il più delle volte non ci riesce: “il cacciavite/ accanito/ a smontare spalle/ cosce dalle anche/ gira a vuoto/ tra le ovaie spanate/ cerco su google come fare/ per svitare”.

 

Dal libro:

da “50 tentati suicidi

1.

preparo il giorno
del mio trapasso stendo
la pasta sfoglia passo
passo
come dice benedetta
detto cotto
le presine da forno
sentiranno
la mancanza quando
cadrò
di sotto

*

19.

rimandare appuntamento eco
seno per anni evitare auto
palpazione ogni mese sperare
formazione vari tumori
rifiutare chemio
come brigliadori
pisciare
e bere

*

40.

per un cortocircuito
di elettrodomestici
fili scoperti nell’amplificatore
karaoke di bar presso stazione
file di albanesi che vogliono
cantare ricchi e poveri cutugno
rettore è sufficiente una scintilla
per far scoppiare l’incendio
tra i vestiti sintetici e i buoni pasto

*

da “50 oggetti contundenti

7.

forbici
questa è banale dài
tranne che se le apri
quando già sono nella carne
puoi fare come delle stelle ninja
sulle braccia

*

22.

palla di vetro
con l’angioletto
di quelle che se le giri
e poi le rigiri la neve cade dentro
qui neve mista
nevischio
a frammenti di piccoli ossi e polistirolo

si è attaccata al collo l’etichetta
del lavaggio delicato
dalla maglia che
avevi addosso
un tatuaggio
con la scritta
intimissimi
come eravamo un tempo

 

 


Intervista ad Alessandra Carnaroli:

Di “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti” colpisce da subito che sulla pagina rimane solo ciò che è necessario al raccontare. Se Raymond Carver arrivava fino al midollo, qui il midollo è esposto, è il punto di non ritorno. È una intenzione di partenza? Un qualcosa che è accaduto durante la scrittura, nella messa a fuoco di questi testi? O cos’altro ancora?
Nel mio lavoro c’è un tentativo continuo di arrivare al fondo, un processo di scarnificazione di quanto è già ferita, togliere e tagliare la lingua perché sia più aderente possibile, precisa. Parole osso che compongono lo scheletro, ci sorreggono. È un po’ come girare intorno all’abisso, affacciarsi di tanto in tanto, riconoscersi in quel buio profondo che è insieme morte e parto.

Una cosa molto bella è che lei, in modo sia raffinato che scorticato, usa la poesia per scardinare i lucchetti che tengono ben chiuso il quotidiano. Anche questo fa parte dell’identità del suo nuovo libro?
È un basso continuo che accompagna in forme diverse tutti i miei libri, un’aderenza possibile alla vita che include il tragico, il dramma quotidiano: abusi, violenze, aborti, patologie fisiche e mentali. L’ombra che naturalmente proiettiamo sul mondo stando in piedi, stando. E nel momento stesso in cui viene raccontato questo non detto, che ci accompagna sempre, prende fuoco, divampa, distrugge e insieme purifica, fa qualcosa di sacro, di santo.

Perché, inevitabilmente, questo scrivere è anche un mettere in evidenza che in alcuni casi, sempre di più, la società non funziona. E il suo non funzionare crea situazioni drammatiche, dove protagoniste sono le persone di ogni giorno. Può essere, anche, così?
Le persone di ogni giorno sono i protagonisti dei miei racconti perché sono le uniche reali. Sono il comune, quello che ci descrive, dice ciò che siamo, ciò che vogliamo e insieme, come già scritto, il suo contrario.

Queste poesie pescano anche nella cronaca. E nel suo profilo facebook continuamente l’affronta, con altri testi abbinati anche a dei disegni. La poesia quindi è anche uno strumento per documentare ed analizzare il puro succedere nei giorni?
C’è una mia raccolta inedita che si intitola “Telecroniche”, un nome che potrebbe funzionare per ogni mio libro. Un racconto fitto che descrive palleggi, cross e rinvii, il quotidiano e il suo incancrenirsi, la sua cancrena.

Ogni testo ‘suona’ maledettamente bene. Suona, sì, perché tutto il libro sembra anche una raccolta di singole canzoni. La cui tensione mi ricorda quella che riconosco in ambito musicale contemporaneo, con gruppi quali Fontaines D.C. e Idles, ad esempio, tanto devoti a ciò che si può chiamare post punk. Ecco, che ‘intonazione musicale’ c’è nei testi di “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”?
La parte musicale delle poesie è per me molto importante, soprattutto nella lettura in pubblico quando le parole prendono vita, trovano la loro fisicità attraverso la voce, il ritmo e il corpo che le accompagnano ma soprattutto risuonano, rimbombano grazie alla parete, il muro, l’angolo o la cassa che ogni spettatore, per la forma che ha preso, incarna. Se vuole, potremmo leggere il libro con “Love will tear us a part again” in loop e non sarebbe male.

(post del 27 febbraio 2022)

E c’è anche la dimensione cinematografica, perché in filigrana ogni poesia è la sinossi di un telefilm, di una possibile puntata di una serie. Mi sbaglio?
Sicuramente sono pezzi di uno stesso racconto andato in frantumi. La prima sezione, quella dei 50 tentati suicidi, era inizialmente accompagnata da alcuni disegni che spiegavano, come libretto di istruzioni, la parte tecnica dell’esecuzione. Ogni poesia è quindi atto, se vogliamo immaginarci in un diffuso teatro.

E comunque, mi ha colpito che, a leggere queste poesie, ho trovato poca violenza, e invece tanta disperazione. È forse questa, la disperazione, la radice comune di ogni singolo scritto?
Se c’è una radice comune è proprio l’essere umani, l’essere al mondo, partoriti all’altro.
Forse è questo continuo confronto ad essere impietoso. Spietato.

Perché poi, pensando che scrivere poesia (ma scrivere in generale) è sempre un creare bellezza, mi sono chiesto e chiedo: ma come si fa a farla emergere la bellezza, parlando di temi drammatici come questi? (penso al testo di pagina 27, al passaggio “nel sangue tutti i pesci sono rossi”, che in bellezza va ben oltre al significato che dà al testo intero)
Credo che la bellezza stia nel riconoscersi in queste parole, riconoscerle come umane, potersi affacciare all’abisso e ritrarsi, allontanarsi. Si chiama catarsi?

Alla fine del libro, ho vissuto un senso diffuso di sconfitta. Che si espande oltre i vari protagonisti messi in scena nelle pagine. C’è? O mi sono confuso con qualcosa d’altro?
Sconfitta certo, i miei protagonisti hanno perso. Hanno perso per tuttə e quindi pure sollievo quando si chiude il libro, me lo concede?

 


L’autrice:
Alessandra Carnaroli è nata a Piagge, nelle Marche, nel 1979. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia di taglio neo-sperimentale presso piccoli editori, con prefazioni, tra gli altri, di Aldo Nove, Tommaso Ottonieri, Andrea Cortellessa, Helena Janaczek.
Tra i titoli piú significativi: “Femminimondo”, sui femminicidi (2011), “Primine”, sui traumi infantili (2017), “Sespersa”, sull’esperienza della gravidanza (2018), “In caso di smarrimento / riportare a:”, sull’Alzheimer (2019).

(Alessandra Carnaroli “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti” pp. 106, 11 euro, Einaudi 2021)

 

 

 

 

Immagini        ——————————–

Concentrico

galleria Prologo

di Silvia Klainscek

 

 

 

 

Tempo presente         ——————————

Quanti pomeriggi uguali fanno un’era geologica?

Cinque testi inediti (2019-2021)

di Guido Cupani

Ultragravità

Se non è cattiveria volere che l’ultraleggero
intravisto dal finestrino appena librato
in un cielo pulito a specchio
vada giù sotto i miei occhi
e si schianti in uno sbuffo
(perché io non sono cattivo)
che cos’è allora? un prurito
della noia? la pressione di universi
più improbabili che chiedono di essere
a scapito del bene? o questo muscolo
meta-oculare allenato da protratta
esposizione alla sciagura digitale
(quella sete di dire c’ero,
ho visto, che tragedia, sono
ancora scioccato) che mi fa
senza alcuna mia protesta
cieco a tutto il resto?

*

Montale in furgoncino

Eugenio nel duemila diciannove
guida il Partner Peugeot bianco
di un negozio di vernici

Fra una BMW e una bici
all’incrocio di via Roma
scorgendomi ha rallentato
in prosa già da lontano malcerto
di un mio possibile accamparmi
di gitto sul suo tragitto
ancorché sulle strisce

Eusebio tradisce
gli anni anche attraverso
il parabrezza e ha nuove pliche
sulle guance e sul mento
il labbro da balbuziente
l’occhio ormai perso
centoventitreenne

Ignora che cosa avvenne
crede d’essere un sosia
(non lo so ma scommetto)
e intanto fa il suo dovere si spezza
la schiena e alla sera affonda
in un sonno compatto sotto
un cielo cupo ma terso

Non ha scritto più un verso

*

Sonetto sbagliato

Il tempo è un paio di occhiali sporchi:
le vedo all’improvviso da una distanza
di milioni di secoli dentro una bolla
d’ambra, e pure in movimento: la piccola
si appende agli anelli e dondola, l’altra
sulla scala orizzontale a testa in giù
mi grida papà guarda – e io lo faccio:
le guardo dal fondo dell’eternità, dalla
fine del mondo in un dolly zoom vertigi
noso e le ricordo in anticipo perché sono
già morto e anche loro sono già morte e
non ci credo, grido al tempo bastardo
apri la porta della capsula, ti ho visto
questo attimo è vivo – e subito mi riprendo,
passo.

*

Social

Dietro il fondo cartonato del palco
dopo la fine della replica odierna
del successo social a trentadue denti
smessi gli abiti da concorso di bellezza
struccato il viso reindossata la vergogna
allo specchio strofinata sul bordo della
giacchetta la mano che sempre lava l’altra

ho bisogno di credere che anche voi
torniate a una cena e a un letto
a una lampadina che sfarfalla a un frigo
semivuoto che vi accucciate di fronte
a un figlio a un genitore a un cane
in adorazione del vero e che vi scappi
di essere buoni o banali o soli

davanti a un tramonto da cartolina
prima di arrotolare le persiane

*

Pomeriggio d’inverno sulla vetta del K2

Non c’è un gancio a cui appendere la vetta.
Le impronte più recenti cancellate
da settimane. La neve pulita è uno scudo,
ma il cielo non attacca, ha gli artigli ritratti.
Cadono le parole come falangi mangiate dal gelo.

Da giovane ho cercato di dire
quel che potrebbe sentire l’abete da sotto
la corteccia sentendola toccare. La mente è un acino
che due dita schiacciano. E in ogni caso il limite
degli alberi rimane chilometri più in basso.

Non sono asceso. Non è salita la mia voce
a tacere il girare della luce sul Gasherbrum.
Quanti pomeriggi uguali fanno un’era geologica?
Mai uscire dal quadrato muto che l’universo
ci ha tracciato attorno: fuori è freddo e nulla.

 

L’autore:
Guido Cupani lavora per l’Osservatorio astronomico di Trieste e vive a Cinto Caomaggiore, Portogruaro (Venezia).
Ha scritto “Le felicità” (Samuele 2011), “Qualcosa di semplice sulla neve” (Culturaglobale 2013) e “Meno universo” (Dot.com 2018).
È tradotto in inglese da Patrick Williamson (“Sonata for Gaza”, Routledge 2018), sloveno e rumeno. Collabora con il Porto dei Benandanti di Portogruaro e con la rivista online Perígeion.
Ha in cantiere una raccolta di haiku e un romanzo. Il suo ultimo progetto è 2milaventi2: https://www.2milaventi2.net

 

 

 

 

Immagini       ——————————–

Architetto Astronomo

galleria Prologo

di Paolo Figar

 

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro         ——————————-

Un filo di fumo, un sentore, appena un suono?

Niccolò Nisivoccia, “Quasi una cosmologia”

di Roberto Lamantea

Un canto di frammenti, ricordi come petali, il corpo che accoglie nell’oggi i batticuori del passato; l’odore delle cose, della pioggia e dei fiori; il mondo fisico dove anche i ricordi e l’immaginazione puoi abbracciarli. Poi la svolta, l’inferno della guerra e della storia, i bambini di Lesbo che si suicidano.
È bellissimo il nuovo libro di Niccolò Nisivoccia, “Quasi una cosmologia” (Interno Libri). Pagina dopo pagina si rivelano un profumo d’aria, una luce che arriva dal passato come il volo di una colomba che richiama il tuo sguardo smarrito su una guglia, o una nuvola.
Composte a frammenti in prosa – ma è prosa? – in uno stile che riconosce come propri maestri Char e Jabès, le righe di questo libro sono forse versi, frammenti di diario, tessere di un mosaico che si ricompone e varia, come un caleidoscopio: l’immagine è luce. Sono pensieri sottovoce, questi di Niccolò Nisivoccia, scritti come se avessero sorpreso lo stesso autore con un battito d’ali.
Sì, c’è Jabès, citato da Vittorio Lingardi nella prefazione, ma c’è anche il Salinas di “Vigilia del piacere”, di “La voce a te dovuta” – c’è anche Proust.
Il corpo, il mio il tuo corpo, è misura del nostro essere, del toccare – verbo che ricorre in queste pagine – e dello smarrire, come se anche il nostro esserci, misura del mondo, ci sfuggisse proprio quando ne afferriamo la presenza. Eppure ogni momento è eterno, “destinato a durare, come dura un sentimento”. “Queste poesie (questo poema?) sono una rivelazione progressiva e magnetica di sensi abitati da pensieri e di pensieri che si fanno corpo, un testo di parole che sono al contempo recettori tattili e sinapsi”, annota Lingiardi, in un paesaggio “sempre abitato da un tu, che spesso è un noi”. Come in uno scrittore defilato delle nostre lettere, Sergio Claudio Perroni, i cui libri sono pubblicati da La nave di Teseo e che meriterebbe un posto di primo piano nella letteratura di fine millennio.
Il mondo è presenza: “È tutto nei sensi, è tutto carnale. Questa terra, questo mare. Questa luce e la sua ombra, questo vento, questa croce. La tua voce. Il vedere, il sentire, l’assaporare. Il toccare, l’odorare. Il passato, il futuro, il ricordo di te, la nostalgia di ciò che ancora deve accadere”, dove l’aggettivo iterato rimarca la presenza, l’essere nel mondo anche nell’assenza (come in Char), dove il corpo è “nuda vita, puro senso, puro tatto”, quel corpo “che cerca comunioni, non solitudine”.
La scrittura di Nisivoccia è plastica, pittorica, non solo nel corpo delle parole ma nell’evocazione dell’immagine, cita pittori come de La Tour, mentre il testo di pagina 36 (lo riproduciamo qui sotto) ricorda Lucien Freud. È corpo e nello stesso tempo è trasparente, è fisico e inafferrabile come il vento (“Vivere nel vento”, “Il vento che soffia sul viso, muove i vestiti, spettina i capelli. Il vento sulla pelle; sulla pelle sentire il giorno, anche senza vederne la luce. Come se la pelle avesse gli occhi, o le orecchie: il vento come una luce, allora, o come una voce”). È ascoltare “la polifonia dentro di noi”; è “aprirsi al mondo nel suo darsi stupefacente, totale; solo allora il sogno, l’immaginario non saranno meno veri del reale“; è “Il fiore odoroso di un maggio lontano: ma ero io, eri tu, eravamo quel che siamo”, mentre “Questa notte che profuma già, o profuma ancora, del pane dell’alba – alla fine della strada. Eri un bambino”.
È “la polifonia dentro di noi”, un libro di pentagrammi che, quando hai finito di leggerlo, ricominci a sfogliarlo: “Guardarti, attraverso un tremore”.

 

Dal libro:

Una figura denudata, scarnificata, quasi disossata – è comparsa sulla tela, è emersa dal pennello, nella notte. All’inizio erano solo boschi, e cieli scuri; o chiarori comunque notturni. Poi le figure, ma senza volto – il volto nascosto dietro un segno o una bava di colore. Poco più di un velo, di un’assenza: come un’ombra, o una promessa, come l’attesa di un’esistenza. Successivamente la promessa è stata mantenuta, e l’attesa ha preso forma e sembianze – di occhi, di sguardi per quanto scavati, di bocche per quanto serrate. Ma tanto bastava al dialogo, all’amore. Erano macchie di grigio, talvolta attraversate da stesure nere; erano nervi scoperti, urla mute, accuse e preghiere. Le parole sarebbero arrivate, un giorno o l’altro, il silenzio avrebbe fatto loro spazio. Forse sono arrivate, forse non le abbiamo sentite. Alla fine di tutto è tornata la notte – è tornata all’improvviso, nel cortile, fra i gerani e gli oleandri.

*

Il corpo che torna alla vita, nella luce calda di un mattino d’aprile.

*

Il contorno che dà la pioggia alle cose – attraverso il rumore, attraverso l’odore che dalle cose solleva. Il sapore che lascia nel giorno.

*

Dove si è perso, il senso di ogni singolo gesto compiuto? Un libro appoggiato proprio lì, in questa foto. Un tuo sguardo, un tuo sorriso, una posa. Tutto ciò che hai fatto, nel passato. Dove si sono perse, le cose? Come arrivano, se arrivano, a me – ora e qui, a fare di me quel che sono? Come arriveranno a te, attraverso il tempo, domani? Saranno poco più di niente – un filo di fumo, un sentore, appena un suono?

*

Saranno, forse, solo ceneri – di te, di noi, del tempo che siamo.

 

L’autore:
Niccolò Nisivoccia è nato nel 1973 a Milano, dove vive e lavora.
Collabora con Il Sole 24 Ore e con il manifesto. È autore delle due raccolte di frammenti poetici “Sulla fragilità” (Le Farfalle, 2019, con una nota di Eugenio Borgna) e “Variazioni sul vuoto” (Le Farfalle, 2020, con una nota di Nadia Fusini); del saggio “La rinascita del debitore” (Il Sole 24 Ore, 2020) e coautore, con Adolfo Ceretti, di “Il diavolo mi accarezza i capelli” (il Saggiatore, 2020).

(Niccolò Nisivoccia “Quasi una cosmologia” pp. 160, 15 euro, Interno Libri 2021)

 

 

 

 

Immagini          ——————————–

Senza titolo

galleria Prologo

di Roberto Kusterle

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————–

Chiamare un nome, dirsi l’attesa

Ksenja Laginja, “Ventitré modi per sopravvivere”

di Giovanni Fierro

È bello assaporare una continua sorpresa nella lettura di un libro. Perché trovare pagine tutte dedicate ad un unico numero, in questo caso il 23, è di sicuro situazione nuova e sorprendente.
E per questa narrazione aperta su “Ventitré modi per sopravvivere” possiamo essere grati alla sua autrice, Ksenja Laginja, che ne traccia pagina dopo pagina una curiosità viva e possibile, esplorata in tante inaspettate interpretazioni.
Ma non è solo il desiderio di trovare connessioni sorprendenti o nascoste; l’avere a che fare con il 23, e con tante delle sue relazioni con il nostro mondo, permette all’autrice di esplorare il quotidiano di ogni giorno, cercando di codificarlo nel cortocircuito che lo sta divorando, con il desiderio di toglierlo dal torcersi dentro una spirale destinata ad avvelenarlo.
Siamo metalli saldati/ nella rabbia, processo/ ossidativo in esilio”; e da subito Ksenja Laginja porta in evidenza tensione e distanza, valori intensi che viviamo al negativo, di cui sempre più siamo succubi.
Perché poi, in tempi di assoluta affermazione della prima persona (e in special modo nel mondo della poesia), lei riesce a riempire la parola noi, le dà presenza ed appartenenza, anche solo per un ammonimento, una avvertenza di pericolo: “noi compresi/ tra la mano e il coltello/ inclusi nell’assenza”.
Non si scompone mai la poesia di Ksenja Laginja, e questa sua recente pubblicazione è la dimostrazione di una costruzione importante, che vive di uno sguardo determinato e capace di vedere, di riconoscere.
Il 23 diventa così un territorio altro dove il mondo si racconta di più, dove la storia e la conoscenza possono mostrarsi; luogo geometrico e di incontro, dove possiamo dirci “esploriamoci adesso/ all’incrocio dei punti”.
E questi punti possono essere di contatto, e forse sono anche di sutura. Sempre e comunque punti da vivere in un noi.
La geografia esistenziale che Ksenja Laginja ci indica è quella che ci ricorda che l’alfabeto latino classico è formato da 23 lettere, che 23 sono le coppie in cui sono divisi i cromosomi umani; e che Gaio Giulio Cesare fu assassinato con 23 coltellate, come 23 sono le definizioni della geometria euclidea… Queste le coordinate che dicono di un non accontentarsi della superficie, ingannevole promessa di verità.
E in questa scrittura calibrata nella precisione del necessario e del desiderio, l’autrice si muove nelle profondità del sentire e del mettere in collegamento, del creare accensioni di significato che contengono molta più verità di un trattato sociologico.
Perché solo quando il peggio è passato puoi dire che “resta questa successione/ di punti a definirci”, e che se non è l’odio a farlo, è bene ricordarsi che “l’amore/ rivendica sempre tutto”; e forse proprio per questo “ci toccherà separarci/ cedere il peso agli altri”.
Ksenja Laginja non fa sconti, ma è ben distante dall’alimentare la disperazione. Con la sua poesia, sempre nel vivo della parola, riesce a difendere ciò che di umano rimane in ognuno di noi, dove “resta questo essere in bilico/ nella possibilità coincidente/ tra il dare e ricevere/ tutto questo nulla”.
Ma è sempre meglio trovare ventitré modi per sopravvivere che uno solo per arrendersi, sapendo bene che c’è sempre una domanda in più a cui rispondere, “quanta luce ci separa?”.

 

Dal libro:

V

Questo essere minerali
atto trasformativo e litania
è l’enigma che incede
farsi divinazione
chiamare un nome
dirsi l’attesa.

(Il numero 23 è composto dai numeri due e tre. Il numero 3 è attivo e possiede una grande forza energetica)

*

XI

Includilo nell’assenza
a noi che resistiamo
paralleli e disposti
nello stesso piano
infiniti nelle direzioni
senza mai toccarci.

(23 sono le definizioni della geometria euclidea)

*

XII

Resteremo inclinati a terra
pallidi e impenetrabili
nel roteare senza destinazione
apparente, comprenderemo
la successione degli eventi
arriveremo a conoscere l’esilio
che ci hanno imposto.

(Il 23 nella teoria dei grafi è un numero di Wedderburn-Etherington, un numero di distinti alberi binari.)

*

XX

Ripetiamolo insieme
ventitré volte andremo alla deriva
diranno che siamo trascurabili
terreno sterile privo di fondamenta
come il tuo corpo, ormai inerte
racchiuso nell’urna

(Il 23 nel linguaggio dei sordi significa “stupido”)

 

 

Intervista a Ksenja Laginja:

Come è nata questa fascinazione per il numero 23? E come è stato ‘scoprire’ tutte queste sue appartenenze e significati?
I numeri provengono da molto lontano e io ne sono sempre rimasta affascinata, ma prima di scrivere “Ventitré modi per sopravvivere” non mi era capito di affrontare così direttamente la materia. Ho studi artistici e tecnici alle spalle, di numeri ne ho incontrati molti a partire da quelli che distinguono le gradazioni di colore di una palette.
Questo minuto libro mi ha permesso di viaggiare attraverso le dimensioni nell’apparente incorporeità di un numero, che in realtà ogni giorno si fa presenza pura e totalizzante. Tutto quello che vediamo può essere infatti rappresentato da un numero.
Nel caso specifico del 23 posso affermare che sia stato proprio il numero a chiamarmi a sé: non ho in alcun modo forzato le cose e tutto è avvenuto naturalmente. Credo che in generale nulla avvenga in modo casuale perché ogni evento porta con sé qualcosa, un tentativo di aprire la breccia alle porte della percezione con l’obiettivo di restituire dettagli sull’ultimo punto, proprio dove ricomincia il ciclo dell’esistenza.

Questo lavoro mi sembra che esprima anche una volontà a non fermarsi alla superficie, per non accontentarsi dell’evidenza. Ma invece mostra il cercare il lato più profondo di ogni accadere, di ogni realtà….
Mi piace ricordare una lettura di qualche anno fa “In acque profonde” scritto da David Lynch. L’agile volumetto fu “rivelatorio” e mi diede la spinta lungo la discesa. La superficie non mi hai mai soddisfatto, per questo ho tentato e continuo a tentare di attraversarla. Il viaggio però ha un prezzo: l’ascolto profondo non lascia indenni.
Se passiamo a un livello successivo, allora dobbiamo considerare la realtà non come qualcosa di reale, ma piuttosto legato al nostro vissuto e alla relativa visione personale.
Possono coesistere più realtà nello stesso tempo, tante quante sono le visioni sul mondo. David Lynch afferma che “bisogna andare in acque profonde” e io mi trovo totalmente d’accordo in questa affermazione. L’esistenza è dominata dagli istinti e ognuno costruisce nel suo tempo un percorso. L’elemento che diversifica la prospettiva della realtà è il singolo punto di osservazione.
Ogni attraversamento della superficie è un’esperienza.

E questo è forse anche il desiderio più vero del fare poesia?
Credo che lo sia, sì.
Confesso di non riuscire a stare a lungo in superficie, l’intenzione infatti è fondamentale e può essere una guida.
La profondità è in qualche modo spaventosa, bisogna armarsi di coraggio e iniziare il viaggio. Il desiderio più vero può nascere solo da un’urgenza, se questa non c’è allora la poesia rischia di rimanere in superficie con il risultato di diventare un calembour.

Il sopravvivere del titolo non è per niente rassicurante, anzi. Il nostro tempo ci permette solo questo?
Questo libro non è nato per essere rassicurante, ma al suo interno non è celata alcuna via segreta. La rivelazione, se sussiste, risiede in una sorta di germinazione. I 23 modi sono solo un esempio, uno spunto su come poter sopravvivere a determinate situazioni, legate ai significati molteplici di questo numero primo. L’umanità da sempre ha bisogno di essere rassicurata, si aggrappa a un intervento divino o alla possibilità di ricevere qualche tipo di rivelazione. Trovare una propria e personale fede a cui aggrapparsi è qualcosa che faccio pur io, ma in questo caso attraverso un medium numerico. Il 23 è il mio personale talismano.
Il nostro tempo è qualcosa che si è già ripetuto e non appartiene solo a questo preciso momento storico. In tutti i periodi si è rivelato il rapporto complesso con il nostro essere qui, dove il sopravvivere sembra l’unica scelta in una realtà che non è univoca. La vita però è sempre lì fuori, a lei poco importa del concetto di sopravvivenza umana.
L’umanità si accapiglia fin dalla nascita su questi pensieri e sul grande mistero della vita e le sue tragedie immerse in grandi sfide. In questo mio breve spazio esistenziale ho iniziato a capire che ognuno vive a modo proprio.
Credo che si possa esistere, non solo sopravvivere, ma è necessario dare peso alle cose, e non saranno misure uguali per tutti così da trovare un equilibrio mutevole pronto a rispondere a ogni istanza. Credo che sia necessario comprendere le differenze e preparare la grande scacchiera della vita, su quel terreno abbiamo l’occasione di vivere strategicamente ogni contrasto. Tutto è necessario e anche un immenso dolore può essere funzionale.
La vera tragedia è il non poter fermare o cambiare quello che non ci compete direttamente, ma il percorso continua il suo avanzamento e la vita scorre, che lo si voglia o meno.

Eppure, nella lettura di “Ventitré modi per sopravvivere”, si avverte la sensazione che l’essere umano rimane una creatura capace di resistere all’usura della società. Mi sbaglio?
Caro Giovanni, non sbagli. Il nostro essere donne e uomini non rappresenta solo una debolezza, ma anche una forza che proviene da tempi molto lontani.
Noi abbiamo un grande potere chiamato “forza della ricostruzione”. Quando tutto crolla, una strana forza si muove intorno a noi e ci dona la possibilità di andare avanti. Alcuni si fermano, in quel caso purtroppo la resistenza non è più possibile.
Non è semplice restare in piedi, perché non siamo tutti uguali, ma per fortuna è possibile vivere le medesime esperienze: i primi innamoramenti, gli abbandoni, la perdita del lavoro, la morte di una persona amata. Queste sono le esperienze che ci uniscono e rendono simili, tutto il resto affonda nell’abisso delle variabili.
L’azione della resistenza mi appare semplicemente come un atto magico, ma non è facile viverla a piene mani, il tiro va ricalibrato continuamente perché non si tratta di un flusso continuo: l’onda avanza e poi si ritira costruendo un gioco degli opposti.

 

L’autrice:
Ksenja Laginja è nata a Genova, vive e lavora tra la sua città e Roma dove alterna alla sua attività letteraria e pubblicitaria una ricerca sull’illustrazione legata al mondo del Fantastico.
Ha esordito con “Smokers Die Younger” (Annexia edizioni, 2005) a cui ha fatto seguito “Praticare la notte” (Ladolfi Editore 2015).
Nel 2020 ha vinto i premi Europa in Versi e Arcipelago Itaca, nella sezione inediti.
Suoi testi sono presenti su antologie poetiche, blog e riviste letterarie.
Co-organizza la rassegna di poesia e musica elettronica Poème Électronique.

(Ksenja Laginja “Venitré modi per sopravvivere” pp. 39, 8 euro, Kipple Officina Libraria 2021)

 

 

 

 

Immagini        ——————————–

L’origine in 4-4

galleria Prologo

di Ignazio Romeo

 

 

 

 

Tempo presente        ——————————

L’originale è infedele alla traduzione

Giorgia Zanierato, Davide Rondoni “La cosa delicata. L’arte della traduzione”

di Roberto Lamantea

Tradurre – scrivevano due germanisti triestini, Guido Cosciani e Guido Devescovi – significa entrare nella vita dell’altro e far entrare quest’ultimo nella propria, quasi diventare l’altro e farlo diventare noi. L’altro, che dà e riceve, può essere un individuo, un Paese, un’intera cultura”: in occasione del Premio italo-tedesco per la traduzione, il 23 giugno 2020 all’Ambasciata d’Italia a Berlino, Claudio Magris ha ricordato che tradurre è non solo un’operazione letteraria ma un ponte tra culture, tra i popoli e la loro storia, nel sogno di un’Unione Europea che sia un unico Stato, non un mosaico di nazioni.
Ma come tradurre? Il dibattito su quali siano i metodi migliori per una buona traduzione è antico come la letteratura: versione letterale, parafrasi, prosa quando l’originale è in versi, e come rendere la musica, metrica, prosodia, giochi di parole: si pensi ad Alice di Carroll e al suo labirinto di limericks e polisemie, alla scrittura “brutta” di Dostoevskij, ai lemmi che non hanno sinonimi in un’altra lingua.
Il libro di Giorgia Zanierato e Davide Rondoni, “La cosa delicata. L’arte della traduzione”, suggerisce percorsi possibili ma senza indicare la “ricetta” di una buona traduzione.
Su questo tema c’è già una ricca bibliografia – percorsa e citata da Zanierato e Rondoni con piacevole complicità ma senza nasconderne limiti ed errori. A quelle preziose pagine si possono accostare “Tradurre e traducibilità. Quindici seminari sulla traduzione” a cura di Giulio Lepschy per Aragno (2009) e i lavori di Antonio Prete, poeta e tra i maggiori studiosi di Leopardi: “All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione” (Bollati Boringhieri 2011) e “L’ospitalità della lingua, quaderno di versioni da francese, tedesco, spagnolo, inglese” per Manni (2014).
I due autori – Rondoni poeta affermato, Zanierato, giovane studiosa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – concordano con Magris: la traduzione ha un valore etico, è “la capacità di ascolto a dischiudere l’inesauribilità del senso”, ancora di più quando si tratta di tradurre poesia, “una lingua strana e straniera”; l’arte della traduzione “somiglia all’arte dell’amicizia”.
Ma ecco il punto: come tradurre? “Il concetto di fedeltà non va posto al di sopra di quello di lealtà”, il che significa che non è necessario – anzi spesso è impossibile – una traduzione letterale. Forse ha ragione Leopardi che chiama le sue versioni incluse nei Canti “imitazioni”.
Ancora: il poeta Giorgio Caproni – premio Mondello per la sua traduzione di Céline – diceva che tradurre un’opera significa salvarne il movimento. Mentre Alberto Fraccacreta ricordava recentemente un paradosso di Borges, nel saggio “Sopra il Vathek di William Beckford” in “Altre inquisizioni” (1952): “L’originale è infedele alla traduzione”.
Quando tratta di Baudelaire, Rondoni gioca in casa: ha tradotto “I fiori del male” per una preziosa edizione Salerno (2011) e per Rizzoli (2016) “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. Qui il poeta e saggista forlivese, dopo aver preso le distanze sia dalla versione in prosa di Bertolucci, sia da quella “anestetizzata” di Raboni, e dopo il primo colpo di fioretto – ce ne saranno altri – contro le “sopravvalutate” “Lezioni americane” di Italo Calvino, che “Les fleurs du mal” neanche li nomina, e il canone Bloom – sguaina una frase che può diventare un manifesto: “Non si può tradurre con il preservativo”, cioè tradurre “senza accettare il rischio totale. La voce nella voce. Che è come dire il corpo nel corpo, l’anima nell’anima”, “una disponibilità all’esilio, un aumentare scomparendo”. Come Dante quando obbediva al dictare d’amore.
Più avanti i due autori definiranno il traduttore “un autore affiancato, un compagno di coro più che un presuntuoso alchimista”.
La sfida si fa via via più chiara. Al punto che Rondoni – che si diverte come un matto quando si tratta di fare polemica contro i luoghi comuni che intabarrano l’ambiente intellettuale, editoriale e giornalistico – nella sequenza da pagina 51 a pagina 55 sfodera più che un fioretto una daga contro i traduttori da “batteria da allevamento”, “piccoli mostri” “che vorrebbero tradurre in italiano e che spesso, tranne rari casi che confermano la regola, non hanno addosso nulla della migliore letteratura italiana novecentesca.
E non conoscono il sapore della lingua italiana sorgiva, quella nata tra la scuola siciliana e Francesco e Jacopone e Dante. Il loro italiano è modestissimo, la tastiera con la quale dovrebbero suonare ed eseguire il movimento dell’opera interpretata e tradotta è sovente stonata e debole”.
Segue una dichiarazione d’amore alla lingua italiana, da riportare per intero: “La maggior parte delle traduzioni in italiano sono bruttine perché chi le ha fatte non è stato in grado di scrivere bene in italiano. Mancanza di muscoli, e nervi e suoni di una lingua antica e cangiante, letteraria e borgatara, alta e bassa, da inferno e paradiso, da grammelot e da purismo. Nutrita di mille dialetti, di una radice antica latina, e spesso greca e di sovente araba. E mescidata con lingue di conquistatori che apparvero barbari e furono poi terribili e splendidi regnanti”.
Molti traduttori assoldati dalle case editrici – ma spesso sottopagati, o non pagati affatto – “non leggono quasi nulla del miglior Novecento e del miglior presente della narrativa italiana perché spesso si fermano a quel che passano le orrende conventicole di librerie e inserti culturali dominati da mode e interessi commerciali […] a volte paiono degli espatriati dall’italiano”. Il che vale non solo per i mediocri traduttori ma anche per narratori e poeti “alla moda”.
Il libro propone infine degli esempi di traduzione da Shakespeare (i sonetti XV, XVIII e XCIX), Francisco de Quevedo, Baudelaire, il Salmo 8 di Re Davide e una scoperta: la poeta andalusa Aurora Luque.
Traduttrice dal greco, dal latino e dal francese e docente di greco antico a Malaga, è stata tradotta in più di 13 lingue, le hanno dato diversi premi fin dalla prima raccolta, Hiperiónida, ma in Italia è sconosciuta.
Il libro propone tre testi stupendi, finemente resi in italiano in endecasillabi da Giorgia Zanierato, scritti in uno spagnolo allitterativo che è una danza di suoni, sillabe, vocali e accenti: “La danza de lo vivo lo viviente lo vivido” (“La danza di ciò che vivrà, del vivente, del vissuto“) e una dichiarazione di poetica che è il suggello perfetto di questo libro:

Traducir lo lenguajes vegetales
de un mundo che se seca.
Hablemos, hablemos con los árboles.
Unirnos a los ímpetus radicales del tiempo
y cuidar lo que junio nos ofrece.

Traduciamo le lingue vegetali
di un mondo che si sta prosciugando.
Parliamo, parliamo con gli alberi.
Uniamoci agli impeti radicali del tempo
e prendiamoci cura di ciò che giugno ci offre.

 

Intervista a Davide Rondoni e Giorgia Zanierato:

Il vostro libro ha il tono di una conversazione cólta con il lettore, non vuole essere un compendio, illustra concezioni e metodi diversi, non si esime dal criticare traduzioni famose. Ci raccontate come è nato il progetto della “Cosa delicata”?
Davide Rondoni: Da tempo accanto alla poesia e all’arte della traduzione rispondevo agli inviti a insegnare a un Master sulla traduzione letteraria e a incontri e seminari. E l’amico Stefano Arduini – direttore delle
Giornate nazionali sulla traduzione – ogni tanto mi diceva “Scrivile queste cose che dici”.
A lui sembravano interessanti, e poiché lui è un grande esperto, ecco il mio piccolo contributo… Ma parlare dell’arte della traduzione è parlare delle cose più affascinanti e misteriose della vita. Se no non l’avrei fatto. Anche nelle cose apparentemente “secondarie” amo il primario, l’estremo, l’assoluto. E Giorgia è una buona folle compagna di viaggio.
Giorgia Zanierato: Mi sono innamorata delle teorie sull’arte della traduzione grazie a una docente illuminata che mi ha introdotta a Zanzotto, Meneghello e Giudici come traduttori oltre che come autori.
Ho telefonato a Davide per fargli alcune domande sul lavoro del traduttore di poesia, gli ho espresso alcuni miei dubbi e convinzioni e lui mi ha proposto di approfondire l’argomento dialogando e stendendo i nostri appunti di viaggio. Ovviamente questo percorso per me è stato, oltre ad un onore per essere stata accompagnata da un maestro (d’arte e di vita) come Davide, anche l’occasione per battere sentieri già battuti da altri, vivere in presa diretta altre vite, e infine posso dire che grazie a questo incontro con esistenze altre ho avuto il privilegio di amplificare la mia.

Alcune pagine del libro mettono in guardia da quelli che chiamate i “traduttori da batteria espatriati dall’italiano”, che non conoscono la storia della nostra lingua e sono legati a mode e interessi commerciali dell’industria editoriale: non perdono un titolo di un autore alla moda ma non hanno mai letto i classici del Novecento. Un lettore medio come fa a orientarsi nel mercato librario?
D.R.: Non esiste il lettore medio. Esiste Giovanni, Anna, Michele… Ognuno parte dalle domande più profonde della sua vita e cerca autori con cui condividerle… I libri sono voci di autori, cioè di persone che forse aumentano (autore da augeo) la mia consapevolezza e il mio desiderio di vita… Non conosco altro orientamento.
G.Z.: In realtà io credo nell’esistenza del lettore medio e credo che nella maggior parte delle occasioni non si interroghi più di tanto sulla validità o meno di una traduzione, ma che semplicemente legga il testo nel modo in cui gli viene presentato su carta e lo valuti sulla base di quella specifica traduzione. Anch’io quand’ero più piccola, prima di interessarmi al mondo della traduzione, non mi facevo troppe domande sull’efficacia o meno di un certo testo tradotto, lo leggevo per come mi veniva presentato dalla casa editrice. Inoltre credo che troppo a lungo i traduttori siano stati invisibili, non considerati, il loro nome non compariva nemmeno nelle copertine delle opere che traducevano, venivano menzionati come dettagli d’appendice. Credo che questa modalità fosse sbagliata, svalutante, ma noto anche come, sempre più di frequente, l’editoria abbia iniziato a dare rilevanza ai traduttori, magari non ancora considerandoli alla stregua dell’autore (come io li considero), ma comunque dandogli maggior rilievo.
Non credo sia semplice offrire un orientamento al lettore medio, credo nel potere, nella funzione e nel mandato della critica letteraria (se svolta in un certo modo): se anch’essa venisse considerata come mediatore fondamentale e si ricominciasse a darle la rilevanza che merita, sarebbe un ottimo strumento di aiuto, svolgendo la funzione di una bussola.

Negli ultimi anni sono stati ritradotti classici del Novecento di narrativa e poesia i cui titoli erano così diffusi da diventare dei marchi: “La montagna incantata” di Thomas Mann è diventata “La montagna magica”; Nadia Fusini si è scagliata contro il nuovo titolo dato a “The Waste Land” di Eliot: “La terra devastata” invece del canonico “La terra desolata”. Che cosa ne pensate?
D.R.: Che ogni traduttore ha una grande responsabilità e corre grandi rischi, come ogni amico, amante, interprete etc.. La vita è un rischio ed è dunque bello discutere. Il fatto che ci siano più traduzioni è indice della ricchezza del significato. E cioè che la verità è sempre più grande di noi.
G.Z.: Concordo con Davide, nonostante alcuni titoli e traduzioni siano diventati parte integrante del nostro bagaglio culturale, facciano parte di noi e della nostra memoria, le traduzioni hanno bisogno di essere rinnovate, i testi hanno la necessità di riecheggiare, di essere riascoltati e ridetti da altre voci, in altre forme.
Questo permette un dialogo tra persone sulla molteplicità dei significati e sulle sfumature che caratterizzano la lingua e le parole. Se è vero che solo il dialogo conduce alla verità, è vero anche che la verità non è mai univoca ma sempre molteplice, si sviluppa in diverse direzioni, si incontra e scontra con infiniti modi di sentire che a loro volta si mettono in contatto tra loro. Credo consista in questo il miracolo dell’incontro e la magia delle parole.

Tra gli autori il vostro libro propone tre testi stupendi di un’autrice spagnola tradotta in più di tredici lingue e più volte premiata ma sconosciuta in Italia, l’andalusa Aurora Luque. Ci sono altri poeti da noi mai pubblicati che vorreste veder tradotti in Italia?
D.R.: Un sacco. Io ne ho favorito la pubblicazione. Molti editori sono sordi. Si possono tradurre un sacco di bravi poeti che sono in giro per il mondo. Oppure ritradurre dopo tanto tempo. Ad esempio vorrei fosse tradotto di nuovo Norwid, un poeta polacco che Brodskij paragona a Baudelaire e che è forse all’origine della mia vocazione poetica… E uno mai tradotto mi pare sia il gran poeta francese Jacques Réda…
G.Z.: Per me è difficile incontrare poeti non tradotti in italiano se non dialogando con amici che vivono in altri Stati o che studiano altre culture. La lingua a cui più sono vicina è quella spagnola e la sfera a cui più mi sono interessata in questi anni è quella femminile. Per questo vorrei fossero tradotte anche qui in Italia poetesse come Isabel Pérez Montalbán, che oltretutto ha vinto da poco un importante premio in Spagna; ma anche Erika Martínez o María Eloy-García. Queste sono le autrici che ho avuto maniera di scorrere prima di scegliere chi tradurre per “La cosa delicata”, prima di innamorarmi della poesia di Aurora Luque.

 

Gli autori:

Davide Rondoni (Forlì 1964) è poeta, scrittore e drammaturgo. Laureato in Lettere all’Università di Bologna con Ezio Raimondi, ha fondato e diretto il Centro di poesia contemporanea dell’Università felsinea.
Ha scritto diverse raccolte di poesia, pubblicate in Italia e all’estero, tra cui “Il bar del tempo” (Guanda 1999), “Avrebbe amato chiunque” (Guanda 2003), “Apocalisse amore” (Mondadori 2008, 2020).
Dirige la collana “I Passatori – Contrabbando di poesia” per CartaCanta Editore. Nel 2018 ha ideato il progetto “Infinito 200” nel bicentenario della stesura dell’idillio leopardiano (1819).
Al canto del poeta di Recanati ha dedicato il libro “e come il vento. L’Infinito, lo strano bacio del poeta al mondo” (Fazi 2019). L’ultima sua pubblicazione è “Cos’è la natura? Chiedetelo ai poeti” (Fazi 2021).
Nel 2019 ha vinto il Premio Montale Fuori di Casa.

 

Giorgia Zanierato è nata nel 1997 a Piove di Sacco (Padova). Studentessa magistrale in Filologia e letteratura italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia, collabora con la casa editrice AnimaMundi e con alcune riviste di impronta letteraria.
Ha avuto esperienza nella gestione di uffici stampa e nell’organizzazione di eventi culturali. È redattrice del Semestrale di letteratura italiana Kepos.
Oltre al libro “La cosa delicata”, ha pubblicato vari articoli accademici.

(Giorgia Zanierato, Davide Rondoni “La cosa delicata. L’arte della traduzione” pp. 124, 13 euro, CartaCanta, collana “Bandiere. Discorsi di letteratura italiana” 2021)

 

 

 

 

Immagini         ——————————–

Gabbiani al crepuscolo

galleria Prologo

di Marina Legovini

 

 

 

 

Libroelibro          ——————————

Torno agli archivi

Edmund de Waal, “Lettere a Camondo”

di Laura Mautone

Edmund de Waal, ceramista di fama mondiale e autore di una indimenticabile biografia di famiglia nel libro “Un’eredità di avorio e ambra”, ritorna al genere dell’affresco di famiglia, ma lo fa attraverso la finzione del romanzo epistolare.
In quel libro si trattava della storia degli Ephrussi, ebrei di Odessa, commercianti di cereali e poi banchieri ricchi e famosi quanto i Rotschild, dei quali l’autore è un discendente, in questo racconta dei vicini di casa degli Ephrussi, i Camondo, anch’essi ebrei, di origine italiana, ma provenienti da Istanbul, anch´essi esponenti dell´alta società della Belle Époque parigina, che da stimati collezionisti e filantropi divennero bersagli dell´antisemitismo.
Le lettere sono pennellate di ricordi, come impronte sulla ceramica della memoria e sono indirizzate direttamente a Moïse de Camondo, che volle creare la più grande collezione d’arte francese del Settecento con il desiderio di lasciarla al figlio Nissim. Nissim purtroppo morì giovanissimo nella Prima Guerra Mondiale e il padre destinò nel 1935 sia la sua casa, sia la sua collezione di inestimabile valore allo stato francese.
Da allora il Musée Nissim de Camondo è rimasto lo stesso. La sensibilità del fine ceramista e dell’abile scrittore emerge dalle cinquantotto lettere che de Waal immagina di scrivere a Moïse de Camondo e che offrono a noi lettori riflessioni sulla memoria, sulla famiglia, sulla malinconia e sullo scorrere del tempo.
Qui a parlare dei vari membri della famiglia sono i luoghi, i volti e gli oggetti, ricostruiti magistralmente dalla penna dell’autore, che, grazie a ricerche in archivio, è riuscito a dare vita alla storia di una passione e di una famiglia, oltre all’atmosfera di un’epoca.
Il libro è corredato di fotografie di luoghi, di oggetti e di persone, a colori e in bianco e nero, di mappe, cartine e piantine, riproduzioni di quadri che ci svelano, passo passo, la microstoria di questa famiglia, straordinaria come poche altre in balia degli eventi della Storia.
Se volete sapere chi sia quella bambina dallo sguardo malinconico e infinito, vestita d’azzurro e bianco, con i fluenti capelli rossi, sciolti sulle spalle e un fiocco dello stesso colore dell’abito, che li ferma dolcemente sul capo, dipinta da Pierre-Auguste Renoir nel 1880, leggete queste lettere e scoprirete la vicenda della Petite Irène, di Goering e di come questo splendido quadro sia arrivato, infine, alla Fondazione Bührle a Zurigo. Come perdersi e ritrovarsi nella grazia e nella cura dei dettagli che le mani esperte e la penna acuta di de Waal sanno trovare in ogni aspetto della vita.

Dal libro:

Caro amico,
sono tornato a trascorrere il mio tempo negli archivi. È una mattina di inizio primavera e tra gli alberi del parco c’è un’imminenza a stento trattenuta. Ancora poche le foglie, ma la settimana prossima non sarà già più così. Troppo il freddo, e l’umidità per stare seduti a lungo sulle panchine, ma a me non importa. Non gironzolano nemmeno i cani. Piove da giorni. Esiste una parola per descrivere l’odore del mondo dopo la pioggia: petricore. Ha un che di francese.

[…] Torno agli archivi. È una forza magnetica ad attrarmi verso queste stanze nelle soffitte, gli appartamenti dei domestici, a ritroso di cento anni.

(Edmund de Waal “Lettere a Camondo” pp. 192, 16 euro, Bollati Boringhieri, 2021)

 

 

 

 

Immagini       ——————————–

Crescita di luce

galleria Prologo

di Damjan Komel

 

 

 

 

Voce d’autore        ———————————-

La luce si dispone in nuove ombre

Isabella Serra, “Il sonno del mondo”

di Giovanni Fierro

Il sonno del mondo” è l’occasione per entrare in una dimensione in misurare il proprio accadere, nel giorno che ci contiene.
Isabella Serra si muove in un ascolto che è certezza di svelamento, di incontro, di narrazione.
Il mondo che ognuno di noi conosce si mescola così con altri mondi possibili e sensoriali, con l’affidarsi alla trasparenza di ogni percezione.
C’è stupore, sempre elegante e delicato, e vivida comprensione dell’esistente. Il punto di contatto fra queste due realtà è il fare poesia di Isabella Serra: “A volte penso/ ai bagliori inattesi/ della rosa dei venti,/ alle meraviglie del secolo/ nella notturna velata rampante”.
Il suo “Il sonno del mondo” è questo muoversi, nei tre capitoli in cui il libro è costruito.
Si inizia con un apparente, anche se nella forma decisamente netto e determinato, commiato. Ma forse è solo una formula per andare ancora più vicino al sé, nel poterlo indicare e portare al contatto del mondo. Magari in una situazione per niente accomodante, quando “Mi addormento vessata dal sole”.
Poi lo scrivere di Isabella Serra incontra il mare. Ed è uno specchio riflettente, uno spazio da attraversare, un dilemma da sciogliere. Sempre e comunque per esplorare il proprio stare nella vita.
Senza muoverti immobile/ mare mio/ non hai fatto niente”, ma quante volte ognuno di noi fa lo stesso? E poi “io credo che staccata/ sia l’anima/ dal suo creatore/ che all’unisono batte/ il cuore del mare”.
Perché, anche nella contemplazione più profonda, Isabella Serra ci indica che l’attrito di cui siamo fatti è ben chiaro: “Si rigira devastato nel suo letto/ copioso di rosso, capisci solo dopo/ che si tende fino a spezzarsi/ il desiderio”.
Ci si può rompere e spezzare, si può vivere nella difficoltà e nell’approssimazione, ma c’è sempre una appartenenza a cui ritornare: “Quando la notte è sola,/ come in questo cortile,/ si apre nella meraviglia/ il mio silenzio”.
Isabella Serra, con questo suo nuovo libro, ha scritto pagine che hanno radici profonde nelle verità del reale, ma che non rinunciano mai al bisogno della visionarietà.
In quello spazio dove puoi “chiudere nel sonno il sonno del mondo/ che si spegne mentre ancora lo guardi”.

 

Dal libro:

E la paura di morire,
i venti,
gli anni del confine.

Vortica salendo
guardando l’aria
il pensiero
del mio corpo, del dono
a me divino dell’essere,
dei miei occhi di betulla
che rintronano come cervi
nel bosco del mio sentire.

*

A te che muovi i raggi della luna,
tu che ti sei fatta luce dentro i sogni
per cullare gli spazi,
tu che non parli, ma dici,
e il tuo dire è uno schianto alle stelle,

per cantarti
le parole non si assestano
in un inno ben fatto,
ma si espandono,
come i raggi del sole sulle onde.

*

Sollevandosi
nello spazio di una volta
si consuma l’ora del tempo
e si aspetta l’onda
rovesciarsi addosso i suoi tonfi,
si crede
che la risacca si porti via l’acqua
continuamente mossa.

Invece il mare si rompe.

*

Protendo al tuo oscuro
in cerca di fissi
alberi, le vostre manine,
i vostri sonagli esultano
mentre i miei passi
si fan strada tra le foglie
gialle e grandi.

 

Intervista ad Isabella Serra:

 L’inizio della raccolta è spiazzante. È, di fatto, un commiato. Un saluto ed un andare via. Ma da che cosa? E perché la decisione di questa ‘apertura’ del libro?
È singolare tu l’abbia visto così. Un commiato, un andare via da qualcosa… non saprei, forse sì. So solo che potrei paragonare questa poesia a una morte e a una resurrezione insieme. Morte per uno stato d’animo profondamente triste, resurrezione per una coscienza di camminare in un altro mondo, qui e ora. Gli alberi mi erano sia testimoni, che protettori.
Ho deciso di mettere questa poesia prima di tutte le altre, primo perché è per me molto cara. La considero una creatura più fragile. Secondo perché, al di là della circostanza in cui è nata, l’ho riconosciuta come una poesia in grado di introdurre a qualcos’altro, quindi anche in grado di traghettare le altre.

La seconda parte è invece affidata al mare. Che diventa luogo di esplorazione, ma anche specchio nel quale guardarsi, e scoprirsi. Cosa sta alla base di questa sezione del libro?
Le poesie sul mare le ho accorpate insieme, sebbene siano state scritte in momenti molto diversi, perché rappresentano un corpus in cui maggiormente è raccolta l’energia, che serve per continuare il viaggio e il libro (“All’elmo si incrina…“).
Una specie di contenitore per rigenerarsi e prendere ancora più aria e più luce. Attraverso il mio dialogo con il mare non solo mi guardo e mi scopro, ma mi riconosco anche in un dialogo, un dialogo in cui io sono l’essere mortale e lui l’essere divino.
A volte sembra ch’egli stesso non sia stato creato, ma sia egli stesso creante.

E si vive la sensazione che a ‘parlare’ del mare (ma anche a parlare con il mare), il tuo scrivere sia anche uno strumento per trovare un posto, una appartenenza, al comune quotidiano vivere. Può essere così?
Se parli di appartenenza in termini di luogo fisico ma anche come dimensione altra rispetto al vivere quotidiano, mi verrebbe da rispondere di no.
Il più delle volte scrivere è, è stato, (non so se sarà ancora così) una descrizione delle cose che vedevo e dei moti interiori che queste mi procuravano, una scrittura forse dettata da una fascinazione, molto spesso, soprattutto nel mio primo libro, “Notte”.
Penso che lo scrivere, soprattutto poesia, per me, sia generato da un amore, verso la vita prima di tutto, anche se si scrivessero cose brutte o tristi. Perché scrivere è comunque un movimento; un movimento nel cercare di afferrare qualcosa, un movimento nel cercare di descrivere, di dare parole a un qualcosa che ci colpisce, un movimento per tessere una lode, denunciare qualcosa, etc..
Se non provassimo amore non ci verrebbe neppure voglia di cercare di capire, di cercare di descrivere, di cercare di superare o attraversare qualcosa.

Tutto “Il sonno del mondo” mi sembra sia un respirare. Che cosa? E come?
Il titolo è tratto da un verso di una poesia. Questa: “Chiudere nel sonno il sonno del mondo/ che si spegne mentre ancora lo guardi./ Non ci è concesso di chiamarti sole”/ quando ancora ti parlo tu già invochi la luna”.
L’idea di dare questo titolo non mi è arrivata da un ragionamento ma mi si è come palesata davanti. Dopodiché sono andata a ritroso, per capire io stessa da cosa si originava quel titolo. Mi sono imbattuta così in un passaggio de “Il Libro Rosso” di Jung: “Se in quest’epoca del mondo tu dormi questo sonno e sogni questo sogno, saprai anche che in questo tempo sorgerà il sole. Ora ci troviamo ancora nell’oscurità, ma il giorno sta per arrivare. Colui che ha compreso la tenebra che è in lui è prossimo alla luce. Colui che si cala nella propria tenebra giungerà al sorgere della luce potente di Helios dai riccioli di fuoco“.
Non so, per me questo è respirare, il vedere le cose attraverso altre cose, spalancare gli occhi, la mente e il cuore a quel qualcosa del mondo che è sempre stato e sempre sarà un mistero.
Molto spesso a questo mistero si giunge attraverso il sogno, che il più delle volte non è altro che la realtà trasfigurata, o attraverso il sonno che è l’anticamera del sogno.

Una particolarità, che contraddistingue tutto il tuo nuovo libro, è la tua continua ricerca nel linguaggio usato. Come ad esempio la frase “Mi addormento vessata dal sole”. Cosa ha motivato questo tuo cercare, nell’ampio spazio delle parole da poter scrivere?
Davvero non mi accorgo che sia così, ma ora che lo dici mi rendo conto che è così, in effetti. Credo di voler ricercare all’interno delle stesse parole perché quelle sono le parole che più mi sembrano avvicinarsi a quello che voglio dire.
Parole prime, come i colori primi, forse, che se messe in sequenze giuste, si avvicinano di più a un significato. Come in “pensavo di dover cingere il campo/ sovrumano di silenzi/ e interminati spazi. /Invece mi è rimasto in mano“. Non si riesce a descrivere tutto quello che vedi, nemmeno con tutte le parole del mondo.

Nella terza parte, “Interminati spazi”, si vive una solitudine che sembra bastare a sé, bastarsi da sola. È questa la sua anima? E che solitudine è, quale la sua natura?
Sì, adesso che me lo fai notare sembra proprio una solitudine, anche se trovo sia una solitudine mascherata, perché di solito la parola solitudine evoca solo tristezza.
La solitudine non triste è invece la base per entrare in contatto con sé stessi e quindi con il mondo, con la parte luminosa del sé, utilizzando le differenti maniere (che sia l’immaginazione, la psiche, il sacro, la musica, etc.).
Se devo pensare alla natura di questa, chiamiamola ‘solitudine’, la definirei la solitudine del bambino lasciato solo a giocare: sa di non essere solo. Non so.

Tu sei traduttrice. Quale l’influenza che il mondo della letteratura russa ha esercitato in “Il sonno del mondo”?
Credo mi abbia fatto tanto bene leggere Pasternak, il poeta russo meglio conosciuto come l’autore del Dottor Živago.
Boris Pasternak è stato prima di tutto un poeta, e uno dei più grandi. Le sue poesie sono un tripudio alla gioia del creato, una vera e propria poesia dello stupore, un inno alla vita, un calarsi nel dolore per poi redimerlo e renderlo più luminoso con le lacrime.
Poi riconosco ci siano echi della poesia di Aleksandr Blok, anch’egli poeta russo del primo Novecento, che ha molto influenzato la mia poesia in fatto di musica del verso, ma anche di visioni trasognate, quasi fiabesche.

 

L’autrice:
Isabella Serra è nata a Tione di Trento e cresciuta in Sardegna. Vive a Trieste.
Si è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in lingue e letterature straniere, specializzandosi in lingua e letteratura russa.
Ha tradotto “La forma dell’Anima” di Andrej Tarkovskij (Rizzoli 2012), “La mia vita nel teatro russo” di Nemirovič- Dančenko, (Dino Audino 2016), “Anna Karenina” (Cult editore 2011).
La sua prima raccolta poetica è “Notte”, edita da Raffaelli nel 2016.

(Isabella Serra “Il sonno del mondo” pp. 47, 12 euro, peQuod 2021)

 

 

 

 

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è tutto in tutti

galleria Prologo

di Franco Spanò

 

 

 

 

Voce d’autore        ———————————–

Restare a vegliare

Federico Zucchi, “Ode alla presenza”

di Salvatore Cutrupi

Ci sono raccolte di poesie che alla fine della lettura lasciano il segno, producono una sensazione di piacere e di arricchimento personale generando il desiderio di tornare più volte a leggere gli stessi versi.
Questo accade con “Ode alla presenza”, l’ultimo libro di Federico Zucchi, edito da LuoghInteriori.
Nelle sue poesie c’è un dialogo continuo tra i paesaggi e i ricordi, tra la natura e l’uomo, descritto nel fluire del suo essere e del suo divenire. E poi c’è l’amore, quello universale, che rappresenta uno dei temi più cari al poeta con l’esortazione, soprattutto nei periodi bui, ad essere presenti, a prendersi cura l’uno dell’altro: “In questo tempo cupo/onora le stelle che scorgi/ e porta la fiamma residua/ nel cuore degli altri/ per destare a tua volta/ la cura”.
Nei versi dell’autore si nota l’uso frequente di vocaboli forti, parole che sembrano scolpite in una roccia ma sempre ricche di sonorità, ritmo ed armonia, tutti elementi che si addicono a un buon poetare.
La silloge di Federico Zucchi è supportata da un robusto background culturale e da alcune reminiscenze classiche, ma è soprattutto intrisa di passione vera.
La constatazione dell’aridità del nostro tempo, della solitudine e del disagio causati dalla recente pandemia, sono fattori che hanno influenzato fortemente la sua ispirazione, “Dappertutto crescono/ solitudini senza aureola/ funi di silenzio intorpidito/ corpi come campi da tennis/ su cui cade solo la pioggia”.
Ricorre comunque più volte l’esortazione a ricercare con tenacia la felicità e la bellezza, ciò per cui vale la pena di vivere “Persino in questo isolamento/ non si attenua la bellezza sbriciolata/ il passo scalzo delle donne/ quando sono innamorate”.
Ci sono infine gli affetti famigliari e i colori e profumi dei luoghi in cui il poeta vive, con il loro fascino pacato e quella bellezza incontaminata che lui ha voluto trasportare nel libro, per riviverla ancora una volta e per farla conoscere agli altri, “Lungo l’alto Adriatico/ c’è una strada bianca/che raggiunge una pineta”.

 

dal libro:

Maestri di strada

A voi guardiamo alberi
perché siete il nostro salvo
entroterra, lo spartitraffico,
l’argine all’apnea del mondo.

Sapete restare a vegliare
le pensiline sferzate dal vento,
i monumenti ai caduti
a cui nessuno concede
una lacrima nuova,
le finestre degli ospedali
che si specchiano
sui parametri vitali,
i lungomari insonnoliti
che risuonano con voi.

Siete i confessori delle stelle
i conciatori dell’ombra
gli alchimisti del sole
gli affittacamere
degli uccelli
e quando non sappiamo
dove andare a baciarci
cerchiamo nell’attaccatura
dei vostri capelli
un arco di trionfo.

A voi guardiamo alberi
per ancorare
le foglie degli occhi
al cielo possibile.

*

Gli sguardi che cambiano il mondo

Ricordo all’improvviso
in pieno sole
il clacson
dei tuoi occhi nei miei

io che non
mi scosto
e cado investito

e quando mi rialzo
sono più alto
di un cuore.

*

Tenere per mano un bambino

Figlio mio, il mondo è immenso
e non ti metterò in guardia
dicendoti che ogni mela
si conclude con il verme
perché la bellezza
ha mappe sconosciute
agli artefici del gelo.

Non possiedo scuole guida
e nemmeno sale prova
ma conosco di persona
la Sherazade nascosta
nel riserbo degli oggetti,
il bucato della luce
sopraggiunto a notte aperta.

Figlio mio, il mondo è pieno
di ingiustizie senza appello
su cui non ho giurisdizione
e io stesso nel mio cuore
sono dedito all’errore,
ma posso convocarti
per un tratto sulla strada
a conoscere il coraggio
del cane del barbone
che resta di vedetta
sul selciato delittuoso,
ma ti posso accompagnare
dentro i boschi del confine
fino ai larici scolpiti
da una diaspora di neve
per sentire quanto è vasto
l’alfabeto dell’incanto.

 

Intervista a Federico Zucchi:

Durante il lockdown, dovuto al coronavirus, in qualità di insegnante, tu hai sperimentato coi tuoi studenti la Didattica A Distanza. Il titolo del libro “Ode alla presenza” nasce dall’aver constatato che questo metodo di insegnamento, a causa della mancanza di dialogo diretto, penalizza il rapporto umano provocando a volte reazioni psico-emotive negative, soprattutto nell’età scolare?
No, il titolo del libro non è legato alla scuola. Nella poesia “Ode alla presenza” c’è un riferimento alla didattica a distanza in chiave ironica, per rimarcare l’importanza dell’esperienza attraverso quello che siamo: corpo, mente e spirito.
La pandemia ha accelerato processi che erano già in corso, ma non possiamo sbarazzarci dei corpi, perché di lì passa il nostro destino. Poi, certo, durante un’emergenza anche la didattica a distanza può avere una sua utilità, ma confinata in spazi ristretti e ben definiti.
La complessità dei viventi ha bisogno di altro, altrimenti rischiamo di ridurci alle nostre componenti meccaniche. Internet permette di mantenere i corpi distanziati, intoccati, restando connessi.
È una vicinanza spuria che certamente non può sostituire la pienezza dell’incontro, specie per i ragazzi che devono scoprire chi sono attraverso il mondo. Con tutte le gioie e i dolori che questo comporta.
Il titolo del libro vuole essere un inno al nostro essere qui, oggi, nella dimensione profonda della presenza che ci libera, anche solo per pochi istanti, da un certo vuoto interno e dal viavai delle passioni tristi.

Quando inizi a scrivere una poesia riporti sempre situazioni reali o qualche volta dai anche spazio all’invenzione?
È difficile dire come nasca una poesia. A volte ci sono schegge della realtà che mi spingono a scrivere, piccole intermittenze, storie appena udibili, musiche che si sporcano d’inchiostro.
Noi vediamo attraverso l’immaginazione e in questo modo possiamo acuire la scarsa visione. Sono le immagini a rischiarare quello che altrimenti resterebbe illeggibile.
Sono d’accordo con Robert Frost quando scrive che “la poesia è un arresto del disordine”. Una pausa in cui tutto sembra al suo posto. Un vecchio con la camicia hawaiana che beve il suo Martini, il bambino che fa tintinnare le conchiglie nel secchiello, l’insonne che si torce nel suo letto di parole.
Un verso riuscito è un leone in allerta, è l’inizio di una conversazione possibile.

Secondo te, il poeta come deve rapportarsi con l’impegno sociale e civile?
Non credo che la poesia, come tutta l’arte, debba per forza testimoniare un impegno civile. Ogni piano programmatico rischia di banalizzare quello che vorrebbe mettere in luce.
Questo non significa che la storia con le sue urgenze non entri nei miei testi. Ma lo fa (o dovrebbe farlo) di nascosto, insinuandosi come un ladro che ha paura di essere scoperto, cercando di rubare l’argenteria senza spaccare le finestre.
Temi come l’amore, la natura, Dio, l’ingiustizia e la solidarietà, la pace e la guerra, sono e saranno sempre al centro della riflessione di chi scrive.
Ma per me il cuore di una poesia è la lotta con il tempo, è il filo d’oro che ricuce l’esplosione di una bomba. Il cuore non è il messaggio, ma il volo della lingua oltre l’inferriata.

Ci sono poeti antichi o moderni che all’inizio del tuo percorso poetico hanno influenzato il tuo modo di scrivere?
Ce ne sono molti, da Garcia Lorca ad Emily Dickinson, passando per Josif Brodskij e Giuseppe Ungaretti. E molti altri ancora. Ma se devo andare proprio all’origine del fascino che la parola poetica ha avuto per me, devo tornare alle poesie di Pascoli e di Foscolo imparate a memoria da bambino, a certe immagini che mi hanno lasciato una specie di incanto perturbato. E poi alle canzoni che mia madre cantava per me e a mia sorella in macchina, sulla vecchia Fiat 500.

Questo tuo ultimo libro è stato pubblicato alcuni mesi dopo che sei diventato padre. La nascita di tuo figlio ha modificato i tuoi orizzonti poetici, il tuo modo di osservare ciò che ti circonda e di conseguenza il tuo poetare?
Diventare padre è naturalmente un’esperienza che cambia la vita e con essa lo sguardo. Non so quali conseguenze abbia sulla scrittura. Sono in una fase di ascolto.
Sicuramente raccontare storie per far addormentare Gabriele è un grande esercizio di precisione fantastica. Inquadrare il bosco, metterci un lupo che sia credibile, spingere nel buio una stella finale. E stare attento a non calpestare per sbaglio la misteriosa poesia dell’infanzia.

 

L’autore:
Federico Zucchi è nato a Gorizia nel 1979 e attualmente vive a Palmanova (Ud).
Ha pubblicato quattro libri di poesia: “Nel mare non manca nessuno” (Edizioni Culturaglobale 2013), “Dinamo Isba” (Edizioni DivinaFollia 2014), “Il varco umano” (LuogInteriori, 2019) e “Ode alla presenza” (LuoghInteriori 2020).
Ha ottenuto numerosi premi a concorsi letterari tra cui il premio di poesia Filari in Versi di Cormons (2010), il premio di letteratura Alda Merini-poesie inedite (2016), il premio Il giardino di Babuk-Proust en Italie (2018) e il premio Nelso Tracanelli (2021).

(Federico Zucchi “Ode alla presenza” pp. 55, 11 euro, LuoghInteriori 2020).

 

 

 

 

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InnenHof bei Nacht

galleria Prologo

di Antonio Colmari

 

 

 

 

Voce d’autore        ——————————-

Versi come colpi di katana

Georgia Schiavon, “Fisica teorica”

di Giacomo Vit

Per comprendere a fondo il nuovo libro di Georgia Schiavon, studiosa di filosofia, saggista, giornalista, è necessario richiamare alla mente la raccolta poetica precedente, “Scala erotica”, pubblicata nel 2012 per l’editrice Mimesis.
L’opera, formata da quaranta poesie, aveva come sfondo il concetto platonico di Eros e il mito di Amore e Psiche. Archetipi cui però la poetessa dava uno smalto moderno, perché sempre presenti nell’essere umano.
Quello che colpiva in queste poesie, oltre al contenuto, erano alcune caratteristiche tecniche: la brevità dei versi, l’illuminazione primaria che investe tutta la composizione, i molteplici livelli di lettura dei testi, il rivolgersi a un interlocutore che, in ultima analisi, potrebbe essere anche il lettore stesso.
Lusinghiera fu in questo senso la recensione che Fabio Simonelli pubblicò sulla prestigiosa rivista “Poesia”, nel settembre 2013, nella quale sosteneva che “le parole che compongono i versi di Georgia Schiavon sono scelte con cura quasi maniacale” e che “la poetessa accompagna il lettore attraverso una scrittura solida e senza sbavature”.
Questa nuova opera, “Fisica teorica” – edita da poco da Publimedia, con una prefazione di Dominic O’Meara professore emerito di filosofia antica – per alcuni aspetti si collega a quella precedente, ma per altri apporta delle innovazioni. La continuità è data dalla forma delle poesie, brevi, minuscole scintille sentenziose, in cui spesso la poetessa si rivolge a un interlocutore.
Le novità vanno ricercate in due aspetti, legati profondamente fra loro. Il primo è che il volume è corredato da foto, le quali non sono un mero calco dei versi, ma creano un contrappunto, facendo rimbalzare i concetti da un’arte all’altra.
Il secondo è dato dal fatto che è la stessa autrice a farsi fotografare e a occupare lo spazio iconico. Narcisismo? (“Perseguono percorsi sinuosi/ i miei pensieri vanitosi“; “Sono la dea/ della mia sfera di cristallo”; “Del tuo sguardo/allo specchio/ mi attardo”). Forse, ma io non mi fermerei alle apparenze.
Infatti, la fotografia al cui centro c’è l’autrice rimanda alla ricerca di quell’unità fra anima e corpo su cui riflette la filosofia di Platone. Una sfida per il lettore, certo, ma a lui non sfuggirà la dose di ironia che rende più leggera la situazione.
Si prendano i versi: “Voglio fare la modella/ di poesia”. Che significato possiamo dare? Di primo acchito, e osservando le composizioni fotografiche, sembra che lei voglia fare la modella, ma, con un enjambement inaspettato, ci dà la pugnalata: di poesia. In che senso? Vuole essere un modello letterario? Vuole un po’ prendersi (e prenderci) in giro? Ecco che la lettura non è più univoca, ma si apre a piste diverse.
La brevità delle poesie non è data dal fiato corto della poetessa, bensì da una scelta di estrema sintesi: togliere il superfluo e giungere alla massima concentrazione.
Per esempio, la poesia “Narciso” è formata da tre versi quaternari: “Del tuo sguardo/ allo specchio/ mi attardo”. Ma potrebbe essere un gioco illusionistico. Infatti, se mettiamo i tre versi in una riga, legando due vocali in una sillaba, otteniamo un endecasillabo.
L’ulteriore brevità permette al bianco del foglio di acquistare un suo significato, un vuoto che è colmato dalla presenza del corpo. Nulla è casuale in questi versi, simili a colpi di katana (come vedremo, il riferimento non è peregrino).
Georgia Schiavon sa creare un tessuto musicale notevole: si vedano le rime perfette e imperfette, il computo preciso delle sillabe, le allitterazioni che, assieme alle rime, creano un ritmo fonematico originale (“Accarezza/ la mia marmorea morbidezza”).

 

Dal libro:

Gnosi

Snobbo
la caduta dall’Eden.

*

Kalokagathìa

Alétheia
atletica.

*

Ipnosi

Ti attiro nel talamo
tessuto dal mio calamo.

*

Méthexis

Ipostatizzo
l’eternità della forma.

*

Psicosomatiche riflessioni

Non tradisce l’apparenza
la snellezza dell’essenza.

*

Giochi di prestigio

Appaio
solo con il trucco.

*

Corpo poetico

Nel giro soltanto di
un enjambement
t’incanto.

 

Intervista a Georgia Schiavon:

Nella tua visione della realtà poetica, quanto, e in che modo, c’entra la filosofia di Platone?
Nel pensiero di Platone, il maggiore esponente della filosofia greca classica, ho trovato il paradigma concettuale per il percorso di cui questo libro è un esito.
Il platonismo è una filosofia idealista. Per Platone, cioè, l’essenza della realtà è l’idea – principio astratto, eterno ed immutabile – e il compito dell’uomo è ricercare questo principio nel mondo in cui vive. Ciò è possibile in virtù della partecipazione (méthexis) delle cose alle idee.
La realtà sensibile deriva infatti per Platone dall’attività creatrice di una divinità che imprime alla materia informe, della quale le cose sono costituite, la forma delle idee.
Per quanto la filosofia platonica sia idealista, per essa l’ambito della materia, dell’apparenza, ossia il mondo fisico – cui l’uomo, in quanto unione di anima e corpo, appartiene – è il fondamento della conoscenza dei principi ultraterreni, delle idee.
Per questo per Platone la conoscenza dell’idea non può prescindere dal rapporto con il corpo. Non solo in quanto la visione della bellezza corporea risveglia il ricordo della bellezza ideale, già contemplata dall’anima prima di incarnarsi nel corpo, diventando il tramite per la conoscenza dell’idea; ma anche nel senso che lo stesso esercizio del corpo, in quanto lo avvicina alla forma di bellezza ideale, assume un valore intellettuale, interiore, per chi lo pratica: la creazione di armonia nel corpo favorisce il raggiungimento dell’armonia nell’anima.
Quanto alla forma in cui esprimo tale tentativo, nella brevità dei miei versi cerco di trasmettere quella tensione all’essenza, all’idea appunto, che vorrei manifestare anche attraverso la corporeità. La mia, benché sensuale, è una poesia intellettualistica, come dimostra l’utilizzo di termini tecnici del pensiero filosofico antico (gnosi, méthexis, alétheia, forma, armonia degli opposti), ma anche l’astrazione da ogni contesto naturalistico, che si riflette nell’ambientazione delle foto in spazi interni.

Il corpo è al centro della tua poesia. Ma tu come lo percepisci da sotto la tua pelle?
La prima poesia, “Gnosi”, esprime un’idiosincrasia nei confronti della svalutazione che il corpo ha subito nella tradizione occidentale.
La mia raccolta rappresenta una risposta ad un problema intellettuale, che tuttavia deriva da un’esigenza concreta, materiale: dare espressione alla mia corporeità, che la reclama.
Certo, sono consapevole che il rischio è un’interpretazione superficiale, limitata all’apparenza, all’esteriorità. Il mio lavoro è anche un gioco di immagini, di specchi, di trucchi (un «Gioco di prestigio», come recita il titolo di una poesia), ma sotto c’è un interrogativo profondo, che cerco di affrontare attraverso il ricorso a un modello antico: l’ideale greco della kalokagathìa, la corrispondenza tra corpo e anima, esteriorità ed interiorità.
Nonostante tenti di raffigurare tale corrispondenza, creando una relazione tra corporeità e pensiero, quest’opera nasce da una contraddizione interiore, ovvero dalla sperimentazione e dalla consapevolezza di una incompatibilità tra le esigenze del corpo e quelle del pensiero, tra l’esercizio del primo e quello del secondo. Ritengo non sia possibile pervenire a un’armonia tra queste due sfere dell’esistenza.

Nella tua introduzione a “Fisica teorica”, tu citi lo scrittore giapponese Yukio Mishima, dal quale riporti in esergo ben due citazioni. Qual è il tuo rapporto intellettuale con questo scrittore-samurai?
Questo lavoro e soprattutto l’inizio della riflessione di cui esso è risultato precedono il mio incontro con questo intellettuale, che non si può quindi considerare come un mio modello.
Nelle pagine del suo saggio retrospettivo “Sole e acciaio”, tuttavia, ho trovato un’affinità di visione. La ragione di ciò va certamente individuata nella sua conoscenza e nella sua ammirazione della cultura greca, in particolare della filosofia di Platone, che egli cita nelle sue “Lezioni spirituali per giovani samurai” per la sua idea di corrispondenza tra corpo e spirito.
Nel caso di Mishima tale ideale greco si fonde con il principio della tradizione samurai che informa la vita di questo scrittore: l’“unione della letteratura e delle arti marziali”, una scelta esistenziale nella quale l’esercizio della corporeità ha un’importanza pari rispetto a quello della scrittura.
Essa appare anacronistica non solo perché si rifà a ideali e modelli del passato, ma soprattutto perché si oppone alle tendenze della società contemporanea, nella quale il corpo è oggetto di svalutazione rispetto allo spirito o di un interesse comunque meramente materialistico.
Mishima, per contro, analogamente a Platone, ritiene il corpo un mezzo di conoscenza: il sapere che esso può trasmettere non si può acquisire tramite i libri e lo studio.
Ovviamente, vanno fatte le distinzioni del caso. Tra tutte, il gesto cui il radicamento nella tradizione guerriera del Giappone, della quale si erge a difensore, conduce Mishima, ovvero il suicidio rituale in segno di disapprovazione del proprio tempo: un concetto estraneo al platonismo antico.

Che ruolo riveste l’ironia nei tuoi versi? Serve per avvertire il lettore di non prendere tutto alla lettera? Oppure a fargli capire che siamo all’interno di un gioco linguistico al quale pure lui, con le sue interpretazioni, può partecipare?
Nei dialoghi platonici l’ironia è il metodo utilizzato da Socrate per suscitare l’interesse dell’interlocutore, al fine di portarlo ad interrogarsi sulle questioni filosofiche affrontate. Essa rappresenta quindi una forma di seduzione, che nel mio caso è esercitata anche dal corpo, oltre che dalla parola, che comunque si fa corporea.
Nei miei testi l’ironia è spesso originata proprio dal tentativo di mettere in corrispondenza testo e immagine, interiorità e corporeità. Il suo impiego da una parte eleva il narcisismo, dimostrandone la consapevolezza, dall’altra alleggerisce la portata teorica dei versi, creando uno spiazzamento.
In poesie come “Méthexis” o “Corpo poetico”, l’intellettualismo veicolato da un registro linguistico alto, cioè da termini tecnici del linguaggio poetico e filosofico, viene relativizzato dalle immagini corporee che li rappresentano: nella prima la “forma” ideale ed eterna, ossia l’idea platonica, nella seconda la figura retorica dell’“enjambement” diventano pose corporee seducenti, facendo così dello stesso linguaggio del corpo poesia.

Quale pensi possa essere la funzione di una poesia come la tua, che ha forti richiami alla mitologia greca, in una società un po’ distratta e frettolosa come quella attuale?
Il pensiero mitico e quello filosofico ci riportano, per vie diverse, a questioni universali, astratte dal tempo storico. Essi possono fornire delle chiavi interpretative della condizione umana.
Secondo autorevoli storici, quella contemporanea è una società dimentica del passato. In una società tecnocratica, fondata sulle competenze e sull’idea di progresso, come tende ad essere quella di oggi, il sapere storico e letterario diventano, all’estremo, inutili. Se non entra in contatto con questi saperi, tuttavia, l’uomo rischia di non conoscere se stesso.
Nel Rinascimento la centralità attribuita all’uomo, ovvero l’esigenza di determinare chi egli sia, porta gli umanisti ad interrogare i classici antichi alla ricerca di risposte.
Come spiega Cacciari nel suo saggio sull’Umanesimo, “La mente inquieta”, lo studio dei testi classici diventa allora un mezzo per la conoscenza delle concezioni dell’uomo nel mondo antico, cioè per la conoscenza dell’uomo.
Il fine della filosofia antica è, essenzialmente, la conoscenza di sé. Per Platone la conoscenza dell’idea, ovvero della verità, coincide con la conoscenza di se stessi.
Certo, è un percorso che richiede riflessione, ovvero cura per la propria interiorità. L’organizzazione della società attuale, proiettata verso la produzione e il possesso di beni materiali, non mi sembra la più adatta a favorirlo.

 

Gli autori:

Georgia Schiavon, giornalista, è dottore di ricerca in Filosofia. Ha pubblicato la raccolta di poesie ”Scala erotica”, il volume “Felicità antica e infelicità moderna: l’epicureismo e Leopardi”, lo studio “Jorge Luis Borges. I paradossi di Zenone: dei precipizi ne “Il giardino dei sentieri che si biforcano”” e ha scritto diversi articoli su argomenti letterari e storici per quotidiani e riviste (Il Mattino di Padova, Il Piave, La Loggia…).
Ha tenuto conferenze su Epicuro, Giulio Camillo Delminio, Giacomo Leopardi, Giuseppe Berto, Jorge Luis Borges.

 

Giacomo Vit è autore di opere in friulano di narrativa e di poesia, di cui si ricordano almeno “La cianiela” 2001, “La plena” 2002, “Sòpis e patùs” 2006, “Sanmartin” 2008, “Ziklon B- I vui da li’ robis” 2011, “Trin freit” 2014 e per Puntoacapo editore, la personale antologia “Vous dal grumal di aria” del 2018, che raccoglie quarant’anni di produzione poetica, alla quale è stato assegnato il premio Biagio Marin.
Ha fondato nel 1993 il gruppo di poesia “Majakovskij”, col quale ha dato alle stampe quattro volumi.
Con Giuseppe Zoppelli ha curato le antologie della poesia in friulano “Fiorita periferia” 2002 e “Tiara di cunfìn” 2011.
È componente della giuria del Premio Città di San Vito al Tagliamento e Barcis-Malattia della Vallata.

 

 

 

 

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Eva tra le nuvole

galleria Prologo

di Lara Steffe

 

 

(foto di Maurizio Frullani)

Intervista a Franco Spanò:

Presidente dell’associazione Prologo

di Giovanni Fierro

Quando è nata la galleria Prologo? E cosa l’ha fatta nascere? Raccontaci un po’ della sua storia…
Nel 1993, in occasione di un intervento artistico in via San Giovanni a Gorizia, si è formato Antemoliti, un gruppo di lavoro estremamente interessante che è stato, per me, il primo coinvolgimento di esposizione al pubblico.
Da allora ci sono state diverse discussioni in merito alla creazione di una qualche forma di collaborazione tra gli artisti, così nel 2004 è nata l’associazione Prologo, a cui ha fatto seguito l’inaugurazione della galleria nel 2005.
Per dire la verità, tutto nasce proprio dal fatto che ho trovato lo spazio dove è sorta la galleria e con l’aiuto e l’indispensabile supporto dei cari amici artisti Figar, Busan e Mrakic, ho avuto l’ardire di creare Prologo.
Ma Prologo non è solo un’associazione, la vedo più come una corporazione di mestiere, dove i componenti hanno già una propria attività a prescindere da quella associativa.
Comunque, Prologo quale associazione culturale si adopera a valorizzare le arti contemporanee, organizza eventi artistici e culturali, intreccia costantemente rapporti con le altre realtà cittadine per supportare e accrescere le iniziative culturali goriziane e regionali; è in contatto con artisti e con altre associazioni e gallerie in ambito nazionale e mitteleuropeo cercando di creare una rete di esperienze e di supporti, oltre che a mostrare le opere dei soci e a proporre nuovi artisti nella propria sede espositiva.

Gestire una galleria d’arte significa anche avere un rapporto costante e stretto con gli artisti. Cosa significa questo, in termini di impegno, soddisfazioni, criticità, progettualità?
Purtroppo, in questi ultimi anni il covid e gli impegni lavorativi stanno decisamente limitando questo aspetto importante dell’attività. Ogni visita ad uno studio di un artista era ed è un momento di forte coinvolgimento, non solo emotivo ma anche “visivo/visionario”.
Ti permette di aprire discussioni sul fare arte, stimola a ideare nuove esposizioni o eventi, apre nuove e inaspettate “finestre” su aspetti della vita, della ricerca espressiva, della cultura a 360° o dell’aspetto sociale. Sicuramente avere più tempo a disposizione per andare negli studi, sia di artisti conosciuti che di quelli emergenti, sarebbe per me un vero e proprio piacere. Che dire … mi faccio gli auguri di poterlo fare in un prossimo futuro!

E cosa vuol dire lavorare sul territorio, e in special modo in una città come Gorizia, di sicuro realtà complessa ed articolata?
Gorizia è ricca di artisti con un bagaglio di conoscenza molto ampio. Artisticamente viviamo in un crocevia di idee, per esempio la vicina Slovenia stimola la ricerca e lo sviluppo dell’aspetto grafico, noi cresciamo nell’aspetto coloristico.
Dalla fusione di questi due aspetti potrebbe veramente esser nata quella che Luciano de Gironcoli ha battezzato come “Scuola di Gorizia”. Si tratta di una particolare espressione artistica, visibile soprattutto nei lavori dei pittori di questa area geografica, i quali nella realizzazione delle opere danno egual peso all’aspetto pittorico e a quello grafico.

Gorizia nel 2025 sarà assieme a Nova Gorica la Capitale Europea della Cultura. Cosa significa questo per Prologo? Quali le aspettative e quali i desideri?
Purtroppo, non vedo un’azione decisa delle istituzioni preposte allo sviluppo di questo importantissimo appuntamento, almeno della parte goriziana.
Per esempio, quando tempo fa è stato richiesto alle associazioni di proporre degli eventi, Prologo ha inviato un progetto in merito, ma non abbiamo avuto neanche una risposta.
All’inizio siamo stati coinvolti in riunioni plenarie, ma poi nessuno si è più fatto sentire. Abbiamo richiesto un paio di volte informazioni, ma niente.
Per sviluppare bene alcuni progetti ci vogliono anche due anni di lavoro e, in linea di massima, dovrebbero essere pronti per il 2024 in modo da poter essere attuati nel 2025, per cui non dico che dovremmo già iniziare a lavorare ma poco ci manca.
Quindi, spero in un cambiamento di marcia delle istituzioni con il coinvolgimento delle associazioni culturali.
Sarebbe un peccato che il 2025 alla fine risultasse solo un abbellimento della città, una serie di eventi, anche di alto livello, ma senza il contributo delle associazioni e, pertanto, senza il reale contributo della cittadinanza.
La città può crescere se viene coinvolta attivamente.

E quali sono attualmente i rapporti con la realtà culturale ed artistica slovena?
In un primo momento sono state importanti ma poi si sono raffreddate parecchio. Negli anni passati abbiamo realizzato diverse azioni artistiche assieme alle associazioni e agli artisti di Nova Gorica, abbiamo collaborato con il teatro e altre realtà attive del territorio.
Ultimamente, forse per carenza di fondi, non abbiamo modo di organizzare esposizioni internazionali e quindi è difficile coinvolgere artisti che provengono da lontano. Comunque, ci proviamo.
Ora siamo in contatto con un’associazione croata per una piccola mostra nella nostra sede, speriamo di riuscire a realizzarla ad aprile.
Ricordo che del direttivo di Prologo fa parte Damjan Komel, di Vrtojba – Šempeter pri Gorici, quindi le porte sono spalancate.

Il fare arte è sempre un qualcosa di fondamentale, sia per gli autori che per chi ne usufruisce. In che modo, pensi, questi due anni di covid hanno influenzato le dinamiche compositive e creative, e il rapporto artista-pubblico?
Alcuni artisti hanno colto l’occasione per rintanarsi nel proprio studio per concentrarsi, producendo nuovi lavori e indagando nuove strade, altri invece, come è successo a molte persone, sono andati allo sbando, e si sono arenati. Per alcuni artisti non avere una esposizione in previsione ha frenato lo slancio creativo, in quanto per loro il mostrare è importante quanto il fare.
L’artista, spesso, comunica agli altri oltre che le proprie idee anche il proprio mondo interiore attraverso le proprie opere, per cui questa distanza forzata ha spezzato tale collegamento.
Come Prologo abbiamo fatto qualche tentativo di esposizione virtuale, ma i risultati non sono stati molto soddisfacenti.
Vedere un’opera attraverso un monitor non può restituire la visione diretta, manca il senso delle dimensioni, la brillantezza dei colori, l’aspetto materico delle pennellate, l’odore della vernice, la sensazione che si ha nel toccare una scultura.

Il lavoro di Prologo si è sempre segnalato per una certa predisposizione alla contaminazione fra varie espressioni e forme artistiche. Cosa c’è alla base di questa decisione? Di questa scelta?
La ricerca e la narrazione sono forse gli aspetti che più ci interessano di un artista. Ovviamente, le capacità tecniche sono importanti, ma avere qualcosa di nuovo da condividere con gli altri e cercare di raccontarlo in maniera innovativa è per noi molto importante.
Siamo sempre ancorati alle arti tradizionali, ma questo non vuol dire che scattare una fotografia o stendere un colore non possano avere un modo contemporaneo di farlo.
La ricerca sulla luce, la composizione, la dinamicità, il concetto, ecc., possono essere ancora sviluppati con le arti tradizionali.
Ma è anche vero che le interazioni con altre arti o con altri mezzi, come il digitale o il video, possono aggiungere ulteriori sviluppi nella creazione di un’opera.
Gorizia ha veramente un grande potenziale. Pittori, scultori, fotografi, poeti, musicisti, attori, registi, tutte persone con grandi capacità espressive che se potessero lavorare insieme creerebbero eventi di grande rilievo, anche internazionale.
Forse per questo la contaminazione a Prologo è ben accetta.

 

L’autore:
Franco Spanò è nato nel 1966 a Gorizia dove vive e lavora.
Fotografo autodidatta, dal 1993 ha partecipato a diverse esposizioni personali e collettive.
Da diversi anni utilizza la tecnica dell’esposizione multipla, in genere da due a quattro scatti sovrapposti eseguiti con apparecchio reflex analogico. Dal 2005 organizza e dirige le attività dell’associazione culturale per la promozione delle arti contemporanee “Prologo” di Gorizia.

Prologo

Associazione Culturale per la promozione delle Arti Contemporanee

via Graziadio Isaia Ascoli 8/1 – Gorizia

www.prologoart.it

 

 

Immagini        ——————————–

L’anno che Gesù salì sul Calvario senza cena

galleria Prologo

di Francesco Imbimbo

 

Galleria Prologo

i lavori qui proposti:

Alessandro Vascotto
29.02.0001
Tecnica mista (matite, acquarelli, acrilici, pastelli a olio) su cartone

Antonio Colmari
InnenHof bei Nacht
2020, acrilico su tavola, 100×100 cm

Damjan Komel
Crescita di luce
2021, scultura in marmo Bianco Sivec, luce led

Francesco Imbimbo
L’anno che Gesù salì sul Calvario senza cena
2021, installazione

Franco Spanò
è tutto in tutti
2019, esposizione multipla con apparecchio analogico

Ignazio Romeo
L’origine in 4-4
2019, Ferro ossidato

Lara Steffe
Eva tra le nuvole
2012, scultura in legno

Marina Legovini
Gabbiani al crepuscolo
2017, acquerello

Paolo Figar
Architetto Astronomo
2017-19, scultura in marmo di Carrara e Travertino romano

Silvia Klainscek
Concentrico
2009, Acrilico su tela

Stefano Ornella
Suspended time embody the light series
2020, olio su tela

Roberto Kusterle
Senza titolo
2021, fotografia e elaborazione digitale

 

Immagini       ——————————–

29.02.0001

galleria Prologo

di Alessandro Vascotto

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Livio Caruso.

 

 

 

 

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