Fare Voci febbraio 2022

Continuiamo ad addentrarci nel 2022 con una nuova serie di proposte, capaci di portare ancora più attenzione al fare arte della scrittura, e non solo.

Ad iniziare dal ritorno di Marco Marangoni, che con “Sentimentalissima luce” aggiunge più significato al suo percorso d’autore, con un libro che può diventare un prezioso punto di riferimento.
La voce d’autore si impreziosisce con Roberto Lamantea e il suo “Uno strappo bianco”, delicato ed elegante, di bosco e di promessa.

E con Massimiliano Bardotti, e le poesie del suo nuovo “Le terra e la radice”, abbiamo l’occasione di esplorare la verità del dire “Siamo un impasto di polvere e amore”.
Perché poi con Adriana Gloria Marigo e il suo “Astro immemore” troviamo l’avventura di “Imprimere cesura al frusto”.
Per trovare anche Carla De Angelis, con la sua antologia di testi “Tutto il tempo sul petto”, un vero e proprio invito: “E lascia alla notte riordinare”.

Il tempo presente è tutto negli otto inediti di Alessandro Salvi, “Estirpare il vento”, da Rovigno.

I “Margini. Di poesia ed altro” si delineano con Daìta Martinez, “Liturgia dell’acqua”, e con Francesca Boccaletto, “decorazione d’interni”.

Marco Di Pasquale ci porta nella lettura di Julian Barnes, con il suo romanzo “Livelli di vita”, e Laura Mautone in quella di “Lady Montagu e il dragomanno”, libro firmato da Maria Teresa Giaveri.

Le immagini sono le undici fotografie di Pina Della Rossa.

Buona lettura.

Giovanni Fierro

(la nostra mail è farevoci@gmail.com)

 

 

 

 

Immagini       —————————–

Spazio bianco

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

 

 

Voce d’autore       —————————–

E finché è l’occasione

Marco Marangoni, “Sentimentalissima luce”

di Giovanni Fierro

È tenace e sempre più approfondito, il lavoro che Marco Marangoni sta facendo nell’affrontare e vivere la poesia.
Con le sue raccolte sta tracciando un percorso di esplorazione che lo ha portato ai vertici della scena contemporanea.
E questo suo recente libro, “Sentimentalissima luce”, è la nuova dimostrazione di come il suo fare poesia sia diventato un punto di riferimento.
Perché con il suo scrivere, Marangoni sta costruendo un luogo di confronto, dove la vicinanza “È un richiamo di un fondo/ o forse di un dove/ che c’era/ o che eri (che siamo stati)”.
Quello che sta creando, ma anche riconoscendo, è un senso di appartenenza, che fa della poesia lo strumento cardine, ed eletto, per leggere il mondo, in ogni sua minuscola piega ed in ogni suo necessario battito e respiro.
Ed è capace di indicarci ogni centro di pulsione e fertilità, dove possiamo trovare “non più frantumi e polvere/ ma “cose” o nuclei/ di luce/buio, di quasi forze”. La prima provenienza, la prima risorgiva dell’essere.
“Sentimentalissima luce” è riconoscimento dell’incanto e fiducia nella parola, tratti che portano Marco Marangoni a dialogare con un altro importante e fondamentale poeta italiano, il Mario Benedetti di “Umana gloria”, affine nel riconoscere nella poesia il suono cardiaco di ogni esistenza, affidando al paesaggio la voce del dire (“prati e settembre/ che mi venite incontro/ anche ora”).
“Sentimentalissima luce”, nelle quattro parti che la compongono, disegna anche gli smarrimenti, il “siamo dove non siamo/ mai stati, e siamo qui/ per davvero” che è una coordinata perfetta per ritrovarsi in quella solitudine che è cifra esistenziale di ogni presa di coscienza e di scrittura.
La forza di questo libro, e anche della scrittura tutta di Marangoni, è nel suo non tacere le mancanze, le assenze; accadimenti loro stesse, perché “c’era un senso che non era degli alberi/ e non era di nessuno”.
Mancanze ed assenze che ben vengono evocate con i puntini di sospensione, a volte raccolti fra parentesi, altre affidate al vuoto di una frase che non si completa (“ma ora dimmi/ come venirti vicino (…)/ nel folto degli occhi, nel dovuto/ del rito”; “a un altro/ tempo che li avvolge/ …………….. / ora è tornato il sole”).
La luce che Marangoni porta in scena è una forza che sa illuminare, che riesce anche ad innescare la prossima deflagrazione, quando sa riconoscere che “sempre dell’incresparsi/ è l’esplosione/ e la parola”.
E la sua poesia è dunque questo luogo necessario, un po’ casa e un po’ viaggio, unico posto dove riconoscere meglio “chi siano gli uomini/ e le donne che si rincorrono e vanno/ dentro un ricamo di fiori…/ di eternità e di marmo”.
“Sentimentalissima luce” pone domande, le porta in evidenza, le sottolinea e a loro affida il senso del vivere: “Con che forza/ di vertigine pensarti/ in un limite?”. Leggere queste sue poesie è trovare la risposta, in un incontro necessario dove si è “come la curva delle spalle,/ l’andare a capo che ci incontra”.
Questa è la precisione che Marangoni ci indica, assoluta e irripetibile, seduzione da riconoscere e a cui promettere gli occhi aperti. Nel movimento di ogni possibile verità.

Dal libro:

Dietro le mie parole
è il silenzio

come la città intorno
e l’oceano buio
in cui navigo;

non c’è fondo mai
nello sguardo
ma è dove
sempre torno, sempre vado

*

Se oggi mi incroci,
è nel taglio che s’apre
o si sfrangia nel buio
che mi indichi delle felci,

ma dove si scoscende, grado a grado,
(tra idillio e tempo)

e finché è l’occasione
e la vita ci destina con un taglio,
col nome

*

In margine al significato
o di spalle al senso… è qui
la poesia, mi dico, ogni volta
che ti ascolto; ed è sempre
in presenza… ed è tardi
quando mi concentro,
quando mi volto

*

Non si parli mai troppo
in poesia o d’amore
e se sei qui o non sei qui;
ma dammi l’occorrenza del tu
nel dialogo con me,
nel discorrere di noi;
e quel dentro che dispone
più sotto, nell’intimo
procedendo…
e prima, ti dico,
della parola
dove un dove non c’è,
non si trova

 

Intervista a Marco Marangoni:

Nella prima parte del tuo nuovo libro, il termine ‘fondo’ ricorre più volte. La sensazione è quella che ce ne sia bisogno, di un qualcosa su cui potersi posare, avere una certezza sotto i piedi. E questa realtà, a cui affidarsi, è però da cercare, da indovinare, da riconoscere. Ti ritrovi in questo?
Sì… “fondo” (fundus) significa la parte più bassa, intima, quindi la terra che genera il frutto, e raccoglie, da ultimo, ciò che morendo vi ritorna; e qui si tocca la analogia tra natura e arte-che crea, come si tocca la condizione di una eco-poesia quale linguaggio in-ascolto dell’origine mai data del tutto, e che mi pare tuttavia percepibile in forma di rimbalzo, di eco; nello scrivere accade che uno ascolti : un ascolto che continua anche durante l’elaborazione, mai del tutto tecnica; un ascolto di suoni-sensi che vengono quasi da se stessi a generarsi, spaesando il soggetto scrivente e assimilandolo ad una esperienza non sua, ma del Linguaggio stesso.

In questo tuo nuovo scrivere, fra le parole e le frasi compaiono anche le parentesi chiuse, a contenere puntini di sospensione (…); puntini che già comparivano nel tuo precedente libro “La passione degli anni”.
In questo caso, a volte si ha la sensazione che indichino un qualcosa che manca sempre, altre che esista un ‘altro’ ancora da dire…. Quale la loro funzione, il loro ruolo, all’interno della tuo fare poesia?
L’immersione nello scrivere interrompe, per me, il tempo lineare (il mio primo libro si intitolava “Tempo e oltre”), le possibilità costruite o costruibili.
Nel testo poetico non valgono più i nessi che tengono insieme invece i “fotogrammi” della vita quotidiana. Il frammento, una volta staccato, va per la sua, rinviando ancora e comunque alla sequenza di cui faceva parte – e qui troviamo già i miei puntini di sospensione e le parentesi; ma il “frammento”, una volta isolato, rinvia soprattutto a un senso/non senso, inderogabile, arrischiante e totalizzante che incombe come assenza, negazione, apertura, spazio tragico delle domande: e qui abbiamo gli “altri” puntini sospensivi, le altre mie parentesi.
E poiché il tempo lineare e l’oltranza si intersecano, ne viene che tutto lo scrivere sia tramato di segni-vie che procedono e si interrompono, e si richiamino a distanza, come luci o “chiari di bosco”, per citare Maria Zambrano.

Perché poi, come a pagina 40 (“e c’era un senso che non era degli alberi/ e non era di nessuno”) si ha la netta percezione che qualcosa sfugga sempre, inevitabilmente…
Esattamente, proprio così, e come dicevo poco fa. Il nulla, la morte, non sono affatto “niente”, ma sono, al limite, i luoghi “non giurisdizionali” (bella espressione di Giorgio Caproni) che la poesia mai dimentica in quanto essa è linguaggio che infrange la logica binaria (vero/falso) e introduce l’immaginario come realtà più vasta, in cui, ad esempio, la legge delle divinità ctonie possono sostenere la figura tragica di Antigone contro la legge unilaterale della polis.

Questo tuo continuo cercare la forza sorgiva che anima la poesia, mi sembra sia anche un non voler arrendersi al vuoto che sempre di più invade il nostro quotidiano. Sia socialmente che emotivamente. È il tuo un atto voluto, una risposta, una necessità, un desiderio? O un po’ di tutto questo….
Penso che la poesia, in fin dei conti, abbia a che fare proprio con la “forza sorgiva”, che passa in qualche modo nella parola; forza come un salto extralogico, che è prima dei nostri calcoli, e che ci abita quindi come un cuore straniero.
La disciplina dell’Abbandono, dell’abbandonarsi a un’oltranza (che mira a un luogo selvaggio, ma non privo di senso), è la resistenza che sento necessaria alla deriva in cui oggi è precipitato il linguaggio sempre più piatto (come ne ha scritto George Steiner), e sempre più incapace di mediare qualcosa di autentico, singolare, per cui valga la pena scegliere e scegliersi, decidere.
E penso che la resistenza attuale del linguaggio poetico possa trovare alimento, tenendo conto delle debite differenze, nella generazione cui è appartenuto il nostro goriziano Carlo Michelstaedter, poeta e filosofo della decisione e della persuasione.

Mi piace pensare che tutta la poesia di “Sentimentalissima luce” sia un continuo ‘misurare’ il mondo, per imparare dove siamo. È (anche) così?
Misura, misurare indicano proprio, per me, l’esplorazione attraverso il sentirsi in situazione (qui la lezione inaggirabile di M. Heidegger) del perimetro esistenziale, sociale, epocale. Jean-Jacques Rousseau parla (in “Le passeggiate di un sognatore solitario”) di un “sentimento dell’esistenza” che ci radica nel mondo circostante.
Penso che questa misurazione proceda da un sentire che ci impegna personalmente mentre niente allora ci è più davvero indifferente; in verità tutto allora ci tocca, ci chiede di esporci in un modo o in un altro. Misura sì, ma non come metro soggettivo di guardare al mondo: misura piuttosto in quanto ordine della manifestazione (tra luce e buio, vita e morte) delle cose e degli altri, metrica reale e insieme testuale.

Il titolo del libro fa riferimento ad un testo di Leopardi, tratto dal suo “Zibaldone”. Cosa rappresenta per te Leopardi? E come si colloca nel nostro presente, quale la sua attualità?
Come Hölderlin, Leopardi ha sentito, per quanto di formazione diversa e condizionato da una concezione filosofica illuminista-sensista, che l’orientamento soggettivo, borghese, tecnico stava producendo, inesorabilmente, l’oblio del mito ossia di un qualcosa che è e si dice, e che torna in principium; di qui il pessimismo storico e la scarsa considerazione delle sorti progressive.
Leopardi esalta la rimembranza, che è tutt’altro da un malinconico guardare indietro, al passato, ma è piuttosto un infrangere il senso unidirezionale del tempo imboccato dalla tecnica moderna, fino ad affondare lo sguardo nel nulla, e traendo da questo gesto una spinta vitale, il vitale della sua lirica tragica: “e mi sovvien l’eterno/ E le morte stagioni, e la presente/E viva”. Tutto in un processo foto-logico di luce/buio, di vago e, insieme, di razionalmente definito.
La poesia, anche quella di Leopardi, non nega la tecnica, la modernità, ma guarda oltre, a un “grande tempo”, di cui dovremmo riappropriarci, mettendo in gioco dei linguaggi sottili come l’immaginario o l’illusione (“in ludo”, in gioco).

Trovo che anche in questo nuovo libro, tu continui ad essere fedele a quel filo rosso che collega e ravvicina tutto il tuo scrivere: cercare un centro focale e poetico a cui appartenere, un nucleo in cui riconoscersi; una verità da salvare. È così?
L’idea di centro mi giunge carica di inquietudine: interrogazione; non come un dato, non come una risposta che ti mette il cuore in pace. Il centro è un nucleo di senso che ci avvia, ci mette in cammino… e al contempo ci destabilizza.
È qualcosa che ci viene incontro come enigma, mentre tutte le vie che abbiamo battuto si rivelano come le tracce di uno sviamento.
Mi pare che solo la poesia possa dire e tra-dire questa complessità. La sua luce leopardiana: “Sentimentalissima”.

 

L’autore:
Marco Marangoni (1961), ha pubblicato i testi poetici “Tempo e oltre” (Campanotto Editore, 1994), “Dove dimora la luce” (I quaderni del Battello Ebbro, 2002), “Per quale avventura” (Raffaelli Editore, 2007), “Congiunzione amorosa” (Moretti & Vitali, 2013), terzo classificato al Premio Gozzano 2016, e “La passione degli anni” (Stampa editore 2018).
Suoi testi sono stati tradotti in vari Paesi. Come critico, è autore di diversi interventi, tra cui: “La poesia e la paura”, in ‘Griselda Online’, 2015; “Della lirica”, in ‘Punto. Almanacco della poesia Italiana’, 2016.
È segretario della giuria scientifica del “Premio di poesia San Vito al Tagliamento”.
Collabora con il Dipartimento di Italianistica e Filologia Classica dell’Università di Bologna, per cui ha ideato e cura ‘Ossigeno nascente. Atlante dei poeti contemporanei’, on-line.

(Marco Marangoni “Sentimentalissima luce” pp. 89, 15 euro, Puntoacapo 2021)

(La prima e la terza foto di Marco Marangoni, qui pubblicate, sono di Roberto Marino Masini. Grazie.)

 

 

 

 

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Berlino

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

 

 

Tempo presente       —————————–

Estirpare il vento

Otto poesie inedite

di Alessandro Salvi

Qui in questa pagina non vi è disordine,
conosco questo posto a menadito.
L’esigua ombra di una foglia in volo
mi insegna l’ordine del necessario
e un guscio vuoto di lumaca scricchiola
sotto il mio passo,
fermo stato di ansiosa vigilanza.

Immobile. Gelato in un istante
sempre sul punto di

*

È un tuono tumulato nel frastuono
del quotidiano scorrere dei nomi,
il vaticinio incorrotto del fuoco.

Fucina e centro, fiocina e segmento
che carpisce il pensiero,
eremo estremo della solitudine.

Esiguo residuo di un’esistenza
a cottimo;
la glabra algebra, l’abracadabra,

elisir, spada o cos’altro bla bla…

*

Chi soffre s’offre in pasto ai propri demoni
per cui conviene
portare altrove questo inappagato
carico da sgravare.

Pianto cipolle per i vostri pianti
e anche perché
le attrici porno hanno facce bellissime.

Spargere semi sui solchi. Disperdersi.

*

Inappagato desiderio il quale
di sé e se… si nutre, sempre dentro
una città in cui non accade nulla,
l’intruso.

Sorridi e con la mano ti fai ombra.
(Questa deriva vivo ti divora.)

*

Sdraiato su una lama di rasoio
(buona come amaca, all’occorrenza)
riposo le mie duecentosei ossa.

È la polvere l’essenza della luce?

Parole si dissolvono in silenzio
come tra le persiane chiuse un filo
di sole in polvere.

*

(Noi siamo uno spartito perduto
chissà dove nello spazio sidereo
dell’inaudito.)

*

Vederla per la prima volta e subito
perdersi in echi e vaste latitudini
poi quando meno me l’aspetto, ecco
inciampo in un incanto:

il corpo attratto dalla gravità,
questa quieta follia.

*

Era questo lo sprezzo da pagare
notte lunghissima trascorsa ovunque,
evento che diventa mito e vanto,
estirpare le radici del vento.

 

L’autore:
Alessandro Salvi è nato a Pola, in Croazia, nel 1976, e vive a Rovigno, in Istria.
Ha pubblicato le raccolte “I fiori nel mare” (2011), “Rominjaju mravi mesožderi i druge sitnice” (2011) in edizione bilingue italiano-croato, “Santuario del transitorio” (2016) e la plaquette “Poesie scritte sul retro di scontrini”, (Fallone Editore 2018).
Suoi testi appaiono anche in diverse antologie e opere collettive.
Suoi scritti sono apparsi anche su riviste e litblog.

 

 

 

 

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Sezione circolare

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

 

 

Voce d’autore        ——————————–

Sensibilità linfatica per accogliere e raccontare il mondo

Roberto Lamantea, “Uno strappo bianco”

di Monique Pistolato

È un libro da tasca o comodino. Da leggere, sfogliare, rileggere nella quiete ascoltandolo come si fa con una conchiglia trovata sulla spiaggia… lasciandolo risuonare dentro. Il corpo in carta giallina, con cifre verdi e un’immagine di un bosco innevato in bianco e nero, sono una promessa, così come il titolo evocativo. Il poeta mantiene il suo sguardo sensibile verso la natura, in grado di cogliere impercettibili movimenti… “e nei canneti s’inciela /bianco/ un nido stanco”. Sembra nutrirsi di fiori, foglie, clorofilla, vento e ricordi.
Come sottolinea Umberto Piersanti nella postfazione, talvolta si avverte una tensione quasi sacrale verso il paesaggio, il respiro è “zanzottiano”. Tutto viene trasformato. Le parole diventano pennello, suono, gioco, meraviglia in un canto al mondo: “e dagli stracci/ poesie/ sporche di terra”. C’è un riconoscere la bellezza come un ostinato rimedio al dolore.
Questi versi paiono uno spartiacque nel lavoro di Roberto Lamantea tra un prima e un dopo. Forse, “Il bambino di seta” (Amos edizioni, 2020) ha dipanato questioni profonde permettendo la costruzione di questa “casa di carta” con cinque stanze, aprendo una finestra: “sul mare una parola/ di sole sola”.

 

Dal libro:

cosa del paesaggio è rima
snervato sghiandato in lumen oculi
di luce in luce sfinito
e dove gèmma la luce
dove disegni natura il tuo lume
di collina in collina

e schiude all’angelo il gheriglio
del nido
fino al grido

*

è un cucciolo la notte
beve latte di nebbia
va tra gli orti
spia i gelsomini
le nozze tra i gelsi
è un viandante la notte
la luna zoppa
cade sul sentiero

*

la speranza
è una danza
in una stanza vuota

*

nel verde silenzio
di questo sonno che carezza
le parole disegnate a matita

*

Arrivare in treno verso sera
con il cielo che accenna al viola
e le scaglie di luce sul mare
quando chi è solo accenna una preghiera

La strada a piedi fino a casa
l’aria tiepida di primavera
d’Imperia lasciando la scogliera
le agavi e i pruni sulla terra rasa

E il silenzio m’avvolge come un manto
con l’odore del legno e della cera

 

Se giri un ricciolo di terra nel vento d’autunno

Postfazione a “Uno strappo bianco”

di Umberto Piersanti

In “Uno strappo bianco” si avverte immediatamente l’influsso in Lamantea del conterraneo Zanzotto. Il paesaggio è un paesaggio sconvolto e ritrovato anche attraverso un tenace sforzo della lingua che ne riproduce le asperità e tenta di coglierlo al suo interno, dentro la sua complessità: “cosa del paesaggio è rima/ snervato sghiandato in lumen oculi”. C’è però in Lamantea una tensione lirica più diretta e immediata, qualcosa che sfugge alle complessità psichiche e talora contorte (sia detto in modo assolutamente non negativo) del poeta di Pieve di Soligo: “se giri un ricciolo di terra/ nel vento d’autunno/ ne senti la musica”.
Certo la lingua di Lamantea spesso si contorce e spreme (ed anche qui ritroviano la lezione di Zanzotto): “nel nido di terra nudo/ nel nudo di terra nido/ m’imbivo e bibo bulbo”. Però Zanzotto è lontano da questi versi di piana intonazione classica: “la luna zoppa / cade sul sentiero”. E ci sono momenti dove affiora un realismo tra mitico e naturalistico: “Con le mani di terra/ e corteccia/ e linfa e spine/ abbiamo arato colline/ e sgozzato conigli”. Talora si avverte una tensione solo latamente religiosa, direi più sacrale che religiosa.
Tralascio i componimenti brevi, quasi degli haiku, che sono più lontani dalla mia sensibilità.
Se posso autocitarmi mi sembra che la poesia di Lamantea sia qualcosa che si situa tra Zanzotto e me: non perché l’autore sia stato influenzato dalla mia opera, ma solo per una vicinanza di sensibilità e di approccio emotivo al mondo e, in particolare, alla natura.
Poeta lontano da ogni moda contemporanea, Lamantea segue tenace la sua strada.

 

Intervista a Roberto Lamantea:

di Monique Pistolato:

Ti riconosci in una cifra “linfatica” che pare il filo del tuo scrivere/vivere?
Credo che sia l’aggettivo migliore per definire uno sguardo e un senso di appartenenza: il bosco, germogli, terra, felci, erbe (ed erbari), piccoli fiori nascosti, gemme e sonni di rametti, magari con la pioggia che li nutre e fa danzare i suoni. È una magica ipnosi, di certo ha a che fare con l’inconscio, da cui parole, suoni e ritmi gemmano spontanei anche se, naturalmente, nella storia della scrittura letteraria.

“Uno strappo bianco” sembra aver aperto un nuovo sentiero…
Nel racconto “Il bambino di seta” (2020) ho fatto i conti con i miei fantasmi, con il mio io bambino sequestrato dalla violenza degli adulti. Credo che la scrittura sia stata una terapia, se non proprio una liberazione. “Uno strappo bianco” arriva dopo quell’esperienza: lo sguardo è più incantato ma nello stesso tempo ferito dalla violenza contro la natura e contro interi popoli. Non è più il bambino a essere ferito, ma il mondo. Se rileggo i libri passati risulta evidente una sostanziale continuità di visione, anche cromatica, e soprattutto di linguaggio.

Come ci ricorda Bobin, cos’è per te abitare poeticamente il mondo?
Nel segno di questo verso stupendo di Hölderlin Christian Bobin ha scritto pagine meravigliose: “Abitare poeticamente il mondo potrebbe essere un manifesto pedagogico. Chi impara a sentire il rapimento e la radianza delle cose, genera a sua volta radianza e rapimento e provoca destini”. E su Emily Dickinson il pensatore francese scrive: “L’impercettibile, il minuscolo, il muto e fragilissimo scorrere della vita era ciò che lei abitava con la contemplazione”. L’amare le piccole cellule che compongono l’universo credo non sia aristocratico, anzi, è rivoluzionario. Di certo è antitetico al mondo della produzione/consumo. Da questo sguardo nascono i miei versi.

Quali sono i libri o le parole amuleto che ci lasceresti per affrontare questo tempo?
I miei riferimenti sono Jared Diamond e l’analisi dei nuovi poteri e delle nuove alienazioni, giovani donne che lottano per un mondo migliore (Malala Yousafzai, Carola Rackete, Greta Thunberg…), i movimenti come Fridays for Future o Hong Kong, ma più di tutto tanta letteratura che ci fa “sentire” la bellezza e la fragilità dell’essere al mondo: i classici dalla Grecia antica al Novecento, dai Salmi ai Vangeli, alla nuova letteratura che finalmente arriva anche da noi dall’Africa e dal Medio Oriente. Credo molto nella cultura, oggi infatti negletta. Tutte le domande e gli accenni di risposte della nostra vita sono già nei libri.

Gli autori:

Roberto Lamantea è nato a Padova nel 1955. Figlio di un pugliese e una friulana con radici in Austria, ha trascorso infanzia e adolescenza tra Gorizia, Udine, Imperia. Vive a Mirano (Venezia).
Ha pubblicato le raccolte poetiche “Eucaliptus” (Rebellato 1975), “Ibis azzurro” (1979), “Xilofonie” (1994), “ Nel vetro del cielo” (Amos 2006), “Verde notte” (Amos 2009), “Delle vocali l’azzurrità” (Manni 2013) e il racconto in prosa lirica “Il bambino di seta” (Amos 2020).
Ha pubblicato saggi, poesie e racconti su riviste web e in diverse antologie.

 

Monique Pistolato nasce a Parigi figlia di genitori emigrati.
Molti suoi racconti hanno avuto una trasposizione teatrale (Coppa Vittorio Pregel).
Tra i suoi libri: “Un’altra stanza in laguna” (2005), “Venezia. Guida alla città invisibile. Dieci itinerari insoliti e curiosi per calli e canali” (2010), “La carta non è impaziente. Lettura e scrittura: piccole forme di eternità” (2012), “Cari libri. La lettura condivisa come laboratorio di umanità” (2014), “Sotto il cielo di tutti” (2016) e “Bum Bum. Le prime volte dell’amore” (2019). Vive e lavora a Venezia.

 

Umberto Piersanti è nato ad Urbino nel 1941 e ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra cui “La breve stagione” (1967), “Il tempo differente” (1974), “I luoghi persi” (1994), “L’albero delle nebbie” (2008), ed è anche autore di romanzi e opere di critica.
Tra i numerosi premi vinti, ci sono il San Pellegrino, il Frascati, il Mario Luzi, il Ceppo Pistoia, il Tirinnanzi, il Camaiore e il Penne e il Premio Umberto Saba Poesia 2020.
È il presidente del Centro mondiale della poesia e della cultura “Giacomo Leopardi” di Recanati.
La sua raccolta poetica più recente è “Campi d’ostinato amore”, pubblicata da La Nave di Teseo nel 2020, e vincitrice dei più importanti premi italiani.

(Roberto Lamantea “Uno strappo bianco” pp. 80, 12 euro, Interno Libri 2021)

 

 

 

 

Immagini       —————————–

Stella

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

 

 

Voce d’autore          ——————————

Siamo un impasto di polvere e amore

Massimiliano Bardotti, “Le terra e la radice”

di Giovanni Fierro

Una preghiera per l’essere umano. È questa la nudità che veste la poesia di Massimiliano Bardotti, giunto con la sua recente raccolta “La terra e la radice” ad un punto importante del suo cammino autoriale.
Un libro dove, come dice bene Alessandra Paganardi nella prefazione, la poesia per Bardotti “sembra sia la porta d’ingresso di un percorso sempre più autentico dentro sé e nella società, corroborato da una profonda fede religiosa e da un naturale senso di empatia con l’altro”.
Perché Massimiliano Bardotti riesce a trovare, con la semplicità che si deve alla verità del proprio respiro, la chiarezza a cui affidarsi: “Uno, come le volte in cui accadono le cose:/ una volta e per sempre”.
E questa adesione tra stupore e responsabilità regala al suo scrivere la forza per tenere assieme ogni espressione del proprio vivere. Ma la sua autenticità è anche quella di non illudersi, di sapere della necessità di “registrare la traiettoria del tuo svanire”; per poi trovare le parole che sanno dire “chiedi, se so, della caduta che ci aspetta/ quando un giorno crolleremo”.
Nella radice a cui affida l’origine di sé, come il principio della poesia stessa, Bardotti riconosce la provenienza più profonda, che si muove nel tempo e in ogni svelamento che non può finire: “Poi guardo il crocefisso/ rammento il tempo della Passione,/ i tre giorni di buio nel buio del sepolcro/ la soglia per sempre varcata.// E mi unisco al canto, alla fioritura”.
Ecco, il fiorire diventa apertura e compiutezza, atto necessario per mettere in moto il desiderio. L’accensione ulteriore, che ad ognuno di noi è richiesta ed augurata. Per indicare che “La felicità è un’obbedienza, è appartenenza”, senza avere alcuna paura; ma, anzi, con il muoversi nelle pieghe di questo mondo con una coscienza del proprio esistere matura e piena, “perché alla fine sempre torniamo/ a chi per primo ci nominò”.
Sorprendono queste pagine di “La terra e la radice”, perché non hanno bisogno di ipotizzare una salvezza; sono invece un andare incontro al proprio io, immerso in questo nostro presente sempre più fragile.
E allora riconoscere che esiste anche il consumarsi – “Abbi pietà di questa resa del corpo/ che non trattiene più parola, la disperde/ seme della gioia, in attesa d’una nuova fioritura” – conferisce a tutto il suo lavoro un ulteriore motivo di determinazione.
Sette capitoli, a fare di “La terra e la radice” un inventario di intensità, sempre fertili ed attente, sempre capaci di misurare la propria identità. Anche con il bisogno della vicinanza, occasione e possibilità per dirti “Lasciami piantare i semi miei/ in te che fai le cose tutte nuove”, con la convinzione che “non termina con noi ciò che è bellezza/ non si placa il fervore della luce”. Il tu che si incontra è pur sempre un altro io che si avvicina.
Queste sue nuove poesie sono viva invocazione, dove si può riconoscere l’amore come atto di abbandono, di annullamento del controllo, uno sciogliersi in una sorgente pura e assoluta, a riconoscere la bellezza come atto supremo ed irrinunciabile, canto da difendere e condividere.
Proprio quando ogni cosa è sacra, nel mistero che si può solo vivere, dove vita e morte si nutrono della stessa scintilla, capaci di fare la stessa luce.
Massimiliano Bardotti con questo suo nuovo lavoro ha disegnato anche uno scrivere politico, perché dice da che parte stare, si schiera con chi adesso si sente offeso da una viltà oscena che toglie spiritualità all’esistere, indebolisce il pensare e sminuisce il sentire dell’anima.
Riconosce che viviamo in un rumore diffuso e soverchiante che tutto ingoia e tutto fagocita, dove “un silenzio, manca, così definitivo e totale”. Un silenzio da cui fare nascere nuove parole, in cui sottolineare di come tutto ha bisogno di un corpo, per manifestarsi e per prendere voce, per trovare il proprio posto nel mondo.
“La terra e la radice” ci dice che la poesia di Massimiliano Bardotti si adopera per asciugare tutto ciò che è superficiale e porta l’attenzione al necessario.
E ci accompagna nell’immagine di ogni nascita, nell’energia del seme che non si arrende, nell’intonazione di ogni inizio.

 

dal libro:

Partenza non fu mai
senza che fosse casa fin dove arrivavi
perché sempre t’ha messo al mondo il mondo.

Eccoti ora, nel viaggio che tocca l’eterno
dentro l’attimo che il tempo infinisce.

*

Quanto ancora manca alla felicità?
Quanto siamo lontani, addormentati?
Forse più non sappiamo custodire
forse non ci riesce d’obbedire,
come invece fa la foglia
che quand’è tempo di cadere, cade.

*

Siamo un impasto di polvere e amore
e alla fine si separa l’impasto:
la polvere torna alla polvere.

L’amore all’amore.

*

Ti cerco. Ovunque, Dove non ti trovo.
Ti cerco, desidero il tuo volto
vivo e luminoso , ma non ti trovo
inciampo nella mattina, rugiada.
Vorrei incontrarti, vorrei fossi strada
che accogliessi i passi miei inciampati.
Potessi in me sentire tua presenza
quando lontana è ogni meraviglia
potessi, tu, essere geografia
di ogni assenza, per ritrovarti poi
esattamente lì dove mancavi.

Intervista a Massimiliano Bardotti:

La prima impressione, leggendo “La terra e la radice”, è che l’origine della vita e l’origine della poesia hanno la prima accensione in comune, lo stesso principio. Mi sbaglio?
No, caro Giovanni, non ti sbagli. I mistici parlano di una musica, un suono, all’origine della vita. In principio fu il Verbo, dicono le scritture.
Ho sentito un sant’uomo affermare che è stato il verso di una poesia a dare vita a tutto. Non esisterebbe nulla, senza il canto della poesia.

Il punto centrale, penso, di questo tuo nuovo lavoro, è il costruire un tempo a cui appartenere, che riesce a guardare all’infinito e che ha origine da ‘una scintilla’. È fra queste due forze la tensione che anima queste tue nuove pagine?
Tra la necessità di essere consapevoli, vivi, dentro un tempo che siamo chiamati a costruire (non a subire) e la scintilla d’amore capace di accendere uno sguardo che sappia mirare l’Infinito, sì.
Anche perché ritengo che ogni tempo sia incomprensibile senza la misura dell’Eterno. Noi siamo fatti per l’Infinito. Siamo esseri spirituali, che stanno facendo un’esperienza umana, per dirla alla Teilhard De Chardin.

“Stupore” è sempre parola chiave del tuo scrivere, forza dinamica da nutrire con fiducia e costanza. È così?
Assolutamente. È una delle chiavi della felicità. Ogni mattina apro gli occhi al risveglio e sono colto da uno stupore incredibile: ma che razza di miracolo è essere qui? Essere vivi! Esserci! Mamma mia, fa tremare le gambe, fa tremare tutto!
Fare l’esperienza di nascere, di essere al mondo, di poter sperimentare il grande mistero dell’esistere. Potersi innamorare, soffrire, stringere in un abbraccio chi si ama, o qualcuno dopo averci litigato… la malattia, la morte… il sole alto nel cielo, le nuvole. Gli alberi, i fiori. I gatti! Le fusa dei gatti! È tutto un miracolo!

E penso che “La terra e la radice” sia un libro politico. Perché prende posizione, ‘sta dalla parte’ di un quotidiano che ora come ora è oscurato e ignorato; con il suo desiderio di assoluto è decisamente “contro” una realtà che è atomizzata, parcellizzata in tante piccole, e relative, solitudini…. Cosa ne dici di questo?
Cogli una cosa fondamentale, e te ne ringrazio tantissimo! È senza dubbio il mio libro più politico. E anzi, se la politica non si occupa del bene degli esseri umani, allora che politica è?
Ma non esiste un bene che non sia condiviso, che non riguardi tutti. Se è privilegio di una parte, semplicemente non è un bene. E non esiste bene che non riguardi l’essere umano nella sua integralità. I bisogni spirituali sono bisogni primari. Necessari.
Noi viviamo un tempo in cui se parli di spiritualità vieni preso per stregone. Ma ignorare la spiritualità è ignorare la vita. Infatti, stiamo vivendo in una società a misura di morti viventi, dove paradossalmente la paura di morire, di ammalarsi e morire, è l’unico sentimento che siamo capaci di provare.
Ma perché aver paura di morire, se nemmeno stiamo vivendo? Morire è il privilegio dei vivi.

In questi tuoi scritti si vive intensamente l’invito a riconoscere la manifestazione dell’esistenza, tutto ha bisogno di un corpo; l’uomo della carne e la poesia delle parole, ad esempio. Il tuo è un invito a riconoscere il vitale ‘peso specifico’ di ogni celebrazione dell’esistente? Tutto è sacro? Anche se poi tutto è destinato al proprio consumarsi?
Proprio perché destinato a consumarsi, è sacro! Il mondo è un luogo ideale per fare l’esperienza del sacro: poter sentire, percepire, nella caducità di tutto, il valore di quel che continuamente scorre e passa, va verso la sua fine, e come la fine di qualcosa determini sempre l’inizio di qualcos’altro.
Il sole tramonta per risorgere, le stagioni si susseguono, il seme muore per farsi pianta, albero. Il sacro non è in ciò che immutabile dura, ma in quel che continuamente si trasforma.
Perché questa è l’anima di ogni consumare: trasmutare.

Il tema della fioritura, del fiorire, è immagine cardine del tuo raccontare. Lo vuoi spiegare?
Siamo tutti chiamati a realizzare il disegno d’amore che ognuno di noi è. Realizzare se stessi non è raggiungere il successo, un qualche tipo di gloria, raggiungere dei risultati nel lavoro o nella vita sentimentale.
Realizzare noi stessi ha a che fare con la propria vocazione. Si tratta di indagare profondamente chi siamo, conoscere di noi stessi il segreto più recondito, scoprire l’opera meravigliosa che ognuno di noi è. E fare di tutto per realizzarla.
Questo fa il fiore, quando emana la sua bellezza e il suo profumo, per chiunque voglia goderne.

Un tema delicato, che affronti ed esplori, è quello della felicità. È davvero possibile? O rimane un’utopia a cui tendere, traguardo inarrivabile ma necessario da desiderare?
La felicità è la nostra natura. Siamo nati per essere felici. Ma la confondiamo spesso con fugaci esaltazioni legate ad avvenimenti esteriori. La felicità è un delicatissimo processo interiore, ed ha a che fare con la pace, non con l’agitazione.
Ha a che fare con quello scavo interiore necessario a scoprire chi siamo. Senza una reale conoscenza di sé ogni felicità è impossibile.

Ecco, il desiderio. Penso che una radice profonda di questo tuo rinnovato fare poesia sia proprio il desiderio. E che lo si trovi, a volte celato altre ben esposto, in tutto il libro. Può essere?
Certamente. Alla base di tutto il mio scrivere c’è un inesausto desiderio di amare tutto e tutti, senza distinzione.

Anna Achmatova e Dante sono dei punti di riferimento importanti per questo libro. Come mai, e in che modo?
Dante è un punto di riferimento fondamentale per tutta la mia vita. L’esempio di chi scrive “in pro del mondo che mal vive“, con la sincera volontà di indicare una via per l’Infinito. È l’esempio chiaro di come ogni vero poeta è nel mondo senza essere del mondo.
Anna mi ha innamorato, sconvolto. C’è un profondo senso di religiosità in ogni suo verso. Tutto quel che mi affascina della tradizione ortodossa lo ritrovo nella poesia della Achmatova. Un’austerità, una disciplina dell’amore che desideravo potesse nutrire i versi de “La terra e la radice”.

 

L’autore:
Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino.
È presidente dell’associazione Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini.
Tra i suoi libri più recenti, “Il Dio che ho incontrato” (ed. Nerbini, 2017), “I dettagli minori” (Fara, 2018, dal quale è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale con Viviana Piccolo) e “Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali” (Tau 2019).
Con Gregorio Iacopini ha scritto e pubblicato “Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio” (Fara Editore 2020).
Dal 2014 propone a Empoli, Prato e Castelfiorentino il corso di scrittura ri-creativa “Cut-up, la sartoria delle parole”.
Nel 2017 ha fondato la Scuola di scrittura “La poesia è di tutti” presso OltreDanza. Dal 2018 conduce “L’infinito, la poesia come sguardo”, ciclo di incontri con poeti contemporanei.

(Massimiliano Bardotti, “Le terra e la radice” pp. 118, 15 euro, Puntoacapo 2021)

 

 

 

 

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Tre volte vuoto

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Margini. Di poesia ed altro—————————–

Il tintinnìo d’avere una scodella per il sogno

Daìta Martinez, “Liturgia dell’acqua”

di Roberto Lamantea

Anterem Edizioni/Cierre Grafica inaugura la collana “Nuova Limina”, diretta da Ranieri Teti, con la raccolta inedita “Liturgia dell’acqua” dell’autrice palermitana Daìta Martinez. Scrive Maria Grazia Calandrone nella prefazione: “Daìta Martinez procede per piccoli blocchi compatti, che all’interno contengono un mondo in moto quantico. Moto nascosto, perché chi scrive incide figure solide che non chiedono di essere capite, ma aperte come frutti di melograno e ascoltate”.
Sfogli il libro e il primo impatto è visivo: blocchi di parole racchiusi in geometrie di quadrati, rettangoli o frammenti di due o tre versi. Sono geometrie rigide, alla Mondrian; all’interno – come al vetrino di un microscopio – gli atomi sembrano muoversi come a formare catene di molecole: “Ognuno di questi piccoli blocchi di parole”, aggiunge Maria Grazia Calandrone, “contiene brevi scene, immagini o verbi, messi in relazione e circondati dal vuoto. Esattamente come la materia”.
Sono allucinazioni, flash fonico-visivi, microinquadrature a segmenti velocissimi: ricordano la musica atonale o il cinema, fotogrammi tagliati dalla discorsività della scena, dove il senso affiora dalla visione-suono: siamo tra Godard e Barthes. Alcuni testi (pagine 35, 39) sono costruiti sull’anafora; altri hanno innesti in dialetto siciliano. “Il progetto”, è sempre la prefazione, “sembra far suonare la materia, lasciare che il caos del mondo emetta il proprio suono primario, fatto di madri, novene, lampioni, sponde, giochi di carte, alberi, cappelli, cicale”: tutto questo in un rigore metrico-sillabico assoluto. Calandrone cita Dalì, le figure fluide del pittore catalano.
Non siamo però dalle parti dell’avanguardia: in Martìnez non c’è alcun gioco gratuito, nessuna irrisione alla forma-poesia, nemmeno alla tradizione, perché le immagini-molecole che si agitano vorticosamente nei suoi vetrini sono quelle della tradizione lirica e qui sono l’originalità e la bellezza di questo libro: pagine di rifrazioni, schegge verbali, sintagmi che affiorano dal magma parlano di nuvole, cieli, angeli, chiocciole, steli e altri microcosmi della natura, fotogrammi (ecco ancora il cinema) di possibili amori e tenerezze, fino a un’inattesa eco pascoliana (“l’incline pigolìo del cielo” di pagina 36 ricorda il “pigolìo di stelle” del “Gelsomino notturno”).

 

Dal libro:

s’è annidata al viso
d’una fiaba versata
la candida guancia
impara il suo cuore
tristezza melarosa

*

sola espressione è la cantina della seta
un ciclamino si sbottona dalla pioggia

*

e la madre s’attende sulle mani del giardino
un’offerta piegata intatta sbucata alla ferita
prima degli alberi intorno d’un violato baco
il tintinnìo d’avere una scodella per il sogno

*

la liturgia dell’acqua
pianissimo la bocca
quasi un senso nudo

*

la fioritura del ciliegio l’incantesimo
di una cantilena e nella danza di una
trottola il vento tutto sul viso di aziza
come ieri e ieri l’altro non era la cesta
dentro la casa dei fornelli delle parole
dei piatti a sbuffo e blu il mento tra le
nuvole sopra la bocca del sole ninnata
ai campanelli delle persiane svoltate a
festa per ancora un sorriso sulle ciglia
il dono d’uno scoiattolo la leggerezza
di una piuma tra le gambe del basilico
ché lasciarsi un po’ dimenticare dalla
paura ha soave sapore d’un sì d’amore

*

una mano nella mano e la nostalgia
dell’ultimo bottone madreperla a lei
gli zigomi bagnati alla fioriera oggi
che si spoglia di pioggia il cappotto
cade sulle ali d’una rondine il canto

 

L’autrice:
Daìta Martinez, palermitana, ha pubblicato con LietoColle (“dietro l’una”, 2011), segnalata alla quinta edizione del Premio Nazionale di Poesia “Mario Marino”, e nel 2012 “la bottega di via alloro”, vincitrice – sezione dialetto – del settimo Concorso Nazionale di Poesia Città di Chiaramonte Gulfi.
È stata finalista, per l’inedito in dialetto, della 44ª edizione del Premio Internazionale di Poesia Città di Marineo.
Inserita nell’Almanacco di poesia italiana al femminile “Secolo Donna 2018” (edizioni Macabor), nel 2019 ha pubblicato “la finestra dei mirtilli”, suite poetica stilata con il poeta comisano Fernando Lena (Edizioni Salarchi Immagini), “il rumore del latte” (Spazio Cultura Edizioni) e “nutrica” (LietoColle).
È vincitrice del premio Macabor 2019 (sezione raccolta inedita di poesia – con pubblicazione) con “‘a varca di zagara” in dialetto siciliano.
Con “Liturgia dell’acqua” nel 2020 è stata finalista – sezione raccolta inedita – della trentaquattresima edizione del Premio Lorenzo Montano.

(Daìta Martinez “Liturgia dell’acqua” pp. 60, 12 euro, Anterem Edizioni/Cierre Grafica 2021)

 

 

 

 

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Apparizioni

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Libroelibro         ——————————

Che cosa preferisci?

Julian Barnes, “Livelli di vita”

di Marco Di Pasquale

Quando un aerostato si stacca da terra per avventurarsi nell’atmosfera resta in balia della casualità di molteplici varianti (pressione del gas, peso delle zavorre, venti incostanti) e non si può mai sapere se si raggiungerà la destinazione o se, a metà viaggio, ci si sfracellerà al suolo.
Questa la metafora da cui parte Julian Barnes in “Livelli di vita”, in cui si racconta l’imprevedibilità della vita, del prodotto bizzarro dei suoi componenti, e di come spesso la sottrazione sia una prova a cui dobbiamo far fronte senza averne la forza.

“Metti insieme due persone che insieme non sono mai state. Qualche volta è come quel primo tentativo di imbrigliare un aerostato a idrogeno su uno ad aria calda: che cosa preferisci? Precipitare e prendere fuoco, o prendere fuoco e precipitare? Ma a volte invece funziona, nasce qualcosa di nuovo, e il mondo cambia. Solo che, a un certo punto, prima o poi, per una ragione o per l’altra, una delle due persone viene meno. E ciò che viene meno è più della somma di ciò che era. In termini matematici forse non è possibile; ma in termini sentimentali, lo è”.

Il volo aerostatico della prima parte del libro è un trampolino di lancio nel vuoto per parlare di vita e amore, che sono un esperimento, miscela di fattori e condizioni per cui, a volte, la trasvolata si conclude in un trionfale atterraggio, altre, invece, in un disastroso fallimento.
Pescando dal passato tre pionieri ottocenteschi (il fotografo Nadar, l’esploratore Fred Burnaby e la divina Sara Bernhardt), Barnes se ne serve per raccontare un salto reale e fatale: la morte della moglie. Non il prima, bensì il dopo, il dopo-qui, un tempo fluttuante, tentativo maldestro e rischioso di avanzare quando la bonaccia dei venti ci costringe allo stallo.
Ne fuoriesce una narrazione lucida e coraggiosa nella preliminare dichiarazione di indissolubilità del legame con l’amata, per cui nessun processo di elaborazione del lutto sarà sufficiente a sopprimere il dolore e la sensazione di vuoto d’aria. A questo si accompagna un sottilissimo humour nero, controllato ma tagliente, che rende concreta ogni pagina, documento dello stato d’animo di chi ha visto spegnersi inesorabilmente la gioia della convivenza, fissando il baratro dove non c’è un aldilà, con la semplice forza, tutta umana, del ricordo dell’amore che strazia ma può anche accendere il sorriso.
L’atterraggio non è mai semplice, anzi spesso rovinoso, ma una volta a terra ci rialziamo, feriti e malandati ma pronti a continuare a volare.

 

L’autore:
Marco Di Pasquale è nato a Ripatransone (AP) nel 1976, vive a Macerata.
È animatore culturale e divulgatore letterario nelle associazioni “Licenze poetiche”, “ADAM” e “UMANIEVENTI”.
È stato direttore artistico del Festival “Rampe per Alianti” (2005-08) e di “PoesiaLeonisMinifest” (dal 2009). Ha pubblicato le raccolte poetiche “Il fruscio secco della luce” (2009) e “Formula di vapore” (2017) e “Dai sentieri divorati” (2019).

(Julian Barnes “Livelli di vita” Einaudi 2013)

 

 

 

 

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Scavo

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Da qui         ——————————–

Maria Teresa Giaveri “Lady Montagu e il dragomanno”

Una lettura

di Laura Mautone

In una epoca in cui opinioni e scienza, doxa e episteme, paiono essere messe da alcuni drammaticamente sullo stesso piano, soprattutto sui Social, giova forse rileggere la storia avventurosa di una donna inglese del Settecento, Lady Mary Wortley Montagu, moglie dell´ambasciatore a Costantinopoli alle prese con l´epidemia di vaiolo.
A Londra nel 1721 questa nobildonna propone di immunizzarsi dal virus letale del vaiolo, infettandosi preventivamente con una dose attenuata del morbo: la reazione degli occhialuti esperti britannici è stigmatizzata con una frase, un esperimento praticato da donne ignoranti. Lady Montagu ha appreso di quella pratica, diffusa fra le contadine al confine settentrionale della Grecia, durante un soggiorno in Turchia.
Con lei ci sono anche due medici italiani: uno dei due medici è anche il primo dragomanno – cioè il traduttore ufficiale – in servizio presso l’ambasciata britannica; collabora con la famiglia Montagu come interprete, come medico e anche come esperto di lingue e costumi dell’impero ottomano.
Lei è colta, curiosa, aperta all´altro, parla molte lingue e quando torna a casa racconta, invece delle solite chiacchiere, la storia di questo esperimento nel salotto in compagnia delle sue amiche, tra le quali la principessa del Galles.
Preoccupata per i suoi figli, Lady Montagu riesce a convincere addirittura la famiglia reale a sperimentare quello strano metodo, chiamato in origine “inoculazione”, che sta alla base dei vaccini tradizionali, che conosciamo anche oggi.
Una donna, le sue acute annotazioni di viaggio e le idee sono le protagoniste assolute di questo affascinante libro.

 

Dal libro:

Mi preparo ora a lasciare Costantinopoli, e […] vi dirò che lo faccio a malincuore […]. Qui mi trovo bene; e per quanto ami viaggiare, tremo di fronte agli inevitabili problemi di una tale spedizione, con una numerosa famiglia e un lattante. (pagina 85)

*

Sono del parere che [i Turchi] abbiano una giusta idea della vita: mentre loro la passano a occuparsi di musica, di giardini, di vini e di piatti raffinati, noi ci torturiamo il cervello con disegni di politica o con studi scientifici che non termineremo mai, o che, se li portiamo a conclusione, saremo incapaci di far apprezzare agli altri al loro giusto valore. (pagina 86)

 

L’autrice:
Laura Mautone in questo periodo è lettrice di italiano all’Università di Stoccarda, ma ha sempre insegnato Italiano e Storia in un liceo a Merano.
Ha curato un volume di interviste ai maggiori poeti italiani del secondo Novecento, “Che cos’è la poesia?” (Corraini 2002) e l’antologia di racconti “Verso dove. Scritture di confine da Merano a Trieste” (Fernandel 2003).
Nel 2005 è uscita la sua prima raccolta di poesie “Dell’amore e di altri aneurismi” (Traven Books), nel 2007 “Acufeni nel cuore” (Raffaelli) e nel 2014 “Come sabbia come neve” (AlphaBeta). È Lettrice all’Università di Stoccarda.

(Maria Teresa Giaveri “Lady Montagu e il dragomanno. Viaggio avventuroso alle origini dei vaccini” Neri Pozza Editore 2021)

 

 

 

 

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Risveglio

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di Pina Della Rossa

 

 

 

Voce d’autore        —————————————-

E lascia alla notte riordinare

Carla De Angelis, “Tutto il tempo sul petto”

di Salvatore Cutrupi

Tutto il tempo sul petto” è il titolo dell’antologia di poesie scritte da Carla De Angelis e pubblicate da 2006 al 2021 nei suoi libri precedenti (“Salutami il mare”, “A dieci minuti da Urano”, “I giorni e le strade”, “Mi fido del mare”, “Fra le dita una favilla sembra sole”) e nella silloge più recente che dà il titolo al libro.
Una delle caratteristiche dell’autrice è quella di non aver cambiato negli anni il suo modo di scrivere, di poetare, anche se la strada della scrittura, col passare del tempo, le ha regalato suoni e colori che hanno ampliato i suoi versi di orizzonti nuovi.
Nell’antologia non c’è soltanto un tema unico come filo conduttore dell’opera; i vari argomenti sono il frutto delle emozioni che, di volta in volta e momento per momento, sono poi divenute fonte d’ispirazione per le sue poesie.
Accanto alle riflessioni che riguardano la sua intimità e ad una nostalgia che va e viene, nei suoi versi ritroviamo le luci e le ombre della quotidianità e la rappresentazione della bellezza del creato.
Nel suo lungo viaggio poetico Carla De Angelis traccia anche il ricordo di amici, donne e uomini rubati alla vita, e non dimentica di raccontare le storie di persone fragili, di quelle abbandonate, di quelle che non hanno voce.
Le 233 pagine della raccolta sono la dimora di versi incisivi, decisi, essenziali, dove ci sono soltanto le parole necessarie, quelle utili a fare arrivare al lettore in modo diretto il suo pensiero.
Ci sono anche poesie molto brevi che fanno pensare a quelle della cultura giapponese (haiku e tanka) dove è presente la filosofia del pensiero Zen e soprattutto la profondità dell’attimo, che aveva contaminato grandi poeti italiani del passato come D’annunzio, Ungaretti, Quasimodo, Saba ed altri ancora.
Leggere il libro di Carla De Angelis significa essere pronti a vivere un’altalena di emozioni che la poetessa fa nascere nel lettore, a volte in modo forte e vigoroso e altre volte in modo tenue, pacato, come un sole che si fa strada in mezzo ad una coltre di nuvole.

 

dal libro:

L’età di ieri
E’ tornata a visitarmi
Portata dalla nostalgia
Ha arato la terra del tempo
Sparso i semi
Il sogno le lacrime il sole
L’hanno resa fertile

*

La differenza è quando
il sole va dall’altra parte della terra
e lascia alla notte riordinare
il caos del giorno

di tutti i giorni
tutte le notti

*

Questa borsa è troppo pesante da portare
occorre una scelta
la capovolgo sul tavolo
conserverò ciò che è importante

Sette gatti un coniglio due papere
scriverò due lettere
solo due lettere
qualche numero di telefono

*

La cura dell’orto inizia dalle piccole cose
un soffio di luce dove la vanga
spinge la paura che ondeggia
una canna la trattiene
un sudore tiepido ritrova la primavera
nei solchi fluttuano le parole
i merli segnano il confine alla fatica

C’è un odore buono ci sarà un buon odore
non mi sottraggo al dubbio
la differenza è nel seme o nella terra?

*

Ciò che era bello non era l’incontro
l’abbraccio, il segreto
o camminare sul fuoco
era la certezza che ogni volta quel
fuoco appena spento si sarebbe riacceso
ciò che era bello
era svegliarsi ogni mattina
in attesa

 

 

Intervista a Carla De Angelis:

Nelle poesie del libro i segni di punteggiatura sono molto rari e in tante poesie ci sono spazi lasciati vuoti. Qual è il motivo intimo o il significato di queste sue scelte?
Trovo che nella vita l’attesa e il sogno hanno una parte importante, così come disporsi ai nuovi eventi, alle situazioni, allora perché mettere un punto. Lascio al lettore e mi lascio la possibilità di un’altra strada, di altre parole che possono portare alla pacificazione o alla protesta.
Non so se questo può definirsi un motivo intimo, certo rappresenta una realtà, un mio modo di scrivere e di fare altre attività interiori, forse artistiche. Non amo definirmi poeta o artista, solo chi mi legge o vede i miei lavori di ceramica può esprimersi. Anche quando lavoravo la creta i miei lavori hanno sempre avuto una via d’uscita, un tentativo di evasione, un’altra vita quella che forse desidero o desidera chi mi legge e osserva. Per questo niente virgole – poche – quasi nessun punto; c’è il timore di rallentare e perdere l’obiettivo finale, che in verità non arriva, così continuo a scrivere.

I suoi versi danno spesso la sensazione di trovarci di fronte a un dialogo. In questo dialogo la poesia fa la parte “dell’altro”. È così?
Non ho mai pensato a un dialogo, ho sempre pensato che spesso la parola scritta valga a salvare un gesto immediato, non pensato ed istintivo; anche la parola scritta può provocare sensazioni tutte diverse, giustificate dalla personalità di ognuno. Certo metto sempre molta attenzione alle parole, so che poi altri leggeranno, a volte quando un mio libro viene pubblicato mi prende l’ansia pensando giudizio di altri che leggeranno. L’ansia svanisce quando molti lettori mi dicono di immedesimarsi nelle mie parole e “risolvere” o “pensare” a situazioni che ritenevano irrisolte.

Nel suo scrivere colgo sentimenti di malinconia, gioia, nostalgia, speranza, inquietudine. Quando ha letto il suo libro stampato, quale di questi sentimenti ha trovato più vicino al suo stato d’animo, al suo “sentire”?
La vita è come una margherita ogni petalo rappresenta gioia, nostalgia, speranza e inquietudine. Abbiamo bisogno di tutto, non ci sono parole sufficienti per descriverla, a giorni, a ore perfino a istanti, proviamo tutti questi sentimenti. “Essere o non Essere – Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ogni filosofia possa sognare” (William Shakespeare).
Nel dolore, nella gioia, nel sole o nel buio della notte tutti i semi germogliano, così sono le parole che mi vengono in mente nei momenti e nelle situazioni più varie.
Non riesco subito a scriverle, mi fanno compagnia a volte per giorni, poi, non so come dalla mente fluiscono alla mano e scrivo, prima sul quaderno e poi sul computer.
Quando leggo il libro stampato, il primo sentimento è la gioia e leggo come se il testo fosse di altri; poi mi prende un po’ di ansia pensando che altri leggeranno non solo le parole, ma leggeranno “me”.

Alcune poesie hanno le caratteristiche della tradizionale poesia breve giapponese (Tanka e Haiku). In quale misura il suo poetare è stato influenzato dal pensiero filosofico Zen?
A costo di sembrare poco attenta alla filosofia Zen che conosco e apprezzo, non so quanto mi abbia influenzato.
Da sempre non ho la capacità di scrivere testi lunghi; a questo proposito mi ricordo che prendevo pessimi voti a scuola perché i miei temi, sottoposti al giudizio dei professori, erano troppo corti. Le parole sono importanti, a mio parere ne bastano poche e finalizzate per esprimere quello che si vuole dire.
Troppo spesso occorrono parole per spiegare altre parole e non è facile venirne fuori. Questo ovviamente è il pensiero, però ammiro chi ha il dono di descrivere e dilungare i concetti con sapienza.

Molte poesie del libro sembrano messaggi a persone andate via per sempre o che ci hanno dimenticato. È questa la sua intenzione quando inizia a scrivere una poesia?
Può sembrare che io scriva messaggi, in verità scrivo a me stessa per non dimenticare chi mi ha accompagnato nella vita qualunque sia stato il sentimento o il percorso.
A volte mi vedo dal di fuori e riconosco passi della strada che ho già percorso con altri interessi, altre passioni. Forse alcuni tratti della personalità che vivo al momento erano già presenti, con il tempo si sono palesati quasi a farmi dimenticare come ero.
La scrittura è lì, specialmente se finita in un libro e quando rileggo, mi stupisco dei sentimenti che al momento mi hanno indotto a scrivere.
Devo confessare che accade raramente di rileggermi, e credo sia un bene, amo molto leggere libri di altri scrittori, dopo sento di avere ricevuto un bel dono come un abbraccio affettuoso.

 

L’autrice:
Carla De Angelis è nata a Roma, dove vive e lavora. Ha scritto racconti e saggi pubblicati su diverse antologie e ha collaborato con riviste italiane ed internazionali.
È una delle ideatrici di “Corviale cerca poeti”, la rassegna di poesia che annualmente si svolge presso la Biblioteca di Roma “Renato Nicolini” di Corviale.
Con FaraEditore ha pubblicato in poesia “Salutami il mare” (2006), “A dieci minuti da Urano” (2010), “I giorni e le strade” (2014), “Mi fido del mare” (2017) e “Fra le dita una farfalla sembra fiore” (2019).
Per Progetto Cultura nel 2011 ha pubblicato “Mi vestirei di mare”.
È inserita ne “Le ali delle terra. Altre poetesse fuori dal coro” (a cura di Marco Onofrio, Edilet 2021).
Nel 1995 il Presidente della Repubblica le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana.

(Carla De Angelis “Tutto il tempo sul petto” pp. 233, 15 euro, FaraEditore 2021)

 

 

 

 

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Perseverante tenacia

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

 

Margini. Di poesia ed altro        ——————————-

Dove nessuno immagina

Francesca Boccaletto, “decorazione d’interni”

di Roberto Lamantea

Dopo “Abbiamo parlato di fortuna” (Interno Libri 2018), Francesca Boccaletto torna alla poesia con un’altra delicata raccolta di versi, “decorazione d’interni”, nella collana “piccole gigantesche cose” di AnimaMundi, l’editore che traduce in Italia i libri del filosofo francese Christian Bobin.
Curioso che due tra le più belle case editrici di poesia in Italia siano entrambe in Puglia: AnimaMundi a Otranto, Interno Poesia/Interno Libri a Latiano (Brindisi).
Anche “decorazione d’interni” (il titolo è in minuscolo) è un tenero canto d’amore per la vita. La scena – letteralmente: le quattro sezioni s’intitolano “interno giorno”, “interno notte”, “esterno giorno” ed “esterno notte” come nella sceneggiatura di un film, tra l’altro Francesca Boccaletto ha un master in Sceneggiatura – l’autrice ha una piccola matita e con quella disegna sull’aria, come se fosse un foglio, fughe di stanze, prospettive, una geometria di interni domestici come quinte di teatro.
È una scrittura-sguardo, e nell’aria rivivono brevi ricordi di tenerezze passate, batuffoli di pensieri, metafore della vita che germoglia. È tutto così leggero che chi legge sente il dolce dovere di innamorarsi della vita.
Con un’immagine bellissima, presentando il primo libro di Francesca, Gianmarco Busetto scrive nella prefazione che “queste poesie sono un aprile, un inizio di primavera. Hanno il profumo delle stanze appena arieggiate e la fragranza dei caffè divorati nei tardi pomeriggi”.
decorazione d’interni” conferma lo sguardo e la scrittura “primaverile” dell’autrice padovana: “Alle prime luci del giorno/ guarisco da ogni tristezza/ da tutti i mali del mondo”. C’è Emily Dickinson in questo micromondo guardato con amore: “Nella cameretta/ resta l’infanzia:/ l’euforia, la paura./ Mangia e dorme,/ chiede spesso di te”; “Appena sveglia/ ti affacci alla finestra,/ chiami qualcuno./ Un nome inventato/ per sentirti rispondere:/ eccomi”; il tema della soglia, della finestra da cui guardare il mondo è dickinsoniano (e leopardiano).
C’è Gozzano in questa ironia leggera che s’innamora di piccole cose, minuscoli fiori che nascono dalla punta delle dita, una sedia sbucciata dal tempo, cocci d’intonaco staccati dal muro. Forse, rispetto all’altro, questo libro è se possibile ancora più lieve.
Abbiamo parlato di fortuna“, nella sua dolcezza, ha a volte tinte malinconiche, sguardi amari sul mondo: “Le ha detto ti amo/ come si dice buongiorno/ a un vicino di casa”; “la vita è una noia/ o una gioia gridata”; o in questi versi desolati: “Pensiamo che ci riguardi:/ la gioia degli altri/ il dolore degli altri/ la vita degli altri.// Pensiamo che ci riguardi,/ ma non ci sfiora.// Non siamo sempre noi,/ non riempiamo tutte le stanze/ in ogni momento./ Non frega a nessuno”.
Che canti il dolore del mondo, la ferita, la solitudine o l’aurora d’amore cara a Pedro Salinas, o le piccole cose della nostra vita, la poesia è sempre rinascita.

 

Dal libro:

Io vivo bene
nelle case vecchie,
nel paese piccolo,
tra le fessure e gli spifferi,
i cocci rotti, la carta che si sbriciola.

Nei luoghi polverosi e dimenticati,
su sedie di paglia che bucano le calze,
infilata nelle maglie lise,
lontana dai motori,
dagli ascensori, dai turni di notte.

Nelle false partenze,
nella pazienza,
nel tempo lungo della solitudine,
di una febbre lentamente superata,
nel finale di una calda guarigione.

*

Con quello che è stato dimenticato,
con i fiammiferi spenti nella notte,
costruiremo un nido robusto
per poter ospitare altre stanchezze
quando farà buio di nuovo.
Come chi cura scaldando,
come una balia e la sua ninna nanna.

*

In casa, d’estate,
scardiniamo le porte.
Scivoliamo come liquidi,
senza impedimenti.

Come soffioni, nell’aria.
Come vipere, a terra.

I quadri sono fuori,
il giardino entra in cucina,
l’ulivo regge il soffitto.

*

Oltre le pareti,
liberi ma al sicuro,
dove nessuno immagina,
esiste un centro.

Lì, solo d’estate,
si riavvolge il nastro del giorno

e noi parliamo con gli spiriti,
mettendo in fila le preferenze di stagione:

alberelli di limoni
gatti distesi al sole
profumo di pineta
frinire di cicale
miracoli inattesi.

*

Separa le parole – dai brutti pensieri.
Non inchiodare a terra le ombre.
Canta, piuttosto.
Resta nel ricordo
di certe mattine
ancorate alla notte.
Chissà cosa significa “invecchiare male”.
Da una ferita aperta, nella prima luce.
Si nasce soltanto.

 

L’autrice:
Francesca Boccaletto è nata a Padova nel 1978. Giornalista professionista, laureata in Lettere moderne, ha un master in Sceneggiatura all’Università di Padova.
Nel 2014 ha scritto “Nel nome del rugby” (Infinito edizioni), nel 2018 è uscita la sua prima raccolta di poesie, “Abbiamo parlato di fortuna” (Interno Poesia), terza classificata Premio Prato Poesia 2019.
È tra le autrici del libro “Lettere da Nordest” (Helvetia 2019) e “Natale a Venezia” (Neos edizioni 2020). Alcune sue poesie sono contenute nel libro “L’albero” di Roberto Besana e Pietro Greco (Töpffer edizioni 2020). Conduce laboratori di giornalismo e scrittura per bambine e bambini.

(Francesca Boccaletto “decorazione d’interni” pp. 80, 10 euro, AnimaMundi 2021)

 

 

 

 

Immagini         —————————–

Amorfo

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

 

 

Voce d’autore       ————————

Imprimere cesura al frusto

Adriana Gloria Marigo, “Astro immemore”

di Giovanni Fierro

Si tagliano rami opprimenti,/ si lascia respiro di spazio/ all’albero in canto rinascente”. È originale l’intonazione che Adriana Gloria Marigo trova, in questo suo nuovo appuntamento, a titolo “Astro immemore”.
Un libro che vede l’autrice trovare pagina dopo pagina un desiderio di ‘assoluto’, a cui affidare l’esplorazione poetica, capace di svelare verità a cui dare fiducia, dove “imprimere cesura al frusto/ mentre ad agresti lunari/ ascendono canti alati” e “la digressione di tutto il turchino/ sperpera la penitenza del cielo”.
Si forma così un luogo del fare poesia che è un continuo e visibile significato del dire, dove le parole da lei scelte non si accontentano di portare solo testimonianza, ma inventano e ipotizzano, scoprono e indicano.
Perché, poi, lo scrivere e il domandarsi di Adriana Gloria Marigo è anche un confronto continuo con la natura, con il corpo ma anche con lo spirito del Lago Maggiore, geografia del suo vivere, e forza d’attrazione che porta in superficie i moti più profondi del sentire. Quando “la calma dell’ora deserta/ – quando il sole sconcerta la forma”, nell’osservare le “solitarie betulle adoranti/ il rigore territoriale dell’aria”, spinta primordiale che porta seme e fertilità nel ritrovare “la lunazione della nostalgia/ il bagliore del ritorno in sogno”.
“Astro immemore” è libro di sedimentazione, è scavo che porta in superficie, è gesto che indica.
E, ancor di più, tutto questo rinnovato scrivere di Adriana Gloria Marigo è il chiaro intento poetico di difendere’ l’intensità della parola, perché è “tornata oggi la minuzia ventosa/ da smisurato lontano”, e di certo ci vuole più impegno e determinazione nell’accorgersene, nell’accoglierla.
Perché tutta questa realtà raccontata, preziosa e fragile, unica e irripetibile, ha bisogno della disponibilità allo stupore, unico strumento per darle vita, per accertarsi che è “in lieto dono/ aerea levità ramoscellata”.
Ed è proprio lo stupore, l’accorgersi di un qualcosa che sorprende e nutre, la forza che libera ogni luce necessaria, ogni luminosità che pone attenzione e sottolinea, nel chiamare a vita anche se stessi.
Come la natura, in prima persona. Finalmente.
Perché è da riconoscere, la si deve indovinare, la si può aspettare. Sì, “la luce che emoziona le foglie/ abbandona la rotta luccicante/ smarrisce la densità delle fronde”. L’accadimento che toglie l’ombra e il buio, che regala l’avventura del chiarore.
Nel fare di “Astro immemore” l’accensione che sta all’inizio di ogni principio.

 

Dal libro:

È cucita addosso una veste

È cucita addosso una veste
di timbriche fortune alterne
nella luce il momento esalta
o schianta nel giro che smaglia
e torna d’arte al rammendo.

*

Annunciazioni

Luino, 14 settembre 2015

L’aria, e più di essa l’azzurro
irriverente, converge sull’istante
già flesso
ora che la terra patisce
l’astro immemore, la fama
del mare agli inventari.

*

Avviva d’essenza solaria

Avviva d’essenza solaria
l’intero visibile dal celato
pulsare multiverso

inasprisce il vento
tra l’albero e la casa
di notturna obbedienza.

*

La salita che scosta le case

La salita che scosta le case
s’apre nel punto preciso
dove slarga lo sguardo
di celestia fitto

scioglie nell’aria il nodo dell’inverno
al vibrato convivio dell’erba.

*

Ricordo una campagna

Ricordo una campagna
e una carrareccia,
di abbandono e di esilio
non sapevo l’incidenza,
il loro annodare e sbrecciare
la lunazione della nostalgia
il bagliore del ritorno in sogno.

 

 


Intervista ad Adriana Gloria Marigo:

La prima cosa che si respira, in queste pagine del tuo nuovo libro, è un desiderio di ‘assoluto’. Sia per le immagini che tratteggi e porti in vita, sia per le parole che usi nel farlo. C’è nel tuo nuovo scrivere questa ‘verità’, questa ricerca?
Sono ben lieta di trovare nella domanda che apre l’intervista l’espressione “desiderio di assoluto” che riconosce, evidenzia in particolare in “Astro immemore,” il connotato che percorre tutta la mia poesia.
Fin dal primo libro del 2009, “Un biancore lontano”, i testi presentano questa tensione e, non a caso, poiché il desiderio o, meglio, la necessità è di esprimere, offrire al lettore – ma prima a me stessa – la percezione che nel divenire di ogni vicenda umana e intellettuale, nella precarietà dell’esistenza permane un nucleo inesauribile di sentimento e ragione incondizionato, supremo che può avviarci verso orizzonti in cui le parole che ci modellano e con cui modelliamo la nostra vita e partecipiamo alle vite altrui possono avere senso autentico, vero, potente, trasformante: assoluto, dunque.
Riconoscendo che la parola è intessuta di ambiguità, derivante dalla presenza complementare di elementi positivi e negativi della psiche, e che in tale sua natura cangiante consistono bellezza fragilità rigore debolezza seduzione…, consegue la disposizione a usare le immagini che, affiorate al pensiero immaginale, giungendo all’atto della scrittura, alla coscienza, generano altre immagini: le immagini che scaturiscono dai versi e prendono il volo verso l’anima del lettore.
Accolto che le parole del poeta incontreranno quelle del lettore in un invisibile e impalpabile incontro tra il pensiero immaginale dell’uno e dell’altro, mi è naturale l’invenzione, la cifra lessicale che preferisce la parola pura, scolpita, svincolata da aggettivazioni, superflui ornamenti, ridondanze, poiché è la parola nella sua evidente identità, nella sua strutturale complessità che ha da essere posta in valore nella scena di un testo.

E poi, pagina dopo pagina, mi sembra che sia chiaro il tuo intento poetico, ovvero quello di ‘difendere’ l’intensità della parola. Di sicuro un gesto che va in controtendenza con l’uso quotidiano, svilente e triste, che se ne fa oggi…. Questo tuo scrivere non è mai scontato, anzi, vive di invenzioni e particolarità….
In certo modo ho già chiarito nella prima risposta, ma qui mi preme sottolineare che “difendere l’intensità della parola” è il mio “habitus”, il tratto del pensiero che riguarda la mia postura nel mondo.
Ora, non v’è dicotomia tra ciò che scrivo, i modi della mia scrittura, e il relazionarmi che implica la cognizione dello stretto rapporto tra la materia viva pulsante della psiche e le azioni che ne discendono e, pertanto, in questa dinamica, compare un elemento etico capace di conferire dignità al pensiero, all’azione, assegna distinzione tra ordinario e profondo, mediocre e significativo: la presenza della Bellezza in quanto valore non puramente estetico, astratto, ma immanente, ispiratore e guida del nostro quotidiano.
Se le movenze del verso nascono dal vissuto personale, dalla finezza del sentire e dell’ascoltare, dal turbamento che il reale suscita e dunque, implicando il sentimento, la scrittura di una poesia riguarda anche la ragione, o meglio, il “pensiero poetante” di cui parla Antonio Prete.
Tutti gli elementi che costituiscono la psiche agiscono in sinergia sia nei dintorni dell’inconscio, sia in quelli dell’ego e la parola che ne deriva li custodisce in una sorta di lucentezza che la scolpisce: è questa parola–lucentezza che desidero portare alla lettura.

Astro immemore è dedicato al Lago Maggiore. Che vicinanza si è costruita, nello scriverlo, fra natura e poesia? Forse esiste anche una possibile appartenenza reciproca?
La silloge accoglie e restituisce il paesaggio del Lago Maggiore in tale forma che è facile pensare io abbia voluto dedicarla al lago.
Anche l’ex ergo induce a pensarlo. In realtà è dedicata all’invisibile sotteso ai luoghi, alla vita terrestre e celeste. Questo “invisibile” è il genius loci: “Astro immemore” è non tanto l’omaggio ai luoghi in cui vivo, quanto la mia risposta all’appello del genio–demone rapitore e benefattore che vive “dietro il paesaggio”.
Una volta che si è percepito l’intimo sposalizio tra l’uomo e il paesaggio, si è percepita l’antropologia poetica, misteriosa, che l’unisce in un ancestrale attaccamento e in un inquieto desiderio di fuga, inevitabile è, per chi scrive dei luoghi, rispondere alla voce che chiama, il nume che abita un luogo specifico, lo rende – per sua presenza – sacro, inviolabile, carico di anima, metafisico e gli uomini pervasi della sua stessa aura.

E la natura qui è così forte, che ad un certo punto ci si accorge che la presenza umana è minima, se non addirittura assente…
Le poesie sono ispirate dalla suggestione che la natura dei luoghi esercita su di me unitamente all’attenzione per ciò che resta segreto e che percepisco come vivente, pulsante sotto le forme della natura, il mutamento delle stagioni: il paesaggio vive in quanto paesaggio, a noi indifferente, devoto alle variazioni delle stagioni, ma al tempo stesso è il corrispettivo del paesaggio archetipico personale, delle forme mitiche che si sono strutturate nella prima conoscenza del mondo e in quelle che derivano dall’anima del mondo.
Nel libro la presenza umana è sostanzialmente ridotta alla mia sola poiché, inevitabilmente, scrivo dei miei “sentieri interrotti”, del mio esserci senza appartenere indissolubilmente a un luogo, in quanto la mia storia personale si dipana in differenti città e paesaggi: perciò ritengo che in “Astro immemore” si condensi la ricerca delle suggestioni, delle aure, degli stati emozionali che hanno fondato il percepirmi, lo stare nel mondo dell’inizio: è la nostalgia, anche la rêverie di una età felicemente panica in cui le persone erano presenze ineludibili e, per questa loro evidenza certa poco misteriosa, poco sfuggente, solite, prevedibili, palesi, mentre la scena della natura suscitava l’intuizione di un linguaggio animistico, un discorso misterico, qualcosa che, non visibile, non evidente, ma sentita viva, persino interrogante, induceva ad andare verso la natura dello spazio, più che verso quella delle persone.

Nel suo manifestarsi, il corso naturale delle stagioni sembra proprio essere un ‘racconto’ a cui abbandonarsi. È così?
Quanto avviene nel paesaggio accade anche se noi non ne abbiamo percezione, non prestiamo attenzione o siamo incapaci di coglierne l’alfabeto.
Se però così non è, se ci collochiamo nella tensione dell’ascolto, dell’osservazione in un rapporto che include la particolare attenzione che supera la barriera della visione superficiale per accogliere quella profonda, simbolica, ci accorgeremmo che il paesaggio ci viene incontro con il suo linguaggio magnifico fatto di forme colori suoni e che tutte queste forme, questi colori, questi suoni declinano intensità sfumature chiaroscuri quanto un racconto, un discorso, un colloquio interessante, seducente, intimo.
Si entra in relazione con il lessico della natura, con la manifestazione sottile della sua parola figurata, con le aure dei mutamenti impercettibili che costituiscono il divenire del mondo vegetale animale minerale e ne siamo investiti con forza che affina il nostro sentire.

Di certo una delle protagoniste assolute di “Astro immemore” è la luce. Che non solo porta alla vista il paesaggio, ma è in se stessa accadimento, fenomeno da riconoscere e vivere, scultrice della realtà ma anche delicata sfumatura che dà valore alle cose minime, a quelle più nascoste. Come l’hai vissuta, prima nel momento dell’accadere, e poi nel momento di portarla tramite le parole sulla pagina?
Insieme con l’“assoluto”, la “luce” costituisce l’altro elemento pregnante quest’ultimo libro.
In generale è il tema presente in tutte e quattro le sillogi e, pertanto, costituisce il tratto evidente della mia scrittura.
In “Senza il mio nome”, silloge precedente ad “Astro immemore”, è una breve poesia scritta come ‘invocazione’: “O luce, declina di stupore/ arrendici alla frequenza d’onda/ fulgidi d’equidistanza dall’ombra// dà il terrore per il buio/ senz’arte, gemina dell’eterno,/ incoronaci nel tempo del tempio.” e, proprio questo testo anticipa la conferma del canone “assoluto–luce” che si ritrova nel libro ispirato al lago dove il tema del paesaggio incontra, per proiezione, il tema dell’Essere quale dimensione in cui è possibile declinare l’identità, il rapporto con il Sé, il riconoscersi in relazione con l’Altro (il paesaggio ne è la forma simbolica) dove la luce è metafora del pensiero, dell’intelletto, ponte tra il visibile e l’invisibile.
La luce che illumina, dilaga, si ritira, lascia il posto all’ombra o coesiste con l’ombra, scompare e cede il passo al buio, a gradazioni di buio, è sì la luce fisica che mostra le cose, i volti, gli spazi, ma è anche il momento privilegiato in cui inaugura la cognizione che il visibile è tutto intessuto di non visibile; che la proprietà della luce non è solo una questione fisica di cui la vita sul pianeta ha necessaria esigenza per perpetuarsi, ma è una questione metafisica che riguarda, non a caso, il tempo e lo spazio.
La luce di cui scrivo non è la sola pura luce materica che tanto vigilo nel suo crescere dopo il solstizio d’inverno, inseguo nella delicatezza della primavera, mi pervade d’estate nel trionfo del sole, mi scora del suo ritirarsi dopo l’equinozio d’autunno: è la luce del logos, la pulsione incoercibile della conoscenza che più insiste laddove incontra lo sconcerto dell’enigma, l’oscurità che annuncia l’inquietudine della disarmonia, la presenza del non-visibile che rivela le dissonanze e i fulgori del visibile e la maestà dell’invisibile.

 

L’autrice:
Adriana Gloria Marigo è nata a Padova e vive a Luino.
Ha fatto studi in pedagogia a indirizzo filosofico. È poetessa, aforista, critica letteraria e collabora con varie riviste di cultura letteraria.
Dirige la collana di poesia Alabaster per Caosfera Edizioni.
Ha pubblicato le raccolte “Un biancore lontano” (LietoColle 2009), “L’essenziale curvatura del cielo” (La Vita Felice 2012) e “Senza il mio nome” (Campanotto Editore 2015).
E il volume di aforismi “Minimalia” (Campanotto Editore 2017).
È stata ospite della Rassegna di Poesia “Poeti al Castello” di Trento, del Festival della Poesia di Lubiana e del Festival di Poesia Mitteleuropea “FlussidiVersi” di Caorle (VE).
La sua voce è presente nella Poetry Sound Library curata da Giovanna Iorio.

(Adriana Gloria Marigo “Astro immemore” pp. 51, 12 euro, Prometheus 2020)

 

 

 

 

Immagini         —————————–

L’impossibile spazio dei riflessi

Undici fotografie

di Pina Della Rossa

 

 

Intervista a Pina Della Rossa:

di Giovanni Fierro

In questa selezione la prima impressione è che protagonisti assoluti, di queste immagini, sono il tempo e la natura. È così?
Si, perché la mia ricerca, di matrice concettuale, rappresenta un viaggio sui sentieri della memoria, una comunione intima con la natura, un’interrogazione profonda oltre la superficie delle cose.
Si perviene così al superamento della superficie fisica dell’opera, per includervi la dimensione spazio-temporale, in cui passato e presente s’intrecciano creando un tempo indefinito, sospeso.
Materie e cose erose dal tempo, il cui lento, ma inesorabile declino va di pari passo con il vigore e la forza prorompente della natura.
Natura e artificiale s’intrecciano in un rapporto reciproco in cui l’una e l’altro si ‘consumano’ vicendevolmente.

E di come, poi, la presenza umana sia ridotta al minimo. Perché?
La presenza umana nelle mie opere è spesso frammentata e sublimata in fotogrammi metaforici: le intricate ramificazioni sono “nervi scoperti”.
La sequenza di immagini allo specchio, che non c’è, evidenzia la mia esigenza di essere aliena da ogni realismo, poiché il reale si è eclissato nelle spire delle decomposizioni del senso delle cose e della vitalità della natura, trasformandosi in altre sembianze, mutevoli e ‘deformanti’.

A livello cromatico, quello che risulta, sono poche ‘annunciazioni’ di colore.. penso a “Perseverante tenacia” o ad “Amorfo”. Cosa c’è alla base di questa scelta? Se si stratta di una scelta possibile…
La mancanza di colore vivido nasce dall’esigenza di ripercorrere sentieri antichi, opacizzati dalla patina del passato, come corpi corrosi e disfatti dal tempo.
Lamiere, baracche, corpi disfatti diventano reperti, assumendo una connotazione sociale e introducendo altresì una riflessione sul rapporto identità-corpo e scenari del decadimento urbano.

Alcune di queste fotografie, e qui penso a “Stella” e a “Scavo”, hanno già nel titolo un qualcosa che rimanda ad altro. Sono una evocazione, un richiamo, una sorta di illuminazione. Apparentemente astratte, creano invece un mondo concreto, uno stato d’animo. Si ritrova in questo?
Le mie opere evocano sicuramente uno stato d’animo, emozioni vive, quasi tangibili. Un mondo in cui l’identità è memoria, un mondo di caduta e rinascita insieme.
L’espressione si fa linguaggio, fino a sprofondare nel limite del linguaggio stesso: l’immagine si fa intravedere anche nel suo oltrepassarsi.
La mia creazione mentale diviene anche emotiva, superando il realismo fotografico fino a raggiungere una dimensione extra-sensoriale.
Tutto questo si evince particolarmente in opere altamente simboliche come “Stella” e “Scavo”. “Stella” rievoca momenti laceranti e luminosi insieme, sofferenza ed aneliti di speranza, infatti è testimonianza autobiografica e sociale.
Ma, la stella simboleggia anche positività, rinascita: è desiderio di luce e di speranza.
“Scavo” fa parte del ciclo “Dopo la battaglia”; è uno scavo interiore, un entrare in contatto con il mio profondo per raggiungere le ferite e portarle in una superficie cosciente, al fine di affrontarle e cercare di rimarginarle.
Ferite che mi hanno portato alla consapevolezza di affrontare il mio ultimo progetto “Segni permanenti”, ancora in corso, contro la violenza.
È un progetto nel quale emerge in modo chiaro la mia esperienza di donna sopravvissuta alla violenza, fisica e morale.
Le mie opere, in tal senso, divengono linguaggio della contemporaneità, riuscendo ad esprimere, in termini metaforici e poetici, sofferenze e ingiustizie sociali come grida dell’anima.

Un’altra bella cosa, è scorgere minime geometrie che diventano il cuore di questi scatti, penso a “Spazio bianco” e a “Sezione circolare”. Cosa cerca in queste forme? O, meglio, cosa affida loro nel suo fare artistico?
Fondamentale, nella mia ricerca artistica, è anche l’aspetto compositivo, che insieme a segni e significati, si estrinseca su giochi di piani, sui contrasti tonali, sullo studio della luce, al fine di superare la superficie fisica del quadro, di andare oltre la foto, ed includervi la dimensione spazio-temporale.
La componente geometrica si evidenzia anche quando trasformo l’opera in “puzzle”, sottraendola alle obbligazioni della unità formale. Così, libera da vincoli, l’opera d’arte esplode, senza confini, dilatandosi nello spazio, abitando in più luoghi.
Queste forme costituiscono la parte più profonda dell’opera, in cui si celano ambizioni e amarezze, una pagina da scrivere, ma anche da strappare (“Spazio bianco”), un cerchio che non è stato ancora chiuso, ma che si mostra aperto e libero verso un futuro nuovo, diverso, che lascia intravedere fiducia (Sezione circolare).

La natura di queste immagini sta anche nel loro essere necessarie, un desiderio che trova forma e corpo, e che pone chi le guarda di fronte anche a se stesso; nel momento esatto in cui si affida a ciò che vede, ed inizia credere a ciò che sente. Come se ogni immagine trovasse le parole per raccontare una storia, per inventare le frasi di una poesia… può essere (anche) così?
Nelle mie immagini il corpo delle cose, umane e non umane, si libera dalla sua fisicità diventando elegia dell’anima.
Come un’eco materico del pensiero che si fa “sensibile” visione di una proiezione corporea.
È senz’altro un momento coinvolgente in cui il fruitore dell’opera diviene esso stesso riflesso delle immagini, interrogato e inquietato come soggetto sociale.
In questa relazione tra opera e soggetto si rivela la natura etica delle immagini le quali spostano il senso comune sull’alterità che pervade ogni visione del reale.

 

L’artista:
Pina Della Rossa vive e lavora a Napoli. Docente di Disegno e Storia dell’Arte.
È attiva sulla scena dell’Arte dagli anni Ottanta. Si occupa di fotografia, pittura, video e installazioni.
La sua ricerca introduce una riflessione metaforica sul rapporto di Identità e Corpo, Materia e Memoria. Artista e attivista, elabora progetti per la lotta contro la violenza, tematiche sociali e urbane.
Da ricordare il progetto in progress “Segni permanenti”, con il quale ha realizzato performance, fotografie, video e installazioni, utilizzando la propria immagine e coinvolgendo personalità del mondo dell’arte e della cultura ed intere comunità.
Dal suo precedente progetto “Dopo la battaglia”, si assiste al passaggio, sul piano personale, oltre che artistico, dell’animo singolo, per assumere la connotazione di messaggio universale, proprio con il progetto “SEGNI PERMANENTI / Volti”.
Ha esposto in numerose mostre personali e collettive in Musei e istituzioni nazionali e internazionali.
Le sue opere sono inserite in Collezioni pubbliche e private, Musei, Archivi e Gallerie di Arte Contemporanea, di diverse città italiane e all’estero.

Sue opere sono pubblicate nel sito web www.adrart.it

e nei profili personali di instagram e di facebook

Galleria di riferimento:
AREA 24 Space
Via Ferrara,4 -80143 Napoli – Tel. 3396495904

e-mail: pinadellarossa15@libero.it

(la fotoritratto di Pina Della Rossa è di Alessandro Iacobelli)

 

 

rivista Fare Voci

curata da Giovanni Fierro

collaboratori:
Roberto Lamantea, Salvatore Cutrupi, Ilaria Battista, Laura Mautone, Livio Caruso.

 

 

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